07/06/09

Flavio Ermini, L’ORIGINARIA CONTESA TRA L’ARCO E LA VITA. NARRAZIONI DEL PRINCIPIO

Bergamo, Moretti&Vitali, 2009

L’ultima opera di Flavio Ermini, L’ORIGINARIA CONTESA TRA L’ARCO E LA VITA. NARRAZIONI DEL PRINCIPIO, resta un continente non interamente esplorabile. È una sfida continua che si svolge su diversi livelli. Una macchina che produce instancabilmente senso, che si può iniziare a leggere da qualsiasi punto e il cui attraversamento dà la sensazione di sentirsi spinti oltre le proprie capacità, alla deriva, in punti in cui non è possibile né assopirsi, né riposarsi per riprendere le forze, ma che anzi incita al rilancio estremo della propria capacità di comprendere. E questo non certamente perché il libro si accampa in una zona di confine tra diversi generi letterari (poesia, epica, saggio): se c’è abbattimento di dighe, ciò non accade per livellare le forme, ma per costruirne di nuove con un uso non canonico del simbolo, anzi particolarmente ambiguo. Le pagine, infatti, si aprono su foreste di simboli a tal punto rigogliose che anche i termini comuni vengono contagiati e assumono traslati usi, riverberanti aspetti, orlate e frastagliate cesure: “Nel giardino conteso, cogliamo quegli indizi che escono dalle pieghe di una comune parvenza, quale il flettersi della voce o la torsione di uno sguardo”. È attraverso questa proliferazione e trasformazione inesausta che Ermini indica l’esistenza di una verità originaria intesa come inesauribile ricerca: niente deve riposare e divenire dogma.

Quale capacità, quale ferrea disciplina è quella a cui deve sottomettersi il poeta per tenere dritto il timone e superare le sirenee voci che attraggono verso lidi consunti, di radicata convenzionalità! “L’uomo preferisce sporgersi sul piccolo mondo che lo limita piuttosto che affacciarsi sul vuoto che circonda la sua esistenza”. È così che leggere questo libro vuol dire ritrovarsi in un periglioso mare con la consapevolezza che resistere sia il vero progetto che si descrive in queste pagine, che leggere voglia dire sentirsi coinvolti in tale disegno esistenziale, di cui nessuno verrà a capo, se non comprendendo che anche la lettura va ripresa infinite volte, poiché non vi è un senso su cui si possa fare né facile né rapida né definitiva presa Se tentassimo di comprendere il modo in cui Flavio Ermini ha costruito questa macchina, dovremmo analizzare la modalità innovativa con cui utilizza il simbolo, il quale viene sottoposto a un vero e proprio processo metamorfico: “la fonte è una scala”: soltanto le metamorfosi vengono indicate come non illusorie in quanto rappresentano le figure che l’esistenza assume - non sarà in ogni caso possibile fissarne uno stato di transazione, sottraendolo al divenire - mentre, le parole sono indicate come fittizie in quanto con esse non è possibile costruire un discorso totalizzante: “la parola rappresenta il passo iniziale verso la rete illusoria di tutte le possibilità”. “Permane il vuoto. Quello stesso vuoto che gli esseri umani scambiano per un elemento connettivo fra le parti di un mondo sostanzialmente diverso da quello che loro appare”. E tutti i campi del sapere sono soggetti a questo regime. Nessun campo dell’erudizione può sottrarsi a tale legge presumendo di essere strumento privilegiato di conoscenza e di dominio. Non è esente da critica, dunque, nemmeno la conoscenza scientifica quando essa è elevata a un ruolo assoluto e acritico, quando non viene a patti con l’esistenza umana e le sue ragioni, poiché: “l’ombra della disfatta si stende anche là dove noi crediamo di aver innalzato un vessillo vittorioso”.

Se nel mondo visibile non c’è verità ed essa sembra dimorare, in quanto possibilità, soltanto nell’origine, allora la totalità non può essere un sistema, ma un’apertura: “Vi si accede solo con l’immaginazione, attraverso un modo di pensare in cui non sono più presenti gli impianti categoriali della razionalità”.

Anche il meccanismo dell’analogia vi è convocato, poiché è nelle sue potenzialità di non scatenare contraddizioni tra gli elementi messi ad interagire. L’analogia si configura come un elemento chiave nella risalita all’origine, verso il punto in cui il senso sgorga, intercettato nel momento antecedente a quello in cui si mischia con elementi spuri ed eterogenei. La risalita verso un luogo neutro deve fare i conti con l’artefatto, con ciò che è già formalizzato, preso nella rete del particolare, invischiato da pratiche culturali. In questo senso, l’atto di colui che tenta di risalire il corso costitutivo delle forme culturali è un atto eroico poiché sicuramente votato allo scacco, eppure non è certo azione velleitaria compiuta senza la consapevolezza che dalla cultura non si esce e che gli strumenti da usare sono gli stessi contro cui combattere.

Leggere il libro cercando definizioni ultimative sarebbe atto non adeguato al tenore dell’opera. Figure della percorrenza e della stasi, della caduta e della ricaduta, del rovesciamento e della metamorfosi fanno di questo libro una sorta di breviario, ove il senso è restituito previa apposizione di foglietto d’istruzioni per l’uso. Insomma, apparentemente l’opera sembra una ricerca condotta per definire i corollari di una geometria fondativa che dia come risultato l’impossibilità della quadratura del cerchio. Condizione esistenziale dolorosa e ineludibile, in cui il poeta ha il coraggio di sostenere con lo sguardo la visione dell’orrido e contemporaneamente di non declinare l’atto conoscitivo, di non svuotarlo almeno dal punto di vista etico.

[Rosa Pierno]