25/09/09

IL SENSO DEL GOLFO. DALLA FOCE DELLA MAGRA ALLE CINQUE TERRE, a cura di Rossana Piccioli e Alessandro Scansani, Reggio Emilia, Diabasis, 2008


[Morning-blue Liguria. Foto di Marzia Poerio]


Il libro, che colma felicemente un vuoto imbarazzante, si presenta in una squisita veste grafica, corredato tra l’altro di suggestive foto di Walter Bilotta, dove si evidenziano le componenti astratte del paesaggio-ambiente, negando ogni intento puramente decorativo. E questa “estetica” è pregio del volume, con cui la casa editrice Diabasis inaugura una collana significativamente intitolata IL MARE IN BASSO. È, questo del mare “sottostante”, un punto di vista tra i più peculiarmente “ligustici” all’interno del complesso sistema percettivo e rappresentazionale del paesaggio ligure, di cui troviamo traccia sia in poesia che in prosa.

Ma un’indagine sul “modello ligustico”, quale appare restituito e reinventato nelle opere letterarie, mostra come tale verticalità entri in sinergia con altre modalità, quali il “mare schermato" (che ricorre in varia forma in Montale), il “mare alto”, cioè l’alta linea d’orizzonte tra mare e cielo che ritroviamo, ad esempio, in Calvino e Biamonti e, ancora, il “mare luminoso”: il barbaglio del mare in Sbarbaro, il mare che manda barlumi in Biamonti. Ma nell’opera dello scrittore imperiese questo è un vero e proprio topos: “Era luce di mare; il mare faceva la sua opera luminosa sulle rocce, sulle case…”

Visto dall’alto, il mare è contrapposto alla terra, osservato da un soggetto definibile come “contadino d’altura”; e il “mare da lontano”, nonostante la distanza, è presenza imprescindibile, assolvente il compito di finestra sul mondo, di tramite verso l’“altrove”: al suo fianco s’allungano le cittadine, i porti, s’esplicano i commerci, da lì si parte con le navi, lì si concentra il turismo.

Calvino ha ben illustrato la presenza nella mente ligure di questa alternativa tra terra (entroterra) e mare: mentre ne LA STRADA DI SAN GIOVANNI, parlando di sé, ricorda di aver preferito da bambino, in contrasto col padre, la città, il mare (“per me il mondo, la carta del pianeta, andava da casa nostra in giù”), nella già citata PREFAZIONE a SENTIERI afferma esattamente una contraria preferenza, di tipo più etico e politico: “ero passato dal mare - sempre visto dall'alto, una striscia tra due quinte di verde - alle valli tortuose delle Prealpi liguri”.

Di vera e propria distanza, e poca frequentazione, rispetto al mare troviamo le tracce anche in due autori spezzini, Paolo Bertolani e Maurizio Maggiani, in una coincidenza dove la componente “antropologica” della comune origine contadina accorcia la distanza generazionale.

Nel SENSO DEL GOLFO i curatori hanno felicemente incluso un inedito di Bertolani, dove leggiamo: “Parliamo anche del mare […] Io so che c’è, ma come c’è la luna. So che è laggiù in fondo, finita l’ultima macchia di olivi […] Volevo dire che io non scendo mai fin laggiù, che il mare lo guardo delle finestrelle del paese” (p. 89) [1].

Nel componimento MI DITE LIGURIA, Bertolani definisce il mare la “parte azzurra” delle giornate; come già per Calvino è il luogo dell’aprico, la parte in luce dello scenario - a fronte della parte ubàga, opaca, oscura (la parte in cui stiamo “noi”, per citare Montale di FALSETTO, negli OSSI: “noi della razza di chi rimane a terra”). “Mae / mae” (“Mare / male”), la mobilità e vitalità del mare (“che va che viene / che non si vuol fermare”), la sua indifferenza e eternità rendono consapevole il soggetto della sua fragilità (“mare / che mi ricorda sempre quello / che mi fa star male”).

Diffidenza verso il mare troviamo anche in Maggiani, che IN UN CONTADINO IN MEZZO AL MARE racconta come la nonna “Nita lo ammonisse da piccolo: ‘Sta atento, gnoco, che er mae i te se porta via’”. Segue il commento dello scrittore adulto, interprete della mentalità utilitaristica della civiltà contadina da cui proviene: “Il mare era grande e sperduto e inutile e salato”.

Rossana Piccioli, nel bel contributo DALLE SPONDE DEL QUOTIDIANO. PAESAGGIO, TRADIZIONE E LAVORO SULLE COSTE DEL GOLFO, osserva infatti:

“la vocazione naturale della gente del Golfo era […] più legata alla terra; l’immagine che a tratti riemerge, per esempio, di una Spezia ottocentesca come borgo di pescatori non rispecchia del tutto la realtà: le fonti, la storia e la tradizione la smentiscono; come in tutte le città rivierasche l’agglomerato chiuso fra la cerchia delle mura era una comunità socialmente stratificata, fatta di piccoli artigiani, contadini, commercianti, nobiltà e borghesia” (p. 174).

E ci informa che i pescatori erano immigrati dal Sud. “Attività di pesca organizzata” - leggiamo in una nota - “esisteva anticamente solo a Monterosso” [note 30 e 36]. Le precisazioni di Piccioli mi ricordano un passo di Lazzaro Spallanzani, che nei suoi diari di viaggio racconta di essere stato più volte testimone “in faccia a Portovenere”, nelle sue vacanze del 1783, di un “rovinoso e barbaro guasto di pesce […] minuto”. Mi chiedo se la somiglianza che lo stesso Spallanzani osservava tra questa pratica e la pesca “immatura” dei pescispada nello Stretto di Messina (di cui ci racconta in un altro passo) sia da imputare al comune effetto “rovinoso” dei due tipi di attrezzature usate (le “bilancelle” a Portovenere, la “palimadàra” nello Stretto) o non piuttosto a una diretta influenza culturale siciliana, magari per essere le due pescagioni (se pure di pesce diverso) realizzate dalla stessa comunità di pescatori...

La lettura antropologica della Piccioli vede il paesaggio come spazio vitale, territorio abitato, oggetto di rapporti mutevoli nel tempo da parte dei fruitori – lettura, la sua, che mi sembra accordarsi con presupposti teorici che vedono nell’ambiente un campo esperienziale fatto di rapporti strettissimi, testimoniati e formalizzati non solo nella produzione letteraria ma anche e soprattutto nella situazione sociale e nella cultura materiale: ed ecco le pagine dedicate dalla Piccioli alla “svolta sociale irreversibile”, segnata dall’Arsenale, che “mutò la fisionomia stessa del Golfo” (p. 173) e quelle, appassionate, in cui la ricercatrice s’interroga sull’applicabilità al Golfo e alle sue comunità costiere di una “possibile antropologia del mare” che tenga conto di quanto è ancora attivo o ricostruibile attraverso la memoria e la testimonianza, ma anche della “perdita, nella memoria collettiva, di tanti dati cancellati dalle trasformazioni sociali”, e cioè di come “la storia abbia già operato il suo processo di selezione, “fatto più di dimenticanze che di ricordo” (p. 177).

In questo libro la pluralità di voci è data non solo dall’alto numero dei saggisti (dei quali tutti non posso purtroppo riferire per mancanza di spazio editoriale), ma soprattutto dalla ricca tessitura di citazioni e riferimenti, in un assieparsi fittissimo di scritti e testimonianze riportate, tra molteplici rilevamenti del territorio “reale” (nelle sue varie ipostasi e nei suoi cambiamenti), e molteplici astrazioni, invenzioni e fantasie, sia letterarie che anche di tipo tecnico-scientifico, come ad es. i piani urbanistici ottocenteschi della città della Spezia, rimasti sulla carta e proprio per questo appartenenti di diritto a un virtuale capitolo sull’immaginario suscitato dai luoghi dello Spezzino.

Di cartografia e non solo parla Massimo Quaini nel GOLFO DI CARTA (pp. 17-44), mostrandoci come la geografia sia diventata una branca del sapere interdisciplinare per eccellenza; e, a conferma e rafforzo delle qualità narrative dei nuovi studiosi di geografia, Luisa Rossi, nel suo appassionante SAGGIO PAESAGGI E MEMORIA (pp. 45-76), ricostruisce del Golfo una mappa insieme reale (quella delle ricognizioni in loco) e utopica (quella dei progetti degli ingegneri napoleonici).

Le pagine dedicate da Luisa Rossi alle reconnaissances francesi del Golfo spezzino sono una narrazione suscitatrice di brividi quasi sensuali, perché in essa il corpo fisico del territorio pare risvegliarsi sotto gli occhi, i passi, le misurazioni, i sopralluoghi, nei rapporti scritti e anche nelle progettazioni utopiche (quindi : le fantasie) dei vari incaricati, ingegneri-prefetti-naturalisti (Rolland, Chabrol, Le Père, Delmas, Viviani).

E che dire del mondo acquoreo inimmaginabile, un vero locus amoenus, evocato nelle pagine dedicate dalla Rossi a polle, sprugole, canali, corsi d’acqua carsici, acque termali dalle favolose proprietà terapeutiche o teratologiche, torrenti e quant’altro presenti un tempo nelle terre del Golfo? Uno stupore, per il lettore che non sapeva di questa ricchezza: stupore grande superato in grandezza soltanto dal dispiacere per la vicenda che la studiosa ci racconta di acque deviate, coperte, cementificate, essiccate, insomma… scomparse!

A tale proposito vorrei citare due passi da un mio lavoro in corso, a prova di quanto famosa anche internazionalmente fosse nell’’800 la polla più importante dello scenario acquoreo tratteggiato da Luisa Rossi. In un testo del 1833, riferendo al triste destino di Shelley, l’inglese W. Brockedon parla del territorio spezzino e della polla: “Una sorgente d’acqua dolce sgorga nel mezzo del golfo”. Cinque anni più tardi, lo stesso viaggiatore ce ne dà una descrizione più dettagliata:

“Vicino a Spezia c’è un interessante fenomeno che vale una visita: la vasta sorgente d’acqua dolce chiamata ‘Alfa Sana’ che sgorga nella baia, a circa un miglio dalla città: a mare liscio la forza della sua velocità di debito provoca un visibile innalzamento del livello dell’acqua circostante: sulla superficie l’acqua è leggermente salata, ma presa a qualche piede di profondità è perfettamente dolce. Le acque di questa immensa sorgente sgorgano da una profondità di 120 piedi” [2].

Molteplici sono le osservazioni che si potrebbero fare sotto l’influsso e lo stimolo di questo bel lavoro di gruppo. Concludendo, mi piace contribuire a questo “divano” ligustico riportando un passo dei DIARI DI VIAGGIO di Hans Christian Andersen relativo a uno dei passaggi in Liguria in occasione dei suoi grand tours del 1833, 1846 e 1861 . È nel viaggio del 1833, dal 2 al 3 ottobre, che Andersen annotò il transito per la costa di Levante, e in particolare nei luoghi dello Spezzino:

“[…] Arrivati a Borghetta, [3] […] si incominciarono a vedere donne che portavano sulla testa veli bianchi grandi come grembiuli. […] Avvicinandoci al golfo di Spezia, scorgemmo delle belle montagne azzurre vicine al mare; la valle era così immensamente fertile! sembrava una cornucopia stracolma; le viti pendevano intorno agli alberi rigogliosi, aranci e ulivi si intrecciavano a formare un groviglio vegetale. - Le colline tedesche coltivate a vite sono cosparse di esili stecchi, qui invece i tralci pendevano a ghirlanda da un albero all’altro, stracolmi di grappoli; fossati, cime d’alberi, tutto era come invaso e sovraccarico d’uva” [4].

I fazzoletti bianchi sono al Museo Etnografico della Spezia ed è non poco emozionante trovarli menzionati negli scritti di uno dei più grandi scrittori dell’Ottocento e di tutti i tempi, la cui fantasia è stata evidentemente colpita, oltre che dallo scenario naturalistico - assolutamente impareggiabile per un danese non avvezzo alla compresenza simultanea di montagne-mare-frutteti-uliveti-vigneti - anche da un dato “stravagante” di cultura materiale.


NOTE

[1] Del rapporto di Bertolani col mare, si veda, su “Carte allineate”, P. Polito, IL MARE IN PAOLO BERTOLANI, 1-7-2007.

[2] Traduzioni di P. Polito.

[3] Borghetto Vara.

[4] Traduzione di P. Polito e L. Waage Petersen. Cfr. L. Waage Petersen, I PASSAGGI PER LA LIGURIA DI HANS CHRISTIAN ANDERSEN NELLE PAGINE DEI SUOI DIARI, in SENTIERI LIGURI PER VIAGGIATORI NORDICI. STUDI INTERCULTURALI SULLA LIGURIA, a cura di P. Polito, Firenze, Olschki, 2008, p. 262.


[Paola Polito]