05/06/09

Gabriella Sica, LE LACRIME DELLE COSE

Bergamo, Moretti & Vitali, 2009

Il titolo, che ripete le parole di Enea al suo incontro con Didone, di fronte alla rappresentazione di scene della guerra di Troia, potrebbe far pensare a una poesia risentitamente civile. E difatti si parte dall’evento più eclatante della recente storia dell’Occidente, ma “lacrime delle cose” si riferisce soprattutto al dolore inseparabile dalla vita, perché nei rapporti interpersonali si riproducono gli stessi meccanismi crudeli che muovono il più ampio teatro della storia.

Protagonista fin dagli anni ottanta nel quadro della poesia romana e non solo, Gabriella Sica a distanza di ben otto anni dal suo ultimo libro POESIE FAMILIARI, ha raccolto in questo libro le poesie scritte a partire dal settembre del 2001 fino al 2008 e le ha disposte in ordine cronologico. L’inizio coincide così con quei giorni che hanno certamente cambiato la percezione del mondo e hanno forse prodotto anche una variazione nel significato profondo delle parole.

Le torri diventano immediatamente metafora dell’orgoglio di restare saldi sulla terra, in due. Orgoglio che può essere umiliato e abbattuto da un momento all’altro: “Sì, stavo come alta e ferma torre / e tu accanto eri un’altra dritta torre”.

Sicuro e certo non è ciò che si solleva alto, ma piuttosto quello che in terra ci pieghiamo a raccogliere, come fa “il poeta contadino dell’omonima poesia”. Questa è una ferma indicazione, un indirizzo etico, che compare nelle primissime poesie del libro:

“il contadino sulla terra nera
a mani nude scava e tra i vasi rotti
e i cocci le dita sporche affonda
cava una patata e poi altre ancora
spinge una carriola piena di cose”.

La storia ci offre metafore forti, e noi, anche senza volerlo, andiamo riproducendo il suo andamento e i suoi traumi nello schema delle nostre vite. E tuttavia la terra, gli uccelli, gli amici poeti, i cari morti sono i temi in cui soprattutto questa poesia si realizza con semplicità naturale, così come dal seme caduto si sviluppa la pianta.

Le torri, che cadono e vanno in frantumi, alludono, nella vita familiare, a una storia di subìto abbandono. Cominceremo a parlare da lì, dal racconto tragico delle ventiquattro sestine di FRACTIO PANIS. La forma metrica breve si adatta perfettamente a pensieri rapidi, a sentimenti affilati come lama di coltello, una mente e un cuore che non accettano, uno sguardo vigile che, come può, continua seguire i movimenti dell’uomo che se n’è andato:

“come al solito viene il mattino
e il mistero mi lavo guardo l’abete
alto alla finestra che è un quadro
dove arrivi con il tuo motorino
free rosso cupo e il casco non c’è quiete
sarà per il mio troppo poco vedere”.

Poi la voce cessa di esprimere sconforto irrimediabile e, in una sezione successiva, che corrisponde a un passaggio anche temporale, prova a velarsi di autoironica tristezza, sempre con il riferimento a tragedie collettive, cercando di spingersi fuori dal proprio dolore per immergersi nel dolore del mondo, come in ROMA NON È BESLAN:

“A noi non ci hanno sparato alle spalle
in una bella mattina di sole
noi siamo mamme fortunate
[…]
io e Rita parliamo al Caffè delle Arti
di figli e di scuola e di mariti scomparsi
che non ci possono ascoltare”.

Infine il vuoto lasciato dall’uomo torna a colmarsi nella serenità del ritorno, finalmente di nuovo, uno per lato, al tavolo quadrato della mensa:

“E ora tu entri in casa ti siedi a tavola sorridi
tutto è come sempre siamo sempre in quattro
seduti ai quattro lati c’è una grande calma
tutto è ben in ordine al centro il pane e il vino”.

Si tratta di diurna realtà o di un desiderio a lungo alimentato e sempre frustrato che ha la sua pacata realizzazione nel sogno? Le immagini che ci raggiungono nella notte, nell’immaginazione sognante, offrono spesso un sollievo insperato, soluzioni “immaginate”al dolore, senza mediazione di parole. Infatti la scena è tutta immagini e oggetti immobili nella calma, non s’odono suoni.

Rispetto alle durezze e alle difficoltà dei rapporti con i vivi, i morti sono vicini con più grande mitezza. I morti continuano a esistere, a vivere. Questa è, per Gabriella Sica, una verità che rende l’incontro con i trapassati possibile, persino appagante, anche se “nella foschia cupa di un soffocato sottoscala”. Si veda il sonetto 2 della sezione ULTIME TRE POESIE: “Mai come chi è morto e non c’è più è presente / vicino ai suoi cari come un vivo tra i vivi vivo / come te che incontro discendendo di corsa…”.

Resta scolpita nella mente anche la passeggiata al cimitero con la madre, Felicetta Frattarolo, che con senso pratico e familiarità fa da guida tra tombe di parenti e antichi amori, distribuendo giudizi impassibili, senza dimenticare i torti. Accanto alla madre sentiamo una Gabriella che nel nocciolo profondo della sua personalità è rimasta bambina, ancora con la curiosità e il progetto d’obbedienza di una ragazzina attenta, come un piccolo aratro, a “non delirare uscire / dal solco”.

Anche gli amici, molti, se ne sono andati e hanno diritto al ricordo, quasi tutti poeti noti o grandi: Amelia, chiamata solo per nome, Pasolini, invece ricordato col solo cognome, e poi Giovanna (Sicari), Pietro Tripodo. Altri festeggiano, come Zanzotto gli ottanta, Seamus (Heaney) è visto nella confusione di un aeroporto, “poeta frugale in bilico nella nebbia come uccello / con i piedi sulla terra e la testa gentile e arruffata”.

Ecco, gli uccelli. Non credo di esagerare se dico che questo libro è quasi una voliera che tutta vibra e si anima di canti, pigolii, frulli d’ ali, di storni, pettirossi, usignoli, rondini, cardellini, del chiurlo e anche del verso sgraziato delle amate oche, “con il pudore arreso degli uccelli / che non volano”. Ad uccelli somigliano gli amici cari, i poeti, non solo per la loro attitudine al canto, ma forse anche per quella leggerezza che non li fa aderire alla dimensione pratica della vita. Quindi, se il poeta è contadino, paziente il suo lavoro sulla dura zolla, è anche creatura aerea: ha la grazia del volo e dell’innocenza.

Qui le situazioni e le parole hanno sempre un loro composto significato, le citazione dai grandi, anche Dante e Petrarca, s’inseriscono senza sussiego e la varietà delle forme metriche classiche, adattate con libertà e maestria, sono una componente fondamentale. Con l’agile destrezza dell’accordatore, ai “toni” è dedicata una canzonetta.

Gabriella Sica da sempre ha difeso e ancora difende la forma armoniosa e semplice contro le complicazioni fredde di quel modo, o maniera, di poetare che, per quanto rispolveri idee e forme che contano un secolo e più, continua a chiamarsi avanguardia. Ha difeso la sua linea con grande coerenza anche di fronte a critici che non hanno compreso, che, dice ancora in una pagina di questo libro, prima o poi capiranno.


[Piera Mattei]