05/04/09

Satyajit Ray, DEVI


[Relief from Angkor. Foto di Marzia Poerio]


Traduzione italiana del titolo: LA DEA. 1960. Con Karuna Banerjee, Chhabi Biswas, Soumitra Chatterjee, Arpan Chowdhury, Purnendu Mukherjee, Sharmila Tagore

Ambientato nel Bengala del 1860, questo bel film, con capacità di penetrazione psicologica e di studio di interni e di esterni affidati a un bianco e nero con sfumature svariate e raffinate, taglia la vita di una coppia giovane di sposi, Umaprasad e Dovamoyee, nel momento in cui lui si reca a Calcutta per studiare e lei resta a Chandipur per accudire il suocero Kalikinkar nella casa in cui risiedono anche i cognati. Kalikinkar sogna che la nuora sia un'incarnazione della dea Kali e vada pertanto adorata. Costretta a disporsi su un altare, pare destinata a un'esistenza di sacrificio, come riflettono le espressioni facciali, soprattutto, di questa performance notevole e per lo più silenziosa. Avvertito dalla moglie del fratello, Umaprasad torma a casa, cerca di far ragionale il padre, che resta inamovibile soprattutto da quando (miracolo? coincidenza?) un bambino malato portato a Dovamoyee è guarito. La giovane, combattuta tra l'amore per il marito e i doveri all'interno della famiglia patriarcale, pare dapprima accettare di partire con Umaprasad, ma all'ultimo momento rinuncia, colta dal dubbio di poter essere effettivamente una reincarnazione della dea. Continua così la sua esistenza, mentre Umaprasad cerca, anche con mezzi legali, di riscattarla, ma è troppo tardi, ormai: lei al momento di allontanarsi con lui tra le piante acquatiche del fiume, impazzisce e qui si chiude la storia narrata.

Interpretazione memorabile, quella di Tagore, come si notava sopra: i suoi occhi dominano lo schermo e imprimono l'andamento psicologico alla pellicola. Soumitra Chatterjee propone anch’egli un'ottima recitazione, capace di cogliere senza esasperazioni melodrammatiche, ma con intensità introspettiva, la difficoltà del matrimonio messo in crisi da un'autorità patriarcale e da una sovrapposizione del sogno sulla realtà. Gli esterni forniscono la possibilità, come anche altrove in Ray, di rappresentare un'India reale senza toni retorici.

L'assunto religioso resta giustamente nell'ambiguità. Sebbene abbia subito all'apparire delle critiche in India, questo film, che fini col ricevere invece riconoscimenti anche in patria, mette in rilievo la sincronicità dei fenomeni che sfuggono alla spiegazione razionale, compresi i miracoli. Non appare a chi qui scrive che questa narrazione per immagini sia critica negativamente nei confronti dell’induismo, semmai mette in rilievo tanto una mentalità spiritualista come quella di Kalikinkar, quanto uno scetticismo sulla superstizione come quello che è proprio di Umaprasad.

Restano tese le linee di raccordo tra lucidità e malattia mentale. La pazzia finale di Dovamoyee è probabilmente la conseguenza inevitabile dell'invasione profetica e del divino dentro l'anima, con una modalità che, a causa dell'ascolto di voci interiori ingigantite, sconfina in una componente schizofenica.

[Renato Persòli]