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INDICE ALFABETICO / INDEX
Le voci elencate qui sotto senza il nome dell'autore sono state scritte da Roberto Bertoni. Foto di Marzia Poerio / Entries listed below without the name of the author were written by Roberto Bertoni. Pictures by Marzia Poerio.
- CHAN, Peter, COMRADES: ALMOST A LOVE STORY. Storie di film di Renato PERSÒLI, 1-6-09.
- CONA, Cristina, TRADUZIONE E SEDIZIONE. Riflessioni, 11-6-09.
- ERMINI, Flavio, L’ORIGINARIA CONTESA TRA L’ARCO E LA VITA. NARRAZIONI DEL PRINCIPIO. Note di lettura di Rosa PIERNO, 7-6-09.
- FERGUSON, Niall, EMPIRE. Note di lettura, 21-6-09.
- GARDEN AND COSMOS: THE ROYAL PAINTINGS OF JODHPUR. Storie di immagini di Renato PERSÒLI, 3-6-09.
- HARDY, Thomas, THE MAYOR OF CASTERBRIDGE. Riletture, 17-6-09.
- KRISHNAMURTI, SULL'AMORE E LA SOLITUDINE. Note di lettura, 27-6-09.
- LECIS, Vindice, TOGLIATTI DEVE MORIRE. Note di lettura, 29-6-09.
- McDONAGH, Martin, IN BRUGES. Storie di film di Renato PERSÒLI, 15-6-09.
- MATTEI, Piera, CHICAGO. Testi, 25-6-09.
- MOORE, Alan e O'NEILL, Kevin, THE LEAGUE OF EXTRAORDINARY GENTLEMEN. Storie di immagini di Renato PERSÒLI, 23-6-09.
- PIZZI, Marina, “IN UNO STERPIGNO DI PASSI SI RECIDE” E ALTRO. Testi, 9-6-09.
- RAGNOLI, Gian Paolo, VOI. Testi, 13-6-09.
- SICA, Gabriella, LE LACRIME DELLE COSE. Note di lettura di Piera MATTEI, 5-6-09.
Rivista in rete di scritti sotto le 2.200 parole: recensioni, testi narrativi, poesie, saggi. Invia commenti e contributi a cartallineate@gmail.com. / This on-line journal includes texts below 2,200 words: reviews, narrative texts, poems and essays. Send comments and contributions to cartallineate@gmail.com.
A cura di / Ed. Roberto Bertoni.
Address (place of publication): Italian Dept, Trinity College, Dublin 2, Ireland. Tel. 087 719 8225.
ISSN 2009-7123
30/06/09
29/06/09
Vindice Lecis, TOGLIATTI DEVE MORIRE
[Mourning statue (From a garden in San Biagio dela Cima). Foto di Marzia Poerio]
Vindice Lecis, TOGLIATTI DEVE MORIRE. IL LUGLIO ROSSO DELLA DEMOCRAZIA. Prefazione di Oliviero Diliberto. Roma, Robin, 2005.
Antonio Sanna, funzionario del PCI, partecipa ai giorni dell'attentato di Togliatti nel 1948 sia negli aspetti pubblici di manifestazioni che potevano degenerare e vennero invece tenute nell'ambito democratico, sia a una trama di servizi segreti consistente nel tentativo degli Stati Uniti di gonfiare l'episodio per facilitare ulteriormente l'emergenza della DC come partito di maggioranza assoluta, sia nell'operato dei servizi della Jugoslavia che mettono sull'avviso Sanna di quanto si va preparando, compresa la presunta volontà americana di respingere i risultati del voto qualora avesse prevalso il Fronte Popolare (il che non successe, i democristiani ottennero la maggioranza).
I dibattiti e i linguaggi dell'epoca, le polemiche tra i militanti comunisti, le due linee del partito comunista (quella prudente di Togliatti e quella movimentista), le ipotesi che l'attentatore Pallante avesse dietro di sé dei mandanti e non fosse uno squilibrato che aveva agito in isolamento vengono riferite con concisione e chiarezza.
La linearità è un pregio in questa narrativa (romanzo? sequenza documentaria? thriller?, forse tutte queste cose insieme), in quanto consente una narrazione decisa e ben marcata, condotta nel presente indicativo in terza persona col discorso libero indiretto e i dialoghi del personaggio Sanna che comunica con altri protagonista storicamente esistiti e no.
Il clima storico restituito con battute brevi e stentoree:
"Il clima politico sembra davvero prossimo alla guerra civile, la campagna elettorale tra il Fronte Popolare e i partiti di centro e di destra è candita da un pesantissimo stillicidio di accuse, attacchi, insinuazioni personali. De Gasperi, gli Usa e il Vaticano con i suoi parroci e i suoi comitati civici evocano la paura dell'invasione sovietica e dipingono Togliatti come un 'agente di Mosca, pronto a consegnare le chiavi d'Italia a Stalin. Tra i gruppi cattolici girano molte armi e gli ex repubbichini operano in speciali gruppi ufficialmente clandestini, ma in realtà protetti dalle autorità di ogni livello. Comunisti e socialisti rispondono colpo su colpo, denunciando la fragilità della democrazia italiana e l'attacco alla Costituzione promulgata da meno i due mesi. Temono che le conquiste della Resistenza si frantumino come cristallo e che il padronato torni a dettar legge. È una guerra senza esclusione di colpi" (p. 59).
Breve come in Sciascia, paratattico come un resoconto informativo, c'è spazio per le note politiche e per l'azione, meno per l'introspezione.
[Roberto Bertoni]
27/06/09
Krishnamurti, SULL'AMORE E LA SOLITUDINE
[Flowers among the thorns. Foto di Marzia Poerio]
La metodologia di Krishnamurti, in SULL'AMORE E LA SOLITUDINE (Roma, Astrolabio e Ubaldini, 1996), è quella di slogamento mentale, di scardinamento delle convinzioni incancrenitesi e basate su pregiudizi creati da rapporti precedenti che si siano abuti avuti con gli altri o coi pensieri; si tratta, sembrerebbe, di ricominciare a pensare alle questioni, alle problematiche, in modo nuovo e originale, senza preconcetti: “dobbiamo morire giorno per giorno a tutte le cose che abbiamo accumulato psicologicamente” (p. 65).
Un altro elemento è il discorso che fa sull’osservatore e l’osservato. Un dolore, poniamo, che si sente dentro di noi. Vederlo come non solo noi che soffriamo, ma noi stessi che siamo quel dolore e la causa di quel dolore.
Domandarsi infine che cosa sia un’afflizione, un’emozione negativa; capire dove e come è dentro di noi; non come l’altro ci ferisce, ma come la ferita è dentro di noi, è noi. Per esempio che cos’è la solitudine? Immediatamente collegato: perché hai paura della solitudine? Bisogna capire cosa provoca il senso di solitudine in noi; e a quel punto esso scompare.
“[…] una persona ha paura della solitudine, paura del dolore della solitudine. Questa paura deriva certamente dal non avere mai guardato davvero la solitudine, non essere mai stati in totale comunione con essa. Se siamo totalmente aperti alla realtà della solitudine, possiamo arrivare a conoscerla” (p. 43).
In concomitanza, c’è il meccanismo secondo il quale “c’è un’osservazione vera, ed è quello in cui l’osservatore è assente, in cui c’è solo osservazione” (p. 67).
Scrive:
“Se non avete risolto definitivamente il senso di solitudine, tutti i vostri rapporti non saranno che fughe e finiranno nella corruzione, nel dolore. Come si può conoscere questa solitudine, questo senso di totale isolamento? Per conoscerlo occorre esaminare la nostra vita. Ogni vostra azione, non è forse rivolta a vantaggio dell’io?” (p. 67).
“La solitudine è l’ultimo stadio del processo di autoisolamento. Più siete centrati sull’io e più siete isolati: l’egoismo è il processo stesso dell’isolamento” (p. 50).
La solitudine può essere sconfitta se non la si fugge o non si cerca di combatterla evadendo, buttandosi in attività sostitutive. Per sconfiggerla va compresa: “e non potremo capirla se non la guardiamo in faccia, se non la osserviamo direttamente” (p. 49).
“Non ci può essere creatività” (e dunque soluzione dei problemi afflittivi) “finché non avremo compreso la manchevolezza interiore che è la causa della paura” (p. 50).
[Roberto Bertoni]
25/06/09
Piera Mattei, CHICAGO
IINSETTI - MAMMIFERI - UCCELLI
Alitalia volo AZ 702
14 miglia lontana la Terra
D’evidenza mi colpisce che tu
– figlia mia – e io
siamo insetti che succhiando
nettare voliamo intorno a una realtà
umida – fiore verde dal cuore
succulento – che ci costringe
a nutrirci là
dove posiamo
e riposiamo.
Lo so – lo sai, siamo tuttavia
mammiferi, nel cuore affetto
di cane, eleganza di capra disegnata
sulla pelle, animali che non
amano, detestano volare.
Appoggiano, anche con levità ditigrada
le zampe fiduciose alla Terra.
Ti guardo nel profilo disegnato
da sopracciglia serie e lo vedo
che siamo che sei uccello
sul ramo più alto a chiamare,
la testa e il collo protesi.
NOTTURNO IN CAMERA D’ALBERGO
Mettilo sulla pagina e vedrai
a cosa mai somiglia:
se a un cuore
che – fuor di metafora – è trafitto
oppure a freccia che dritta tagli
l’aria, all’innalzarsi di un progetto
teso con l’eleganza della forza.
Come abbraccio di polvere un pianto
rauco ti ha tolto il respiro
e si convoglia adesso brontolando
nero nel corpo opaco.
Di fuori è buio perché c’è la notte.
Sotto il buio la vita rimane
intenta dentro i suoi colori
bisbiglia e sbadiglia,
si stende già verso il giorno.
PULSAZIONI CARDIACHE
Appoggio pollice e medio alla vena
del polso e ascolto il cuore della Terra
battere robusto dalle parti di Chicago,
dal lato Sud dell’enorme Lago, un mare
non fossero le onde disordinate
dai venti di un immenso Nord.
Batte lì il cuore della Terra
col richiamo di uccelli equilibristi
sul ramo più alto e meno frondoso
di frondosi altissimi alberi,
nel ritmo di cicale che
con accordi diversi dalle nostre cicale
senza la spalancata
nota ironia cantano
assidue dentro le siepi il caldo
intenso ma breve della pianura.
Ora però – lo senti – dà ritmo
a un disteso respiro, immette
aria di nuovi mondi negli alveoli
dei miei polmoni e dispone
tutti i minuti muscoli del viso
– gli occhi la fronte le labbra –
allo sguardo e al sorriso.
Nota
Il poemetto CHICAGO sarà parte del prossimo libro di Piera Mattei, L'EQUAZIONE E LA NUVOLA.
Alitalia volo AZ 702
14 miglia lontana la Terra
D’evidenza mi colpisce che tu
– figlia mia – e io
siamo insetti che succhiando
nettare voliamo intorno a una realtà
umida – fiore verde dal cuore
succulento – che ci costringe
a nutrirci là
dove posiamo
e riposiamo.
Lo so – lo sai, siamo tuttavia
mammiferi, nel cuore affetto
di cane, eleganza di capra disegnata
sulla pelle, animali che non
amano, detestano volare.
Appoggiano, anche con levità ditigrada
le zampe fiduciose alla Terra.
Ti guardo nel profilo disegnato
da sopracciglia serie e lo vedo
che siamo che sei uccello
sul ramo più alto a chiamare,
la testa e il collo protesi.
NOTTURNO IN CAMERA D’ALBERGO
Mettilo sulla pagina e vedrai
a cosa mai somiglia:
se a un cuore
che – fuor di metafora – è trafitto
oppure a freccia che dritta tagli
l’aria, all’innalzarsi di un progetto
teso con l’eleganza della forza.
Come abbraccio di polvere un pianto
rauco ti ha tolto il respiro
e si convoglia adesso brontolando
nero nel corpo opaco.
Di fuori è buio perché c’è la notte.
Sotto il buio la vita rimane
intenta dentro i suoi colori
bisbiglia e sbadiglia,
si stende già verso il giorno.
PULSAZIONI CARDIACHE
Appoggio pollice e medio alla vena
del polso e ascolto il cuore della Terra
battere robusto dalle parti di Chicago,
dal lato Sud dell’enorme Lago, un mare
non fossero le onde disordinate
dai venti di un immenso Nord.
Batte lì il cuore della Terra
col richiamo di uccelli equilibristi
sul ramo più alto e meno frondoso
di frondosi altissimi alberi,
nel ritmo di cicale che
con accordi diversi dalle nostre cicale
senza la spalancata
nota ironia cantano
assidue dentro le siepi il caldo
intenso ma breve della pianura.
Ora però – lo senti – dà ritmo
a un disteso respiro, immette
aria di nuovi mondi negli alveoli
dei miei polmoni e dispone
tutti i minuti muscoli del viso
– gli occhi la fronte le labbra –
allo sguardo e al sorriso.
Nota
Il poemetto CHICAGO sarà parte del prossimo libro di Piera Mattei, L'EQUAZIONE E LA NUVOLA.
23/06/09
Alan Moore e Kevin O'Neill, THE LEAGUE OF EXTRAORDINARY GENTLEMEN
[Three metal horses (London, 2009). Foto di Marzia Poerio]
Alan Moore e Kevin O'Neill, THE LEAGUE OF EXTRAORDINARY GENTLEMEN. Vol. 1, Londra, Titan, 2000
Antonia Byatt, Daniel Mason, Sarah Waters, tra altri, hanno dedicato romanzi di qualità all'Inghilterra vittoriana, con una lettura in parte decostruttiva, nevrotica, degli interstizi del conscio e dell'inconscio collettivo, il che non stupirà non solo perché si tratta di uno dei periodi storicamente più floridi dell'Inghilterra, ma anche per la produzione letteraria di quel periodo, da cui provengono tanto Carroll quanto Dickens, il lato solare e i lati più oscuri, nonché vari personaggi del romanzo popolare.
Sono questi ultimi, assieme a un fantomatico agente segreto Campion Bond, i protagonisti del romanzo illustrato da O'Neill con testo di Moore e ambientato appunto nell'Inghilterra vittoriana, nell'anno 1898: Mina Harker (Murray) proveniente dal Dracula di B. Stoker, il Capitano Nemo di J. Verne, l'avventuriero Allan Quatermaine tratto dai romanzi di H.R. Haggard's, l'uomo invisibile ideato da H.G. Wells, il Dr Jekyll alias Mr Hyde di R.L. Stevenson, Moriarty e Holmes (quest'ultimo in absentia) di C. Doyle.
Non solo la scelta dei personaggi, ma anche il linguaggio adoperato, è letterario e ripercorre gli schemi di parola e alcuni stilemi e frasi colloquiali dell'epoca, in un inglese leggibile e netto.
La cerchia intertestuale dei personaggi in parte rispetta i modelli, esagerando, come è appropriato in un fumetto, certi loro tratti: così la severità da istitutrice e insegnante di buone maniere di Mina (che ha qui divorziato da Harker, riassumendo il cognome da single, e porta una sciarpina intorno al collo senza rivelare il perché, ma il lettore di Stoker sa ad ogni modo che è stata morsa diverse volte da Dracula ed è comprensibile che in questa storia non ne voglia parlare…).
Siamo in un mondo di doppi già nei nomi dei personaggi, ma tanto più essi si delineano come combattuti tra opposte tendenze. Moriarty, in particolare, è alle dipendenze del servizio segreto; e commenta in effetti il suo doppio ruolo con il suo aiutante Bond: "Il servizio segreto mi ha creato, mi hanno assunto fin dai tempi dell'università"; e si domanda: "dirigo un servizio di spionaggio recitando la parte del malvivente, o al contrario sono un malvivente che posa da dirigente dei servizi?"
Forse entrambe le cose, più probabilmente, nel dipanarsi delle vicende, una spia che sgominando il potente avversario e capomafia cinese che domina sull'Est di Londra, diventerà più potente. Per conseguire il suo scopo incarica, senza che sappiano di essere sul suo libro paga, i personaggi di cui sopra, affinché rubino al cinese la cavorite (il minerale antigravità del romanzo First Men in the Moon di Wells), con cui, costruito un ordigno volante, si avventerà sul nemico. I nostri eroi scoprono il complotto e lo sventano.
C'è una connotazione moderna, naturalmente, in questi redivivi dei romanzi ottocenteschi; e si manifesta nel loro agire insieme come i supereroi del cinema attuale, in certi momenti di violenza con spargimento di sangue e in altri aspetti dell'intreccio.
Le illustrazioni sono dettagliate e ben eseguite, con colori pieni, di tipo piuttosto georgiano, ricordano i pastelli accesi delle pareti delle case inglesi di quel tempo. Primi piani non infrequenti, infine, e notti londinesi con il blu e il grigio.
Abbiamo letto volentieri questa storia, cui hanno fatto seguito altre due puntate prima che gli autori decidessero di passare ad altro. Frattanto ne è stato tratto un film con Sean Connery tra gli altri protagonisti...
[Renato Persòli]
21/06/09
19/06/09
Niall Ferguson, EMPIRE
[It was empire. It is just art, or even tourism. (Entrance desk at the British Museum). Foto di Marzia Poerio]
Niall Ferguson, EMPIRE. HOW BRITAIN MADE THE MODERN WORLD. Londra, Penguin, 2003
Ferguson tende a determinare effetti positivi dell'impero britannico, soprattutto la diffusione dell'inglese e di elementi di liberoscambismo, nonché opere di modernizzazione e infrastruttura nei paesi dominati. Meno accentuata, nelle conclusioni, l'idea di dominio e il fatto che l'impero britannico si formò eliminando l'indipendenza degli stati conquistati.
Detto questo, che costituisce una perplessità ideologica dello scrivente rispetto alle convinzioni di Ferguson, va però notato come la narrazione degli eventi, la scelta degli episodi e delle dinamiche salienti, il quadro descritto siano svolti con equilibrio; e con condanna della violazione dei diritti umani, soprattutto nelle pagine sullo schiavismo e sull'ammutinamento di Lucknow nel 1857.
La trattazione procede per tematiche e allo stesso tempo per sequenze cronologiche, così si hanno sei capitoli.
Il primo capitolo si domanda perché fu proprio la Gran Bretagna a dominare il mondo costruendo l'impero maggiore della storia, una domanda che resta senza risposta forse inevitabilmente, ma pone le basi economiche e politiche per la conquista dei mari come premessa alla conquista dei continenti.
Il secondo capitolo, WHITE PLAGUE, è principalmente sulla colonizzazione e la perdita degli Stati Uniti.
Il terzo affronta, con interessanti elementi anche biografici, la colonizzazione religiosa; il conflitto con pratiche di diverse credenze nei paesi dominati, soprattutto in India; e l'operato di Linvingstone e Stanley in Africa.
Il quarto capitolo esamina la dominazione dell'India, l'organizzazione di quella parte del mondo, la presenza militare inglese relativamente bassa numericamente, ma evoluta tecnologicamente soprattutto tramite la marina da guerra nell'Ottocento.
Gli ultimi due capitoli si spingono verso la prima guerra mondiale, poi nella seconda, con la disfatta di Singapore, infine la vittoria bellica, ma la smobilitazione dell'impero dovuta prevalentemente all'impossibilità di mantenerne i costi in presenza di movimenti indipendentisti e mentre emergeva il nuovo modello imperialista di dominazione globale, tramite la prevalenza economica, degli Stati Uniti, tuttora esistente.
Un libro documentato, interessante, agilmente leggibile, scritto da uno storico di Harvard e Oxford che fornisce un quadro della globalizazione precedente a quella attuale e vede la storia del mondo moderno con la prospettiva dell’Oriente e dell’Africa rispetto all’Occidente.
[Roberto Bertoni]
17/06/09
Thomas Hardy, THE MAYOR OF CASTERBRIDGE
["Life is a maze of rambling stones". Foto di Marzia Poerio]
Pubblicato nel 1886, THE MAYOR OF CASTERBRIDGE sfidava le convenzioni, ma non al punto di risultare ostico al pubblico vittoriano come altri romanzi di Hardy, ebbe anzi un successo immediato; rappresenta una riflessione sul fato e sulle scelte di vita; delinea personaggi scossi dalle difficoltà e avversità delle relazioni interpersonali e della società in cui si trovano; registra nel dettaglio la vita rurale dell’Inghilterra sud-occidentale (il Wessex che l’autore scelse come nome per quella parte dell’isola, richiamandosi a una denominazione alto-medievale), tramite i mestieri, la descrizione degli ambienti, la vita materiale, il linguaggio, qui con un versante realista; mentre romantico è il crinale dei sentimenti dei protagonisti; infine esistenziale il rapporto col destino.
Si richiama brevemente l’intreccio. Michael Henchard vende all’asta la moglie Susan e la figlia in un momento di ubriachezza a un navigante, Newson. Susan lo segue, ritenendo ingenuamente che la vendita sia legale; e vive con lui per anni, cercata invano da Henchard, il quale giura di astenersi dall’alcol per ventun anni a fine di espiazione e diviene da imballatore di fieno commerciante di grano e sindaco di Casterbridge. Diciotto anni dopo l’episodio iniziale, ad opera del fato che muove gli eventi umani e la storia di questo romanzo, compaiono simultanemente a Casterbridge uno scozzese, Donald Farfrae (che insegna a Henchard a migliorare la qualità del suo grano e viene persuaso a restare alle sue dipendenze invece di emigrare oltremare come voleva inizialmente) e Susan con la figlia Elisabeth Jane. Incanalata da vicende parallele a quella principale, ma in nessun modo secondaria, anzi serrata con questa da ora in poi, si manifesta la chiusura di una storia segreta di Henchard con Lucette, una giovane originaria delle isole della Manica. Henchard risposa Susan (per evitare, ammettendo che era sua moglie, di rivelare il proprio passato al paese) e accoglie assieme a lei Elisabeth Jane, ritenendola la propria figlia e trattandola con affetto paterno fino al giorno della morte di Susan, in cui, poche ore dopo averla adottata, viene a sapere da una lettera lasciata da Susan trattarsi non della propria figlia (deceduta anni prima), bensì di quella di Newson, dal che scaturiscono un cambiamento di atteggiamento di Henchard nei confronti di Elisabeth Jane e la sofferenza di lei per la mancanza di affetto, che non sa spiegarsi, da parte di colui che ritiene suo padre. Nel frattempo Farfrae, pur restando leale nei confronti di Henchard, ma sottosposto all’invidia di quest’ultimo per il successo commerciale che comincia a avere, dopo un rovescio economico di Henchard, sale nella scala sociale, diviene sindaco, sposa Lucetta (la quale dopo la morte di Susan si era promessa a Henchard). È venuta in luce anche la vecchia storia della vendita di Susan. Henchard, ormai rovinato economicamente, cade anche socialmente, tornando all’antico e povero mestiere. Gli resta la sola consolazione dell’affetto di Elisabeth Jane, con cui si riconcilia, ma ecco ricomparire Newson che, non morto come si pensava, si era dato per scomparso al fine di permettere a Susan, quando costei si era resa conto di non poter esser legalmente venduta a un altro, di tornare dal marito legittimo. Dapprima Henchard, per mantenere l’affetto della figlia adottiva, nasconde a figlia e padre l’esistenza l’uno dell’altra, ma alla fine Newson scopre la verità. Henchard se ne va. Farfrae sposa Elisabeth Jane. Henchard muore, lasciando un testamento autopunitivo, da quel “self-alienated man”, come lo definisce Hardy, che era stato.
Abilità del narratore di riuscire, in questo romanzo di forte immedesimazione, a creare simpatia per Henchard, un personaggio che commette errori gravi, riesce in parte a riparare, è offuscato dalla rivalità e dalla difficoltà al compromesso e alla trattativa, è destinato alla solitudine e all’infelicità. Misurata e capace di vivere con equilibrio le avversità, e costante negli affetti, Elisabeth Jane. Meno stagliato, ma delineato con precisione anche Farfrae. Volubile per le circostanze che l’avvolgono, forse, più che per volontà, Lucette. Semplice e stabile Susan.
Sul piano letterario, è un classico quasi fin dall’inizio; e tale è restato.
Sul piano delle idee che esprime e dei contenuti sociali ed esistenziali, è in grado di parlare non solo per la distanza contemporanea da una ruralità scomparsa e per questo vista con nostalgia e desiderio mitizzante, ma per la casualità della vita accompagnata dalla difficoltà a dominare gli eventi con la conseguente caduta nell’errore, fino all’autodistruzione. Sopravvive con serenità chi accetta le cose; e come Elisabeth Jane si accontenta di essere.
[Roberto Bertoni]
15/06/09
Martin McDonagh, IN BRUGES
[Escape from the roofs. (Tintin mural from the walls of Brussels). Foto di Marzia Poerio]
2008. Con Elisabeth Berrington, Colin Farrell, Brendan Gleeson, Ralph Fiennes, Ciarán Hinds, Željko Ivanek, Anna Madeley, Jordan Prentice, Thekla Reuten, Jérémie Renier
A un certo punto dovevamo andare a Bruges; invece la gita in questa città è stata rimandata tanto che non si è svolta; e l’abbiamo visitata guardando un film di qualità, IN BRUGES, appunto.
Il regista, l’irlandese Martin McDonagh, è autore teatrale oltre che regista cinematografico. Non stupirà dunque trovare un film in parte articolato sull’importanza dei dialoghi tra i due protagonisti principali, oltre che sui riconoscimenti, i mutamenti di prospettiva e le coincidenze della commedia shakespeariana, ma soprattutto in parte basato su THE DUMB WAITER (1957), un’opera drammatica di Harold Pinter, in cui due interlocutori parlano fino a quando uno dei due non riceve l’ordine, si intuisce, di uccidere l’altro, sul che in Pinter si chiude la scena, mentre in McDonagh la situazione continua.
Nel film di McDonagh, l’ordine è stato dato da Harry, un capobanda irascibile e dotato di un senso dell’onore piuttosto distorto (l’attore Ralph Fiennes), per punire Ray, il killer alle sue dipendenze e alla prime armi (l’attore Colin Farrell), che insieme al prete cui doveva sparare ha accidentalmente ucciso, in chiesa, anche un bambino. Dopo aver inviato a Bruges a nascondersi Ray e il suo compagno d’armi Ken (Brendan Gleeson), una telefonata di Harry a Ken spiega il vero scopo della visita, l’omicidio punitivo, appunto, aggiungendo che la visita a Bruges era stata organizzata per dare a Ray un bel ricordo (di una città magnifica) prima di morire, riguardo non esattamente apprezzato da Ray, cui Bruges non potrebbe piacere di meno. Ken non uccide Ray, anzi lo aiuta a fuggire, ma a causa di una rissa cui aveva partecipato, Ray è costretto a tornare a Bruges, dove la partita tra i tre malviventi si risolve in un finale movimentato.
Naturalmente non insistiamo oltre sulla trama per chi non avesse ancora visto questa pellicola ben filmata e che intreccia tanti diversi elementi.
Oltre al noir, c’è un approccio psicologico ai personaggi, che da un lato sono privi di scrupoli come detta la loro professione; dall’altro Ken ha una compitezza e un senso etico che contrastano con la rudezza del lavoro che svolge, Ray è oppresso dal senso di colpa e ha tendenze suicide, Harry in contrasto con la sua violenza ha una famiglia armoniosa.
L’ironia (black humour ben svolto) attenua l’efferatezza dei fatti.
C’è un sottotesto con un’avventura sentimentale.
C’è un film nel film (una pellicola girata tra le nebbie di Bruges e contenente un sogno).
Il lirismo delle immagini della città fiamminga contrasta, ma forse meglio va di pari passo, con la visitazione di chiese consacrate e di postriboli, con la presenza umana di gente comune e onesta (la proprietaria della pensione) e microdelinquenza e spaccio di droga.
È un film che ha giustamente ricevuto critiche positive e riconoscimenti [1].
Note
[1] Parte della critica è a: In Bruges / recensioni. Cfr. anche Wikipedia / In Bruges.
[Renato Persòli]
13/06/09
Gian Paolo Ragnoli, VOI
"A voi io penso sempre. Penso alla mia
infinita mancanza.
Cos'altro ho avuto in testa,
tutta la vita?
Lo so, non ci sarete
mai abbastanza".
[Umberto Fiori]
VOI
Penso spesso a voi. A volte
mi pare possibile addirittura
ricordare l'esatta composizione dei cordoni,
la fila dei volti, tutti i nomi, le storie.
Quel giorno che mi ricordo oggi
la primavera aveva un altro odore,
le leggi di natura, le mura dei castelli
parevano pronte a piegarsi al desiderio.
Il desiderio, quello che non è un tram, scherzavo
ma fosse stato un tram sarebbe ripassato.
Qui, alla fermata, il tempo è come appeso,
le angosce del presente son lontane,
all'edicola scorgo come sempre
tre quotidiani comunisti.
"Col caffé alla mattina" avevo scritto
un altro giorno in cui pensavo a voi.
[Gian Paolo Ragnoli]
Leggendo i versi di Umberto Fiori citati all'inizio, tratti dal suo ultimo libro, VOI (Milano, Mondadori, 2009), questo testo si é praticamente scritto da solo. La poesia di Umberto mi ha riportato improvvisamente a quel tempo, lontano, in cui si potevano ancora pronunciare parole come "voi" e "noi".
Per chi non avesse dimestichezza col bizzarro lessico di quegli anni, "cordoni" definiva le file di persone che si susseguivano lungo il corteo, in maniera più o meno ordinata, a seconda dell'indole dei manifestanti.
La frase (il verso?) "Tre quotidiani comunisti col caffé alla mattina" viene da un mio testo precedente, QUELLO CHE RESTA DENTRO E FUORI DI NOI, che si può leggere sul numero 5 di "Carte Allineate", maggio 2007.
[g.p.r.]
infinita mancanza.
Cos'altro ho avuto in testa,
tutta la vita?
Lo so, non ci sarete
mai abbastanza".
[Umberto Fiori]
VOI
Penso spesso a voi. A volte
mi pare possibile addirittura
ricordare l'esatta composizione dei cordoni,
la fila dei volti, tutti i nomi, le storie.
Quel giorno che mi ricordo oggi
la primavera aveva un altro odore,
le leggi di natura, le mura dei castelli
parevano pronte a piegarsi al desiderio.
Il desiderio, quello che non è un tram, scherzavo
ma fosse stato un tram sarebbe ripassato.
Qui, alla fermata, il tempo è come appeso,
le angosce del presente son lontane,
all'edicola scorgo come sempre
tre quotidiani comunisti.
"Col caffé alla mattina" avevo scritto
un altro giorno in cui pensavo a voi.
[Gian Paolo Ragnoli]
Leggendo i versi di Umberto Fiori citati all'inizio, tratti dal suo ultimo libro, VOI (Milano, Mondadori, 2009), questo testo si é praticamente scritto da solo. La poesia di Umberto mi ha riportato improvvisamente a quel tempo, lontano, in cui si potevano ancora pronunciare parole come "voi" e "noi".
Per chi non avesse dimestichezza col bizzarro lessico di quegli anni, "cordoni" definiva le file di persone che si susseguivano lungo il corteo, in maniera più o meno ordinata, a seconda dell'indole dei manifestanti.
La frase (il verso?) "Tre quotidiani comunisti col caffé alla mattina" viene da un mio testo precedente, QUELLO CHE RESTA DENTRO E FUORI DI NOI, che si può leggere sul numero 5 di "Carte Allineate", maggio 2007.
[g.p.r.]
11/06/09
Cristina Cona, TRADUZIONE E SEDIZIONE
Il 1893 rappresenta uno spartiacque nella storia letteraria irlandese: è infatti l’anno di fondazione della Lega Gaelica, avente come obiettivo la difesa e la promozione del gaelico irlandese, e di pubblicazione di LOVE SONGS OF CONNACHT, un’importante antologia di traduzioni ad opera di Douglas Hyde, uno studioso protestante anglo-irlandese tra i principali protagonisti del “Literary Revival” di fine Ottocento che, mezzo secolo più tardi, sarebbe diventato il primo presidente d’Irlanda.
Il libro si inseriva in una lunga e complessa tradizione filologica che nel corso dell’Ottocento aveva prodotto notevoli traduzioni di opere letterarie (soprattutto poesie e ballate) dall’irlandese all’inglese; esso però non si configurò soltanto come un’operazione culturale, di salvaguardia e riproposizione del patrimonio linguistico nazionale, ma anche come espressione della “necessità di deanglicizzare l’Irlanda”, per riprendere il titolo di una famosa conferenza tenuta da Hyde l’anno precedente.
LOVE SONGS OF CONNACHT riuniva testi di prosa, canzoni e poesie del repertorio popolare in lingua irlandese, accompagnati dalla versione inglese; come indicato dal titolo, si trattava soprattutto di poesie d’amore, spesso contrastato e infelice. Fu questo uno dei motivi della sua grande e immediata popolarità soprattutto fra i giovani: in quel fine secolo sempre più le nuove generazioni mettevano in discussione la moralità vittoriana, che trovava una eco particolarmente favorevole nell’emergente classe media cattolica irlandese, decisa a lasciarsi alle spalle la cultura gaelica tradizionale, associata con la povertà e l’inferiorità sociale, e a provare la propria rispettabilità interiorizzando il puritanesimo britannico: tanto che lo stesso movimento per la riconquista della lingua veniva interpretato e vissuto dagli strati più conservatori come “no more than a translation of Victorian values into the Irish language” (Declan. Kiberd).
Nella forza espressiva e nell’intensità emotiva e sensuale di questi poemi, così diverse dal sentimentalismo un po’ stucchevole delle traduzioni dall’irlandese ancora in voga qualche decennio prima, i giovani di questa stessa classe scoprivano la vitalità che aveva caratterizzato l’Irlanda gaelica prima che la carestia di metà secolo spazzasse via la cultura e la lingua che ne erano state tradizionalmente il veicolo; non solo, ma proprio con questo potente appello all’energia e al romanticismo dei suoi lettori (in un contesto più generale segnato dal moltiplicarsi delle rivendicazioni autonomistiche, come il movimento per la “Home Rule”) LOVE SONGS OF CONNACHT agì da catalizzatore per la ricerca di una propria identità culturale e, in ultima analisi, politica. In questo senso le traduzioni di Hyde possono definirsi un atto di sedizione rispetto sia alla morale vittoriana che al dominio britannico in Irlanda: “a transition [...] to translation as an agent of aesthetic and political renewal. Translations no longer simply bore witness to the past; they were to actively shape a future” (Michael Cronin).
L’opera di Hyde costituì inoltre “both a preservation and an innovation” (Richard Fallis), nel senso di salvare dall’oblio una produzione poetica con la quale le nuove generazioni anglofone avrebbero potuto non venire mai in contatto, e di utilizzare per la prima volta una forma linguisticamente e letterariamente credibile di “Hiberno-English”: anziché rendere i testi irlandesi nell’inglese standard, come avevano fatto precedenti generazioni di traduttori, Hyde si servì infatti dell’inglese parlato in Irlanda, il cui vocabolario conteneva (e contiene tuttora) molti termini trasposti dall’irlandese e che utilizzava costruzioni vistosamente calcate sulla sintassi gaelica (ricordiamo che l’irlandese era stato la lingua quotidiana della maggioranza fino ad una o due generazioni prima). Sotto entrambi gli aspetti - conservazione e innovazione - essa fu però segnata sin dall’inizio da un’ambiguità fondamentale e pose forse più problemi di quanti si proponesse di risolvere.
Infatti, se da un lato la traduzione dall’ irlandese serviva egregiamente a dimostrare che anche questa lingua aveva dato vita ad una produzione letteraria di tutto rispetto, e quindi ad innalzarne il prestigio, dall’altro era molto reale il rischio che, mettendo i testi tradotti a disposizione del pubblico anglofono, in un certo senso lo si dispensasse dall’imparare l’irlandese. Sebbene l’intento di Hyde fosse proprio quello di promuovere l’irlandese come lingua viva e parlata (LOVE SONGS OF CONNACHTera stato concepito anche come introduzione al suo apprendimento), e sebbene il libro fosse destinato in futuro ad esercitare un’influenza decisiva sull’evoluzione della letteratura in irlandese, l’effetto ottenuto fu anche quello di conferire plausibilità alla nozione di una letteratura nazionale in inglese, sia pure un inglese “tradotto”, carico di forza poetica, di realismo e di vigore, ben diverso dal “Queen’s English”. Quando W.B. Yeats salutò la pubblicazione delle LOVE SONGS definendole “the coming of a new power into literature”, ci si può chiedere a quale dei due versanti linguistici della letteratura irlandese intendesse riferirsi.
A rafforzare questa ambiguità contribuì anche la scelta della parlata “Hiberno-English”, motivata sia dalle possibilità espressive da essa dimostrate, sia dal suo corrispondere effettivamente (seppur con certe forzature) alla prassi linguistica di molti irlandesi che, pur parlando inglese, pensavano ancora in gaelico (“traducevano” cioè se stessi). Date le differenze rispetto all’inglese standard, essa poteva facilmente presentarsi come idioma specifico dell’Irlanda e sostituirsi così all’irlandese come lingua simbolo dell’identità nazionale, vanificando nei fatti le intenzioni di Hyde e di altri fautori di un’Irlanda gaelica. Si può osservare a questo proposito che i più puristi fra i militanti della Lega Gaelica vedevano con molto sfavore l’uso dell’“Hiberno-English” e sostenevano che occorreva spingere gli irlandesi a parlare sia un irlandese che un inglese standard, non contaminati cioè da influenze dialettali.
Lo stesso “Hiberno-English” ebbe comunque vita effimera: sempre più spesso criticato come ibrido irrealistico e caricaturale a mano a mano che, con il passare delle generazioni, l’inglese d’Irlanda si andò avvicinando allo standard (senza, peraltro, mai “normalizzarsi” del tutto), non sopravvisse alla fase calante del revival letterario che l’aveva messo in auge. In quella breve stagione di gloria riuscì comunque ad affermarsi come lingua veicolare di numerosi capolavori teatrali; valga fra tutti il nome del commediografo John M. Synge, le cui opere, in particolare THE PLAYBOY OF THE WESTERN WORLD, costituiscono un monumento alle possibilità espressive e sovversive di questa sorta di “traduzione nella traduzione”. Di Synge è stato detto: “In him, the 19th century attempts to translate Gaelic into English reach an unexpected apotheosis. English had never been so successfully de-Anglicized”. L’obiettivo di Hyde si era dunque in parte avverato: sia pure con modalità ed esiti molto diversi da quelli originariamente perseguiti.
Fonti:
- D. Kiberd, LOVE SONGS OF CONNACHT, in IRISH CLASSICS, Londra, Granta Books, 2000
- M. Cronin, TRANSLATING IRELAND: TRANSLATION, LANGUAGES, CULTURES, Cork University Press, 1996
- R. Fallis, THE IRISH RENAISSANCE: AN INTRODUCTION TO ANGLO-IRISH LITERATURE, Dublin, Gill & Macmillan, 1977
- S. Deane, A SHORT HISTORY OF IRISH LITERATURE, London, Hutchinson, 1986
- D. Corkery, SYNGE AND ANGLO-IRISH LITERATURE, Cork University Press, 1931
L’articolo, riprodotto col consenso dell’autrice, è apparso in precedenza sulla rivista “Inter@lia”.
Il libro si inseriva in una lunga e complessa tradizione filologica che nel corso dell’Ottocento aveva prodotto notevoli traduzioni di opere letterarie (soprattutto poesie e ballate) dall’irlandese all’inglese; esso però non si configurò soltanto come un’operazione culturale, di salvaguardia e riproposizione del patrimonio linguistico nazionale, ma anche come espressione della “necessità di deanglicizzare l’Irlanda”, per riprendere il titolo di una famosa conferenza tenuta da Hyde l’anno precedente.
LOVE SONGS OF CONNACHT riuniva testi di prosa, canzoni e poesie del repertorio popolare in lingua irlandese, accompagnati dalla versione inglese; come indicato dal titolo, si trattava soprattutto di poesie d’amore, spesso contrastato e infelice. Fu questo uno dei motivi della sua grande e immediata popolarità soprattutto fra i giovani: in quel fine secolo sempre più le nuove generazioni mettevano in discussione la moralità vittoriana, che trovava una eco particolarmente favorevole nell’emergente classe media cattolica irlandese, decisa a lasciarsi alle spalle la cultura gaelica tradizionale, associata con la povertà e l’inferiorità sociale, e a provare la propria rispettabilità interiorizzando il puritanesimo britannico: tanto che lo stesso movimento per la riconquista della lingua veniva interpretato e vissuto dagli strati più conservatori come “no more than a translation of Victorian values into the Irish language” (Declan. Kiberd).
Nella forza espressiva e nell’intensità emotiva e sensuale di questi poemi, così diverse dal sentimentalismo un po’ stucchevole delle traduzioni dall’irlandese ancora in voga qualche decennio prima, i giovani di questa stessa classe scoprivano la vitalità che aveva caratterizzato l’Irlanda gaelica prima che la carestia di metà secolo spazzasse via la cultura e la lingua che ne erano state tradizionalmente il veicolo; non solo, ma proprio con questo potente appello all’energia e al romanticismo dei suoi lettori (in un contesto più generale segnato dal moltiplicarsi delle rivendicazioni autonomistiche, come il movimento per la “Home Rule”) LOVE SONGS OF CONNACHT agì da catalizzatore per la ricerca di una propria identità culturale e, in ultima analisi, politica. In questo senso le traduzioni di Hyde possono definirsi un atto di sedizione rispetto sia alla morale vittoriana che al dominio britannico in Irlanda: “a transition [...] to translation as an agent of aesthetic and political renewal. Translations no longer simply bore witness to the past; they were to actively shape a future” (Michael Cronin).
L’opera di Hyde costituì inoltre “both a preservation and an innovation” (Richard Fallis), nel senso di salvare dall’oblio una produzione poetica con la quale le nuove generazioni anglofone avrebbero potuto non venire mai in contatto, e di utilizzare per la prima volta una forma linguisticamente e letterariamente credibile di “Hiberno-English”: anziché rendere i testi irlandesi nell’inglese standard, come avevano fatto precedenti generazioni di traduttori, Hyde si servì infatti dell’inglese parlato in Irlanda, il cui vocabolario conteneva (e contiene tuttora) molti termini trasposti dall’irlandese e che utilizzava costruzioni vistosamente calcate sulla sintassi gaelica (ricordiamo che l’irlandese era stato la lingua quotidiana della maggioranza fino ad una o due generazioni prima). Sotto entrambi gli aspetti - conservazione e innovazione - essa fu però segnata sin dall’inizio da un’ambiguità fondamentale e pose forse più problemi di quanti si proponesse di risolvere.
Infatti, se da un lato la traduzione dall’ irlandese serviva egregiamente a dimostrare che anche questa lingua aveva dato vita ad una produzione letteraria di tutto rispetto, e quindi ad innalzarne il prestigio, dall’altro era molto reale il rischio che, mettendo i testi tradotti a disposizione del pubblico anglofono, in un certo senso lo si dispensasse dall’imparare l’irlandese. Sebbene l’intento di Hyde fosse proprio quello di promuovere l’irlandese come lingua viva e parlata (LOVE SONGS OF CONNACHTera stato concepito anche come introduzione al suo apprendimento), e sebbene il libro fosse destinato in futuro ad esercitare un’influenza decisiva sull’evoluzione della letteratura in irlandese, l’effetto ottenuto fu anche quello di conferire plausibilità alla nozione di una letteratura nazionale in inglese, sia pure un inglese “tradotto”, carico di forza poetica, di realismo e di vigore, ben diverso dal “Queen’s English”. Quando W.B. Yeats salutò la pubblicazione delle LOVE SONGS definendole “the coming of a new power into literature”, ci si può chiedere a quale dei due versanti linguistici della letteratura irlandese intendesse riferirsi.
A rafforzare questa ambiguità contribuì anche la scelta della parlata “Hiberno-English”, motivata sia dalle possibilità espressive da essa dimostrate, sia dal suo corrispondere effettivamente (seppur con certe forzature) alla prassi linguistica di molti irlandesi che, pur parlando inglese, pensavano ancora in gaelico (“traducevano” cioè se stessi). Date le differenze rispetto all’inglese standard, essa poteva facilmente presentarsi come idioma specifico dell’Irlanda e sostituirsi così all’irlandese come lingua simbolo dell’identità nazionale, vanificando nei fatti le intenzioni di Hyde e di altri fautori di un’Irlanda gaelica. Si può osservare a questo proposito che i più puristi fra i militanti della Lega Gaelica vedevano con molto sfavore l’uso dell’“Hiberno-English” e sostenevano che occorreva spingere gli irlandesi a parlare sia un irlandese che un inglese standard, non contaminati cioè da influenze dialettali.
Lo stesso “Hiberno-English” ebbe comunque vita effimera: sempre più spesso criticato come ibrido irrealistico e caricaturale a mano a mano che, con il passare delle generazioni, l’inglese d’Irlanda si andò avvicinando allo standard (senza, peraltro, mai “normalizzarsi” del tutto), non sopravvisse alla fase calante del revival letterario che l’aveva messo in auge. In quella breve stagione di gloria riuscì comunque ad affermarsi come lingua veicolare di numerosi capolavori teatrali; valga fra tutti il nome del commediografo John M. Synge, le cui opere, in particolare THE PLAYBOY OF THE WESTERN WORLD, costituiscono un monumento alle possibilità espressive e sovversive di questa sorta di “traduzione nella traduzione”. Di Synge è stato detto: “In him, the 19th century attempts to translate Gaelic into English reach an unexpected apotheosis. English had never been so successfully de-Anglicized”. L’obiettivo di Hyde si era dunque in parte avverato: sia pure con modalità ed esiti molto diversi da quelli originariamente perseguiti.
Fonti:
- D. Kiberd, LOVE SONGS OF CONNACHT, in IRISH CLASSICS, Londra, Granta Books, 2000
- M. Cronin, TRANSLATING IRELAND: TRANSLATION, LANGUAGES, CULTURES, Cork University Press, 1996
- R. Fallis, THE IRISH RENAISSANCE: AN INTRODUCTION TO ANGLO-IRISH LITERATURE, Dublin, Gill & Macmillan, 1977
- S. Deane, A SHORT HISTORY OF IRISH LITERATURE, London, Hutchinson, 1986
- D. Corkery, SYNGE AND ANGLO-IRISH LITERATURE, Cork University Press, 1931
L’articolo, riprodotto col consenso dell’autrice, è apparso in precedenza sulla rivista “Inter@lia”.
09/06/09
Marina Pizzi, “IN UNO STERPIGNO DI PASSI SI RECIDE” E ALTRO
TESTI 95-97 DA L'INCHINO DEL PREDONE (2008)
95.
in uno sterpigno di passi si recide
il verso. solatia la vendetta della calce
imprigiona il dove la vedetta della sera
credeva di crepare credendo, vedendo.
festuca di stupore il qui torpore
antico nelle classi. rimane la botola
del cielo con la rovina del viso a dondolo
col sole pessimo. qui la terra è sempre
piena di precoci indizi. ride la sveglia
l’acido delle cinque di mattina.
96.
pugni di zolle aceri di sangue
al paese badato dal messia
dell’erba brada. dove la rondine
è fata di gridi girovaghi. sommesso
l’arcobaleno del balocco in tocco
di maestro musicale. le scale
dell’antro chiedono venia, natali
di fratello. l’orco alle tegole
straccia le travi. festa d’oracolo
trattare con le vacanze delle onde.
97.
la fune l’ho messa in abito
da sera così da invitarmi
in viso. tu la scartoffia del
passero dolente dove la fifa
del dubbio sperde il resto.
io nel muschio che schioda
la croce cedo un papavero
eccellente. eccelle in tutto
il timbro del compagno che
però non sa aprire la cella.
dove t’inchiodi martire di te stesso
si spende il sipario senza recita.
Testi precedenti dal medesimo poemetto di Marina Pizzi sono usciti su "Carte allineate" in data 27-3-2009, 17-04-2009 e 11-5-2009.
95.
in uno sterpigno di passi si recide
il verso. solatia la vendetta della calce
imprigiona il dove la vedetta della sera
credeva di crepare credendo, vedendo.
festuca di stupore il qui torpore
antico nelle classi. rimane la botola
del cielo con la rovina del viso a dondolo
col sole pessimo. qui la terra è sempre
piena di precoci indizi. ride la sveglia
l’acido delle cinque di mattina.
96.
pugni di zolle aceri di sangue
al paese badato dal messia
dell’erba brada. dove la rondine
è fata di gridi girovaghi. sommesso
l’arcobaleno del balocco in tocco
di maestro musicale. le scale
dell’antro chiedono venia, natali
di fratello. l’orco alle tegole
straccia le travi. festa d’oracolo
trattare con le vacanze delle onde.
97.
la fune l’ho messa in abito
da sera così da invitarmi
in viso. tu la scartoffia del
passero dolente dove la fifa
del dubbio sperde il resto.
io nel muschio che schioda
la croce cedo un papavero
eccellente. eccelle in tutto
il timbro del compagno che
però non sa aprire la cella.
dove t’inchiodi martire di te stesso
si spende il sipario senza recita.
Testi precedenti dal medesimo poemetto di Marina Pizzi sono usciti su "Carte allineate" in data 27-3-2009, 17-04-2009 e 11-5-2009.
07/06/09
Flavio Ermini, L’ORIGINARIA CONTESA TRA L’ARCO E LA VITA. NARRAZIONI DEL PRINCIPIO
Bergamo, Moretti&Vitali, 2009
L’ultima opera di Flavio Ermini, L’ORIGINARIA CONTESA TRA L’ARCO E LA VITA. NARRAZIONI DEL PRINCIPIO, resta un continente non interamente esplorabile. È una sfida continua che si svolge su diversi livelli. Una macchina che produce instancabilmente senso, che si può iniziare a leggere da qualsiasi punto e il cui attraversamento dà la sensazione di sentirsi spinti oltre le proprie capacità, alla deriva, in punti in cui non è possibile né assopirsi, né riposarsi per riprendere le forze, ma che anzi incita al rilancio estremo della propria capacità di comprendere. E questo non certamente perché il libro si accampa in una zona di confine tra diversi generi letterari (poesia, epica, saggio): se c’è abbattimento di dighe, ciò non accade per livellare le forme, ma per costruirne di nuove con un uso non canonico del simbolo, anzi particolarmente ambiguo. Le pagine, infatti, si aprono su foreste di simboli a tal punto rigogliose che anche i termini comuni vengono contagiati e assumono traslati usi, riverberanti aspetti, orlate e frastagliate cesure: “Nel giardino conteso, cogliamo quegli indizi che escono dalle pieghe di una comune parvenza, quale il flettersi della voce o la torsione di uno sguardo”. È attraverso questa proliferazione e trasformazione inesausta che Ermini indica l’esistenza di una verità originaria intesa come inesauribile ricerca: niente deve riposare e divenire dogma.
Quale capacità, quale ferrea disciplina è quella a cui deve sottomettersi il poeta per tenere dritto il timone e superare le sirenee voci che attraggono verso lidi consunti, di radicata convenzionalità! “L’uomo preferisce sporgersi sul piccolo mondo che lo limita piuttosto che affacciarsi sul vuoto che circonda la sua esistenza”. È così che leggere questo libro vuol dire ritrovarsi in un periglioso mare con la consapevolezza che resistere sia il vero progetto che si descrive in queste pagine, che leggere voglia dire sentirsi coinvolti in tale disegno esistenziale, di cui nessuno verrà a capo, se non comprendendo che anche la lettura va ripresa infinite volte, poiché non vi è un senso su cui si possa fare né facile né rapida né definitiva presa Se tentassimo di comprendere il modo in cui Flavio Ermini ha costruito questa macchina, dovremmo analizzare la modalità innovativa con cui utilizza il simbolo, il quale viene sottoposto a un vero e proprio processo metamorfico: “la fonte è una scala”: soltanto le metamorfosi vengono indicate come non illusorie in quanto rappresentano le figure che l’esistenza assume - non sarà in ogni caso possibile fissarne uno stato di transazione, sottraendolo al divenire - mentre, le parole sono indicate come fittizie in quanto con esse non è possibile costruire un discorso totalizzante: “la parola rappresenta il passo iniziale verso la rete illusoria di tutte le possibilità”. “Permane il vuoto. Quello stesso vuoto che gli esseri umani scambiano per un elemento connettivo fra le parti di un mondo sostanzialmente diverso da quello che loro appare”. E tutti i campi del sapere sono soggetti a questo regime. Nessun campo dell’erudizione può sottrarsi a tale legge presumendo di essere strumento privilegiato di conoscenza e di dominio. Non è esente da critica, dunque, nemmeno la conoscenza scientifica quando essa è elevata a un ruolo assoluto e acritico, quando non viene a patti con l’esistenza umana e le sue ragioni, poiché: “l’ombra della disfatta si stende anche là dove noi crediamo di aver innalzato un vessillo vittorioso”.
Se nel mondo visibile non c’è verità ed essa sembra dimorare, in quanto possibilità, soltanto nell’origine, allora la totalità non può essere un sistema, ma un’apertura: “Vi si accede solo con l’immaginazione, attraverso un modo di pensare in cui non sono più presenti gli impianti categoriali della razionalità”.
Anche il meccanismo dell’analogia vi è convocato, poiché è nelle sue potenzialità di non scatenare contraddizioni tra gli elementi messi ad interagire. L’analogia si configura come un elemento chiave nella risalita all’origine, verso il punto in cui il senso sgorga, intercettato nel momento antecedente a quello in cui si mischia con elementi spuri ed eterogenei. La risalita verso un luogo neutro deve fare i conti con l’artefatto, con ciò che è già formalizzato, preso nella rete del particolare, invischiato da pratiche culturali. In questo senso, l’atto di colui che tenta di risalire il corso costitutivo delle forme culturali è un atto eroico poiché sicuramente votato allo scacco, eppure non è certo azione velleitaria compiuta senza la consapevolezza che dalla cultura non si esce e che gli strumenti da usare sono gli stessi contro cui combattere.
Leggere il libro cercando definizioni ultimative sarebbe atto non adeguato al tenore dell’opera. Figure della percorrenza e della stasi, della caduta e della ricaduta, del rovesciamento e della metamorfosi fanno di questo libro una sorta di breviario, ove il senso è restituito previa apposizione di foglietto d’istruzioni per l’uso. Insomma, apparentemente l’opera sembra una ricerca condotta per definire i corollari di una geometria fondativa che dia come risultato l’impossibilità della quadratura del cerchio. Condizione esistenziale dolorosa e ineludibile, in cui il poeta ha il coraggio di sostenere con lo sguardo la visione dell’orrido e contemporaneamente di non declinare l’atto conoscitivo, di non svuotarlo almeno dal punto di vista etico.
[Rosa Pierno]
L’ultima opera di Flavio Ermini, L’ORIGINARIA CONTESA TRA L’ARCO E LA VITA. NARRAZIONI DEL PRINCIPIO, resta un continente non interamente esplorabile. È una sfida continua che si svolge su diversi livelli. Una macchina che produce instancabilmente senso, che si può iniziare a leggere da qualsiasi punto e il cui attraversamento dà la sensazione di sentirsi spinti oltre le proprie capacità, alla deriva, in punti in cui non è possibile né assopirsi, né riposarsi per riprendere le forze, ma che anzi incita al rilancio estremo della propria capacità di comprendere. E questo non certamente perché il libro si accampa in una zona di confine tra diversi generi letterari (poesia, epica, saggio): se c’è abbattimento di dighe, ciò non accade per livellare le forme, ma per costruirne di nuove con un uso non canonico del simbolo, anzi particolarmente ambiguo. Le pagine, infatti, si aprono su foreste di simboli a tal punto rigogliose che anche i termini comuni vengono contagiati e assumono traslati usi, riverberanti aspetti, orlate e frastagliate cesure: “Nel giardino conteso, cogliamo quegli indizi che escono dalle pieghe di una comune parvenza, quale il flettersi della voce o la torsione di uno sguardo”. È attraverso questa proliferazione e trasformazione inesausta che Ermini indica l’esistenza di una verità originaria intesa come inesauribile ricerca: niente deve riposare e divenire dogma.
Quale capacità, quale ferrea disciplina è quella a cui deve sottomettersi il poeta per tenere dritto il timone e superare le sirenee voci che attraggono verso lidi consunti, di radicata convenzionalità! “L’uomo preferisce sporgersi sul piccolo mondo che lo limita piuttosto che affacciarsi sul vuoto che circonda la sua esistenza”. È così che leggere questo libro vuol dire ritrovarsi in un periglioso mare con la consapevolezza che resistere sia il vero progetto che si descrive in queste pagine, che leggere voglia dire sentirsi coinvolti in tale disegno esistenziale, di cui nessuno verrà a capo, se non comprendendo che anche la lettura va ripresa infinite volte, poiché non vi è un senso su cui si possa fare né facile né rapida né definitiva presa Se tentassimo di comprendere il modo in cui Flavio Ermini ha costruito questa macchina, dovremmo analizzare la modalità innovativa con cui utilizza il simbolo, il quale viene sottoposto a un vero e proprio processo metamorfico: “la fonte è una scala”: soltanto le metamorfosi vengono indicate come non illusorie in quanto rappresentano le figure che l’esistenza assume - non sarà in ogni caso possibile fissarne uno stato di transazione, sottraendolo al divenire - mentre, le parole sono indicate come fittizie in quanto con esse non è possibile costruire un discorso totalizzante: “la parola rappresenta il passo iniziale verso la rete illusoria di tutte le possibilità”. “Permane il vuoto. Quello stesso vuoto che gli esseri umani scambiano per un elemento connettivo fra le parti di un mondo sostanzialmente diverso da quello che loro appare”. E tutti i campi del sapere sono soggetti a questo regime. Nessun campo dell’erudizione può sottrarsi a tale legge presumendo di essere strumento privilegiato di conoscenza e di dominio. Non è esente da critica, dunque, nemmeno la conoscenza scientifica quando essa è elevata a un ruolo assoluto e acritico, quando non viene a patti con l’esistenza umana e le sue ragioni, poiché: “l’ombra della disfatta si stende anche là dove noi crediamo di aver innalzato un vessillo vittorioso”.
Se nel mondo visibile non c’è verità ed essa sembra dimorare, in quanto possibilità, soltanto nell’origine, allora la totalità non può essere un sistema, ma un’apertura: “Vi si accede solo con l’immaginazione, attraverso un modo di pensare in cui non sono più presenti gli impianti categoriali della razionalità”.
Anche il meccanismo dell’analogia vi è convocato, poiché è nelle sue potenzialità di non scatenare contraddizioni tra gli elementi messi ad interagire. L’analogia si configura come un elemento chiave nella risalita all’origine, verso il punto in cui il senso sgorga, intercettato nel momento antecedente a quello in cui si mischia con elementi spuri ed eterogenei. La risalita verso un luogo neutro deve fare i conti con l’artefatto, con ciò che è già formalizzato, preso nella rete del particolare, invischiato da pratiche culturali. In questo senso, l’atto di colui che tenta di risalire il corso costitutivo delle forme culturali è un atto eroico poiché sicuramente votato allo scacco, eppure non è certo azione velleitaria compiuta senza la consapevolezza che dalla cultura non si esce e che gli strumenti da usare sono gli stessi contro cui combattere.
Leggere il libro cercando definizioni ultimative sarebbe atto non adeguato al tenore dell’opera. Figure della percorrenza e della stasi, della caduta e della ricaduta, del rovesciamento e della metamorfosi fanno di questo libro una sorta di breviario, ove il senso è restituito previa apposizione di foglietto d’istruzioni per l’uso. Insomma, apparentemente l’opera sembra una ricerca condotta per definire i corollari di una geometria fondativa che dia come risultato l’impossibilità della quadratura del cerchio. Condizione esistenziale dolorosa e ineludibile, in cui il poeta ha il coraggio di sostenere con lo sguardo la visione dell’orrido e contemporaneamente di non declinare l’atto conoscitivo, di non svuotarlo almeno dal punto di vista etico.
[Rosa Pierno]
05/06/09
Gabriella Sica, LE LACRIME DELLE COSE
Bergamo, Moretti & Vitali, 2009
Il titolo, che ripete le parole di Enea al suo incontro con Didone, di fronte alla rappresentazione di scene della guerra di Troia, potrebbe far pensare a una poesia risentitamente civile. E difatti si parte dall’evento più eclatante della recente storia dell’Occidente, ma “lacrime delle cose” si riferisce soprattutto al dolore inseparabile dalla vita, perché nei rapporti interpersonali si riproducono gli stessi meccanismi crudeli che muovono il più ampio teatro della storia.
Protagonista fin dagli anni ottanta nel quadro della poesia romana e non solo, Gabriella Sica a distanza di ben otto anni dal suo ultimo libro POESIE FAMILIARI, ha raccolto in questo libro le poesie scritte a partire dal settembre del 2001 fino al 2008 e le ha disposte in ordine cronologico. L’inizio coincide così con quei giorni che hanno certamente cambiato la percezione del mondo e hanno forse prodotto anche una variazione nel significato profondo delle parole.
Le torri diventano immediatamente metafora dell’orgoglio di restare saldi sulla terra, in due. Orgoglio che può essere umiliato e abbattuto da un momento all’altro: “Sì, stavo come alta e ferma torre / e tu accanto eri un’altra dritta torre”.
Sicuro e certo non è ciò che si solleva alto, ma piuttosto quello che in terra ci pieghiamo a raccogliere, come fa “il poeta contadino dell’omonima poesia”. Questa è una ferma indicazione, un indirizzo etico, che compare nelle primissime poesie del libro:
“il contadino sulla terra nera
a mani nude scava e tra i vasi rotti
e i cocci le dita sporche affonda
cava una patata e poi altre ancora
spinge una carriola piena di cose”.
La storia ci offre metafore forti, e noi, anche senza volerlo, andiamo riproducendo il suo andamento e i suoi traumi nello schema delle nostre vite. E tuttavia la terra, gli uccelli, gli amici poeti, i cari morti sono i temi in cui soprattutto questa poesia si realizza con semplicità naturale, così come dal seme caduto si sviluppa la pianta.
Le torri, che cadono e vanno in frantumi, alludono, nella vita familiare, a una storia di subìto abbandono. Cominceremo a parlare da lì, dal racconto tragico delle ventiquattro sestine di FRACTIO PANIS. La forma metrica breve si adatta perfettamente a pensieri rapidi, a sentimenti affilati come lama di coltello, una mente e un cuore che non accettano, uno sguardo vigile che, come può, continua seguire i movimenti dell’uomo che se n’è andato:
“come al solito viene il mattino
e il mistero mi lavo guardo l’abete
alto alla finestra che è un quadro
dove arrivi con il tuo motorino
free rosso cupo e il casco non c’è quiete
sarà per il mio troppo poco vedere”.
Poi la voce cessa di esprimere sconforto irrimediabile e, in una sezione successiva, che corrisponde a un passaggio anche temporale, prova a velarsi di autoironica tristezza, sempre con il riferimento a tragedie collettive, cercando di spingersi fuori dal proprio dolore per immergersi nel dolore del mondo, come in ROMA NON È BESLAN:
“A noi non ci hanno sparato alle spalle
in una bella mattina di sole
noi siamo mamme fortunate
[…]
io e Rita parliamo al Caffè delle Arti
di figli e di scuola e di mariti scomparsi
che non ci possono ascoltare”.
Infine il vuoto lasciato dall’uomo torna a colmarsi nella serenità del ritorno, finalmente di nuovo, uno per lato, al tavolo quadrato della mensa:
“E ora tu entri in casa ti siedi a tavola sorridi
tutto è come sempre siamo sempre in quattro
seduti ai quattro lati c’è una grande calma
tutto è ben in ordine al centro il pane e il vino”.
Si tratta di diurna realtà o di un desiderio a lungo alimentato e sempre frustrato che ha la sua pacata realizzazione nel sogno? Le immagini che ci raggiungono nella notte, nell’immaginazione sognante, offrono spesso un sollievo insperato, soluzioni “immaginate”al dolore, senza mediazione di parole. Infatti la scena è tutta immagini e oggetti immobili nella calma, non s’odono suoni.
Rispetto alle durezze e alle difficoltà dei rapporti con i vivi, i morti sono vicini con più grande mitezza. I morti continuano a esistere, a vivere. Questa è, per Gabriella Sica, una verità che rende l’incontro con i trapassati possibile, persino appagante, anche se “nella foschia cupa di un soffocato sottoscala”. Si veda il sonetto 2 della sezione ULTIME TRE POESIE: “Mai come chi è morto e non c’è più è presente / vicino ai suoi cari come un vivo tra i vivi vivo / come te che incontro discendendo di corsa…”.
Resta scolpita nella mente anche la passeggiata al cimitero con la madre, Felicetta Frattarolo, che con senso pratico e familiarità fa da guida tra tombe di parenti e antichi amori, distribuendo giudizi impassibili, senza dimenticare i torti. Accanto alla madre sentiamo una Gabriella che nel nocciolo profondo della sua personalità è rimasta bambina, ancora con la curiosità e il progetto d’obbedienza di una ragazzina attenta, come un piccolo aratro, a “non delirare uscire / dal solco”.
Anche gli amici, molti, se ne sono andati e hanno diritto al ricordo, quasi tutti poeti noti o grandi: Amelia, chiamata solo per nome, Pasolini, invece ricordato col solo cognome, e poi Giovanna (Sicari), Pietro Tripodo. Altri festeggiano, come Zanzotto gli ottanta, Seamus (Heaney) è visto nella confusione di un aeroporto, “poeta frugale in bilico nella nebbia come uccello / con i piedi sulla terra e la testa gentile e arruffata”.
Ecco, gli uccelli. Non credo di esagerare se dico che questo libro è quasi una voliera che tutta vibra e si anima di canti, pigolii, frulli d’ ali, di storni, pettirossi, usignoli, rondini, cardellini, del chiurlo e anche del verso sgraziato delle amate oche, “con il pudore arreso degli uccelli / che non volano”. Ad uccelli somigliano gli amici cari, i poeti, non solo per la loro attitudine al canto, ma forse anche per quella leggerezza che non li fa aderire alla dimensione pratica della vita. Quindi, se il poeta è contadino, paziente il suo lavoro sulla dura zolla, è anche creatura aerea: ha la grazia del volo e dell’innocenza.
Qui le situazioni e le parole hanno sempre un loro composto significato, le citazione dai grandi, anche Dante e Petrarca, s’inseriscono senza sussiego e la varietà delle forme metriche classiche, adattate con libertà e maestria, sono una componente fondamentale. Con l’agile destrezza dell’accordatore, ai “toni” è dedicata una canzonetta.
Gabriella Sica da sempre ha difeso e ancora difende la forma armoniosa e semplice contro le complicazioni fredde di quel modo, o maniera, di poetare che, per quanto rispolveri idee e forme che contano un secolo e più, continua a chiamarsi avanguardia. Ha difeso la sua linea con grande coerenza anche di fronte a critici che non hanno compreso, che, dice ancora in una pagina di questo libro, prima o poi capiranno.
[Piera Mattei]
Il titolo, che ripete le parole di Enea al suo incontro con Didone, di fronte alla rappresentazione di scene della guerra di Troia, potrebbe far pensare a una poesia risentitamente civile. E difatti si parte dall’evento più eclatante della recente storia dell’Occidente, ma “lacrime delle cose” si riferisce soprattutto al dolore inseparabile dalla vita, perché nei rapporti interpersonali si riproducono gli stessi meccanismi crudeli che muovono il più ampio teatro della storia.
Protagonista fin dagli anni ottanta nel quadro della poesia romana e non solo, Gabriella Sica a distanza di ben otto anni dal suo ultimo libro POESIE FAMILIARI, ha raccolto in questo libro le poesie scritte a partire dal settembre del 2001 fino al 2008 e le ha disposte in ordine cronologico. L’inizio coincide così con quei giorni che hanno certamente cambiato la percezione del mondo e hanno forse prodotto anche una variazione nel significato profondo delle parole.
Le torri diventano immediatamente metafora dell’orgoglio di restare saldi sulla terra, in due. Orgoglio che può essere umiliato e abbattuto da un momento all’altro: “Sì, stavo come alta e ferma torre / e tu accanto eri un’altra dritta torre”.
Sicuro e certo non è ciò che si solleva alto, ma piuttosto quello che in terra ci pieghiamo a raccogliere, come fa “il poeta contadino dell’omonima poesia”. Questa è una ferma indicazione, un indirizzo etico, che compare nelle primissime poesie del libro:
“il contadino sulla terra nera
a mani nude scava e tra i vasi rotti
e i cocci le dita sporche affonda
cava una patata e poi altre ancora
spinge una carriola piena di cose”.
La storia ci offre metafore forti, e noi, anche senza volerlo, andiamo riproducendo il suo andamento e i suoi traumi nello schema delle nostre vite. E tuttavia la terra, gli uccelli, gli amici poeti, i cari morti sono i temi in cui soprattutto questa poesia si realizza con semplicità naturale, così come dal seme caduto si sviluppa la pianta.
Le torri, che cadono e vanno in frantumi, alludono, nella vita familiare, a una storia di subìto abbandono. Cominceremo a parlare da lì, dal racconto tragico delle ventiquattro sestine di FRACTIO PANIS. La forma metrica breve si adatta perfettamente a pensieri rapidi, a sentimenti affilati come lama di coltello, una mente e un cuore che non accettano, uno sguardo vigile che, come può, continua seguire i movimenti dell’uomo che se n’è andato:
“come al solito viene il mattino
e il mistero mi lavo guardo l’abete
alto alla finestra che è un quadro
dove arrivi con il tuo motorino
free rosso cupo e il casco non c’è quiete
sarà per il mio troppo poco vedere”.
Poi la voce cessa di esprimere sconforto irrimediabile e, in una sezione successiva, che corrisponde a un passaggio anche temporale, prova a velarsi di autoironica tristezza, sempre con il riferimento a tragedie collettive, cercando di spingersi fuori dal proprio dolore per immergersi nel dolore del mondo, come in ROMA NON È BESLAN:
“A noi non ci hanno sparato alle spalle
in una bella mattina di sole
noi siamo mamme fortunate
[…]
io e Rita parliamo al Caffè delle Arti
di figli e di scuola e di mariti scomparsi
che non ci possono ascoltare”.
Infine il vuoto lasciato dall’uomo torna a colmarsi nella serenità del ritorno, finalmente di nuovo, uno per lato, al tavolo quadrato della mensa:
“E ora tu entri in casa ti siedi a tavola sorridi
tutto è come sempre siamo sempre in quattro
seduti ai quattro lati c’è una grande calma
tutto è ben in ordine al centro il pane e il vino”.
Si tratta di diurna realtà o di un desiderio a lungo alimentato e sempre frustrato che ha la sua pacata realizzazione nel sogno? Le immagini che ci raggiungono nella notte, nell’immaginazione sognante, offrono spesso un sollievo insperato, soluzioni “immaginate”al dolore, senza mediazione di parole. Infatti la scena è tutta immagini e oggetti immobili nella calma, non s’odono suoni.
Rispetto alle durezze e alle difficoltà dei rapporti con i vivi, i morti sono vicini con più grande mitezza. I morti continuano a esistere, a vivere. Questa è, per Gabriella Sica, una verità che rende l’incontro con i trapassati possibile, persino appagante, anche se “nella foschia cupa di un soffocato sottoscala”. Si veda il sonetto 2 della sezione ULTIME TRE POESIE: “Mai come chi è morto e non c’è più è presente / vicino ai suoi cari come un vivo tra i vivi vivo / come te che incontro discendendo di corsa…”.
Resta scolpita nella mente anche la passeggiata al cimitero con la madre, Felicetta Frattarolo, che con senso pratico e familiarità fa da guida tra tombe di parenti e antichi amori, distribuendo giudizi impassibili, senza dimenticare i torti. Accanto alla madre sentiamo una Gabriella che nel nocciolo profondo della sua personalità è rimasta bambina, ancora con la curiosità e il progetto d’obbedienza di una ragazzina attenta, come un piccolo aratro, a “non delirare uscire / dal solco”.
Anche gli amici, molti, se ne sono andati e hanno diritto al ricordo, quasi tutti poeti noti o grandi: Amelia, chiamata solo per nome, Pasolini, invece ricordato col solo cognome, e poi Giovanna (Sicari), Pietro Tripodo. Altri festeggiano, come Zanzotto gli ottanta, Seamus (Heaney) è visto nella confusione di un aeroporto, “poeta frugale in bilico nella nebbia come uccello / con i piedi sulla terra e la testa gentile e arruffata”.
Ecco, gli uccelli. Non credo di esagerare se dico che questo libro è quasi una voliera che tutta vibra e si anima di canti, pigolii, frulli d’ ali, di storni, pettirossi, usignoli, rondini, cardellini, del chiurlo e anche del verso sgraziato delle amate oche, “con il pudore arreso degli uccelli / che non volano”. Ad uccelli somigliano gli amici cari, i poeti, non solo per la loro attitudine al canto, ma forse anche per quella leggerezza che non li fa aderire alla dimensione pratica della vita. Quindi, se il poeta è contadino, paziente il suo lavoro sulla dura zolla, è anche creatura aerea: ha la grazia del volo e dell’innocenza.
Qui le situazioni e le parole hanno sempre un loro composto significato, le citazione dai grandi, anche Dante e Petrarca, s’inseriscono senza sussiego e la varietà delle forme metriche classiche, adattate con libertà e maestria, sono una componente fondamentale. Con l’agile destrezza dell’accordatore, ai “toni” è dedicata una canzonetta.
Gabriella Sica da sempre ha difeso e ancora difende la forma armoniosa e semplice contro le complicazioni fredde di quel modo, o maniera, di poetare che, per quanto rispolveri idee e forme che contano un secolo e più, continua a chiamarsi avanguardia. Ha difeso la sua linea con grande coerenza anche di fronte a critici che non hanno compreso, che, dice ancora in una pagina di questo libro, prima o poi capiranno.
[Piera Mattei]
03/06/09
GARDEN AND COSMOS: THE ROYAL PAINTINGS OF JODHPUR (British Museum, Londra)
Come spiega il dépliant illustrativo, la mostra raccoglie alcuni dipinti del Rajastan, provenienti dalla collezione reale del Mehrangarh Museum Trust di Jodhpur, esibiti per la prima volta in Europa e prodotti sotto il regno dei maharaja Bakhat Singh (1725-1752), Vijai Singh (1752-1793) e Man Singh (1803-1843).
Due sono i settori in cui si suddivide il percorso visivo: quello profano, con rappresentazioni di giardini e dei cortili della reggia, dei sovrani e di danzatrici, di armati e di altri personaggi, di paesaggi sullo sfondo, di giardini, di vari interni; e quello spirituale, che si fonda su rappresentazioni simboliche delle religione yogica Nath e comprende figurazioni dei chakra, visioni dei mondi terreni e ultramondani e altri motivi.
Le figure umane sono spesso iterate e iconiche, nondimeno possiedono una individualità pur nella riproduzione seriale; i giardini sono esotizzanti e a tratti fantastici; le architetture hanno tratti realistici, così pure i cavalli, gli elefanti, le vesti femminili e maschili, dettagli di bandiere e armi, di capigliature e baffi, di strade e pavimentazioni, con colori variati e ricorrenti a seconda del tono umorale, dell'applicazione simbolica, del gusto soggettivo. L'alternanza geometrica nella disposizione delle figure lascia spazio, nei dipinti profani, alla centralità del Re.
Nei dipinti religiosi, interessanti, oltre che in generale, per il fatto che dopo il periodo in questione, dei Nath non è rimasta traccia ufficiale, colpisce la rappresentazione del vuoto tramite il bianco, con figure laterali a rappresentare gli elementi dottrinali in alcuni quadri. In altri, gli elementi teologici assumono la forma di figure geometriche, un astrattismo che implica il riferimento ai testi sacri (ove disponibili) per la decifrazione coadiuvata con precisione e chiarezza dalle didascalie e dai pannelli esplicativi che accompagnano il tracciato espositivo.
Se queste immagini hanno un significato logicamente specifico, storicizzato, legato a una tradizione che l'esperto potrà comprendere a fondo, a noi non competenti colpisce anche la sua diversità, non però così aliena dalla tradizione iconica occidentale; ed è pur vero che siamo rimasti intrigati dai particolari minuziosi, ci siamo sorpresi a seguire le figure dei dipinti come se marcassero il dipanarsi di storie immaginose, commossi a tratti, desiderosi di saperne di più.
Qualcuna delle immagini, che nel loro complesso a noi, ammiratori di miniature indiane stupiti e non troppo culturalmente consapevoli dell'Oriente, sono sembrate particolarmente consone, si può visualizzare su Internet a Riproduzioni da Garden and Cosmos.
[Renato Persòli]
Due sono i settori in cui si suddivide il percorso visivo: quello profano, con rappresentazioni di giardini e dei cortili della reggia, dei sovrani e di danzatrici, di armati e di altri personaggi, di paesaggi sullo sfondo, di giardini, di vari interni; e quello spirituale, che si fonda su rappresentazioni simboliche delle religione yogica Nath e comprende figurazioni dei chakra, visioni dei mondi terreni e ultramondani e altri motivi.
Le figure umane sono spesso iterate e iconiche, nondimeno possiedono una individualità pur nella riproduzione seriale; i giardini sono esotizzanti e a tratti fantastici; le architetture hanno tratti realistici, così pure i cavalli, gli elefanti, le vesti femminili e maschili, dettagli di bandiere e armi, di capigliature e baffi, di strade e pavimentazioni, con colori variati e ricorrenti a seconda del tono umorale, dell'applicazione simbolica, del gusto soggettivo. L'alternanza geometrica nella disposizione delle figure lascia spazio, nei dipinti profani, alla centralità del Re.
Nei dipinti religiosi, interessanti, oltre che in generale, per il fatto che dopo il periodo in questione, dei Nath non è rimasta traccia ufficiale, colpisce la rappresentazione del vuoto tramite il bianco, con figure laterali a rappresentare gli elementi dottrinali in alcuni quadri. In altri, gli elementi teologici assumono la forma di figure geometriche, un astrattismo che implica il riferimento ai testi sacri (ove disponibili) per la decifrazione coadiuvata con precisione e chiarezza dalle didascalie e dai pannelli esplicativi che accompagnano il tracciato espositivo.
Se queste immagini hanno un significato logicamente specifico, storicizzato, legato a una tradizione che l'esperto potrà comprendere a fondo, a noi non competenti colpisce anche la sua diversità, non però così aliena dalla tradizione iconica occidentale; ed è pur vero che siamo rimasti intrigati dai particolari minuziosi, ci siamo sorpresi a seguire le figure dei dipinti come se marcassero il dipanarsi di storie immaginose, commossi a tratti, desiderosi di saperne di più.
Qualcuna delle immagini, che nel loro complesso a noi, ammiratori di miniature indiane stupiti e non troppo culturalmente consapevoli dell'Oriente, sono sembrate particolarmente consone, si può visualizzare su Internet a Riproduzioni da Garden and Cosmos.
[Renato Persòli]
01/06/09
Peter Chan, COMRADES: ALMOST A LOVE STORY
[Hong Kong 2007. Foto di Marzia Poerio]
Peter Chan, COMRADES: ALMOST A LOVE STORY, 1996. Sceneggiatura di Ivy Ho. Con Len Berdick, Maggie Cheung, Yue Ding, Christopher Doyle, Leon Lai, Eric Tsang, Irene Tsu, Cheung Tung-cho, Kristy Yeung
Due giovani cinesi, Li Xiaojun (interpretato da Leon Lai) e Chiao (l’attrice Maggie Cheung), arrivano a Hong Kong in cerca di lavoro (e di fortuna) nel 1986. Proveniente da una Cina più tradizionale (e più a nord) lui; più disinvolta lei e decisa ad arricchirsi. Si conoscono emblematicamente in un MacDonald’s simbolo di modernizzazione in cui Chiao lavora e che rappresenta per Xiaojun il premio concesso col primo mese di stipendio. Ne nasce un’amicizia che, mentre tiene conto della diversità di impostazione dei due ragazzi, è fondata sul rispetto reciproco.
Una sera di festa (il Capodanno cinese), i rapporti si evolvono verso un’amicizia anche sessuale, sebbene i due decidano di non allacciare formalmente una relazione. Dopo qualche speculazione sbagliata, impoveritasi, Chiao viene assunta da una casa di massaggi, in cui conosce Pao (l’attore Eric Tsang), un individuo coinvolto in affari loschi, che la tratta con gentilezza e le offre opportunità di investimento. Chiao ottiene ciò che desiderava da Hong Kong, un certo benessere, la promozione sociale, un’immagine. Frattanto Xiaojun, promosso cuoco da fattorino ciclista, decide di sposare la fidanzata Fang Xiaoting (l’attrice Kristy Yang) che, rimasta inizialmente a Wushi, la città natale, ora emigra a Hong Kong.
È proprio al matrimonio che Xiaojun e Chiao si rincontrano e poco dopo riallacciano la loro storia: questa volta, rendendosi conto di essersi innamorati l’una dell’altro, decidono di parlare coi loro partner. Così fa Xiaojun, rompendo il matrimonio; ma il destino impedisce a Chiao di fare altrettanto perché proprio quella notte Pao è costretto a fuggire e lei (per senso di responsabilità? per gratitudine? per bontà? per amore?) decide di seguirlo in vari spostamenti, dapprima a Taiwan, poi negli Stati Uniti.
È qui, nel 1993, che ritroviamo tutti e due i protagonisti, nello stesso quartiere a insaputa l’uno dell’altra. Ancora una volta il destino gioca scherzi: Pao, sopravvissuto a traversie e inseguimenti della malavita organizzata, viene ucciso da alcuni adolescenti che vogliono rubargli l’orologio; e poco dopo, espulsa dagli USA per mancanza di visto, Chiao, mentre viene scortata all’aeroporto da ufficiali di polizia americani, vede Xiaojun fare consegne in bicicletta, gli si lancia dietro, non lo raggiunge, ma riesce così a fuggire.
Due anni dopo, Chiao è ancora a New York, consegue anzi il permesso di soggiorno che le consentirà di tornare in Cina e rientrare senza conseguenze legali negative in America; mentre Xiaojun continua il suo lavoro. Finalmente si incontrano, lì a New York, davanti a un negozio di televisioni sui cui schermi compare l’immagine di Teresa Teng, cantante realmente esistita e famosa, appena deceduta (come nella vita reale nel 1995) e che aveva costituito uno dei motivi conduttori (anche metanarrativi) e un elemento dell’intreccio (Chiao si era impoverita comprando, per venderle, troppe cassette di Teng, che non interessavano agli abitanti modernizzati di Hong Kong, anzi da loro snobbate perché troppo rappresentative dei gusti popolari della Cina). Ulteriore suspense, fissano tutti e due la vetrina assorbiti dal volto di Teresa e sembrano non vedersi, noi fremiamo e vogliamo che si voltino l’una verso l’altro e sì lo fanno, sì sorridono, il film finisce qui.
È una storia raccontata con leggerezza davvero notevole, ironia, capacità di mostrare le appartenenze sociali da dettagli anche minimi. Conta su una recitazione impeccabile non solo dei protagonisti (entrambi molto noti, Maggie Cheung come attrice versatile e amata dal pubblico e Leon Lai, oltre che come attore, come esecutore apprezzato di cantopop, uno stile musicale cantonese), ma anche degli altri attori. Oltre che la città di Hong Kong negli anni in cui si svolge il film e la storia di Xiaojun e Chiao, altre vicende si intrecciano, in modo funzionalmente collegato, cioè tale da non spezzare la continuità della pellicola, sebbene in parte autonome da quella principale. C’è un professore d’inglese innamorato di una escort tailandese. C’è un cuoco che gioca a pallacanestro. Rosie, la zia di Xiaojun che lo ospita, ha avuto la vita segnata da una serata trascorsa in gioventù con William Holden ai tempi in cui si trovava a Hong Kong sul set di LOVE IS A MANY SPLENDOURED THING (L'AMORE È UNA COSA MERAVIGLIOSA), così si insinua anche, implicitamente, l’idea che COMRADES: ALMOST A LOVE STORY sia una risposta metafilmica e un dialogo del regista di Hong Kong nei confronti di quel film americano, che pure contiene una storia d’amore.
Il film di Peter Chan piacque in Cina e a Hong Kong, anzi rappresentò un successo strepitoso. Non ce ne stupiamo. È un film delicato, intelligente, toccante ed equilibrato, ottimo.
NOTE
[1] L’intera pellicola è disponibile su YouTube, a Comrades: Almost a love story.
[Renato Persòli]
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