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INDICE ALFABETICO / INDEX
Le voci elencate qui sotto senza il nome dell'autore sono state scritte da Roberto Bertoni. Foto di Marzia Poerio / Entries listed below without the name of the author were written by Roberto Bertoni. Pictures by Marzia Poerio.
- BENNETT, Ronan, ZUGWANG. Note di lettura, 29-9-09.
- BENOÎT, Denis, LITTÉRATURE ET ENGAGEMENT. Note di lettura, 17-9-09.
- CAROTENUTO, Aldo, IL TEMPO DELLE EMOZIONI. Note di lettura, 21-9-09.
- CONA, Cristina, TYNDALE. Riflessione, 19-9-09
- DUTTA, J.P., UMRAO JAAN. Storie di film di Renato PERSÒLI, 13-9-09
- KYEUNG-SOO, Im, DIARY OF JUNE. Storie di film di Renato PERSÒLI, 23-9-09
- MARIANACCI, Dante, I FIORI DEL TIBISCO. Note di lettura di Ester SALETTA, 3-9-09
- OGAWA, Oko, UNA PERFETTA STANZA DI OSPEDALE. Note di lettura, 5-9-09
- PICCIOLI, Rossana e SCANSANI, Alessandro, IL SENSO DEL GOLFO. DALLA FOCE DELLA MAGRA ALLE CINQUE TERRE. Note di lettura di Paola POLITO, 25-9-09
- POLITO, Paola, SUL SILENZIO ED ALTRO (SETTE TESTI). Testo con commento, 9-9-09
- PRESTIANNI, Corrado, QUATTRO PEZZI FACILI. Testo con intervista, 7-9-09
- SANGSUK, Saneh, VENIN. Note di lettura, 15-9-09
- VECCHIO, Concetto, GIOVANI E BELLI. UN ANNO FRA I TRENTENNI ITALIANI ALL’EPOCA DI BERLUSCONI. Note di lettura, 27-9-09
- WINTERBOTTOM, Michael, A MIGHTY HEART. Storie di film di Renato PERSÒLI, 1-9-09
Rivista in rete di scritti sotto le 2.200 parole: recensioni, testi narrativi, poesie, saggi. Invia commenti e contributi a cartallineate@gmail.com. / This on-line journal includes texts below 2,200 words: reviews, narrative texts, poems and essays. Send comments and contributions to cartallineate@gmail.com.
A cura di / Ed. Roberto Bertoni.
Address (place of publication): Italian Dept, Trinity College, Dublin 2, Ireland. Tel. 087 719 8225.
ISSN 2009-7123
30/09/09
29/09/09
Ronan Bennett, ZUGZWANG
In parte basato su fatti reali, come avverte l’autore in chiusura del volume, quali la politica dei bolscevichi in quegli anni, la figura di Roman Malinowski adombrata dal personaggio Gregory Petrov, infine un torneo di scacchi tenutosi effettivamente a Pietroburgo nel 1914, il romanzo è un thriller narrato in prima persona da uno psicoanalista di origine ebrea, Otto Spethmann che, prendendo in cura Rozental, un noto scacchista, su richiesta di un amico (in realtà una spia), si trova suo malgrado coinvolto in una cospirazione contro lo zar, orchestrata dai servizi segreti russi per creare destabilizzazione accusando gli anarchici, ma appoggiata da una parte dei bolscevichi per l’effetto che ne nascerebbe; ostacolata invece da altri, tra cui Lychev, un rivoluzionario infiltrato nella polizia.
L’intreccio è denso e si risolve con la fuga di Spethmann che riesce a salvare la figlia Catherine, divenuta comunista, ma a prezzo della perdita dell’amante, Anna, figlia di un funzionario zarista, anch’ella inizialmente in cura dallo psicoanalista.
La verità sull’identità dei vari personaggi si rivela lentamente: quasi nessuno è quello che sembra per buona parte del volume, come si addice alle identità mutevoli della contemporaneità che questo romanzo, in parte storico, metaforizza proiettandosi sul presente mentre mantiene la storicità col riferire puntualmente di luoghi, abitudini, contesti degli anni 10 del Novecento.
Le modalità d’inchiesta della psicoanalisi freudiana, accumulando dettagli significativi fino a scoprire le verità, somigliano all’inchiesta investigativa mentre ad un terzo livello di omologia si dispone la scacchistica, resa anche dai diagrammi di una partita che il narratore gioca con l’amico Kopelzon, il quale si rivelerà infine un nemico mortale.
Un’intervista di Alessandra Buccari con l’autore chiarisce il significato del titolo e gli scopi del libro in termini di poetica esplicita:
“Da dove nasce Zugzwang? Ricordiamo che il titolo del romanzo fa riferimento a una particolare posizione degli scacchi nella quale il giocatore è costretto a muovere pur sapendo che qualunque mossa peggiorerà la sua situazione.
Volevo scrivere qualcosa di leggero, quasi divertente, direi, ma che tuttavia ponesse dei quesiti al lettore. Ho scelto un periodo storico particolarmente drammatico - la Russia del 1914 - a causa di una situazione storico-politica piuttosto movimentata: lo zar, le spie, gli ebrei […]. Il romanzo ha due livelli di lettura. Quello letterario, romanzesco, con personaggi credibili, con un’estetica curata. E quello più profondo, che ha a che vedere con la politica e la moralità” [1].
NOTA
[1] Intervista a Ronan Bennett, a cura di Alessandra Buccari, “L’angolo nero”, 11-9-2007.
[Roberto Bertoni]
L’intreccio è denso e si risolve con la fuga di Spethmann che riesce a salvare la figlia Catherine, divenuta comunista, ma a prezzo della perdita dell’amante, Anna, figlia di un funzionario zarista, anch’ella inizialmente in cura dallo psicoanalista.
La verità sull’identità dei vari personaggi si rivela lentamente: quasi nessuno è quello che sembra per buona parte del volume, come si addice alle identità mutevoli della contemporaneità che questo romanzo, in parte storico, metaforizza proiettandosi sul presente mentre mantiene la storicità col riferire puntualmente di luoghi, abitudini, contesti degli anni 10 del Novecento.
Le modalità d’inchiesta della psicoanalisi freudiana, accumulando dettagli significativi fino a scoprire le verità, somigliano all’inchiesta investigativa mentre ad un terzo livello di omologia si dispone la scacchistica, resa anche dai diagrammi di una partita che il narratore gioca con l’amico Kopelzon, il quale si rivelerà infine un nemico mortale.
Un’intervista di Alessandra Buccari con l’autore chiarisce il significato del titolo e gli scopi del libro in termini di poetica esplicita:
“Da dove nasce Zugzwang? Ricordiamo che il titolo del romanzo fa riferimento a una particolare posizione degli scacchi nella quale il giocatore è costretto a muovere pur sapendo che qualunque mossa peggiorerà la sua situazione.
Volevo scrivere qualcosa di leggero, quasi divertente, direi, ma che tuttavia ponesse dei quesiti al lettore. Ho scelto un periodo storico particolarmente drammatico - la Russia del 1914 - a causa di una situazione storico-politica piuttosto movimentata: lo zar, le spie, gli ebrei […]. Il romanzo ha due livelli di lettura. Quello letterario, romanzesco, con personaggi credibili, con un’estetica curata. E quello più profondo, che ha a che vedere con la politica e la moralità” [1].
NOTA
[1] Intervista a Ronan Bennett, a cura di Alessandra Buccari, “L’angolo nero”, 11-9-2007.
[Roberto Bertoni]
27/09/09
Concetto Vecchio, GIOVANI E BELLI. UN ANNO FRA I TRENTENNI ITALIANI ALL’EPOCA DI BERLUSCONI
[What if utopias were not grounded on earth? Foto di Marzia Poerio]
Concetto Vecchio, un giornalista del quotidiano “La Repubblica”, ha svolto un’indagine tra i giovani tra il 2008 e il 2009, pubblicata ora in un volume (Milano, Chiarelettere, 2009) in cui appaiono molte storie di vita e se ne trae l’idea di una generazione irta di difficoltà.
Si nota in primo luogo la delusione per il mancato o inadeguato inserimento nel mondo del lavoro. Nel campo universitario, in particolare, la dipendenza frustrante dai docenti che affidano mansioni non sempre rispondenti alle figure professionali maturate nell’arco dello studio. Impressionante che, secondo dati Censis citati, l’85,7% degli intellettuali che vivono all’estero sia composta da giovani ricercatori che “non tornano in Italia per l’eccessiva burocratizzazione della ricerca, la mancanza di tecnologie e laboratori adeguati, le retribuzioni troppo basse”; e Vecchio prosegue: “Per l’83% degli intervistati il nostro sistema di ricerca è inferiore a quello dei paesi stranieri” (p. 15). Sempre nel campo universitario, a ciò si aggiungono meccanismi di assunzione non basati strettamente sul merito e concorsi rari e sovrappopolati.
Uno dei giovani citati dichiara: “Ho trentaquattro anni, una laurea e vari altri titoli a completare il mio curriculum. Contratti? Nemmeno l’ombra, nonostante un profilo più che dignitoso. A che serve il curriculum in Italia? Attorno a me tanti simili, precari preoccupati, molti ancora mantenuti da papà. È questo ciò per cui abbiamo studiato? Quanto dei nostri coetanei vanno avanti per merito? Nessuno di noi crede più nel merito” (p. 30).
Da qui anche, in certi casi, un disinteresse per la politica, o quanto meno la sfiducia che tramite l’azione politica si possano modificare le cose. Si lamenta una sparizione di radicalità a sinistra; ma Vecchio nota anche la presenza di giovani di questo gruppo d’età tra le file del partito di Berlusconi.
Uno degli strumenti usati da Vecchio per contattare i giovani e capirli è stato, come dichiara egli stesso, Internet (cui dedica un capitolo intitolato INTRAPPOLATI NELLA RETE), in quanto è in questo spazio virtuale che in prevalenza si muovono e si mettono in contatto tra loro i trentenni italiani, tanto per motivi intellettuali, quanto per stringere amicizie e relazioni.
Rispetto alla famiglia, risulta dall’inchiesta tanto l’aspettativa, soprattutto femminile, in questo gruppo d’età, di formazione di nuclei con figli, quanto, forse dominante, spregiudicateza e fluidità dei rapporti sentimentali.
Messa in rilievo anche la difficoltà del Sud, dovuta a criminalità organizzata e stili di vita.
Libro di testimonianze più che di teoria sociologica, è in questo senso che colpisce, proprio perché ne emergono quadri variegati, ma principalmente indicativi di condizioni di insoddisfazione sociale ed esistenziale.
25/09/09
IL SENSO DEL GOLFO. DALLA FOCE DELLA MAGRA ALLE CINQUE TERRE, a cura di Rossana Piccioli e Alessandro Scansani, Reggio Emilia, Diabasis, 2008
[Morning-blue Liguria. Foto di Marzia Poerio]
Il libro, che colma felicemente un vuoto imbarazzante, si presenta in una squisita veste grafica, corredato tra l’altro di suggestive foto di Walter Bilotta, dove si evidenziano le componenti astratte del paesaggio-ambiente, negando ogni intento puramente decorativo. E questa “estetica” è pregio del volume, con cui la casa editrice Diabasis inaugura una collana significativamente intitolata IL MARE IN BASSO. È, questo del mare “sottostante”, un punto di vista tra i più peculiarmente “ligustici” all’interno del complesso sistema percettivo e rappresentazionale del paesaggio ligure, di cui troviamo traccia sia in poesia che in prosa.
Ma un’indagine sul “modello ligustico”, quale appare restituito e reinventato nelle opere letterarie, mostra come tale verticalità entri in sinergia con altre modalità, quali il “mare schermato" (che ricorre in varia forma in Montale), il “mare alto”, cioè l’alta linea d’orizzonte tra mare e cielo che ritroviamo, ad esempio, in Calvino e Biamonti e, ancora, il “mare luminoso”: il barbaglio del mare in Sbarbaro, il mare che manda barlumi in Biamonti. Ma nell’opera dello scrittore imperiese questo è un vero e proprio topos: “Era luce di mare; il mare faceva la sua opera luminosa sulle rocce, sulle case…”
Visto dall’alto, il mare è contrapposto alla terra, osservato da un soggetto definibile come “contadino d’altura”; e il “mare da lontano”, nonostante la distanza, è presenza imprescindibile, assolvente il compito di finestra sul mondo, di tramite verso l’“altrove”: al suo fianco s’allungano le cittadine, i porti, s’esplicano i commerci, da lì si parte con le navi, lì si concentra il turismo.
Calvino ha ben illustrato la presenza nella mente ligure di questa alternativa tra terra (entroterra) e mare: mentre ne LA STRADA DI SAN GIOVANNI, parlando di sé, ricorda di aver preferito da bambino, in contrasto col padre, la città, il mare (“per me il mondo, la carta del pianeta, andava da casa nostra in giù”), nella già citata PREFAZIONE a SENTIERI afferma esattamente una contraria preferenza, di tipo più etico e politico: “ero passato dal mare - sempre visto dall'alto, una striscia tra due quinte di verde - alle valli tortuose delle Prealpi liguri”.
Di vera e propria distanza, e poca frequentazione, rispetto al mare troviamo le tracce anche in due autori spezzini, Paolo Bertolani e Maurizio Maggiani, in una coincidenza dove la componente “antropologica” della comune origine contadina accorcia la distanza generazionale.
Nel SENSO DEL GOLFO i curatori hanno felicemente incluso un inedito di Bertolani, dove leggiamo: “Parliamo anche del mare […] Io so che c’è, ma come c’è la luna. So che è laggiù in fondo, finita l’ultima macchia di olivi […] Volevo dire che io non scendo mai fin laggiù, che il mare lo guardo delle finestrelle del paese” (p. 89) [1].
Nel componimento MI DITE LIGURIA, Bertolani definisce il mare la “parte azzurra” delle giornate; come già per Calvino è il luogo dell’aprico, la parte in luce dello scenario - a fronte della parte ubàga, opaca, oscura (la parte in cui stiamo “noi”, per citare Montale di FALSETTO, negli OSSI: “noi della razza di chi rimane a terra”). “Mae / mae” (“Mare / male”), la mobilità e vitalità del mare (“che va che viene / che non si vuol fermare”), la sua indifferenza e eternità rendono consapevole il soggetto della sua fragilità (“mare / che mi ricorda sempre quello / che mi fa star male”).
Diffidenza verso il mare troviamo anche in Maggiani, che IN UN CONTADINO IN MEZZO AL MARE racconta come la nonna “Nita lo ammonisse da piccolo: ‘Sta atento, gnoco, che er mae i te se porta via’”. Segue il commento dello scrittore adulto, interprete della mentalità utilitaristica della civiltà contadina da cui proviene: “Il mare era grande e sperduto e inutile e salato”.
Rossana Piccioli, nel bel contributo DALLE SPONDE DEL QUOTIDIANO. PAESAGGIO, TRADIZIONE E LAVORO SULLE COSTE DEL GOLFO, osserva infatti:
“la vocazione naturale della gente del Golfo era […] più legata alla terra; l’immagine che a tratti riemerge, per esempio, di una Spezia ottocentesca come borgo di pescatori non rispecchia del tutto la realtà: le fonti, la storia e la tradizione la smentiscono; come in tutte le città rivierasche l’agglomerato chiuso fra la cerchia delle mura era una comunità socialmente stratificata, fatta di piccoli artigiani, contadini, commercianti, nobiltà e borghesia” (p. 174).
E ci informa che i pescatori erano immigrati dal Sud. “Attività di pesca organizzata” - leggiamo in una nota - “esisteva anticamente solo a Monterosso” [note 30 e 36]. Le precisazioni di Piccioli mi ricordano un passo di Lazzaro Spallanzani, che nei suoi diari di viaggio racconta di essere stato più volte testimone “in faccia a Portovenere”, nelle sue vacanze del 1783, di un “rovinoso e barbaro guasto di pesce […] minuto”. Mi chiedo se la somiglianza che lo stesso Spallanzani osservava tra questa pratica e la pesca “immatura” dei pescispada nello Stretto di Messina (di cui ci racconta in un altro passo) sia da imputare al comune effetto “rovinoso” dei due tipi di attrezzature usate (le “bilancelle” a Portovenere, la “palimadàra” nello Stretto) o non piuttosto a una diretta influenza culturale siciliana, magari per essere le due pescagioni (se pure di pesce diverso) realizzate dalla stessa comunità di pescatori...
La lettura antropologica della Piccioli vede il paesaggio come spazio vitale, territorio abitato, oggetto di rapporti mutevoli nel tempo da parte dei fruitori – lettura, la sua, che mi sembra accordarsi con presupposti teorici che vedono nell’ambiente un campo esperienziale fatto di rapporti strettissimi, testimoniati e formalizzati non solo nella produzione letteraria ma anche e soprattutto nella situazione sociale e nella cultura materiale: ed ecco le pagine dedicate dalla Piccioli alla “svolta sociale irreversibile”, segnata dall’Arsenale, che “mutò la fisionomia stessa del Golfo” (p. 173) e quelle, appassionate, in cui la ricercatrice s’interroga sull’applicabilità al Golfo e alle sue comunità costiere di una “possibile antropologia del mare” che tenga conto di quanto è ancora attivo o ricostruibile attraverso la memoria e la testimonianza, ma anche della “perdita, nella memoria collettiva, di tanti dati cancellati dalle trasformazioni sociali”, e cioè di come “la storia abbia già operato il suo processo di selezione, “fatto più di dimenticanze che di ricordo” (p. 177).
In questo libro la pluralità di voci è data non solo dall’alto numero dei saggisti (dei quali tutti non posso purtroppo riferire per mancanza di spazio editoriale), ma soprattutto dalla ricca tessitura di citazioni e riferimenti, in un assieparsi fittissimo di scritti e testimonianze riportate, tra molteplici rilevamenti del territorio “reale” (nelle sue varie ipostasi e nei suoi cambiamenti), e molteplici astrazioni, invenzioni e fantasie, sia letterarie che anche di tipo tecnico-scientifico, come ad es. i piani urbanistici ottocenteschi della città della Spezia, rimasti sulla carta e proprio per questo appartenenti di diritto a un virtuale capitolo sull’immaginario suscitato dai luoghi dello Spezzino.
Di cartografia e non solo parla Massimo Quaini nel GOLFO DI CARTA (pp. 17-44), mostrandoci come la geografia sia diventata una branca del sapere interdisciplinare per eccellenza; e, a conferma e rafforzo delle qualità narrative dei nuovi studiosi di geografia, Luisa Rossi, nel suo appassionante SAGGIO PAESAGGI E MEMORIA (pp. 45-76), ricostruisce del Golfo una mappa insieme reale (quella delle ricognizioni in loco) e utopica (quella dei progetti degli ingegneri napoleonici).
Le pagine dedicate da Luisa Rossi alle reconnaissances francesi del Golfo spezzino sono una narrazione suscitatrice di brividi quasi sensuali, perché in essa il corpo fisico del territorio pare risvegliarsi sotto gli occhi, i passi, le misurazioni, i sopralluoghi, nei rapporti scritti e anche nelle progettazioni utopiche (quindi : le fantasie) dei vari incaricati, ingegneri-prefetti-naturalisti (Rolland, Chabrol, Le Père, Delmas, Viviani).
E che dire del mondo acquoreo inimmaginabile, un vero locus amoenus, evocato nelle pagine dedicate dalla Rossi a polle, sprugole, canali, corsi d’acqua carsici, acque termali dalle favolose proprietà terapeutiche o teratologiche, torrenti e quant’altro presenti un tempo nelle terre del Golfo? Uno stupore, per il lettore che non sapeva di questa ricchezza: stupore grande superato in grandezza soltanto dal dispiacere per la vicenda che la studiosa ci racconta di acque deviate, coperte, cementificate, essiccate, insomma… scomparse!
A tale proposito vorrei citare due passi da un mio lavoro in corso, a prova di quanto famosa anche internazionalmente fosse nell’’800 la polla più importante dello scenario acquoreo tratteggiato da Luisa Rossi. In un testo del 1833, riferendo al triste destino di Shelley, l’inglese W. Brockedon parla del territorio spezzino e della polla: “Una sorgente d’acqua dolce sgorga nel mezzo del golfo”. Cinque anni più tardi, lo stesso viaggiatore ce ne dà una descrizione più dettagliata:
“Vicino a Spezia c’è un interessante fenomeno che vale una visita: la vasta sorgente d’acqua dolce chiamata ‘Alfa Sana’ che sgorga nella baia, a circa un miglio dalla città: a mare liscio la forza della sua velocità di debito provoca un visibile innalzamento del livello dell’acqua circostante: sulla superficie l’acqua è leggermente salata, ma presa a qualche piede di profondità è perfettamente dolce. Le acque di questa immensa sorgente sgorgano da una profondità di 120 piedi” [2].
Molteplici sono le osservazioni che si potrebbero fare sotto l’influsso e lo stimolo di questo bel lavoro di gruppo. Concludendo, mi piace contribuire a questo “divano” ligustico riportando un passo dei DIARI DI VIAGGIO di Hans Christian Andersen relativo a uno dei passaggi in Liguria in occasione dei suoi grand tours del 1833, 1846 e 1861 . È nel viaggio del 1833, dal 2 al 3 ottobre, che Andersen annotò il transito per la costa di Levante, e in particolare nei luoghi dello Spezzino:
“[…] Arrivati a Borghetta, [3] […] si incominciarono a vedere donne che portavano sulla testa veli bianchi grandi come grembiuli. […] Avvicinandoci al golfo di Spezia, scorgemmo delle belle montagne azzurre vicine al mare; la valle era così immensamente fertile! sembrava una cornucopia stracolma; le viti pendevano intorno agli alberi rigogliosi, aranci e ulivi si intrecciavano a formare un groviglio vegetale. - Le colline tedesche coltivate a vite sono cosparse di esili stecchi, qui invece i tralci pendevano a ghirlanda da un albero all’altro, stracolmi di grappoli; fossati, cime d’alberi, tutto era come invaso e sovraccarico d’uva” [4].
I fazzoletti bianchi sono al Museo Etnografico della Spezia ed è non poco emozionante trovarli menzionati negli scritti di uno dei più grandi scrittori dell’Ottocento e di tutti i tempi, la cui fantasia è stata evidentemente colpita, oltre che dallo scenario naturalistico - assolutamente impareggiabile per un danese non avvezzo alla compresenza simultanea di montagne-mare-frutteti-uliveti-vigneti - anche da un dato “stravagante” di cultura materiale.
NOTE
[1] Del rapporto di Bertolani col mare, si veda, su “Carte allineate”, P. Polito, IL MARE IN PAOLO BERTOLANI, 1-7-2007.
[2] Traduzioni di P. Polito.
[3] Borghetto Vara.
[4] Traduzione di P. Polito e L. Waage Petersen. Cfr. L. Waage Petersen, I PASSAGGI PER LA LIGURIA DI HANS CHRISTIAN ANDERSEN NELLE PAGINE DEI SUOI DIARI, in SENTIERI LIGURI PER VIAGGIATORI NORDICI. STUDI INTERCULTURALI SULLA LIGURIA, a cura di P. Polito, Firenze, Olschki, 2008, p. 262.
[Paola Polito]
23/09/09
Im Kyeong-soo, DIARY OF JUNE
Corea, 2005. Regia e testo di Im Kyeong-soo. Con Yunjin Kim, Shin Eun-Kyung, Eric Mun. Su YouTube a DIARY OF JUNE.
Intitolato in inglese BYSTANDERS oppure DIARY OF JUNE, questo thriller segue le ricerche di due investigatori, Dong-wook (l’attore Eric Mun) e Choo Ja-young (l’attrice Shin Eun-kyung), quest’ultima coinvolta direttamente nell’indagine che poco per volta si rivela essere su episodi di bullismo adolescenziale e su una vendetta personale perpretata da un’amica della poliziotta (l’attrice Yunjin Kim).
Ben articolato nel ritmo incalzante e nella scoperta graduale dei particolari rilevanti, si rivela un giallo psicologico tenuto per lo più sottotono, con una reticenza che rende i personaggi con caratterizzazione realista e per lo più introversa.
Di ambienti più ancora che di azioni, vengono inquadrati dettagli della città, la pioggia battente, gli occhi dei protagonisti; al contempo si determina un aspetto estroverso nelle ire imprevedute della detective, nelle bugie degli scolari, nelle reazioni di vari personaggi secondari.
Il silenzio è qui importante come la parola; e la telecamera privilegia elementi che si isolano attirando l’attenzione, come un paio di scarpe durante in dialogo o il ralenti di un impermeabile giallo che accentua l’emotività.
Tre stelle e mezzo, diciamo.
[Renato Persòli]
Intitolato in inglese BYSTANDERS oppure DIARY OF JUNE, questo thriller segue le ricerche di due investigatori, Dong-wook (l’attore Eric Mun) e Choo Ja-young (l’attrice Shin Eun-kyung), quest’ultima coinvolta direttamente nell’indagine che poco per volta si rivela essere su episodi di bullismo adolescenziale e su una vendetta personale perpretata da un’amica della poliziotta (l’attrice Yunjin Kim).
Ben articolato nel ritmo incalzante e nella scoperta graduale dei particolari rilevanti, si rivela un giallo psicologico tenuto per lo più sottotono, con una reticenza che rende i personaggi con caratterizzazione realista e per lo più introversa.
Di ambienti più ancora che di azioni, vengono inquadrati dettagli della città, la pioggia battente, gli occhi dei protagonisti; al contempo si determina un aspetto estroverso nelle ire imprevedute della detective, nelle bugie degli scolari, nelle reazioni di vari personaggi secondari.
Il silenzio è qui importante come la parola; e la telecamera privilegia elementi che si isolano attirando l’attenzione, come un paio di scarpe durante in dialogo o il ralenti di un impermeabile giallo che accentua l’emotività.
Tre stelle e mezzo, diciamo.
[Renato Persòli]
21/09/09
Aldo Carotenuto, IL TEMPO DELLE EMOZIONI
Milano, Bompiani, 2003
Carotenuto segue in parte la linea freudiana del rapporto tra inconscio e Super-Io con la conseguente necessità di riequilibrare in termini di non repressione e allo stesso tempo di controllare le emozioni socialmente distruttive. Nell’ambito sociale, infatti, “non esiste cultura che non eserciti la sua funzione regolatrice sulla manifestazione e gestione dei sentimenti da parte dell’essere umano, proprio per evitare che talune dinamiche emotive possano poi sfociare in atteggiamenti distruttivi sia verso se stessi che nei confronti degli altri individui” (p. 35).
In parte predominante si determina una linea junghiana, riposta in particolare nella discussione sul male in una concezione dell’intreccio tra i lati della personalità positivi e negativi, in luce e in ombra, entro un “mosaico interiore” che implica “la consapevolezza della presenza in noi stessi della dimensione del male”, inteso come “quella componente oscura che alberga nei meandri più riposti della psiche” (p. 92). Si evidenzia un “processo di autoconoscenza che conduca l’individuo a “integrare gli elementi opposti che compongono la sua personalità”, in quanto “solo l’avvenuta comprensione della profonda ambivalenza che segna l’esistenza umana potrà aprire la strada verso la conoscenza della personale verità interiore” (p. 95).
Legata all’individuazione junghiana è la difesa della conoscenza personale dell’emotività:
“L’individuo, sotto la pressione degli impulsi esterni, può esperire vissuti di intensa conflittualità nel momento in cui la propria verità interiore cozza contro gli ideali della collettività. Ma è in tali situazioni di contrasto che l’essere umano deve lottare in virtù delle sue aspirazioni più profonde, difendendo le sue emozioni dalle aggressioni invasive della realtà circostante. Abbandonare le vesti dell’illusione e dell’apparenza, nel momento in cui le soddisfazioni condizionanti del mondo esterno non riescono più ad appagare la psiche dell’individuo, apre le porte alla conquista di una conoscenza personale che sovrasta le barriere architettoniche del collettivo perché appartiene unicamente alla sfera interiore dell’uomo” (p. 85).
Attraverso la conoscenza di sé si determina il rapporto con gli altri, fondamentale, indica Carotenuto, dato che “le sofferenze maggiori che individuo esperisce durante il suo percorso evolutivo sono legate […] a quelle situazioni in cui la solitudine diventa il portavoce della sua anima, per cui sono assenti le dinamiche relazionali in grado di garantire i rapporti con gli altri esseri umani” (p. 59).
La solitudine può essere una scelta dovuta la necessità di prendere respiro dal contesto sociale, una necessità, o una costrizione psicologica legata all’assenza del desiderio, dell’oggetto e della vitalità e collegata invece alla nostalgia:
“Il senso di solitudine […] è collegato a un vissuto nostalgico di ritorno verso una condizione esistenziale precedente, in cui il rapporto con l’altro, l’oggetto del desiderio, appariva costellato dalla vicinanza e dalla prossimità temporale e spaziale.
Anzi, possiamo […] affermare che è proprio la solitudine la dimensione emotiva primaria in grado di suscitare nel soggetto il vissuto del desiderio, e la memoria evocativa rappresenta lo strumento strategico che sostiene tale dinamismo psichico e affettivo” (p. 152).
Nel campo della nostalgia, il senso di solitudine si lega alla malinconia dell’esilio, alla tristezza nata dal distacco da ciò che conferiva “familiarità e sicurezza” (p. 162). Chi ha perso quell’ambito originario cerca “elementi sostitutivi […] al fine di colmare quel vuoto interiore che rende la mancanza insostenibile; si tratta di surrogati che, pur tentando di sovrapporsi all’oggetto del desiderio, mai riusciranno ad alimentare uno stato psicologico di pienezza” (pp. 164-65) in una situazione divenuta “precaria”, insoddisfacente e la cui soluzione di appagamento è almeno temporaneamente affidata alla fantasia invece che al senso di realtà.
Esaminata in dettaglio nell’arco di vari capitoli, tra le “emozioni di coppia”; la gelosia, suddivisa in gradienti normali, possessivi e nevrotici il cui sospetto e rancore accompagnati da obiettivi di controllo, nati da un desiderio legato alla sfera materna di fusione totale con l’oggetto e motivati dalla paura della perdita, inerenti a un concetto arcaico dell’amore, possono anche orientarsi contro manifestazioni checchessia di autonomia dell’altro indipendenti da modalità di tradimento concreto.
[Roberto Bertoni]
Carotenuto segue in parte la linea freudiana del rapporto tra inconscio e Super-Io con la conseguente necessità di riequilibrare in termini di non repressione e allo stesso tempo di controllare le emozioni socialmente distruttive. Nell’ambito sociale, infatti, “non esiste cultura che non eserciti la sua funzione regolatrice sulla manifestazione e gestione dei sentimenti da parte dell’essere umano, proprio per evitare che talune dinamiche emotive possano poi sfociare in atteggiamenti distruttivi sia verso se stessi che nei confronti degli altri individui” (p. 35).
In parte predominante si determina una linea junghiana, riposta in particolare nella discussione sul male in una concezione dell’intreccio tra i lati della personalità positivi e negativi, in luce e in ombra, entro un “mosaico interiore” che implica “la consapevolezza della presenza in noi stessi della dimensione del male”, inteso come “quella componente oscura che alberga nei meandri più riposti della psiche” (p. 92). Si evidenzia un “processo di autoconoscenza che conduca l’individuo a “integrare gli elementi opposti che compongono la sua personalità”, in quanto “solo l’avvenuta comprensione della profonda ambivalenza che segna l’esistenza umana potrà aprire la strada verso la conoscenza della personale verità interiore” (p. 95).
Legata all’individuazione junghiana è la difesa della conoscenza personale dell’emotività:
“L’individuo, sotto la pressione degli impulsi esterni, può esperire vissuti di intensa conflittualità nel momento in cui la propria verità interiore cozza contro gli ideali della collettività. Ma è in tali situazioni di contrasto che l’essere umano deve lottare in virtù delle sue aspirazioni più profonde, difendendo le sue emozioni dalle aggressioni invasive della realtà circostante. Abbandonare le vesti dell’illusione e dell’apparenza, nel momento in cui le soddisfazioni condizionanti del mondo esterno non riescono più ad appagare la psiche dell’individuo, apre le porte alla conquista di una conoscenza personale che sovrasta le barriere architettoniche del collettivo perché appartiene unicamente alla sfera interiore dell’uomo” (p. 85).
Attraverso la conoscenza di sé si determina il rapporto con gli altri, fondamentale, indica Carotenuto, dato che “le sofferenze maggiori che individuo esperisce durante il suo percorso evolutivo sono legate […] a quelle situazioni in cui la solitudine diventa il portavoce della sua anima, per cui sono assenti le dinamiche relazionali in grado di garantire i rapporti con gli altri esseri umani” (p. 59).
La solitudine può essere una scelta dovuta la necessità di prendere respiro dal contesto sociale, una necessità, o una costrizione psicologica legata all’assenza del desiderio, dell’oggetto e della vitalità e collegata invece alla nostalgia:
“Il senso di solitudine […] è collegato a un vissuto nostalgico di ritorno verso una condizione esistenziale precedente, in cui il rapporto con l’altro, l’oggetto del desiderio, appariva costellato dalla vicinanza e dalla prossimità temporale e spaziale.
Anzi, possiamo […] affermare che è proprio la solitudine la dimensione emotiva primaria in grado di suscitare nel soggetto il vissuto del desiderio, e la memoria evocativa rappresenta lo strumento strategico che sostiene tale dinamismo psichico e affettivo” (p. 152).
Nel campo della nostalgia, il senso di solitudine si lega alla malinconia dell’esilio, alla tristezza nata dal distacco da ciò che conferiva “familiarità e sicurezza” (p. 162). Chi ha perso quell’ambito originario cerca “elementi sostitutivi […] al fine di colmare quel vuoto interiore che rende la mancanza insostenibile; si tratta di surrogati che, pur tentando di sovrapporsi all’oggetto del desiderio, mai riusciranno ad alimentare uno stato psicologico di pienezza” (pp. 164-65) in una situazione divenuta “precaria”, insoddisfacente e la cui soluzione di appagamento è almeno temporaneamente affidata alla fantasia invece che al senso di realtà.
Esaminata in dettaglio nell’arco di vari capitoli, tra le “emozioni di coppia”; la gelosia, suddivisa in gradienti normali, possessivi e nevrotici il cui sospetto e rancore accompagnati da obiettivi di controllo, nati da un desiderio legato alla sfera materna di fusione totale con l’oggetto e motivati dalla paura della perdita, inerenti a un concetto arcaico dell’amore, possono anche orientarsi contro manifestazioni checchessia di autonomia dell’altro indipendenti da modalità di tradimento concreto.
[Roberto Bertoni]
19/09/09
Cristina Cona, TYNDALE
La traduzione del Nuovo Testamento costò la vita a William Tyndale nel 1536.
Tyndale nacque in Inghilterra, vicino alla frontiera con il Galles; la data di nascita varia da un biografo all’altro, ma si situa comunque fra il 1484 e il 1494. Laureatosi in retorica e lingue classiche ad Oxford e Cambridge, annunciò un giorno ad un chierico scandalizzato la propria intenzione di tradurre in inglese la Bibbia: “If God spare my life, ere many years I will cause a boy that driveth a plough shall know more of the Scripture than you do”. In quegli anni un’impresa simile non era soltanto provocatoria, ma anche estremamente rischiosa: la conoscenza dei testi sacri era monopolio delle autorità ecclesiastiche, e non solo la loro traduzione, ma addirittura il possesso o la lettura di una copia in lingua volgare era punibile con la morte.
Sul trono d’Inghilterra si trovava all’epoca Enrico VIII, che però non aveva ancora attuato il famoso “strappo” con Roma. Nel 1524 Tyndale si recò dunque in Germania, dove due anni dopo diede alle stampe la prima versione integrale del Nuovo Testamento in inglese; costretto a cambiare città per sfuggire alle persecuzioni, visse prima a Colonia, poi a Worms. Stabilitosi infine ad Anversa, porto che per la sua vicinanza all’Inghilterra gli permetteva facilmente di tenersi in contatto con i suoi seguaci, iniziò a lavorare sull’Antico Testamento; in questa città, nel gennaio 1530, uscì la sua traduzione del Pentateuco.
Quella di Tyndale non fu la prima traduzione in inglese di un testo scritturale: era stata infatti preceduta di una quarantina d’anni dalla versione della Vulgata di San Gerolamo ad opera di John Wycliffe (o Wyclif), filosofo e teologo la cui predicazione aveva prefigurato molti temi della Riforma e che, sebbene scomunicato da Gregorio XI, era riuscito a sfuggire alla condanna dei tribunali sia civili che ecclesiastici grazie alla protezione accordatagli dalla famiglia reale. Il Nuovo Testamento di Tyndale è però ben più solido e autorevole: egli scelse infatti di tradurre non più dal latino bensì dal greco e dall’ebraico, risalendo così alle fonti anziché accontentarsi della traduzione di una traduzione e, a differenza dello stile di Wycliffe, giudicato piuttosto pedestre, il suo si distingue per la forza espressiva oltreché per la fedeltà all’originale (“I call to God to record... that I never altered one syllable of God’s Word against my conscience”).
Attualmente il testo standard della Bibbia in inglese è rappresentato dall’“Authorized Version” di re Giacomo I, uscita nel 1611 quando l’Inghilterra era ormai passata definitivamente nel campo della Riforma. Nei paesi protestanti la lettura praticamente quotidiana dei testi sacri in lingua nazionale ha rappresentato un fenomeno culturale di importanza incalcolabile: spesso, nei secoli passati, l’unico libro presente nelle case era la “family Bible”, sul cui frontespizio venivano annotati nascite, matrimoni e morti e che, in assenza di obbligo scolastico, costituiva la prima fonte di alfabetizzazione nonché il principale, se non l’unico, modello linguistico attendibile. E’ risaputo che Shakespeare e l’Authorized Version sono i due grandi filoni lessicali cui ha attinto l’inglese moderno; meno noto è il fatto che il lavoro di Tyndale ha costituito la base imprescindibile di quest’ultima, definitiva versione, tanto che secondo stime recenti esso rappresenterebbe l’83% del testo del KING JAMES NEW TESTAMENT.
Molte espressioni coniate da Tyndale sono così passate nell’inglese di tutti i giorni: “Let there be light”, “eat, drink and be merry” e “my brother’s keeper” dall’Antico Testamento, “the powers that be”, “the salt of the Earth”, “a law unto themselves”, “signs of the times”, “the spirit is willing, but the flesh is weak” dal Nuovo. Inoltre egli rimise in auge termini derivati dall’ebraico che le versioni latine avevano trascurato, come “Jehovah”, o “Passover”, la Pasqua ebraica (da “Pesah”), e creò il neologismo “scapegoat”. Più controversa, al tempo in cui apparve, fu la traduzione del greco “ekklesia” con “congregation” anziché “church”, sulla scia di Erasmo, di cui Tyndale aveva tradotto l’ENCHIRIDION MILITIS CHRISTIANI (MANUALE DEL SOLDATO CRISTIANO) e che aveva usato in questa accezione il termine “congregatio”. Questa scelta terminologica, del resto, non era casuale, ma corrispondeva ad una sua ben precisa visione dell’organizzazione ecclesiale in cui il potere doveva essere appannaggio non più del clero, ma di tutti i credenti - la stessa visione, cioè, che lo aveva spinto al lavoro di traduzione nonostante tutti i gravi pericoli che esso comportava: “[...] I had perceived by experience, how that it was impossibile to establish the lay people in any truth, except the Scripture were plainly laid before their eyes in their mother tongue, that they might see the process, order, and meaning of the text”.
L’arrivo e la diffusione (entrambi, ovviamente, clandestini) delle traduzioni di Tyndale in Inghilterra ebbero un profondo effetto sulla cultura teologica del paese e sulla futura espansione della Riforma; non a caso scatenarono successive ondate di persecuzioni. Ci si può fare un’idea dello zelo con il quale le autorità si accanivano a stanare libri e lettori dal fatto che, sebbene fossero state inviate nel paese migliaia di copie, ne sopravvive oggi una sola, più alcuni frammenti di una seconda. Anche dopo la rottura con Roma (marzo 1534) che avrebbe dato vita alla chiesa anglicana, la lettura della Bibbia in inglese continuò ad essere considerata attività sovversiva.
Nel 1535 Tyndale, che viveva sempre ad Anversa, venne tradito da una spia cattolica, Henry Phillips, arrestato dalle autorità di Carlo V e imprigionato per diciotto mesi nella fortezza che allora esisteva a Vilvoorde. A testimonianza della sua vita in questo periodo resta una lettera, rinvenuta in archivi belgi nell’Ottocento, in cui chiede di poter disporre di una lampada e di indumenti di lana, ma soprattutto di una copia della Bibbia in ebraico, di una grammatica e di un dizionario, così da poter continuare a studiare.
Nell’agosto 1536 Tyndale fu dichiarato colpevole di eresia e condannato a morte. Il 6 ottobre, a Vilvoorde, fu legato al palo del rogo e strangolato; il suo corpo venne poi cremato. Le sue ultime parole furono: “Lord, open the king of England’s eyes”.
[Cristina Cona]
Tyndale nacque in Inghilterra, vicino alla frontiera con il Galles; la data di nascita varia da un biografo all’altro, ma si situa comunque fra il 1484 e il 1494. Laureatosi in retorica e lingue classiche ad Oxford e Cambridge, annunciò un giorno ad un chierico scandalizzato la propria intenzione di tradurre in inglese la Bibbia: “If God spare my life, ere many years I will cause a boy that driveth a plough shall know more of the Scripture than you do”. In quegli anni un’impresa simile non era soltanto provocatoria, ma anche estremamente rischiosa: la conoscenza dei testi sacri era monopolio delle autorità ecclesiastiche, e non solo la loro traduzione, ma addirittura il possesso o la lettura di una copia in lingua volgare era punibile con la morte.
Sul trono d’Inghilterra si trovava all’epoca Enrico VIII, che però non aveva ancora attuato il famoso “strappo” con Roma. Nel 1524 Tyndale si recò dunque in Germania, dove due anni dopo diede alle stampe la prima versione integrale del Nuovo Testamento in inglese; costretto a cambiare città per sfuggire alle persecuzioni, visse prima a Colonia, poi a Worms. Stabilitosi infine ad Anversa, porto che per la sua vicinanza all’Inghilterra gli permetteva facilmente di tenersi in contatto con i suoi seguaci, iniziò a lavorare sull’Antico Testamento; in questa città, nel gennaio 1530, uscì la sua traduzione del Pentateuco.
Quella di Tyndale non fu la prima traduzione in inglese di un testo scritturale: era stata infatti preceduta di una quarantina d’anni dalla versione della Vulgata di San Gerolamo ad opera di John Wycliffe (o Wyclif), filosofo e teologo la cui predicazione aveva prefigurato molti temi della Riforma e che, sebbene scomunicato da Gregorio XI, era riuscito a sfuggire alla condanna dei tribunali sia civili che ecclesiastici grazie alla protezione accordatagli dalla famiglia reale. Il Nuovo Testamento di Tyndale è però ben più solido e autorevole: egli scelse infatti di tradurre non più dal latino bensì dal greco e dall’ebraico, risalendo così alle fonti anziché accontentarsi della traduzione di una traduzione e, a differenza dello stile di Wycliffe, giudicato piuttosto pedestre, il suo si distingue per la forza espressiva oltreché per la fedeltà all’originale (“I call to God to record... that I never altered one syllable of God’s Word against my conscience”).
Attualmente il testo standard della Bibbia in inglese è rappresentato dall’“Authorized Version” di re Giacomo I, uscita nel 1611 quando l’Inghilterra era ormai passata definitivamente nel campo della Riforma. Nei paesi protestanti la lettura praticamente quotidiana dei testi sacri in lingua nazionale ha rappresentato un fenomeno culturale di importanza incalcolabile: spesso, nei secoli passati, l’unico libro presente nelle case era la “family Bible”, sul cui frontespizio venivano annotati nascite, matrimoni e morti e che, in assenza di obbligo scolastico, costituiva la prima fonte di alfabetizzazione nonché il principale, se non l’unico, modello linguistico attendibile. E’ risaputo che Shakespeare e l’Authorized Version sono i due grandi filoni lessicali cui ha attinto l’inglese moderno; meno noto è il fatto che il lavoro di Tyndale ha costituito la base imprescindibile di quest’ultima, definitiva versione, tanto che secondo stime recenti esso rappresenterebbe l’83% del testo del KING JAMES NEW TESTAMENT.
Molte espressioni coniate da Tyndale sono così passate nell’inglese di tutti i giorni: “Let there be light”, “eat, drink and be merry” e “my brother’s keeper” dall’Antico Testamento, “the powers that be”, “the salt of the Earth”, “a law unto themselves”, “signs of the times”, “the spirit is willing, but the flesh is weak” dal Nuovo. Inoltre egli rimise in auge termini derivati dall’ebraico che le versioni latine avevano trascurato, come “Jehovah”, o “Passover”, la Pasqua ebraica (da “Pesah”), e creò il neologismo “scapegoat”. Più controversa, al tempo in cui apparve, fu la traduzione del greco “ekklesia” con “congregation” anziché “church”, sulla scia di Erasmo, di cui Tyndale aveva tradotto l’ENCHIRIDION MILITIS CHRISTIANI (MANUALE DEL SOLDATO CRISTIANO) e che aveva usato in questa accezione il termine “congregatio”. Questa scelta terminologica, del resto, non era casuale, ma corrispondeva ad una sua ben precisa visione dell’organizzazione ecclesiale in cui il potere doveva essere appannaggio non più del clero, ma di tutti i credenti - la stessa visione, cioè, che lo aveva spinto al lavoro di traduzione nonostante tutti i gravi pericoli che esso comportava: “[...] I had perceived by experience, how that it was impossibile to establish the lay people in any truth, except the Scripture were plainly laid before their eyes in their mother tongue, that they might see the process, order, and meaning of the text”.
L’arrivo e la diffusione (entrambi, ovviamente, clandestini) delle traduzioni di Tyndale in Inghilterra ebbero un profondo effetto sulla cultura teologica del paese e sulla futura espansione della Riforma; non a caso scatenarono successive ondate di persecuzioni. Ci si può fare un’idea dello zelo con il quale le autorità si accanivano a stanare libri e lettori dal fatto che, sebbene fossero state inviate nel paese migliaia di copie, ne sopravvive oggi una sola, più alcuni frammenti di una seconda. Anche dopo la rottura con Roma (marzo 1534) che avrebbe dato vita alla chiesa anglicana, la lettura della Bibbia in inglese continuò ad essere considerata attività sovversiva.
Nel 1535 Tyndale, che viveva sempre ad Anversa, venne tradito da una spia cattolica, Henry Phillips, arrestato dalle autorità di Carlo V e imprigionato per diciotto mesi nella fortezza che allora esisteva a Vilvoorde. A testimonianza della sua vita in questo periodo resta una lettera, rinvenuta in archivi belgi nell’Ottocento, in cui chiede di poter disporre di una lampada e di indumenti di lana, ma soprattutto di una copia della Bibbia in ebraico, di una grammatica e di un dizionario, così da poter continuare a studiare.
Nell’agosto 1536 Tyndale fu dichiarato colpevole di eresia e condannato a morte. Il 6 ottobre, a Vilvoorde, fu legato al palo del rogo e strangolato; il suo corpo venne poi cremato. Le sue ultime parole furono: “Lord, open the king of England’s eyes”.
[Cristina Cona]
17/09/09
Benoît Denis, LITTÉRATURE ET ENGAGEMENT
Benoît Denis, LITTÉRATURE ET ENGAGEMENT DE PASCAL À SARTRE, Parigi, Seuil, 2000
Interessante come il dibattito francese e quello italiano degli anni Quaranta e Cinquanta si somiglino per due elementi essenziali in relazione al concetto di impegno nel rapporto degli intellettuali col comunismo: 1. Il rapporto con la militanza e l’esigenza di libertà ideologica pur avendo idee comuniste e anche l’iscrizione al partito; 2. la rivendicazione della libertà stilistica in rapporto alla prescrizione del realismo socialista.
La definizione di "écrivain engagé", ossia scrittore impegnato, si svolge nel corso di un intero capitolo, il secondo, ma in breve si potrà dire che “celui qui a o pris, explicitement, un série d’engagements par rapport à la collectivité, qui s’est en quelque sorte lié à elle par une promesse et qui joue dans cette partie sa crédibilitè et sa réputation” (p. 31). Nel concetto sartriano, “au fond de l’impérative esthétique nous discernons l’impérative moral” (p. 33) e viene implicata la responsabilità dello scrittore. Si tratta di una “dimension voluntaire et réfléchie” (p. 35). Nell’idea di impegno di derivazione sartriana, quindi, ciò che più conta sono “choix ethique, volonté de participation, urgence”, cosìcchè viene messa in questione l’idea comune di letteratura come entità autonoma (p. 41).
La prima parte del volume, QU’EST-CE QUE LA LITTÉRATURE ENGAGÉ, descrive i problemi principali. In particolare viene evidenziata la doppia natura di quest’idea nel dibattito francese, storica, relativa al periodo 1945-1955 coi precedenti degli anni Venti e Trenta, e transtorica, potendosi utilizzare questa concezione, attraverso la storia culturale, anche in altre epoche. Denis propende per una collocazione storica (p. 19) e considera l’apparizione dell’impegno come dovuta a tre fattori: 1) l’emergere di un “champ littérarire autonome”, ovvero di intellettuali “ne se soumettant désormais qu’a la juridiction de leurs pairs” (p. 20); 2) il manifestarsi, tra XIX e XX secolo, “d’un nouveau rôle social qui se situe aux marges de la littérature et de l’Université, celui de l’intellectuel” (p. 20); 3) l’affiorare della problematiche dell’engagement in rapporto alla rivoluzione sovietica del 1917, che mette in discussione “rien de moins que l’autonomie du champ littéraire [...] à travers la confrontation qu’elle induit entre champ littéraire et parti communiste” (p. 23). Gli inizi di questa dinamica dopo l’Ottobre russo si vedono nel dibattito dei Surrealisti e dell’avanguardia in genere e nella discussione sull’uso della letteratura e la rinuncia dell’intellettuale impegnato a sinistra a suoi privilegi di status. Denis vede tre fasi di questo sviluppo: l’affare Dreyfus e le sue immediate conseguenze; l’egemonia sartriana che rappresenta il momento “dogmatico” dell’impegno; infine la fase successiva al 1955, che si potrebbe definire il “riflusso” del concetto di impegno nel senso sartriano e in cui, prendendo le mosse dalle teorie di Roland Barthes, si accentua il rapporto col linguaggio (pp. 25-26).
Difficoltà comune dell’impegno è il desiderio di intervento militante accompagnato a quello, che può risultare contraddittorio, dello stile letterario: “vouloir s’éngager sans renoncer à la littérature” (p. 70). Un aspetto che ha provocato spesso contrasti con le prescrizioni della politica, soprattutto da sinistra, come dimostra il caso del surrealismo, all’inizio entusiasticamente prossimo al comunismo e poi costretto alla rottura, con Breton che cambiò posizione per difendere la possibilità dellalibera espressione stilistivca e dei metodi onirici, e Aragon che al contrario si convertì alle ottiche del realismo. Quella di Sartre viene definita da Denis una posizione estrema, strenua, di impegno, invece.
Esaminate nel libro anche le posizioni di Pascal, Voltaire, Germaine de Stäel, Hugo, vari altri autori.
Volume leggibile e documentato, tra quelli che rilanciano la discussione sull’impegno nel secolo XXI. Pur notando la difficoltà odierna di tale visione della letteratura, a ogni buon conto chi scrive queste note ritiene essa si possa, con le dovute storicizzazioni, tuttora mettere proficuamente in rilievo.
Interessante come il dibattito francese e quello italiano degli anni Quaranta e Cinquanta si somiglino per due elementi essenziali in relazione al concetto di impegno nel rapporto degli intellettuali col comunismo: 1. Il rapporto con la militanza e l’esigenza di libertà ideologica pur avendo idee comuniste e anche l’iscrizione al partito; 2. la rivendicazione della libertà stilistica in rapporto alla prescrizione del realismo socialista.
La definizione di "écrivain engagé", ossia scrittore impegnato, si svolge nel corso di un intero capitolo, il secondo, ma in breve si potrà dire che “celui qui a o pris, explicitement, un série d’engagements par rapport à la collectivité, qui s’est en quelque sorte lié à elle par une promesse et qui joue dans cette partie sa crédibilitè et sa réputation” (p. 31). Nel concetto sartriano, “au fond de l’impérative esthétique nous discernons l’impérative moral” (p. 33) e viene implicata la responsabilità dello scrittore. Si tratta di una “dimension voluntaire et réfléchie” (p. 35). Nell’idea di impegno di derivazione sartriana, quindi, ciò che più conta sono “choix ethique, volonté de participation, urgence”, cosìcchè viene messa in questione l’idea comune di letteratura come entità autonoma (p. 41).
La prima parte del volume, QU’EST-CE QUE LA LITTÉRATURE ENGAGÉ, descrive i problemi principali. In particolare viene evidenziata la doppia natura di quest’idea nel dibattito francese, storica, relativa al periodo 1945-1955 coi precedenti degli anni Venti e Trenta, e transtorica, potendosi utilizzare questa concezione, attraverso la storia culturale, anche in altre epoche. Denis propende per una collocazione storica (p. 19) e considera l’apparizione dell’impegno come dovuta a tre fattori: 1) l’emergere di un “champ littérarire autonome”, ovvero di intellettuali “ne se soumettant désormais qu’a la juridiction de leurs pairs” (p. 20); 2) il manifestarsi, tra XIX e XX secolo, “d’un nouveau rôle social qui se situe aux marges de la littérature et de l’Université, celui de l’intellectuel” (p. 20); 3) l’affiorare della problematiche dell’engagement in rapporto alla rivoluzione sovietica del 1917, che mette in discussione “rien de moins que l’autonomie du champ littéraire [...] à travers la confrontation qu’elle induit entre champ littéraire et parti communiste” (p. 23). Gli inizi di questa dinamica dopo l’Ottobre russo si vedono nel dibattito dei Surrealisti e dell’avanguardia in genere e nella discussione sull’uso della letteratura e la rinuncia dell’intellettuale impegnato a sinistra a suoi privilegi di status. Denis vede tre fasi di questo sviluppo: l’affare Dreyfus e le sue immediate conseguenze; l’egemonia sartriana che rappresenta il momento “dogmatico” dell’impegno; infine la fase successiva al 1955, che si potrebbe definire il “riflusso” del concetto di impegno nel senso sartriano e in cui, prendendo le mosse dalle teorie di Roland Barthes, si accentua il rapporto col linguaggio (pp. 25-26).
Difficoltà comune dell’impegno è il desiderio di intervento militante accompagnato a quello, che può risultare contraddittorio, dello stile letterario: “vouloir s’éngager sans renoncer à la littérature” (p. 70). Un aspetto che ha provocato spesso contrasti con le prescrizioni della politica, soprattutto da sinistra, come dimostra il caso del surrealismo, all’inizio entusiasticamente prossimo al comunismo e poi costretto alla rottura, con Breton che cambiò posizione per difendere la possibilità dellalibera espressione stilistivca e dei metodi onirici, e Aragon che al contrario si convertì alle ottiche del realismo. Quella di Sartre viene definita da Denis una posizione estrema, strenua, di impegno, invece.
Esaminate nel libro anche le posizioni di Pascal, Voltaire, Germaine de Stäel, Hugo, vari altri autori.
Volume leggibile e documentato, tra quelli che rilanciano la discussione sull’impegno nel secolo XXI. Pur notando la difficoltà odierna di tale visione della letteratura, a ogni buon conto chi scrive queste note ritiene essa si possa, con le dovute storicizzazioni, tuttora mettere proficuamente in rilievo.
15/09/09
Saneh Sangsuk, VENIN
[Almost a village on the Chao Praya in Bangkok. Foto di Marzia Poerio]
Titolo originale ASORRAPIT, 2000.Tradotto dal tailandese in francese da Marcel Barang, Parigi, Seuil, 2001
Di Sangsuk su "Carte allineate" è già stato recensito un romanzo, UNA STORIA VECCHIA COME LA PIOGGIA, in data 5-6-2007.
VENIN (VELENO) è ambientato in un ambito integralmente rurale; e in questo scrittore dei contasti, l'idillio della natura viene sostituito dalla sua pericolosità. Il ragazzo protagonista, di dieci anni, che ha perso l'uso del braccio destro, ma muscoloso nel sinistro, assalito da un cobra di dimensioni enormi che gli si attorciglia addosso, lo stringe alla gola con la mano sinistra mentre cerca di arrivare dalla foresta al villaggio. Incontra gente che fugge al suo passaggio e si rifugia nel tempio invece di soccorrerlo.
Arrivato in paese, se c'è chi vorrebbe cercare di sopprimere il serpente a fucilate, ciò viene impedito da Songwât, il medium che detesta il bambino e dice agli astanti che la Madre Sacra protettrice del villaggio potrebbe essere offesa e ancor più adirata dall'uccisione del cobra di cui si serve per punire gli insolenti.
Se la natura si accanisce con la menomazione, dapprima, poi con l'assalto del cobra, ancora più difficile è il rapporto degli esseri umani tra di loro, motivato da sentimenti negativi, odi, gelosie, invidia. Disperato, il ragazzo, che ha resistito finora per arrivare in un luogo in cui sperava nell'aiuto dei suoi simili, vistosi invece abbandonato, rinuncia alla presa: non viene morso dal serpente perché in questa tenzone epica tra la bestia e l'essere, aveva già vinto lui, soffocandolo senza essersene reso conto.
Liberato da quell'incubo, immediatamente si fa strada l'incubo definitivo: impazzisce; la tensione che l'ha sostenuto finora cade e il racconto si conclude col ragazzo in preda a una crisi di follia.
Il mito universale della serpe compare con una certa evidenza, accompagnato da notazioni naturalistiche e da una tensione propria dei gialli o di questo fantastico naturalistico, non esente da risvolti metafisici, eppure scritto con linearità efficace.
[Roberto Bertoni]
13/09/09
J.P. Dutta, UMRAO JAAN
[Nepalese King and Queen (Nice, Musée des Arts Asiatiques). Foto di Marzia Poerio]
India, 2006. Musica di Anu Malik. Con Shabana Azmi, Abhishek Bachchan, Divya Dutta, Ayesha Jhulka, Bansree Mandhani, Aishwariya Rai, Puru Rajkumar, Sunil Shetty, Himani Shivpuri
Il romanzo in urdu UMRAU JAN ADA (1899), di Mirza Muhammad Hadi Ruswa [1], ha dato luogo a tre versioni per il cinema (un film pakistano del 1972; quello indiano del 1981 e quello qui recensito) e a uno sceneggiato a puntate in tv (2003) [2].
Nel film di Dutta, forse si accentua il ruolo dell’equivoco e del caso, che rendono la protagonista più ancora preda dei pregiudizi sociali e destinata ad una solitudine immeritata.
Seguendo l’intreccio della versione del 2006, rapita nel 1840 per vendetta nei confronti di suo padre, Amiran viene venduta bambina a una casa di cortigiane; impara danza, canto, poesia e le arti della seduzione e divenuta una giovane attraente ed elegante viene notata dal ricco e potente Nawab Sultan, promettendogli fedeltà, impegno mantenuto anche quando l’amante è diseredato, proprio a causa di questa storia d’amore, dal padre; decide pertanto di recarsi da solo lontano per rifarsi una fortuna e tornare di nuovo prospero da Umrao. Viene pronunciata in questa circostanza la frase memorabile che Nawab Sultan dice alla ragazza in lacrime per la sua partenza: “Il tuo destino, adesso, è aspettare; il mio viaggiare”. Come in verità lottare contro tale sorte?
Il fato complica la vicenda quando si innamora di Umrao un altro potente, che riesce a controllare la passione e a non possederla, invitandola nei suoi possedimenti, ove la giovane accetta di andare perché il viaggio passerà dalla città in cui è ora residente il suo amante, ovvero proprio colui che smaschera Faiz Ali in quanto brigante e lo arresta. In un dialogo teso tra i due uomini, il malvivente lascia capire falsamente al Nawab, ma con prove che non parrebbero non lasciare dubbi, che Umrao l’ha tradito, al che la ragazza viene respinta e costretta a tornare alla casa delle cortigiane.
Scoppia frattanto la rivolta di Lucknow del 1857. Fuggendo dalla città in preda alla violenza, Umrao finisce nel villaggio natale, ove infine riconosce la madre e il fratello che, vergognandosi della sua attività, la cacciano.
Nella storia di cornice, divenuta una poetessa raffinata, Umrao narra retrospettivamente la propria storia.
La ricostruzione di ambienti e costumi è sontuosa. Belle le canzoni di Malik, soprattutto SALAAM. Prevale l’accanirsi della sorte avversa? Nondimeno sopravvive un animo candido. Forse migliore nella recitazione che nelle danze pur raffinate la nota Aishwariya Rai.
NOTE
[1] Traduzione inglese di Khushwant Singh e M.A Husain, THE COURTESAN OF LUCKNOW (MIRZA MOHAMMAD HADI RUSWA), New Dehli, Orient Paperbacks, 2008.
[2] Notizie in proposito alle voci pertinenti di WIKIPEDIA.
[Renato Persòli]
09/09/09
Paola Polito, SUL SILENZIO ED ALTRO (SETTE TESTI)
[Water is the origin of life. Water is still life (San Biagio della Cima, June 2009). Foto di Marzia Poerio]
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Questa serie di poesie di Paola Polito restituisce (rappresenta) una situazione esistenziale, affondando nella memoria, nella fenomenologia del presente e nelle metafore nate dall'ambiente e dall'interlocuzione con sé; al contempo esprime il farsi del linguaggio. I due elementi, il testo e la vita, si fondono. Non assenti richiami montaliani (non ultimo l'uso del "tu") e calviniani (la "piuma perfetta" come la "fortezza perfetta" del racconto di Calvino, IL CONTE DI MONTECRISTO) [RB].
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Paola Polito, SUL SILENZIO ED ALTRO (SETTE TESTI)
“Nel sette c’è la causa e la cura. Cave et cura il sette per questa settimana” (Oracolo)
1
SUL SILENZIO ED ALTRO
Nulla vuole da me,
neppure che lo senta,
lo scalpello svogliato
che batte nel vuoto
torrido di fine luglio.
Né per me nell’aria
voci di cani
gabbiani e umani
tracciano mozziconi
di frasi, balbettii.
Non parole ma suoni
quest’oggi nell’etere.
Nella mia mente tento
un discorso senza parole.
2
MONOLOGO
Se è interiore s’arresta
al di qua della soglia
procede silente e carsico
bara sulla sintassi
tagliando per scorciatoie
fregandosene dei sinonimi.
Sacrifica la mappa a pro
delle stazioni.
Poi, se ha voglia
di uscire a cielo aperto, allora
è torrente o fiume.
Si fa percorso e lume.
Ti spiega come arrivarci.
Al senso.
3
INDIRIZZI
Intirizzite immagini
fatte parole acustiche
t’indirizzo da questo
giorno striminzito,
uniche evidenze
all’orecchio del corpo.
E nella mente…
quel che vedrai sarà
forse analogo.
Del senso, poi,
è responsabile
il dizionario. Se mai.
Io sono solo un giocatore
di bussolotti.
E poco abile.
Te l’indirizzo
ma forse hai traslocato.
4
TRASLOCHI
Spostare di luogo
una frase
è come trasportare
continenti.
Sollevare acque
e montagne
creando alluvioni
e cataclismi.
Se saltano ponti
argini e autostrade
devi rimetterti
sulle piste.
Vecchie mappe aborigene
mezze scancellate
dall’Urbanistica.
Non c’è Google earth
che tenga.
Va’ a memoria
o affidati al sogno.
5
MOTIVI
Una lettera è analoga
a un’altra solo perché
non è ad esempio un pugnale.
Ci vuole chi la scriva
chi la riceva
chi la porti.
E qualcosa che dica.
Ma questa lettera
è diversa da ogni altra
perché non mi informa di nulla.
Io non ero a casa.
Tu non l’hai scritta.
E il messaggero s’è perso
per strada.
6
LA PIUMA TRASPARENTE
Come vedere la piuma
sulla cima dell’albero
che giorno sia
o notte
o rosseggi il tramonto?
C’era una piuma, dicono,
proprio su quel ramo
e c’è chi per fermarsi
perse la strada.
Io sono in viaggio
dietro al mio compito
ma adesso me ne sto qui
ai piedi dell’albero,
da giorni accampata
per scrutare a mio agio.
Anzi da anni.
Nella mente
ho concepito una piuma
perfetta.
7
SALE
E invece affonda.
Sprofonda nel gorgo.
Sommersa e corrosa
dall’opera subacquea.
Si lavora nell’ombra.
A disconnettere legami
allentare sintassi
confondere confini.
Discernere, separare, collegare
la lingua sapeva.
Ora riaffiora, residuo
galleggiante.
Ma si rituffa, giovane pesce
guizzante.
[Luglio-agosto 2009]
07/09/09
Corrado Prestianni, QUATTRO PEZZI FACILI
1.
(“[...] scheggia di luce che ritorna nella notte”). L.F. Cèline
Si vien qui su dal buio
già con l'amo in gola
si crede un vasto mare
di libertà e mistero
da navigare insieme
poi un brusco strappo
a caso della lenza
e sei a boccheggiare
sul bordo di una vasca
ancora verso il niente
2.
DIONISO INVIDIOSO
siamo stati amati
dalla divina voglia
di sbranare il mondo
poi d'improvviso folle
suicida sugli scogli
di piccoli dettagli
3.
RADICE DI DUE
Siamo quozienti impuri
mai a resto zero
ci sta sempre accanto
un decimale d'ombra
un rimasuglio oscuro
di vizio originale
4.
LIGHT SIDE
Giorni che se ne vanno
con il fruscìo sottile
di pagine girate
da un libro molto amato
(Sebastopoli, notte)
[Poesie tratte da NOTTURNO IN NO MAGGIORE e pubblicate in precedenza su DALLA PARTE DEL TORTO]
DUE DOMANDE ALL’AUTORE
1.
Che rapporto vede tra metafora e descrizione?
La metafora è un trasportarsi semantico oltre il reale ma che di questo offre una più ampia e significativa visione, ancor più pregnante e immediata, a volte scioccante. Più i termini sono lontani (ma non estranei al circuito, pur molto ampio, del senso, altrimenti la metafora è arbitraria e incomprensibile, quindi priva di effetto cognitivo ed evocativo) e più è efficace e spiazzante.
A mio modesto avviso, non esiste poesia (e non solo) senza metafora. L'immagine che ne scaturisce è una sintesi poetica mirabile. E credo che la sintesi sia una caratteristica indispensabile della poesia.
Non amo assolutamente la descrizione sia in poesia che in prosa. Oggi cinema,video,tv sono miglior sostitutivi di qualsiasi descrizione (con rare eccezioni). Da una parte, la ritengo un retaggio di quando nessuno aveva mai visto la jungla, la Cina, l'Alaska, il deserto, tipologie umane, oggetti ed usanze esotici, macchinari nuovi... Diventava quindi indispensabile descrivere al lettore il contesto e le cose in cui la storia, il romanzo si svolgeva. Oggi tutti hanno visto tutto, de visu o attraverso i media, quindi la ritengo inutile. Ripenso, ad esempio, a certe pagine descrittive dostojevskiane che appesantiscono i suoi pur mirabili romanzi,ma a quei tempi necessarie per far conoscere luoghi,usi,costumi... sconosciuti al maggior parte dei lettori. Dall'altra, il tipo di vita, di società, di cultura del nostro tempo, credo abbisogni di una tecnica di scrittura lontana da stilemi descrittivi. Con la poesia poi, sempre a mio vedere, ritengo non ci sia nessun rapporto dato che la poesia più che descrivere deve lasciar intuire.
Anche il metro che mi è naturale è spesso il settenario libero, verso non certo atto ad una descrizione. Si può dire che penso in tale metro sintetico, peraltro poco usato. Non leggerei mai una poesia descrittiva, come vedo che oggi molti fanno. Ma ripeto, è un'opinione molto personale.
2.
Lingua semplice e concetto aperto nella sua poesia?
Lei ha visto giusto. Io cerco di adoperare programmaticamente una lingua il più possibile semplice, la più scarna possibile, con espressioni anche gergali, ma sintetiche (non ermetiche), della lingua viva.
Penso che i termini, le espressioni della lingua più comune e quotidiana, assemblati in un certo modo fuori del contesto abituale, possano esprimere, suscitare una visione poetica altrettanto evocativa di una lingua terminologicamente sofisticata.
Un esempio: in una mia poesia, questa frase: "mi piace essere nato uno da spariglio".
Ovviamente questa operazione, rivalutare poeticamente la lingua ed il lessico "più triti" ed usurati, non sempre riesce.
[Intervista a cura di Roberto Bertoni]
(“[...] scheggia di luce che ritorna nella notte”). L.F. Cèline
Si vien qui su dal buio
già con l'amo in gola
si crede un vasto mare
di libertà e mistero
da navigare insieme
poi un brusco strappo
a caso della lenza
e sei a boccheggiare
sul bordo di una vasca
ancora verso il niente
2.
DIONISO INVIDIOSO
siamo stati amati
dalla divina voglia
di sbranare il mondo
poi d'improvviso folle
suicida sugli scogli
di piccoli dettagli
3.
RADICE DI DUE
Siamo quozienti impuri
mai a resto zero
ci sta sempre accanto
un decimale d'ombra
un rimasuglio oscuro
di vizio originale
4.
LIGHT SIDE
Giorni che se ne vanno
con il fruscìo sottile
di pagine girate
da un libro molto amato
(Sebastopoli, notte)
[Poesie tratte da NOTTURNO IN NO MAGGIORE e pubblicate in precedenza su DALLA PARTE DEL TORTO]
DUE DOMANDE ALL’AUTORE
1.
Che rapporto vede tra metafora e descrizione?
La metafora è un trasportarsi semantico oltre il reale ma che di questo offre una più ampia e significativa visione, ancor più pregnante e immediata, a volte scioccante. Più i termini sono lontani (ma non estranei al circuito, pur molto ampio, del senso, altrimenti la metafora è arbitraria e incomprensibile, quindi priva di effetto cognitivo ed evocativo) e più è efficace e spiazzante.
A mio modesto avviso, non esiste poesia (e non solo) senza metafora. L'immagine che ne scaturisce è una sintesi poetica mirabile. E credo che la sintesi sia una caratteristica indispensabile della poesia.
Non amo assolutamente la descrizione sia in poesia che in prosa. Oggi cinema,video,tv sono miglior sostitutivi di qualsiasi descrizione (con rare eccezioni). Da una parte, la ritengo un retaggio di quando nessuno aveva mai visto la jungla, la Cina, l'Alaska, il deserto, tipologie umane, oggetti ed usanze esotici, macchinari nuovi... Diventava quindi indispensabile descrivere al lettore il contesto e le cose in cui la storia, il romanzo si svolgeva. Oggi tutti hanno visto tutto, de visu o attraverso i media, quindi la ritengo inutile. Ripenso, ad esempio, a certe pagine descrittive dostojevskiane che appesantiscono i suoi pur mirabili romanzi,ma a quei tempi necessarie per far conoscere luoghi,usi,costumi... sconosciuti al maggior parte dei lettori. Dall'altra, il tipo di vita, di società, di cultura del nostro tempo, credo abbisogni di una tecnica di scrittura lontana da stilemi descrittivi. Con la poesia poi, sempre a mio vedere, ritengo non ci sia nessun rapporto dato che la poesia più che descrivere deve lasciar intuire.
Anche il metro che mi è naturale è spesso il settenario libero, verso non certo atto ad una descrizione. Si può dire che penso in tale metro sintetico, peraltro poco usato. Non leggerei mai una poesia descrittiva, come vedo che oggi molti fanno. Ma ripeto, è un'opinione molto personale.
2.
Lingua semplice e concetto aperto nella sua poesia?
Lei ha visto giusto. Io cerco di adoperare programmaticamente una lingua il più possibile semplice, la più scarna possibile, con espressioni anche gergali, ma sintetiche (non ermetiche), della lingua viva.
Penso che i termini, le espressioni della lingua più comune e quotidiana, assemblati in un certo modo fuori del contesto abituale, possano esprimere, suscitare una visione poetica altrettanto evocativa di una lingua terminologicamente sofisticata.
Un esempio: in una mia poesia, questa frase: "mi piace essere nato uno da spariglio".
Ovviamente questa operazione, rivalutare poeticamente la lingua ed il lessico "più triti" ed usurati, non sempre riesce.
[Intervista a cura di Roberto Bertoni]
05/09/09
Yoko Ogawa, UNA PERFETTA STANZA DI OSPEDALE
[How often do we know what lies behind the see-through glass? (Nice 2009). Foto di Marzia Poerio]
Edizione originale KAMPEKI NA BYOUSHITSU, Okayama, Fukutake,1989. Traduzione italiana di Massimiliano Matteri e Matake Yumiko, Milano, Adelphi, 2009
Di Ogawa, su “Carte allineate” (in data 28-10-2007), era già uscita la recensione dell’ANULARE, una storia di impostazione fantastica.
La recente pubblicazione di Adelphi comprende due racconti, quello che dà il titolo al volume e QUANDO LA FARFALLA SI SBRICIOLÒ, entrambi incentrati su argomenti di carattere familiare e luttuosi o tristi, resi in prima persona da una voce narrativa analitica, orientata sul discorso indiretto libero e con flussi di pensiero.
UNA PERFETTA STANZA DI OSPEDALE è la storia, esile quanto a intreccio, ma densa per le sensazioni e l’analisi dei sentimenti, di una sorella che assiste in ospedale il fratello destinato a perire e cosciente di esserlo. L’amore fraterno, la consapevolezza del lutto, le memorie di un’infanzia difficile, l’affetto per un medico dell’ospedale, la gentilezza ma anche distanza dei rapporti col marito si assommano, ben spaziate da un andamento lento quanto chiaro che espone in modo contrastivo il senso di realtà, spesso anche le convenzioni sociali basate su parole non abbondanti, su un non detto di fondo, e il sostrato dei pensieri e delle riflessioni destinat invece proprio a esprimere quel non detto di emozioni, persino di passioni, così:
“Non so in che modo affrontare la bolla di sentimenti che si forma dentro di me. Sta crescendo vistosamente dietro alle costole come se lì il sangue ristagnasse coagulandosi in un grumo. Allora controllo il respiro per non lasciarla esplodere. E non faccio altro che piangere. Nella speranza di riuscire più facilmente a dimenticare mio fratello, mi immergo nel ricordo della sua quieta camera di ospedale” [p. 12].
Il concetto di ricordo si intreccia a quello di immaginazione; quello della morte a quello dell’assenza; la presenza desiderata dell’affetto si concretizza in realtà solo dopo esitazioni.
La commozione è resa dal minimo del rivelato, sempre significativo e focalizzato, qui come nella storia successiva, più rarefatta, che narra la consegna inevitabile di un’anziana da parte della nipote e del fidanzato a un Centro di assistenza dove viene trattata con riguardo e senza che l’affetto della ragazza si affievolisca, ma con un senso di tristezza che si intesse assieme al personale della voce narrante, infine concretizzato in un gesto distruttivo, simbolico proprio per lo spostamento su un oggetto fragile ed effimero: la rottura delle spoglie di una farfalla, insetto che, apparso in una poesia del fidanzato regalata al personaggio che dice io, era comparso fisicamente tra le mani di una ragazza in una foto dimenticata (o lasciata intenzionalmente) nella rivista che conteneva il testo. Dunque lui aveva un’altra, proprio adesso che lei attendeva un figlio e in questa situazione in cui invece si dimostrava tanto solerte nei suoi confronti, proprio quando la nonna con cui lei era vissuta scompariva dalla quotidianità della casa?
Storie narrate con una reticenza dell’esplicito che rende tanto più partecipi dell’implicito.
Purtroppo anonimo questo commento calzante sull’opera di Ogawa:
“Kenzaburō Ōe has said, ‘Yoko Ogawa is able to give expression to the most subtle workings of human psychology in prose that is gentle yet penetrating’. The subtlety in part lies in the fact that Ogawa's characters often seem not to know why they are doing what they are doing. She works by accumulation of detail, a technique that is perhaps more successful in her shorter works; the slow pace of development in the longer works requires something of a deus ex machina to end them. The reader is presented with an acute description of what the protagonists, mostly but not always female, observe and feel and their somewhat alienated self-observations, some of which is a reflection of Japanese society and especially women's roles within in it. The tone of her works varies, across the works and sometimes within the longer works, from the surreal, through the grotesque and the - sometimes grotesquely - humorous, to the psychologically ambiguous and even disturbing” [1].
NOTA
[1]Da YOKO OGAWA
[Roberto Bertoni]
03/09/09
Dante Marianacci, I FIORI DEL TIBISCO
Soveria Mannelli, Rubettino, 2006
Nel romanzo I FIORI DEL TIBISCO, Dante Marianacci non rinnega il sentire lirico dei suoi testi in poesia. Anche in questa seconda prosa romanzesca, infatti, oltre a un lessico collocabile tra lirica e prosa, si rivela una conoscenza degli aspetti reconditi dell’animo umano e si punta sulla ricerca del particolare, attuata in modo non invasivo e senza dettagli superflui, come avviene nella produzione poetica dell'autore.
L'intreccio si orienta sulle vicende esistenziali di Giorgio, uomo di mezza età in carriera, che si ritaglia una “pausa di riflessione” nella quiete solitaria di un casolare nella campagna abruzzese. Con puntigliosa capacità descrittiva vengono rese sia la geografia dell’ambiente naturale, sia quella interiore dei ricordi e del vissuto. Ne esce uno spaccato di vita semplice, di un tempo remoto caratterizzato da emozioni da fanciullino pascoliano per situazioni quali una sagra di paese, una corsa mozzafiato nei campi, o un pellegrinaggio scolastico a un santuario. Si recupera la genuinità propria del vivere rurale dell’Italia del Centro-Sud, delle tradizioni che, pur necessarie nel processo di costruzione identitaria, stridono perché provinciali, limitate e limitanti, se messe a confronto con l’esperienza di vita intellettualmente multiculturale del protagonista viaggiatore.
Rifuggire dal mondo della routine quotidiana, fatta di discorsi, incontri, riunioni e appuntamenti, dove conta più l’apparire che non l’essere, significa per Giorgio ricucire il rapporto, bruscamente spezzato, con la propria dimensione interiore, che torna ad essere percepibile con forza solo se a contatto con le radici. Così, il protagonista dei FIORI DEL TIBISCO si tuffa nel mare dei ricordi, che spaziano dagli anni dell’infanzia a quelli dell’adolescenza e della maturità.
La dinamica della recollection, da intendersi in Marianacci emulativa di quella del primo Romanticismo inglese delle LYRICAL BALLADS di Wordsworth e Coleridge, viene interrotta dall’arrivo inaspettato di un elemento esterno, apparentemente di intrusione e di destabilizzazione dell’ordine costruito a fatica da Giorgio. È la giovane Marianna, dal “corpo minuto, perfetto, levigato, un poco olivastro” (p. 103). Sarà proprio da quell’esperienza che Giorgio si riscoprirà rinnovato e ritemprato, nuovamente pronto a sfidare le burrasche della vita in giro per il mondo.
Romanzo intenso, trasporta in meandri simili a quelli di HEART OF DARKNESS di Conrad.
[Ester Saletta]
Nel romanzo I FIORI DEL TIBISCO, Dante Marianacci non rinnega il sentire lirico dei suoi testi in poesia. Anche in questa seconda prosa romanzesca, infatti, oltre a un lessico collocabile tra lirica e prosa, si rivela una conoscenza degli aspetti reconditi dell’animo umano e si punta sulla ricerca del particolare, attuata in modo non invasivo e senza dettagli superflui, come avviene nella produzione poetica dell'autore.
L'intreccio si orienta sulle vicende esistenziali di Giorgio, uomo di mezza età in carriera, che si ritaglia una “pausa di riflessione” nella quiete solitaria di un casolare nella campagna abruzzese. Con puntigliosa capacità descrittiva vengono rese sia la geografia dell’ambiente naturale, sia quella interiore dei ricordi e del vissuto. Ne esce uno spaccato di vita semplice, di un tempo remoto caratterizzato da emozioni da fanciullino pascoliano per situazioni quali una sagra di paese, una corsa mozzafiato nei campi, o un pellegrinaggio scolastico a un santuario. Si recupera la genuinità propria del vivere rurale dell’Italia del Centro-Sud, delle tradizioni che, pur necessarie nel processo di costruzione identitaria, stridono perché provinciali, limitate e limitanti, se messe a confronto con l’esperienza di vita intellettualmente multiculturale del protagonista viaggiatore.
Rifuggire dal mondo della routine quotidiana, fatta di discorsi, incontri, riunioni e appuntamenti, dove conta più l’apparire che non l’essere, significa per Giorgio ricucire il rapporto, bruscamente spezzato, con la propria dimensione interiore, che torna ad essere percepibile con forza solo se a contatto con le radici. Così, il protagonista dei FIORI DEL TIBISCO si tuffa nel mare dei ricordi, che spaziano dagli anni dell’infanzia a quelli dell’adolescenza e della maturità.
La dinamica della recollection, da intendersi in Marianacci emulativa di quella del primo Romanticismo inglese delle LYRICAL BALLADS di Wordsworth e Coleridge, viene interrotta dall’arrivo inaspettato di un elemento esterno, apparentemente di intrusione e di destabilizzazione dell’ordine costruito a fatica da Giorgio. È la giovane Marianna, dal “corpo minuto, perfetto, levigato, un poco olivastro” (p. 103). Sarà proprio da quell’esperienza che Giorgio si riscoprirà rinnovato e ritemprato, nuovamente pronto a sfidare le burrasche della vita in giro per il mondo.
Romanzo intenso, trasporta in meandri simili a quelli di HEART OF DARKNESS di Conrad.
[Ester Saletta]
01/09/09
Michael Winterbottom, A MIGHTY HEART
["I wish the sky could correspond to feeling". Foto di Marzia Poerio]
2007. Basato sul libro autobiografico dal medesimo titolo, di Mariane van Neyenhoff Pearl. Con Dan Futterman, Angelina Jolie, Irrfan Khan, Archie Panjabi, Will Patton.
Il film è una riscrittura filmica del rapimento e dell’uccisione, a Karachi, in Pakistan, del giornalista del “Wall Street Journal” Daniel Pearl.
Nel film, uscito di casa per realizzare un’intervista, Pearl (l’attore Dan Futterman) non fa ritorno. Poco per volta la moglie Mariane (Angelina Jolie), in attesa da cinque mesi di un figlio, si rende conto che c’è qualcosa di grave. Ben presto risultano il rapimento e le richieste dei terroristi. Nonostante gli sforzi congiunti della polizia pakistana e dei servizi USA, Pearl viene decapitato. La moglie torna in Francia, la vediamo qualche anno dopo col figlio nato e cresciuto.
La dinamica incalzante degli eventi caratterizza, a un primo livello, la pellicola, senza peraltro mai scadere in aspetti commerciali o di pura azione. In tal senso, il regista utilizza una recitazione realista e che evidenzia i lati umani della situazione senza perdere di vista i risvolti politici, indicando anzi con chiarezza, attraverso la voce dei vari rappresentanti, la posizione del governo e della polizia pakistane, della diplomazia statunitene e dei terroristi. Alle scene in studio si alternano riprese tra le strade di Karachi, volti di persone qualunque, un bambino pakistano che vive nella medesima casa di Mariane. Da un lato si ha un senso di verità; dall’altro la storia viene ricondotta entro i binari della vita.
Ad un secondo livello, il giudizio resta allo spettatore tramite anche l’intercalare senza commento di brani documentari, come un’intervista effettivamente rilasciata al tempo del rapimento dal Segretario di Stato americano Colin Powell su Guantanamo. I metodi brutali dei terroristi non vengono certo negati, ma si evita, come noi riteniamo corretto, la spettacolarizzazione del sangue e della violenza: significativamente la scena della decapitazione non viene mostrata frontalmente, bensì resa nel suo orrore tramite le espressioni facciali dei funzionari che assistono a un video inviato dai terroristi e invisibile agli spettatori del film. Anche i metodi non sempre cortesi della polizia non vengono nascosti, pur senza scadere ancora una volta in scene eccessive di violenza spettacolarizzata.
Ci sono attori di ottimo livello, tra i quali Irrfan Khan nella parte del commissario pakistano Javed Habib e Archi Panjabi in quella di Asra Nomani (che era una collega di Mariane Pearl): entrambi assicurano notevole quotidianità e naturalezza alla recitazione. Tuttavia, chi domina la scena è Angiolina Jolie, la quale riesce a rendere la parte di una persona che, pur vedendo la propria vita devastarsi giorno dopo giorno, infine tragicizzarsi per sempre, riesce, forse anche in nome della fede buddhista, a restare equanime, a non fornire giudizi viscerali nemmeno sui rapitori, a reiterare la propria pena in modo personale e misurato, a esprimere amore per il marito invece che odio per gli altri, sebbene risultino chiare le sue assegnazioni di responsabilità.
Ci è apparso un buon film, che mette in rilievo drammatico il mondo in cui siamo precipitati.
[Renato Persòli]
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