30/04/09

CARTE ALLINEATE. Numero 28, Aprile 2009 / Issue 28, april 2009

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INDICE ALFABETICO / INDEX

Le voci elencate qui sotto senza il nome dell'autore sono state scritte da Roberto Bertoni. Foto di Marzia Poerio / Entries listed below without the name of the author were written by Roberto Bertoni. Pictures by Marzia Poerio.

- APPUNTI SU IDENTITÀ E POETI LIGURI DI OGGI. Riflessione, 9-4-09.
- CONA, Cristina, DALLA TRADUZIONE ALLA TRADIZIONE. Riflessione, 15-4-09
- DE BONI, Nicoletta, ISTRUZIONI DI GIOCO. Testo, 3-4-09.
- DEL GIUDICE Daniele, ORIZZONTE MOBILEDE. Note di lettura, 27-4-09.
- ERCOLANI, Marco, UNA CERTA STRATEGIA. Testo, 21-4-09.
- FIORUCCI, Wissia, IL MONDO È UN MARE DI PAURA. Testo, 7-4-09.
- MANGANARO, Agnese, MILLE PETALI. Storie di musiche di Renato PERSÒli, 23-4-09.
- PIZZI, Marina, "STERPI DEL PIANO ESULE" E ALTRO. Testi, 17-4-09.
- RAGNOLI, Gian Paolo, ANN BRIGGS FOR BEGINNERS. Storie di musiche, 13-4-09.
- RAY, Satyajit, DEVI. Storie di film di Renato PERSÒLI, 5-4-09.
- SA, Shan, LES CONSPIRATEURS. Note di lettura, 29-5-09.
- SARTINI BLUM Cinzia, REWRITING THE JOURNEY IN CONTEMPORARY ITALIAN LITERATURE. FIGURES OF SUBJECTIVITY IN PROGRESS. Note di lettura di Piera MATTEI, 1-4-09.
- YU, Ronny, FEARLESS. Storie di film di Renato PERSÒLI, 19-4-09.

29/04/09

Shan Sa, LES CONSPIRATEURS


[Tiananmen. Foto di Marzia Poerio]


Shan Sa, LES CONSPIRATEURS. Parigi, Albin Michel 2005, ed. tascabilie 2007

Narrata al presente indicativo, con una consequenzialità rapida degli eventi e coniugando narrazione e teatralità (molte le zone dialogate), questa storia è un giallo in parte parodico dei romanzi di spionaggio.

I protagonisti, la cinese Ayamei e l'americano Jonathan, nel racconto sono ora agenti, ora controagenti, o, come spiega una constatazione metanarrativa incasellata nel testo, "Tout a fonctionnée comme dans une histoire d'espionnage. En réalité, tout n'etait qu'une histoire de contre-espionnage" (p. 202).

I mutamenti costanti dell'identità sono in parte affidati a questa variazione di funzioni; e in parte ai diversi ruoli svolti da Ayamei in quanto agente cinese che finge di essere anticinese, ma in verità svolge per conto del governo di Pechino un compito spionistico in combutta con una personalità politica francese (sempre che ciò sia quel che accade, perché anche questa stessa ossatura viene messa in questione una volta resa nota a un certo punto dell'intreccio). La riflessione sottostante all'elasticità e non fissità dell'identità è che il ruolo in cui siamo recitanti può confondersi con la vita: "Le rôle finit par se confondre avec la réalité" (p. 42).

In questo gioco ironico sui romanzi di genere abbondano dunque le inversioni di personalità e i tradimenti, frattanto tutto tende verso un calviniano "massimo vitale" e alla fine lei e lui si riunificano a dispetto delle maschere e concedono spazio all’amore nella brevità del finale. Avversione e attrazione, conflitto ed erotismo caratterizzano un’altra banda tematica, che è quella dei rapporti di coppia.

È affidata all'immagine del servizio segreto la sostanza allegorica rappresentante l’esperienza, avvolta, sembrerebbe, nella contemporaneità in un'incertezza che non conosce i propri scopi. Si sostituisca, a verifica, nella citazione seguente a "espionne" la parola "vie": "A quoi joue l'espionne? Avec qui? Contre qui?" (p. 126). L'essere è in preda agli eventi pur se costantemente cerchi di controllarli: "Nous sommes tout des marionettes dans un monde d'illusions" (p. 191).

Il romanzo di Shan Sa, quindi, pur mantenendo leggerezza, velocità di strutturazione, tono ludico, rivela problematiche esistenziali non superficiali e intimamente moderne, con richiami (si potrebbe presumere) alle oscillazioni dell'identità primonovecentesca e alla metanarrativa della nouvelle vague.

Nell'esperienza trascorsa di Ayamei ci sono, inoltre, gli eventi politici della Cina degli ultimi vent’anni: la ribellione di Tiananmen, cui la protagonista dice di aver partecipato per poi rifugiarsi in Occidente e constatare come nel tempo, anche nel paese asiatico, i valori di allora sono ormai inefficaci, essendo stati sostituiti, vuoi dal potere costituito, vuoi dagli stessi abitanti, da determinanti diverse, quali il denaro e il consumo, con il conseguente smarrimento di chi pensa diversamente (tanto più se esistente nella diaspora) entro un mondo commerciale, globalizzato, disordinato; ne risulta un azzeramento delle persuasioni ideologiche: "A vingt ans, je croyais à l'Amérique, à la démocratie. Maintenant je crois plus a rien" (p. 169).

La medesima Shan Sa, cinese (nome autentico Yan Ni Ni), nata nel 1972, scrive in lingua francese ed è emigrata nel 1990 da Pechino a Parigi, dove riesiede. Tra gli altri suoi romanzi: PORTE DE LA PAIX CÉLESTE (1997), LA JOUEUSE DE GO (2001) e IMPÈRATRICE (2003).


[Roberto Bertoni]

27/04/09

Daniele Del Giudice, ORIZZONTE MOBILE

Torino, Einaudi, 2009

La cifra stilistica di Daniele Del Giudice è la precisione basata, tra gli altri sensi, sull'osservazione degli eventi e delle persone, con sostrati metaforici di derivazione tanto letteraria (come nello STADIO DI WIMBLEDON, 1983, ricerca su Bazlen e le montaliane Ljuba e Gerti tra Trieste e Londra), quanto scientifica (le dinamiche della fisica sono corrispettivi di situazioni esistenziali in ATLANTE OCCIDENTALE, libro che è storia di un dialogo tra il mondo scientifico del protagonista, occupato presso l'anello di accelerazione del CERN nel sottosuolo di Ginevra, e quello letterario dello scrittore Ira Epstein: quasi marginali l'intreccio dei rapporti di amicizia tra il fisico e il letterato e un'esile storia sentimentale del protagonista con una giovane.

Nei romanzi di Del Giudice c'è una tendenza a scrivere su quanto è di rilievo senza cedere a eccessive presenze autoriali non motivate dalle funzionalità delle storie che narra o degli avvenimenti che descrive. La fenomenologia degli accadimenti e il commento sui fatti si associano e si integrano. L'esperienza concreta della vita è filtrata dalla citazione e dalle letture, come avviene in ORIZZONTE MOBILE, un libro che assume su di sé il significato del termine "narrativa" in diverse accezioni. Riferisce in prima persona, intercalate l'una all'altra a capitoli alterni, tre spedizioni nell'Antartide, due scientifiche e non recenti, quella di Giacomo Bove (1882) e quella di Gerlache de Gomery (1897-1899), basate sui loro diari di bordo, e una compiuta dallo scrittore nel 1990. Si combinano qui il diario di viaggio tardo moderno con le scritture archetipiche che lo hanno motivato in una diversa fase della modernità e si individuano elementi documentari frammisti a traversie umane nell'ambito scientifico che è la geografia. Una quarta linea narrativa, introduttiva, è inventata (come spiega l'autore nella NOTA, p. 141) e datata al 2007.

Tra il registro scientifico e quello letterario si danno connubi, ma il primo sembra da preferirsi al secondo: "qualche volta tra scienza esatta e phantasia può avvenire una collusione, ma il fisico non deve abbandonare la severità della sua disciplina" (p. 11).

Si narra facendo parlare la natura e le cose oltre agli umani: "il guaio delle storie [...] è che sono narrate da un unico punto di vista, quello umano" (p. 7), quando invece l'ambito degli esseri sensibili li accomuna: "loro, i pinguini in fila, noi, umani in fila. Due comunità egualmente in marcia [...]. Loro, noi, vivevamo la stessa solitudine in un oceano di ghiacci e nevi, le stesse preoccupazioni" (p. 7) .

L'Antartide è la fine spaziale del mondo; il terreno su cui si sono misurate la resistenza e la capacità di sopravvivenza di animali ed esseri umani; la metafora principe del viaggio di ricerca, come pure, ad altri livelli, della solitudine, della difficoltà della tenebra e dell'abbaglio dei bianchi, di una natura che è leopardianamente non partecipe delle vicende antropiche e allo stesso tempo, dall'angolazione dei visitatori, animata al punto da influire sulla percezione del reale:

"Nonostante la grande violenza, la natura qui non è ostile o tanto meno amica, è solo indifferente alla presenza umana che è un fatto del tutto accidentale. Per noi il paesaggio è sempre un sentimento del paesaggio, ma quel che chiamiamo paesaggio non sgorga dalla coscienza, bensì la altera e le impone un'altra direzione. Per questo le storie antartiche sono così nervose" (p. 95).

Se da un lato il "Sud assoluto" segna il carattere delle persone incontrate dall'autore nel viaggio del 1990 con tratti non esenti da una "crinatura folle o depressiva" (p. 112), dall'altro la quest arriva al fondo del sé e del tempo individuale e collettivo allegorizzato dai picchi montuosi e dalla posizione stessa del continente:

"[...] mi chiedevo se riuscivo a distinguere come i cristalli fossero più grandi mano a mano che si scendeva, come i cubicoli e le bolle d'aria diminuissero nelle pareti, per effetto della pressione sovrastante. Così il ghiaccio cambiava colore attraverso i bianchi, i celesti, i grigi, e cambiava d'età, di cristallizzazione in cristallizzazione, indietro per millenni e millenni. Più giù ancora doveva esserci il punto in cui il ghiacciaio aveva perso plasticità per uno stress da piegamento e si era spaccato in ferite visibili in superficie, parallele come un'aratura e profonde magari fino alla terra, al continente vero e proprio" (p. 108).

L'ambiente è dunque uno dei protagonisti del libro; fornisce parole esatte come quelle soprastanti e proprio per questo capaci di ritmi serrati e di mancanza di retorica; possiede infine connotazioni arcane: "certe volte, [...] attraverso questi paesaggi di ghiaccio e di luce, cerco di rappresentarmi il loro tipo di mistero", che non è "generico" o fatto di "stupore e terrore", ma è dovuto al fatto che, mentre il Sud estremo condivide aspetti col resto della Terra, tutto "qui diventa eccezionale" ed esercita la propria influenza sull'intero pianeta (pp. 120-21).


[Roberto Bertoni]

25/04/09

Ivano Mugnaini, CESARE E MOONLOVER

MOONLOVER: Caro Cesare, molti anni dopo la tua scomparsa gli occhi della morte non ti hanno raggiunto, non hanno ammantato di oblio il tuo ricordo, l'essenza delle tue parole, ciò che hai scritto e testimoniato attraverso il mestiere più duro ed ingrato: quello di uomo, di uomo solo. Per rivolgermi a te avrei voluto adottare uno pseudonimo che parlasse di miti immortali, di civiltà solari e felici. Avrei voluto chiamarmi Orfeo, il dio dal cuore umanissimo, fragile e senza fortuna, a te particolarmente caro. Ma sarebbe risultata una millanteria ed una menzogna. Nella mia epoca la musica ormai esce soltanto dalle bocche di plastica delle casse acustiche made in Korea, e le sole possibili Baccanti sono le linee ADSL per correre più rapidi nell'Ade telematico di Internet, l'ammiccante ed ineffabile Plutone che ci nutre, ci coccola, e ci sbrana la mente il corpo.

Ho optato così per uno pseudonimo più congruo, più adatto a conciliare i sentieri della mia realtà con i cieli del mio sogno. Moonlover, ho scelto, “l'amante della luna, colui che corre dietro alla luna”. E' un nome che spero possa piacerti, in fondo. La lingua inglese è stata per te solido pane quotidiano e ponte ideale verso l'America vera che hai amato. Quella delle strade e delle campagne, quella della gente, distante mille miglia dai grattacieli della retorica. Il riferimento alla luna inoltre fa volare il pensiero ai falò della tua terra, al libro in cui hai ancorato con più forza le radici del tuo affetto al suolo del tuo Piemonte, alla gente autentica che soffre ed ama in silenzio, al riparo dai riflettori del lusso e della Storia.

Mi rendo conto però, Cesare, e me ne scuso, che ho parlato solo io, finora. Degno figlio, in questo, mio malgrado, di un'epoca che ha dimenticato l'arte di ascoltare. Chiedo perdono, e correggo la rotta per farti finalmente una domanda, anzi, quella che per me è la domanda, il dubbio conficcato nei tessuti palpitanti di ogni giorno, di ogni istante: Vale ancora la pena coltivare il “vizio assurdo”, l'amore per la poesia e per la speranza in essa insita di mutare le cose, o almeno di poterle guardare da un altro lato, dalla faccia nascosta della luna? Vale la pena cercare, come hai fatto tu, di “imparare ad essere solo”, se questo è il prezzo per sognare qualcosa di diverso e per sperare di poter vivere quel sogno?


CESARE: Ti sono grato della fiducia che riponi in me, giovane amante della luna. Io però, come tutti i poeti, sono molto più avvezzo a porre le domande che non a trovare le risposte. Se avessi la capacità di risolvere il tuo enigma, se l'avessi avuta durante la mia vita, non avrei avuto bisogno di fuggire, da me, dal mondo e dal dubbio che ruota senza fine attorno ad esso e al destino di ciascuno.

Ho creduto nella poesia, ho creduto in lei fino in fondo e le credo ancora, ora più che mai. Ma una vita non basta, non bastano i versi e le rime, non basta un solo corpo ed una mente sola. C'è bisogno di un'armonia di sangue e pensieri, un contatto feroce e soave, anche sporco, imperfetto, fallace. L'amplesso della morte e dell'amore genera la vita. Quella che è difficile guardare negli occhi, quella da cui non c'è fuga possibile, neppure nelle pieghe più intime ed esili di un gesto estremo. Questa è la realtà, mio giovane amico.

Potrei lasciarti con queste parole, con il macigno di un no. Potrei confermarti che al di là delle parole, anche delle più savie e preziose, c'è il nulla. Ma sarebbe una saggezza più aspra ed assurda della più cruda follia. Non so vedere, neppure adesso, l'insieme del quadro, l'orientamento, la prospettiva, questo mi è impossibile. Però so cogliere qualche frammento, ora. Ed è questo ciò che posso darti. Una pietra di fiume levigata dal tempo da tenere stretta nella mano senza ragionare troppo sulla sua forma, sul suo peso e sulla sua collocazione nell'insieme delle cose. Il mio Orfeo, “l'Inconsolabile”, nella parte finale del suo dialogo con la Baccante le rivela in un soffio intenso e sincero di fiato: "Ero quasi perduto, e cantavo. Comprendendo ho ritrovato me stesso".

Prendi solo questo, se vuoi, mio giovane amico. Il senso globale lascialo perdere. E' fuori portata. O meglio, siamo noi, istante dopo istante, nella portata della traiettoria della sua rivoltella.

23/04/09

Agnese Manganaro, MILLE PETALI


["I will wear a thousand petals in my hair / to leave my perfume for you" (Translated from MILLE PETALI, a song by Agnese Manganaro). Foto di Marzia Poerio]


CD Irma distr. Edel, 2009. Testi, voce e melodie: Agnese Manganaro. Chitarra: Luca Tarantino. Contrabbasso: Massimo Pinca. Batteria: Francesco Pennetta.


MILLE PETALI è l’ultimo disco di Agnese Manganaro, uscito prima in Giappone che in Italia [1].

Nata in provincia di Lecce, la cantante si è rivolta, oltre che al jazz e alla bossa nova, alla musica italiana del passato non troppo remoto (ad esemplificare, sul suo sito MySpace c’è una versione, arrangiata in chiave jazz latina, di E LA CHIAMANO ESTATE di Bruno Martino) [2].

Nel definire le proprie intenzioni, dichiara: “Scrivo per soddisfare la necessità di far fluire fuori da me l’insieme dei pensieri di una vita, dando loro una forma sonora naturale. Racconto la quotidianità, le piccole cose che fanno di ogni giorno un gran giorno” e tra l’altro “la pienezza del niente” [3].

I testi di MILLE PETALI presentano in prevalenza storie di situazioni sentimentali, raccontate con parole appropriate proprio perché sono di uso comune. Storie in cui è possibile riconoscersi: il desiderio di affetto nel motivo che dà il titolo al cd; l’invito a non ferire la persona amata in E VAI VIA.

In altre canzoni c’è un succo ricavato dall’esperienza e che esprime il senso dato alla vita. In CORRI CORRI vengono attraversate con velocità le situazioni senza inferirne in pieno il significato; e in COME UN’ORCHIDEA c’è un “tempo che passa come se rapito / dalla vita che resta senza un equilibrio / ma cammina leggera / superando i ponti”. Altrove si danno anche momenti metafisici, quali quello di AVVICÌNATI in cui “la città sparirà / oltre oceani più blu / dove il resto non c’è”.

VOGLIO RESTARE SVEGLIA adotta un metalinguaggio che ripone le motivazioni del canto in un desiderio che “restino i ricordi”, ma anche nel dato di fatto che “io canterò perché non voglio smettere”: per un bisogno, dunque, e tanto per il soggetto che emette la voce (“io canto per me”), come pure per l’altro (“io canto per te”).

Ci pare che ci sia proprio una riflessione non semplificata e allo stesso tempo espressa senza degli intellettualismi che in canzoni di questo tipo sarebbero fuori registro.

Come si è detto anche nel caso di altri artisti recensiti su “Carte allineate”, non siamo esperti di musica, abbiamo preferenze personali e le seguiamo. A nostro avviso, questo disco raccoglie i testi con melodie intelligenti, molte a ritmo di bossa nova ben eseguita, avvolgente tanto negli arrangiamenti quanto nella voce che, correttamente finta esile, è in realtà capace delle possibilità del “timbre caliente” di cui parlava Vinicius De Moraes in relazione allo stile di canto brasiliano. Oltre al latino si hanno pezzi di jazz tradizionale e moderno. Il disco, anche al terzo ascolto, continua a lasciarci traccia nella memoria acustica e desiderio di replay, speranza infine di poter prima o poi ascoltare dal vivo Manganaro e gli altri musicisti del quartetto.


NOTE

[1] Cfr., per la pubblicità giapponese del disco, MANGANARO / TOWER. Sei motivi del disco si possono ascoltare a MILLE PETALI.
[2] MANGANARO / MYSPACE.
[3] MANGANARO / SITO.


[Renato Persòli]

21/04/09

Marco Ercolani, UNA CERTA STRATEGIA

Intervista a Don Siegel di Alain Masson, in “Positif” (1978)


Qual è stato il tuo rapporto con le majors?

Non ho mai imparato il gioco di Hollywood. Non so neanche come si giochi. Ci sono registi che ottengono soldi per capolavori di serie Z che saranno dimenticati un anno dopo. Io non ce lo faccio a lavorare in quel modo, a fare la puttana per adescare qualche produttore facoltoso. Sono un professionista, un ingenuo. Alla Warner ho lavorato con Lorre, Greendstreet, Bogart, Davis, March; facevo il regista delle seconde unità. Le scene più sgradevoli o pericolose mi toccava dirigerle io, e così dovevo imitare tutti gli stili, per non compromettere l'equilibrio del film. Di volta in volta ero Huston, Curtiz, Walsh. Le confesserò un particolare: non ci vuole molto. Solo una certa dose di spavalderia, una bella abilità tecnica, un senso del ritmo, e la capacità di capire i tic del regista: riprese dall'alto, grandangoli, pause, primi piani. Lo sa che sono stato io a montare le scene di CASABLANCA, una per una?


Perché hai iniziato a dirigere film solo a trentasei anni, dopo una brillante carriera come direttore del montaggio?

Quando volevo dirigere film in proprio me lo vietarono: di registi ne avevano da vendere, ma un direttore del montaggio come me non lo si trovava tutti i giorni. Fui costretto a sgobbare come un mulo ancora per anni. E non ho avuto le possibilità che avrei voluto. Ho fatto il meglio con quanto mi veniva dato - ed era poco. Ho commesso anche un numero incredibile di errori e non c'è mai stato un solo film in cui sapessi esattamente cosa dovevo girare e in che modo. Improvvisavo su un'idea, con un solo scopo: eliminare il non-cinema, le parole superflue, le immagini a vuoto, i tempi morti. Ero dello stesso parere di Hal Wallis quando imponeva al velocissimo Howard Hawks di essere ancora più veloce «perché non si ha tempo di sentire tante parole...».


Che senso ha per te la trama, la storia di un film?

Ci sono storie che significano sempre qualcosa e storie che ti restano in mente per qualcosa che non è mai ovvio - un fattore sconcertante, irripetibile. Ad esempio, l'invenzione dei baccelli nell'INVASIONE DEGLI ULTRACORPI. Molti mi hanno accusato di semplicismo: ma io trovavo quelle bucce gigantesche dei contenitori efficaci ed ironici. Mi ricordavano bare per vampiri. E quando da quelle bare vegetali uscivano i replicanti, simili in tutto e per tutto agli abitanti di Mira, li guardavi subito con orrore, anche se niente, nel loro aspetto, era orribile.

Un dettaglio, niente di più. Sono particolari che a volte non ricordo neppure di aver diretto, e che restano impressi nella memoria - un volante, una macchia di sangue, una voce fuori campo. Se non ci fossero, non esisterebbe il film. Così, nell'INVASIONE, quando Miles e la donna sono nella miniera, sotto le travi di legno, e sopra passa la folla inferocita degli alieni, ho reso tutto molto semplice accentuando il rumore dei passi: il suono, negli occhi spalancati delle vittime, sembra molto più forte, quasi intollerabile.


Oggi ti consideri un regista di successo?

Sembra di sì, se mi fanno girare film. Sembra che le mie storie facciano soldi. DIRTY HARRY, ad esempio. Ma io continuo a odiare QUARTO POTERE, BARRY LINDON e tutti quei film che vengono chiamati capolavori. Li odio per l'ovvietà della loro bellezza. E chi ricorda MI CHIAMO NINA ROSS? - la finestra sbarrata, la spiaggia, gli occhi atterriti di Nina Foch? O L’ANGELO NERO? - l’incubo di Dan Dyurea che rivede se stesso, ubriaco, in una stanza distorta, uccidere la donna di cui cerca l'assassino?

Ci sono, nei film minori, delle singolari distorsioni, dei gesti o delle espressioni che non è possibile controllare: mentre li giri, sembrano ovvii; quando sono girati, ti aggrediscono come cose bizzarre, irreali. E ti sembra di aver fatto il film solo per quella scena. Non saprai mai se quello che stai filmando verrà ricordato oppure no. Dipende da fattori che non sai prevedere. Il cinema è unico, in questo. Lo chiamano arte, ma è una cosa molto diversa. Fai del caos, perché poi ti venga fuori una storia, e magari ti sembra noiosa, a rivederla, però poi brilla come un diamante nella merda. L'occhio di un'attrice dimenticata. Un paesaggio che non doveva esserci. Un fondale fuori posto. Parola di Don Siegel: è tutto un gran casino.


Parlaci del tuo ultimo film con Clint Eastwood, FUGA DA ALCATRAZ .

Con FUGA DA ALCATRAZ ho voluto girare un film di pura azione. Ho raccontato una strategia di fuga. Non mi piacciono le storie psicologiche, e non amo le utopie. Mi piace che un'idea sia desiderata, pensata e poi realizzata: non mi va di descrivere il volo degli uccelli che vanno a spasso nell'aria ma piuttosto il lento lavoro dei topi che rosicchiano le pareti, aprono mille buchi, conquistano spazio centimetro dopo centimetro. Ingegno, lavoro concreto, una certa strategia: e, naturalmente, dissimulazione. Per scappare bisogna ingannare, usare delle maschere.

In FUGA DA ALCATRAZ ho fatto parlare solo le cose. Il cucchiaio, la lente, il temperino, il mastice, la faccia di Clint. Più che un film, è il documentario di un'evasione riuscita.


Puoi parlarci del crisantemo che galleggia nel fiume Hudson alla fine del film? Ha qualche riferimento simbolico?

A film finito, nella memoria dello spettatore resta la testa del pupazzo nel letto della cella e il crisantemo gettato nell'Hudson. Quel crisantemo non è nessun simbolo: è un crisantemo vero, simile a quelli che l'eroe potrà vedere, da uomo libero, nei cimiteri dove non è sotterrato. Questi due dettagli non li ho voluti io. Li ha imposti la produzione. Io mi sono limitato a filmarli nel modo più sobrio possibile. È andata benissimo: sono due fra le scene più riuscite. Ma solo per caso. Sul film puoi lavorare come un dannato, ma poi ti sbeffeggia sempre. Quello che vedi non è neanche più tuo. È solo quello che accade. Gli stili dei registi sono tutti imitabili e intercambiabili. Ma i film no. Niente è sacro nel cinema. L'intenzione dell'autore si realizza oppure non si realizza, e sempre in modo deviato, mai come si prevedeva. Il cinema è un inganno, una coglioneria. Solo all'ultimo momento, quando l’occhio dello spettatore entra nelle tue scene, capisci cosa funziona e cosa fa schifo. Di effetti sicuri non hai neppure l'ombra. Certo, si deve lavorare. Più che si può. Quasi con ferocia. Se non lasci niente al caso, il caso si mostrerà benevolo con te: e riderai della scena bellissima che era una stronzata e della scena casuale che è un miracolo di cinema.

19/04/09

Ronny Yu, FEARLESS


[Red lanterns in Soho. Foto di Marzia Poerio]

Ronny Yu, FEARLESS. 2006. Con Collin Chou, Yong Dong, Jet Li, Nakamura Shido, Betty Sun

Film di genere (arti marziali cinesi)? Senz'altro, ma allo stesso tempo si tratta di una storia ben raccontata, ben interpretata da Jet Li e dagli altri attori, con ottima scenografia e riscostruzione di ambienti oltre che scene di natura. In breve, un film non proprio di genere, bensì ben costruito e con un significato etico (riprendersi dalla sventura e imparare dagli errori) e politico (il protagonista, con la bravura ginnica, vince sulle potenze imperialiste che finiranno perciò coll'avvelenarlo).

Basato sulla storia vera di un campione di un'arte marziale denominata wushu, tra la fine dell'Ottocento e il primo decennio del Novecento, il film epicizza la vita di Huo Yuanjia, ma parte da episodi accaduti realmente: la contesa, da cui comincia la narrazione, tra Huo Yuanjia e gli sfidanti delle potenze occupanti, ebbe effettivamente luogo; e la sua fama di imbattuto era altrettanto vera. Ciò che la pellicola ingigantisce è la drammaticità e lo svolgimento di alcuni eventi, mossi in direzione simbolico-allegorica.

Dopo i primi incontri della sfida fatale (che ebbe luogo nel 1910), un flashback conduce a una narrativa cronologica che riparte dall'infanzia, con un episodio significativo di incontro sul leitai, ovvero una piattaforma in cui si combatteva fino a esserne espulsi e con regole che potevano comprendere anche la lotta mortale. Il padre di Huo Yuanjia perde un combattimento proprio per non avere sferrato il colpo mortale all'avversario. Huo Yuanjia si ripromette di diventare un praticante perfetto dell'arte marziale e di restare imbattuto, nel che riuscirà. Quando, anni dopo, in stato di ubriachezza e per vendicare un allievo, intraprende un combattimento con un maestro nemico anche del padre e lo uccide, si determina una vendetta per mano del figlio dell'avversario che, dopo aver assassinato madre e figlia di Huo Yuanjia, si ucciderà. Di qui parte una presa di coscienza, che porta Huo Yuanjia dapprima alla discesa dentro di sé e alla consapevolezza del dolore e del vuoto, in una serie di peregrinazioni e di abbandono degli scopi vitali, fino all'arrivo presso una comunità agricola in cui risiede vari anni, imparando la modestia, la semplicità dei modi, la quotidianità, la durezza del lavoro dei campi, la linearità degli affetti. Ritorna infine a Shanghai e combatte, nel campo dello sport, con pugili e lottatori occidentali, diventando una personificazione dell'antimperialismo e installando fiducia nei cinesi. Ha smesso di bere, è più forte interiormente, desidera tornare dalla famiglia che lo ha ospitato in campagna. Tuttavia, nel corso di una sfida contro quattro avversari, organizzata dalla Camera di Commercio straniera, giunto al confronto col quarto oppositore, un giapponese, beve una tazza di tè avvelenato e muore, proclamato però vincente, sportivamente, dal giapponese medesimo. (Nella vita reale, il veleno fu successivo alla sfida, che si concluse senza un netto vinto e vincitore).

I movimenti del wushu sono di ottima qualità filmica. Le psicologie dei personaggi sono delineate più realisticamente che melodrammaticamente, anche se i toni sentimentali non mancano, com'è giusto che sia in una storia di questo genere. La Cina tradizionale sconvolta dalla presenza straniera è ben rappresentata. Jet Li dichiarò a suo tempo che questo sarebbe stato il suo ultimo film marzial-patriottico. Se così è, peccato!


[Renato Persòli]

17/04/09

Marina Pizzi, "STERPI DEL PIANO ESULE" E ALTRO

TESTI 83-86 DA L'INCHINO DEL PREDONE (2008)


87.

sterpi del piano d’esule
dalla finestra il mare in su senza capire
le lenze degli strazi. trapezio acrobatico
la forca di farsi resistenza. ebbene in bilico
al costosissimi avverbio di dimettersi
sta la cagna ossuta bisunta del suono
di agonia. il gomito d’Ercole non basta
a far più piangere questo forzato
del piano d’elemosina lo schianto. dove
l’acqua congiuri col veleno
questa scuola di lavagna di sinistro.


88.

elimina di me la poca specie
l’anima inesatta che si rampolla
all’angolo del verbo,
il corriere che non serve la consegna.
vagabonda resina d’eclisse
la gara di trasmettere la voce
verso un cielo carico di niente.
in un giorno di noia la fierezza
del bivio. starsene distesi al pianto
il vitello con l’asinello uccisi per
un anello di scienza.


89.

salvacondotto di nuvole il tuo mento
spaccato a metà come un sesso
di soldato accampato. in via la neve
smorza la palude il dio neastro
del pube. bel bebè il chiosco
stazionario della stazione. per amarti
sprecherò un libro senza capirci
niente. teca del bacio la morte
nel credito d’uccello. chiedo venia
alla genia prossima del sangue.


90.

ma in capanne di selci
ci è dato annaspare
spore di ieri senza germoglio.
è mogio il padre che rapì
l’amore, di poi nulla avvenne
nel resto dello stormo. mo’ mi
aggiro per inventarmi un rospo
senza prìncipe senza permesso
di soggiorno. nome canuto il figlio
della scuola oggi scherano assassino.
furto d’inverno il gelo
reso soltanto sasso
nomea del sì lo sposalizio.

15/04/09

Cristina Cona, DALLA TRADUZIONE ALLA TRADIZIONE

Il “caso” letterario più clamoroso del XVIII secolo prese avvio nel 1760 con la pubblicazione di un volume intitolato FRAGMENTS OF ANCIENT POETRY, COLLECTED IN THE HIGHLANDS OF SCOTLAND AND TRANSLATED FROM THE GAELIC OR ERSE LANGUAGE BY JAMES MACPHERSON. Quest’ultimo era un giovane maestro originario della regione di Inverness che, incoraggiato dalla buona accoglienza riservata a questo primo libro, ne diede alle stampe altri tre nei successivi cinque anni: FINGAL, AN ANCIENT EPIC POEM, IN SIX BOOKS (1762), TEMORA (1763) a THE POEMS OF OSSIAN (una nuova versione con annotazioni critiche) nel 1765. Si trattava, a detta di MacPherson, della fedele traduzione di antiche ballate gaeliche da lui ritrovate in forma manoscritta; in esse l’autore, il guerriero Ossian, divenuto vecchio e cieco, si consola cantando le gesta del padre Fingal e dei suoi antenati sulla tela di fondo rappresentata dai desolati e brumosi paesaggi delle Highlands.

Ossian (l’“Omero celtico”) riscosse un immenso successo in tutta Europa (la prima traduzione italiana, del 1763, fu opera dell’abate veneziano Melchiorre Cesarotti) e divenne un vero e proprio libro di culto per le giovani generazioni. Ispirò, fra gli altri, i poeti romantici inglesi, Schiller, Goethe (è citato a lungo nel WERTHER), Chateaubriand, Mme de Staël, Musset, Lamartine, Foscolo (soprattutto nella prima edizione dell’ORTIS), nonché poeti e musicisti. Suo grande ammiratore fu anche Napoleone, che quando partiva per una spedizione militare non mancava mai di portare con sé la traduzione (italiana!) di OSSIAN e che, diventato imperatore, promosse nel suo entourage la voga dei nomi celtici: valga per tutti l’esempio di Oscar Bernadotte, suo figlioccio e capostipite dell’attuale casa reale svedese, il cui nome è per l’appunto quello di un eroe ossianico. Si era infatti agli albori del Romanticismo, in un’epoca la cui sensibilità estetica soggiaceva al richiamo del primitivo e della natura incontaminata, alla passione per gli ambienti e i personaggi esotici, insomma, al culto del “buon selvaggio”: in questo filone la celtomania poteva inserirsi a buon diritto, tanto più che perfino le Highlands contemporanee, ancora difficilmente accessibili alla maggior parte dei viaggiatori, apparivano come un paese misterioso e pittoresco.

MacPherson morì ricco e celebre nel 1796 e venne sepolto a Westminster Abbey. La fama e gli onori di cui era stato circondato in vita non avevano mai completamente dissipato i dubbi circa l’autenticità di OSSIAN (particolarmente scettico si era mostrato il grande lessicografo Samuel Johnson, che oltre a considerare l’opera una contraffazione non le aveva risparmiato critiche sferzanti anche sotto il profilo letterario). Effettivamente sia le ricerche intraprese dalla Highland Society a pochi anni dalla morte di MacPherson, sia quelle svolte in epoca successiva, permisero di accertare che si era trattato di un’impostura: egli si era basato su (pochi) frammenti di manoscritti autentici, inframmezzandoli con racconti, leggende, canti della tradizione popolare da lui raccolti fra gli abitanti delle Highlands, che se li trasmettevano oralmente di generazione in generazione e, soprattutto, con numerosi brani da lui inventati di sana pianta.

Inoltre i poemi gaelici originali erano non scozzesi, ma irlandesi (gaelico scozzese ed irlandese erano e sono parenti stretti - tanto che il primo veniva spesso designato come “Irish” - perché le Highlands erano state colonizzate dagli irlandesi dal V al IX secolo D.C. e i due paesi avevano vissuto in stretta prossimità politica e culturale fino al XVIII). Si trattava infatti di testi contenuti nei due grandi cicli epici del III secolo D.C.: le saghe del Fenian Cycle e dell’Ulster Cycle, i cui episodi venivano da MacPherson disinvoltamente trasferiti in Scozia e fusi in una narrativa “telescopica” che condensava dieci secoli di storia e faceva sì che gli protagonisti risultassero tutti contemporanei gli uni degli altri. È provato che Ossian si basa principalmente su una quindicina di canti del Fenian Cycle: Ossian è Oisín nella saga irlandese, il padre, Fingal, altri non è che l’eroe Fionn Mac Cumhaill che dà il nome al ciclo, Temora è Tara, o Temair, residenza dei re d’Irlanda. Lungi dal limitarsi a tradurre, MacPherson aveva insomma inserito questa miscellanea di testi in una cornice epica di sua creazione, partendo da scene in essi effettivamente contenute per ampliarle e arricchirle di effetti atmosferici, declamazioni patetiche, sfoghi emotivi e soffondere il tutto dell’intensa malinconia tanto apprezzata dai suoi contemporanei, in uno stile fortemente influenzato da Milton e dall’Authorized Version della Bibbia.

Se il successo incontrato da Ossian sul continente europeo è da attribuirsi al suo essere in sintonia con le esigenze spirituali ed artistiche del tempo, il consenso che si creò intorno a MacPherson e alla sua opera in Gran Bretagna può essere fatto risalire anche a motivazioni di ordine ideologico e politico. L’Atto di Unione fra Scozia e Inghilterra (1707) aveva poco più di mezzo secolo di vita: OSSIAN apparve dunque in un momento storico in cui si veniva forgiando un’identità “britannica”, composta di culture distinte ma unite da un comune progetto, radicate in un comune territorio e in una storia comune, non tributarie dunque di influenze esterne. Al fine di integrare credibilmente la Scozia in questa nuova entità era perciò cruciale rivendicare l’esistenza di una tradizione poetica autoctona nelle Highlands (non solo indipendente da quella irlandese ma, come asseriva MacPherson, addirittura preesistente ad essa), riscrivere la storia e la letteratura in modo da presentare la cultura gaelica scozzese come a sé stante, frutto di una civiltà britannica originaria (“Caledonian”) e, semmai, madre anziché figlia di quella della vicina isola. Paradossalmente, la rivalutazione di questa cultura aveva luogo proprio nel momento in cui la società dei clan che la sottendeva veniva sgretolata e distrutta.

OSSIAN, geniale falso letterario, costituì il punto di partenza di questo processo di riorientamento culturale che, spezzati i legami con il passato gaelico irlandese, avrebbe rimesso in auge (talvolta, come sostengono certi autori, “inventandoli”) simboli, costumi e tradizioni di una Scozia più consona ad inserirsi nella grande compagine britannica e a partecipare, sia pure svolgendo un ruolo subordinato, alla creazione dell’impero coloniale. Allo stesso tempo, però, l’attenzione verso la propria storia e il proprio passato che l’opera di MacPherson ebbe l’effetto di stimolare portò molti scozzesi ad una riscoperta della propria identità non solo culturale, ma anche nazionale, che si pose almeno parzialmente in contrasto con l’avvenuta integrazione politica. Dalla traduzione (fittizia) alla tradizione, variamente interpretata: è un itinerario che non si è ancora esaurito ai nostri giorni.


Fonti:

- H. Trevor-Roper, THE INVENTION OF TRADITION: THE HIGHLAND TRADITION OF SCOTLAND, in THE INVENTION OF TRADITION, a cura di E. Hobsbawm and T. Ranger, Cambridge University Press, 1983.

- Fintan O’Toole, A TRAITOR’S KISS: THE LIFE OF RICHARD BRINSLEY SHERIDAN, Londra, Granta, 1997, pp. 36-38.

- James MacPherson, A BICENTENARY CONFERENCE, “Scottish Studies Newsletter”, 25, 1996.

- Robert Welch , THE OXFORD COMPANION TO IRISH LITERATURE, Oxford University Press, 1996, p. 348.

- Henriette Walter, L’AVENTURE DES LANGUES EN OCCIDENT, Parigi, Robert Laffont, 1994, pp. 97-99.


L’articolo, riprodotto col consenso dell’autrice, è apparso in precedenza sulla rivista ”Inter@lia”.

13/04/09

Gian Paolo Ragnoli, ANN BRIGGS FOR BEGINNERS

Non è facile scomparire.

Ci hanno provato in tanti a fare i desaparecidos ma pochi ci sono riusciti davvero.

Non basta nemmeno essere morti per stare tranquilli, perchè è sicuro che prima o poi spunta fuori quello che ha visto Elvis che faceva l’autostop sulla strada per Memphis o quell’altro che (giura!) ha incontrato Jim Morrison in un bar tabacchi all’angolo di Place Saint-Sulpice.

Ci sono poi quelli che, dopo anni di onorata latitanza, si costituiscono con una telefonata alla casa discografica, come Peter Green, bruciando poi con una carriera “qualunque” l’alone mitico conquistato a caro prezzo, oppure ci sono quelli veramente strani, come Vashti Bunyan, che dopo aver fatto passare trent’anni dal suo unico album, passati a girar le isole britanniche su carri di nomadi e a occuparsi della prole, a cinquant’anni si compra un computer, digita il suo nome, scopre che c’è chi è disposto a uccidere per il suo disco e decide di reinventarsi una nuova vita accanto a musicisti dell’età dei suoi figli.

Lei no, Ann Briggs è scomparsa davvero, e non è nemmeno pentita. In un paio di interviste, strappatele quasi a forza negli ultimi anni, a seguito della ristampa della sua esigua produzione, non ha mostrato il minimo rimpianto per aver abbandonato nel ‘73 la carriera musicale, ritirandosi nelle Highlands ad occuparsi della casa, del giardino, degli animali e dei figli. A leggerle viene fuori il ritratto di una simpatica ed eccentrica signora inglese di mezza età, che ricorda la sua giovinezza con un leggero imbarazzo, quasi non fosse sicura che davvero tutto questo sia capitato a lei.

Ma, vi chiederete, chi diavolo è Ann Briggs?

Già questo è un fatto curioso, il fatto che una delle più importanti interpreti inglesi di musica folk degli anni ’60, compagna e musa di Bert Jansch, citata come ispirazione e influenza da tanti nomi noti, da Sandy Denny a Richard Thompson, da Jimmy Page, che scrisse Black Mountain Side dopo averla sentita cantare la ballata tradizionale Blackwater Side, a Christy Moore, da June Tabor a Eliza Carthy, sia quasi completamente sconosciuta.

Eppure aveva tutte le caratteristiche giuste per essere una star, cantava meravigliosamente, era bella, era un tipo all’epoca unico, una hippy anni prima che la parola fosse inventata. Solo che per lei cantare era un modo di esprimersi, un divertimento, una cosa da fare tra amici, dopo l’ultima pinta (ma esiste davvero l’ultima pinta?), e provava disagio a salire su un palco, non parliamo poi di stare tra quattro mura con una cuffia in testa e cantare sopra una musica registrata.

No, meglio il profilo delle Highlands, meglio i ruscelli, le pecore, l’abbaiare dei cani, l’arrosto da preparare, i figli da crescere.
La sua carriera era iniziata presto, a diciassette anni (“nessuno è serio a diciassette anni” scrisse uno che se ne intendeva) se ne andò di casa e raggiunse il Centre 42, un centro culturale itinerante, vicino alle Trade Unions, che cercava di riscoprire e rivitalizzare la cultura popolare.

Il suo esordio, l’ep THE HAZARDS OF LOVE, del ’63, ne mostrava già le qualità, ma salvo alcune registrazioni uscite su varie antologie di musica folk, tra cui la celebre THE IRON MUSE, un album fondamentale che cercava di collocare il folk revival all’interno della società industriale e non in un idilliaco passato pacificato, dove interpretava per sola voce The Doffing Mistress, per il suo debutto su lp si dovette attendere il ’71, anno dell’uscita di ANN BRIGGS, album dove compaiono sue composizioni come GO YOUR WAY e LIVING BY THE WATER assieme a temi popolari come BLACKWATER SIDE e WILLIE O’WINSBURY.

Gli anni erano passati tra folk festival, viaggi, incontri, amori. Come Bert Jansch le aveva insegnato l’uso delle accordature aperte sulla chitarra, a sua volta appreso da Davey Graham, un giovane musicista irlandese, Johnny Moynihan, fondatore degli Sweeney’s Men e figura chiave del moderno folk revival irlandese, la introdusse all’uso del bouzouki, strumento greco che ora è abituale associare ai gruppi di folk irlandese ma che allora era assolutamente inedito e, per i puristi, inaudito.

Era stimata e ammirata da tanti, da Ewan McColl e Peggy Seeger a Robin Williamson, da Shirley Collins a Martin Carthy e Dave Swarbrick, da Bert Lloyd a Archie Fisher, tutti musicisti incrociati sui palchi dei tanti festival folk di quegli anni, ma la sua irrequietezza le impediva di fermarsi, di considerare il canto una “carriera”.

Ci fu un altro lp, THE TIME HAS COME, quasi tutto di sue composizioni, uscito alla fine del ’71, recensito entusiasticamente sia dal “New Musical Express” che dal giornale dell’English Folk and Dance Society, due “mondi” lontani, potremmo dire, un album pervaso da una sottile malinconia e da echi di un’elusiva, fiabesca psichedelia, contenente gemme come la title-track, il traditional STANDING ON THE SHORE, prelevato dal repertorio degli Sweeney’s Men di Moynihan, WISHING WELL, scritta in coppia con Jansch e la struggente ballata FINE HORSEMAN, dalla penna di Lol Waterson, altra immensa, e dimenticata, cantante folk.

Uno dei gioielli del folk inglese di sempre, senza dubbio, ma Ann ne fu insoddisfatta. Non le piaceva l’eco, la tecnologia la intimoriva, le sembrava che in qualche modo le fosse espropriato il controllo sul suo modo di esprimere emozioni e sentimenti, il canto.

Nel ’73 fu convinta a tornare in uno studio di registrazione,
accompagnata da un gruppo di musicisti di area folk-rock guidati da Steve Ashley, per un album che avrebbe dovuto stabilire definitivamente la sua posizione nel panorama del folk revival, aprendosi a sonorità elettriche. Fu talmente disgustata dal risultato che bloccò l’uscita del disco, rimasto a prender polvere negli archivi per ventitre anni, e finalmente pubblicato nel ’96, in un momento in cui Annie era evidentemente di buon umore.

L’album, SING A SONG FOR YOU, per chiunque, tranne che per lei, suonava benissimo e se non raggiungeva i vertici di THE TIME HAS COME era comunque un ottimo disco di folk-rock, con due belle versioni di traditional come SOVAY e BIRD IN THE BUSH, ed eccellenti prove della Briggs cantautrice, SING A SONG FOR YOU e TRAVELLING’S EASY soprattutto.

Ma, appunto, “travelling’s easy”... Come già detto i viaggi poi finirono, si fermò in una casa con giardino sulle Highlands, senza rimpianti.

Ci piace immaginarla ora, al tramonto, appoggiata alla staccionata dell’ovile, il volto invecchiato ma ancora bello, i capelli scompigliati dal vento. Non c’è nessuno intorno, solo lei, le sue pecore, i suoi cani, i luoghi che le sono cari. Accorda la chitarra, accordatura aperta, come le ha insegnato Jansch, e per se stessa soltanto canta.

“Oh, my babe, don’t you know
The time has come for me to go.
Tomorrow comes like yesterday
The autumn fades our love away.
Oh, my babe, don’t you know
The time has come for me to go.
Don’t you think of me no more?
I’m going to some foreign shore.
When I’m there maybe I’ll find
Some other young man please into my mind.
Oh, my babe, why don’t you know
The time has come for me to go.
Tomorrow comes like yesterday
The autumn fades our love away”.

09/04/09

APPUNTI SU IDENTITÀ E POETI LIGURI DI OGGI

Nei testi creativi di scrittori liguri viventi, si nota un orientamento, relativo alla tematica dell'identità, collegato in parte alla tradizione letteraria proveniente da Montale e Sbarbaro che si focalizzava sul rapporto tra individuo e paesaggio, mentre in parte si riscontrano movimenti verso identità simboliche di ordine archetipico e verso modelli globali. Si propongono tre esempi: Roberto Bugliani, Angelo Tonelli e Giuseppe Conte.

Bugliani sembra leggere il paesaggio come desiderio di espressione del canto lirico mentre si insinua la coscienza che gli scorci ambientali non identificano, l’incanto è perduto, il correlativo oggettivo non si dà, il panorama diventa l’altro da sé, l’esterno, ciò che non corrisponde a simbologie interiori.

Così, in FRAMMENTI DEL POEMA MARX:

Errore che dilaga sotto i nostrani cieli
e stanchi e vinti
eroi d’improponibili storie come
improponibili sono le ere-storie
ci si accorge che di prodigi brulican le quinte

e le gemme sui rami, le neonate
insistenze? e i grandi cumuli e i nembi
del corale cangiamento? e i preludi
in verdi squarci crepitano dove?
Stenta quest’anno la stagion novella” [3].

Al contrario, Tonelli, pur manifestando coscienza della decadenza ambientale e della violenza umana, riesce a fissare la bellezza dei luoghi, mitizzandoli in un ambito spiritualista e rendendoli sede di contemplazione e meditazione:

“la sabbia dove corpo e mente posano
e l’onda la lambisce è cosa viva
che affonda dentro sé, io sono niente
e sono l’orizzonte, il mare, immobile
gabbiano sullo scoglio, sono l’isola
che l’onda già sommerse e adesso vigila
sul giorno e sulla notte, inamovibile
madre di ogni guizzo, di ogni esile
risorgere di vita. È canto, musica
il fremito attutito, non visibile
che agita la pietra, la congiunge
al cuore di cristallo delle acque
che scorrono profonde, senza limite”.

Sul piano dell’identità, quella di Conte era in principio solo in parte una poesia ispirata alla Liguria, sebbene la scelta della vegetazione in funzione allegorica fosse, già in L’ULTIMO APRILE BIANCO, una raccolta del 1979, in parte legata alla lezione montaliana, mediata attraverso Leopardi, Eliot e D’Annunzio. Il problema iniziale di Conte, mi pare, era quello di trovare una voce ancestrale e archetipica, che autorizzasse, in tempi in cui aveva ancora in parte corso la poetica dell’avanguardia, di esprimere, per contrasto con quella, i simboli arcaici e naturali con richiami a Pasolini e a Ungaretti, e di consentire al sentimento e al páthos di trovare espressione a prezzo anche di parole retoriche, rilanciando anzi termini come questi, insomma trovando nel linguaggio una possibilità di espressione, un alter ego identitario che superasse il tabù moderno di evitare l’uso della lingua retorica e lo ammettesse anzi come legittimo, producendo dichiarazioni come questa, tratta da un testo intitolato IL POETA:

“l’età ragazza di Ettore e di Achille:
non sono diventato altro che un uomo:
la mia anima si cerca ora nelle acque
e nel fuoco […]”

In un secondo tempo, la ricerca di una seconda identità, proiettata contro la massificazione delle coscienze, il materialismo deteriore e la società dei consumi, si è estesa alla ricerca di un alter ego spirituale, di stampo arabo, come si nota nei CANTI D’ORIENTE E D’OCCIDENTE. Infine, nell’ultima raccolta pubblicata, FERITE E RIFIORITURE (2006), si trova un riconoscimento del quotidiano e si nota una smitizzazione dei luoghi. In NUOVA ODE ALLA LIGURIA, la regione di provenienza non viene chiamata “mia terra” o “madre”, ma piuttosto “compagna di giochi” e “moglie-amante” e se ne percepisce l’essere “bella”, ma al contempo “cruda, arida, inservibile”.

Gli esempi liguri avanzati sopra indicano una ricerca dentro il linguaggio per esprimere un’identità corrispondente alla voce autoriale, che rappresenta l’alter ego recitante di chi scrive. La voce di Bugliani, Conte e Tonelli, pur nella diversità di impostazione linguistica e di riferimenti letterari, costituisce un progetto di opposizione alla società circostante, modernizzata ma anche imbarbarita, per mezzo della costruzione di identità scavate in aspetti molteplici dell’inconscio. Sia Tonelli che Conte si richiamano a riprova a Jung, mentre Bugliani ha studiato Lacan.


NOTE

[1] Z. Bauman, INTERVISTA SULL’IDENTITÀ, a cura di B. Vecchi, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 39.
[2] A. Giddens, MODERNITÀ AND SELF-IDENTITY. SELF AND SOCIETY IN THE LATE MODERN AGE, Cambridge, Polity, 1991.
[3] “Citazione d’una citazione, la quartina richiama i vv. 1-4 de Il buon messaggio di G. D’Annunzio, a loro volta rifacimento di alcune parole di Alioscia a Ivan, nel Libro I, cap. V, dei FRATELLI KARAMAZOV di F. Dostoevskij” [Nota di Bugliani al suo testo].


[Roberto Bertoni]

07/04/09

Wissia Fiorucci, IL MONDO È UN MARE DI PAURA


["The planet had become as fragile as glass...". Foto di Marzia Poerio]


Mille anni sono passati dalla fine della guerra e, da allora, nessun conflitto ha più infestato la vita degli esseri umani. Per questo motivo, oggi - 25 Aprile 4100 - tutto il mondo celebra la pace più lunga della storia.

I grandi Signori della Guerra oggi ricordano le gesta dei loro Padri, che con tanto sacrificio garantirono questo traguardo insperato.

“Tutti uguali” dicono “finalmente siamo tutti uguali e nessuna discriminazione sarà mai più possibile tra essere umano ed essere umano! E per questo", continuano con veemenza, “l’uomo non vorrà mai più combattere il suo simile!”

Affascinanti, questi esseri umani. Ho scoperto che un tempo era possibile individuarne diverse specie. Addirittura, quella che noi oggi conosciamo come “La più grande riserva naturale del mondo”, un tempo aveva un nome. Era persino abitata da uomini, popoli dalla pelle scura!

Non è più possibile viverci, perché nell’anno 2799 i Signori della Guerra decisero di adibirla a riserva protetta per specie animali in via di estinzione. I pochi abitanti rimastivi vennero espatriati e sottoposti al Programma, e qualunque altro segno di intervento umano fatto sparire. Non che ci fosse rimasto molto, comunque. Epidemie di ogni genere avevano già provveduto a decimare la popolazione di quel continente, ma le cause di quella disgrazia non vennero mai rivelate.

Esperimenti, medicinali scaduti e altre atrocità di questo genere.

Confesso che mi è un pò difficile immaginare umani dalla pelle nera, anche perché è impossibile trovarne immagini di qualunque genere. Nessun documento anteriore all’anno 2500 può essere reperito in nessuna parte della terra.

Tuttavia, le mie estenuanti ricerche hanno prodotto qualche frutto, anche se si tratta di tutt’altra cosa.

Alcuni anni fa, una gentile signora mi regalò una raccolta di favole antiche, datata 2200. Era un oggetto a lei carissimo - mi spiegò - ma i suoi nipoti biologici non ne avrebbero saputo fare alcun uso. Al momento non riflettei sulla stranezza di quell’informazione, e misi il libro da parte, in attesa di avere del tempo libero da dedicargli.

Alcuni giorni dopo, in preda all’insonnia, mi decisi finalmente a dargli un’occhiata, e scoprii che il volume, in realtà, non era il vero regalo. Trovai infatti una foto, tra quelle pagine ingiallite e polverose. Aveva un formato curioso, che non avevo mai visto prima.

Secondo i miei studi, si tratta di un’immagine scattata con macchina fotografica Polaroid, un mezzo che gli umani usavano in tempi antichi, e che ormai è in disuso da oltre due millenni.

Ma questo non era importante.

Quello che contava, infatti, era il soggetto della foto. Una donna - che somigliava molto alla mia signora - spiccava al centro di quello che sembrava un ritratto di famiglia.

Alla sua destra, una bambina catturò subito la mia attenzione. Era bellissima, sorridente e, soprattutto, incredibilmente diversa. La sua pelle non aveva il solito colore, e aveva degli occhi che non avevo mai visto prima.

Purtroppo, non seppi identificare con esattezza la sua provenienza, ma scoprii comunuqe che quegli occhi così particolari venivano un tempo chiamati “a mandorla”, e che erano tipici di popolazioni orientali.

I miei pensieri correvano veloci seguendo i tratti di quel volto meraviglioso, quando qualcos’altro catturò la mia attenzione.

Un’altra bambina, parzialmente nascosta dietro la gonna della signora, mi guardava con un paio d’occhi misteriosi. Non capii subito cosa mi stupiva tanto di quello sguardo, e continuai dubbiosa ad osservarlo per ore. All’improvviso, il mio cuore impazzì dalla gioia.

Quella bambina - alla quale poi detti anche un nome - aveva gli occhi azzurri e io, prima di quel momento, non ne avevo mai visti in un essere umano.

La chiamai Celeste, e il suo sguardo innocente continua tuttora a stimolare le mie ricerche.

Con mia grande sorpresa, ho recentemente scoperto che gli occhi azzurri - in tempi antichi - erano piuttosto diffusi.

Provo una gran tristezza nel pensare che mai avrò l’opportunità di vederli.

So per certo che una notevole quantità di documenti storici è presente negli archivi ministeriali di Alessandria. Si tratta di foto, quadri, e immagini di vario genere che ritraggono esseri umani di tutti i tempi e di tutti i luoghi.

Ma nessuno può ottenere accesso a quei fascicoli.

La Costituzione Mondiale - approvata da pubblico referendum nell’anno 3000 - dichiara che quei documenti possono essere consultati solamente da due persone: il Presidente del Consiglio e il Presidente della Federazione Mondiale.

Per lo più, nessuno dei due può avervi accesso senza previa approvazione dell’altro.

Nel corso degli anni, tuttavia, ho raccolto informazioni sul contenuto dell’archivio segreto e, soprattutto, ho scoperto l’identità di chi contribuì a crearlo. Con mia grande sorpresa, venni a sapere che si trattava per lo più di personaggi politici della fine del terzo millennio, ministri che - in totale segretezza - si erano preoccupati di collezionare testimonianza della passata e perduta diversità. Avevano persino costituito una società segreta, il cui capo fondatore era una donna - la Ministra dell’Educazione - passata ufficialmente alla storia come “L’Intollerante”. Nei libri di storia, infatti, si racconta come la Ministra avesse proposto una legge che proibiva ricerca universitaria su eventi anteriori all’anno 2500. Il mondo, forte della trionfante democrazia che regnava sovrana, aveva temuto un colpo di stato. Il Presidente della Federazione , accogliendo le paure del popolo, aveva posto Veto Preventivo sulla legge in questione.

Magra consolazione, dal momento che già a quel tempo documenti così antichi erano rarissimi. Ma la Ministra questo lo sapeva, e la sua, in realtà, era stata una mossa strategica. Anche se la legge fosse stata approvata, poco danno la ricerca ne avrebbe patito: non c”era più niente da ricercare, e sicuramente non con i pochi mezzi a disposizione delle facoltà umanistiche.

In realtà, la Ministra si esponeva ai riflettori dal lato che le era congeniale. La sua attività di severo politico, infatti, le permise per tutta la vita di portare avanti la sua ricerca di materiale storico, senza venire mai sospettata di attività illecita.

Secolo dopo secolo, I Signori della Guerra hanno cancellato ogni traccia della Ministra e della sua Organizzazione. Di lei non si conosce più nemmeno il nome, nei libri di storia viene semplicemente citata come “L’Intollerante”. La Polizia Politica ha scoperto la sua attività molti decenni dopo la sua morte, quando il grande terremoto del 3033 rase al suolo il Palazzo di Piombo, segreta sede dell’Organizzazione. Tra le sue rovine furono ritrovate migliaia e migliaia di immagini perfettamente conservate, oltre a documenti di ogni genere che raccontavano la storia della Ministra e della sua Organizzazione.

Il Governo tentò di insabbiare la scoperta, ma qualche informazione parziale e distorta riuscì comunque a fare il giro del mondo. la stampa mondiale iniziò a fare pressioni su certi personaggi politici, affinché dettagli fossero rivelati. Anche l’opinione pubblica cominciava a manifestare del malcontento. Si parlava di violazioni alla Costituzione, ai diritti dell’Uomo e della Donna e a tutti i principi base della Democrazia.

A quel punto, però, un altro terremoto mise in ginocchio il mondo occidentale e la popolazione mondiale perse interesse nella questione.

Mi chiedo se il mio libro non sia stato trovato tra quei documenti preziosi.

Non ho esperienza di studi linguistici, ma mi sembra essere scritto in francese, una lingua in disuso da almeno due millenni. Ho provato a decifrarne dei brani, e alcuni ne ho tradotti con successo (almeno credo).

Stranamente, questa lingua morta e sconosciuta sembra avere delle affinità con la mia, originatasi all’altro capo dell’universo. Non può trattarsi solo di una coincidenza. Alla fine della mia ricerca, cercherò di risolvere anche questo mistero.

Al momento, però, mi trovo in un vicolo cieco. Muovermi da una parte all’altra della terra diventa ogni giorno più difficile, dopo i recenti avvenimenti che hanno sconvolto il mondo.

Ad una settimana dall’inizio delle celebrazioni, nel giro di ventiquattro ore un virus letale e sconosciuto ha ucciso cinque persone . Secondo i referti medici dell’Organizzazione Federale della Sanità, un simile evento non si verificava dall’anno 2304, quando il mondo assistette all’ultima morte per malattia nella storia dell’essere umano. L’ultima fino a quelle occorse pochi giorni fa.

Le vittime si aggiravano tutte tra i sessanta ed i settanta anni, stroncate crudelmente nel fiore della giovinezza.

Speculazioni di ogni genere hanno tentato di spiegare l’incredibile accadimento, e si è persino giunti a formulare l’ipotesi di un attentato terroristico. Inchieste di ogni genere sono state aperte in merito alla questione, ma tuttora non si è riusciti a venire a capo di questo mistero.

Per questo motivo, evitare un CSO (controllo sanitario obbligatorio) è diventato impossibile per chi vuol viaggiare. Pertanto, non ho modo di procurarmi altri documenti su cui lavorare. Ho solo il mio libro di favole.

Pochi giorni fa, sfogliandolo, ho notato qualcosa di veramente interessante. Ai piedi di un’illustrazione, una scrittura non stampata riporta parole in una lingua a me totalmente sconosciuta. La tecnica utilizzata è chiaramente quella della penna stilografica, ed i caratteri sono in corsivo.

Purtroppo non sono nemmeno in grado di tentare una traduzione, e la mia ignoranza in materia mi impedisce di capire persino di che antico idioma si possa trattare. L’unica cosa che mi sembra di intuire è che si tratta di una lettera.

Dear reader,

I write in this foreign and forgotten language in the hope that - if you can understand it - then you deserve to decipher its meaning. This is not my mother tongue, hence forgive me please if I make mistakes.

My name is Elena, and what follows is the story of a woman who tried to change the world. Among us, she was known as “blue eyes”.


La stessa scrittura compare più volte nel libro, sempre in corrispondenza di un’illustrazione. Si tratta probabilmente delle fantasie di una bambina, e mi incuriosisce molto. Mi piace riprodurre le sue parole, anche se non le capisco. Mi sembra di restituire vita a dei suoni che il tempo, e gli esseri umani, hanno cancellato senza pietà.

Questa lingua sconosciuta esplode melodiosa nella mia mente, quasi fosse musica. Quando la recito, una nostalgia improvvisa mi assale. Mi mancano i suoni della mia terra, mi manca anche parlare la mia lingua, mi mancano i nomi delle persone care.

Ho da poco scoperto che gli esseri umani conoscevano molti alfabeti, oltre che parlare centinaia di lingue diverse. Adesso di lingua ne conoscono soltanto una, basata su un sistema di segni e suoni assolutamente essenziale e di velocissima riproduzione.

Ma cosa dico, lingua! Al massimo quest’aberrazione si può definire un linguaggio. Gli esseri umani lo crearono a tavolino dopo anni ed anni di studi e ricerche. Al progetto parteciparono esperti in linguistica - e non solo - provenienti da tutto il mondo.

Il nuovo linguaggio rese la comunicazione internazionale molto più semplice ed efficace. Per questo gli umani lo accettarono senza nessuna protesta. Anzi, direi che fu proprio l’opinione pubblica ad acclamarlo a gran voce. Conflitti secolari vennero risolti in pochissimi mesi, solo perché finalmente i popoli parlavano una lingua comune, che tutti capivano. Niente più equivoci, nessun malinteso poteva più turbare la vastissima rete di rapporti politici e commerciali tra gli Stati di tutto il mondo.

Quello che seguì ne fu un’atroce ed ineluttabile conseguenza. Gli umani si convinsero che la chiave per una pace suprema si trovava nell’annientamento di tutte le diversità. E agirono di conseguenza.

Ma quale pace hanno raggiunto? E quale prezzo hanno pagato?

Non posso che versare lacrime nel recitare le sconosciute parole di quella fortunata bambina. Sì, fortunata, perché conobbe la bellezza vera, quella che gli umani di oggi non possono nemmeno immaginare.

Ho imparato alcuni brani a memoria, tanto piacere provo nel leggere e rileggere le sue incomprensibili letterine.

Una mi ricordo in particolar modo, scritta sotto la raffigurazione di un albero di mele.

At this point, my dear reader, the story becomes legend. The spaceship left with its precious crew, with all its colors. But “blue eyes” decided to remain. “My mission has not been completed yet”, she said “in fact, I would say that it has just begun”.
She never saw her friends again, but she knew, deep in her heart, that they were safe and all was well.


Mi chiedo se non fosse Celeste la bambina autrice di queste lettere, o forse la sua amica dagli occhi a mandorla. A volte mi coglie un profondo sconforto, e mi rammarico fino alle lacrime di non esser capace di dare un significato a queste dolci parole. Ogni tanto riesco a capirne qualcuna, ma non arrivo mai a comprendere il significato di un’intera frase.

Giusto ieri ho letto qualcosa che ha sconvolto il mio cuore.

Nell’ultima lettera compare un termine che ho riconosciuto all’istante. La bambina scrive infatti la parola “Italian”, che - se la memoria non mi inganna - è il nome con il quale veniva chiamata la mia lingua in tempi molto remoti. Il resto della frase, purtroppo, mi rimane assolutamente incomprensibile.

Sometimes I happen to think about those Italian pioneers. I wonder if they have found their “promised land”, if there is still hope for humankind to remember who we used to be. I will never know, my dear friend, but you do.

If you are reading what I am writing, it means someone recognized you. If you are reading this passage, it means that they succeeded.

05/04/09

Satyajit Ray, DEVI


[Relief from Angkor. Foto di Marzia Poerio]


Traduzione italiana del titolo: LA DEA. 1960. Con Karuna Banerjee, Chhabi Biswas, Soumitra Chatterjee, Arpan Chowdhury, Purnendu Mukherjee, Sharmila Tagore

Ambientato nel Bengala del 1860, questo bel film, con capacità di penetrazione psicologica e di studio di interni e di esterni affidati a un bianco e nero con sfumature svariate e raffinate, taglia la vita di una coppia giovane di sposi, Umaprasad e Dovamoyee, nel momento in cui lui si reca a Calcutta per studiare e lei resta a Chandipur per accudire il suocero Kalikinkar nella casa in cui risiedono anche i cognati. Kalikinkar sogna che la nuora sia un'incarnazione della dea Kali e vada pertanto adorata. Costretta a disporsi su un altare, pare destinata a un'esistenza di sacrificio, come riflettono le espressioni facciali, soprattutto, di questa performance notevole e per lo più silenziosa. Avvertito dalla moglie del fratello, Umaprasad torma a casa, cerca di far ragionale il padre, che resta inamovibile soprattutto da quando (miracolo? coincidenza?) un bambino malato portato a Dovamoyee è guarito. La giovane, combattuta tra l'amore per il marito e i doveri all'interno della famiglia patriarcale, pare dapprima accettare di partire con Umaprasad, ma all'ultimo momento rinuncia, colta dal dubbio di poter essere effettivamente una reincarnazione della dea. Continua così la sua esistenza, mentre Umaprasad cerca, anche con mezzi legali, di riscattarla, ma è troppo tardi, ormai: lei al momento di allontanarsi con lui tra le piante acquatiche del fiume, impazzisce e qui si chiude la storia narrata.

Interpretazione memorabile, quella di Tagore, come si notava sopra: i suoi occhi dominano lo schermo e imprimono l'andamento psicologico alla pellicola. Soumitra Chatterjee propone anch’egli un'ottima recitazione, capace di cogliere senza esasperazioni melodrammatiche, ma con intensità introspettiva, la difficoltà del matrimonio messo in crisi da un'autorità patriarcale e da una sovrapposizione del sogno sulla realtà. Gli esterni forniscono la possibilità, come anche altrove in Ray, di rappresentare un'India reale senza toni retorici.

L'assunto religioso resta giustamente nell'ambiguità. Sebbene abbia subito all'apparire delle critiche in India, questo film, che fini col ricevere invece riconoscimenti anche in patria, mette in rilievo la sincronicità dei fenomeni che sfuggono alla spiegazione razionale, compresi i miracoli. Non appare a chi qui scrive che questa narrazione per immagini sia critica negativamente nei confronti dell’induismo, semmai mette in rilievo tanto una mentalità spiritualista come quella di Kalikinkar, quanto uno scetticismo sulla superstizione come quello che è proprio di Umaprasad.

Restano tese le linee di raccordo tra lucidità e malattia mentale. La pazzia finale di Dovamoyee è probabilmente la conseguenza inevitabile dell'invasione profetica e del divino dentro l'anima, con una modalità che, a causa dell'ascolto di voci interiori ingigantite, sconfina in una componente schizofenica.

[Renato Persòli]

03/04/09

Nicoletta De Boni, ISTRUZIONI DI GIOCO


["The game of dice gave an even number...". Foto di Marzia Poerio]


Come a cercare la lacrima
che perdesti attraversando il fiume
distilli ad uno ad uno i gesti
setacci i nomi e vieni
questa sera a parlarmi.
Apri il sacco della vita
con cura disponi parole
ne scopri alcune poi mescoli
e scegli regole e allegrie
di un nuovo gioco.
Come a cercare un sorriso
tra graffi di pietre spoglie di volti
vado rasente ai muri e provo
a infilarmi negli angoli.
Con precisione traccio le linee
che conducono a antiche fidate fessure.

Tiri di dadi truccati.

Come insetti impauriti e curiosi
se ne andranno i nostri corpi. Passerà ogni voce
da quelle strette e nascoste vie

01/04/09

Cinzia Sartini Blum, REWRITING THE JOURNEY IN CONTEMPORARY ITALIAN LITERATURE. FIGURES OF SUBJECTIVITY IN PROGRESS

University of Toronto Press, 2008

Cinzia Sartini Blum è professore associato presso il Dipartimento di Francese e Italianistica dell'Università dell'Iowa. Ci offre qui un libro colto, non solo perché nato in ambito accademico, ma perché accuratissimo nel disciplinare una selva di riferimenti e connessioni. Vorrei, per rendere l'idea, citare alcuni dati: il libro si compone di trecentottantuno pagine di cui trentacinque di indici e bibliografie e ottantacinque di note, che per loro stesse costituiscono un valido strumento a parte, un altro libro di dettagli, citazioni, esperienze dirette.

Cominciando dal soggetto del titolo, il tema del viaggio viene in un primo tempo considerato dall'obbiettivo maschile di Celati, Calvino, Baudelaire e di altri scrittori canonici, con una tendenza a ripercorrerli in senso inverso rispetto al loro ingresso nella moderna classicità. C'è poi un'immagine che si tramuta in concetto: Gradiva, il bassorilievo antico che riproduce il movimento in un corpo giovane e saldo di donna. Un incedere sicuro, una bellezza inquietante perché Gradiva sembra sapere dove sta andando ma a chi la osserva non lo lascia congetturare.

L'immagine di Gradiva s'inserisce, agli inizi del secolo scorso, tra i topoi delle donne diverse dall'immagine classica ferma e frontale, le ginocchia leggermente divaricate ad accentuarne l'immobilità. Gradiva vola via di profilo, mentre l'aria le gonfia il velo intorno al capo. È diversa, per “la doppia impressione di eccezionale agilità e confidente compostezza” che le riconosceva Jensen, da altre donne che pure non si fermano. Tra queste Sartini Blum cita la “tanto gentile e tanto onesta” della VITA NUOVA, la “fugitive beauté […] agile et noble” di Baudelaire, la donna che procede “indifferente e cupa” in COME FOGLIE DI SANGUE di Corrado Govoni.
Cinzia Sartini Blum ripercorre le mitologie che riguardano Gradiva attraverso la pittura, la scultura, si sofferma sulla prima forte immagine che Wilhelm Jensen ne dà nell'omonimo racconto, sulle analisi di Sigmond Freud, sulle interpretazioni offerte dal movimento surrealista, infine su LE TROISIÈME CORPS di Hélène Cixous, per approdare all'opera di Biancamaria Frabotta.

L'autrice lo sottolinea: ci sono, sul tema, altri libri importanti nel panorama della scrittura italiana al femminile. Tuttavia questa scelta s'impone: “I take Frabotta as my lead because her work displays vital connections and tensions between theoretical and creative practices”. Il fulcro dell'analisi dell'opera di Biancamaria Frabotta è posto sul poemetto LA VIANDANZA, neologismo “con assonanze arcaiche [… ] che inoltre evoca la gioiosa immagine di danzare per la via” (p. 103).

Roma è nello sfondo, con alcuni suoi quartieri dove bellezza e marginalità s'intrecciano, ma la città non è protagonista. Frabotta, secondo una dichiarata poetica parla nella sua poesia a un interlocutore, spesso ben riconoscibile, spesso una personalità della cultura, un suo pari. Frabotta, nella sua duplice identità di poeta e studiosa di letteratura rimane infatti meno lontana dal colloquio diretto con "l'altro", rispetto alla maggior parte delle scrittrici che si collocano “between margins and mainstream”, secondo una formula adottata da Carol Lazzaro-Weis.

La stessa Dacia Maraini, i cui libri da anni sono riusciti a imporsi sul mercato, per sua esplicita ammissione, fatica a essere riconosciuta, all'interno delle antologie che consacrano la memoria, da quanti pensano di avere la capacità di separare il grano dal loglio. Dacia Maraini e i viaggi con amici e compagni di vita, i viaggi della sua famiglia, le esperienze in paesi lontani. Ma anche, forse soprattutto, l'esperienza del viaggio interiore, l'elaborazione del lutto per l'abbandono del padre amato, la riconquista delle ragioni dell'"altro", cioè della madre, la letteratura come espressione di una soggettività che s'impone, che trova i modi per non arrestarsi, VIAGGIANDO CON PASSO DI VOLPE, come dice il titolo di una sua bella raccolta di versi.

Una famiglia d'eccezione, i Maraini. Accanto all'analisi dell'opera di Dacia Maraini Sartini Blum prende in considerazione anche quella della sorella Toni, facendo delle due, in un libro che parla di letteratura italiana femminile, un vero caso. La sorella minore di Dacia ha infatti, dopo la nascita in Estremo Oriente e i successivi spostamenti e ritorni con la famiglia d'origine, sceglie l'immersione in un'altra cultura, quella magrebina, non solo tramite lo studio, ma anzitutto per una scelta personale e "appassionata": il matrimonio e l'allevamento delle figlie. La figura di Toni Maraini, nell'esperienza personale come nella scrittura, segna il trapasso tra un idea di viaggio come crescita della soggettività alla vera e propria migrazione, che nel suo caso è un costante “venire e andare”, ma arricchiti, come nella “transumanza”.

Lo studio è quindi giunto a parlare della migrazione, nella nuova dimensione che coinvolge l'Italia con impatto storico. Lo fa parlando dell'importante libro di racconti ed esperienze dirette di Maria Pace Ottieri, QUANDO SEI NATO NON PUOI PIÙ NASCONDERTI, e della letteratura, ormai ricca, dei migranti di ieri, oggi nuovi cittadini, in lingua italiana.

Il libro l'abbiamo detto, è ricchissimo. Qui ci siamo dovuti contentare di un rapido excursus. Dal quale risultano tuttavia chiare alcune caratteristiche dello studio di Sartini Blum:
- una visione globale della cultura italiana del secolo scorso e dell'inizio del nostro;
- la capacità di scegliere un tema e svolgerlo in profondità con riferimenti anche alla cultura europea soprattutto francese;
- la volontà di applicare il suo metodo di ricerca alle autrici che "sceglie", assumendosi la responsabilità di lasciarne in ombra altre, che pure ritroviamo nelle citazioni e negli esergo;
- la capacità di trapassare da un mondo a un altro, dal mondo dell'autocoscienza femminile e femminista alla nuova coscienza del radicamento definitivo in "altra terra".

Un libro composito, che intende svolgere intorno a un tema centrale molti argomenti, tutti raggiunti seguendo il filo dell'"andare", attività umana quanto mai, che sempre meno è negata alla completa e libera esperienza femminile e alla sua traduzione in espressione letteraria.


[Piera Mattei]