13/04/09

Gian Paolo Ragnoli, ANN BRIGGS FOR BEGINNERS

Non è facile scomparire.

Ci hanno provato in tanti a fare i desaparecidos ma pochi ci sono riusciti davvero.

Non basta nemmeno essere morti per stare tranquilli, perchè è sicuro che prima o poi spunta fuori quello che ha visto Elvis che faceva l’autostop sulla strada per Memphis o quell’altro che (giura!) ha incontrato Jim Morrison in un bar tabacchi all’angolo di Place Saint-Sulpice.

Ci sono poi quelli che, dopo anni di onorata latitanza, si costituiscono con una telefonata alla casa discografica, come Peter Green, bruciando poi con una carriera “qualunque” l’alone mitico conquistato a caro prezzo, oppure ci sono quelli veramente strani, come Vashti Bunyan, che dopo aver fatto passare trent’anni dal suo unico album, passati a girar le isole britanniche su carri di nomadi e a occuparsi della prole, a cinquant’anni si compra un computer, digita il suo nome, scopre che c’è chi è disposto a uccidere per il suo disco e decide di reinventarsi una nuova vita accanto a musicisti dell’età dei suoi figli.

Lei no, Ann Briggs è scomparsa davvero, e non è nemmeno pentita. In un paio di interviste, strappatele quasi a forza negli ultimi anni, a seguito della ristampa della sua esigua produzione, non ha mostrato il minimo rimpianto per aver abbandonato nel ‘73 la carriera musicale, ritirandosi nelle Highlands ad occuparsi della casa, del giardino, degli animali e dei figli. A leggerle viene fuori il ritratto di una simpatica ed eccentrica signora inglese di mezza età, che ricorda la sua giovinezza con un leggero imbarazzo, quasi non fosse sicura che davvero tutto questo sia capitato a lei.

Ma, vi chiederete, chi diavolo è Ann Briggs?

Già questo è un fatto curioso, il fatto che una delle più importanti interpreti inglesi di musica folk degli anni ’60, compagna e musa di Bert Jansch, citata come ispirazione e influenza da tanti nomi noti, da Sandy Denny a Richard Thompson, da Jimmy Page, che scrisse Black Mountain Side dopo averla sentita cantare la ballata tradizionale Blackwater Side, a Christy Moore, da June Tabor a Eliza Carthy, sia quasi completamente sconosciuta.

Eppure aveva tutte le caratteristiche giuste per essere una star, cantava meravigliosamente, era bella, era un tipo all’epoca unico, una hippy anni prima che la parola fosse inventata. Solo che per lei cantare era un modo di esprimersi, un divertimento, una cosa da fare tra amici, dopo l’ultima pinta (ma esiste davvero l’ultima pinta?), e provava disagio a salire su un palco, non parliamo poi di stare tra quattro mura con una cuffia in testa e cantare sopra una musica registrata.

No, meglio il profilo delle Highlands, meglio i ruscelli, le pecore, l’abbaiare dei cani, l’arrosto da preparare, i figli da crescere.
La sua carriera era iniziata presto, a diciassette anni (“nessuno è serio a diciassette anni” scrisse uno che se ne intendeva) se ne andò di casa e raggiunse il Centre 42, un centro culturale itinerante, vicino alle Trade Unions, che cercava di riscoprire e rivitalizzare la cultura popolare.

Il suo esordio, l’ep THE HAZARDS OF LOVE, del ’63, ne mostrava già le qualità, ma salvo alcune registrazioni uscite su varie antologie di musica folk, tra cui la celebre THE IRON MUSE, un album fondamentale che cercava di collocare il folk revival all’interno della società industriale e non in un idilliaco passato pacificato, dove interpretava per sola voce The Doffing Mistress, per il suo debutto su lp si dovette attendere il ’71, anno dell’uscita di ANN BRIGGS, album dove compaiono sue composizioni come GO YOUR WAY e LIVING BY THE WATER assieme a temi popolari come BLACKWATER SIDE e WILLIE O’WINSBURY.

Gli anni erano passati tra folk festival, viaggi, incontri, amori. Come Bert Jansch le aveva insegnato l’uso delle accordature aperte sulla chitarra, a sua volta appreso da Davey Graham, un giovane musicista irlandese, Johnny Moynihan, fondatore degli Sweeney’s Men e figura chiave del moderno folk revival irlandese, la introdusse all’uso del bouzouki, strumento greco che ora è abituale associare ai gruppi di folk irlandese ma che allora era assolutamente inedito e, per i puristi, inaudito.

Era stimata e ammirata da tanti, da Ewan McColl e Peggy Seeger a Robin Williamson, da Shirley Collins a Martin Carthy e Dave Swarbrick, da Bert Lloyd a Archie Fisher, tutti musicisti incrociati sui palchi dei tanti festival folk di quegli anni, ma la sua irrequietezza le impediva di fermarsi, di considerare il canto una “carriera”.

Ci fu un altro lp, THE TIME HAS COME, quasi tutto di sue composizioni, uscito alla fine del ’71, recensito entusiasticamente sia dal “New Musical Express” che dal giornale dell’English Folk and Dance Society, due “mondi” lontani, potremmo dire, un album pervaso da una sottile malinconia e da echi di un’elusiva, fiabesca psichedelia, contenente gemme come la title-track, il traditional STANDING ON THE SHORE, prelevato dal repertorio degli Sweeney’s Men di Moynihan, WISHING WELL, scritta in coppia con Jansch e la struggente ballata FINE HORSEMAN, dalla penna di Lol Waterson, altra immensa, e dimenticata, cantante folk.

Uno dei gioielli del folk inglese di sempre, senza dubbio, ma Ann ne fu insoddisfatta. Non le piaceva l’eco, la tecnologia la intimoriva, le sembrava che in qualche modo le fosse espropriato il controllo sul suo modo di esprimere emozioni e sentimenti, il canto.

Nel ’73 fu convinta a tornare in uno studio di registrazione,
accompagnata da un gruppo di musicisti di area folk-rock guidati da Steve Ashley, per un album che avrebbe dovuto stabilire definitivamente la sua posizione nel panorama del folk revival, aprendosi a sonorità elettriche. Fu talmente disgustata dal risultato che bloccò l’uscita del disco, rimasto a prender polvere negli archivi per ventitre anni, e finalmente pubblicato nel ’96, in un momento in cui Annie era evidentemente di buon umore.

L’album, SING A SONG FOR YOU, per chiunque, tranne che per lei, suonava benissimo e se non raggiungeva i vertici di THE TIME HAS COME era comunque un ottimo disco di folk-rock, con due belle versioni di traditional come SOVAY e BIRD IN THE BUSH, ed eccellenti prove della Briggs cantautrice, SING A SONG FOR YOU e TRAVELLING’S EASY soprattutto.

Ma, appunto, “travelling’s easy”... Come già detto i viaggi poi finirono, si fermò in una casa con giardino sulle Highlands, senza rimpianti.

Ci piace immaginarla ora, al tramonto, appoggiata alla staccionata dell’ovile, il volto invecchiato ma ancora bello, i capelli scompigliati dal vento. Non c’è nessuno intorno, solo lei, le sue pecore, i suoi cani, i luoghi che le sono cari. Accorda la chitarra, accordatura aperta, come le ha insegnato Jansch, e per se stessa soltanto canta.

“Oh, my babe, don’t you know
The time has come for me to go.
Tomorrow comes like yesterday
The autumn fades our love away.
Oh, my babe, don’t you know
The time has come for me to go.
Don’t you think of me no more?
I’m going to some foreign shore.
When I’m there maybe I’ll find
Some other young man please into my mind.
Oh, my babe, why don’t you know
The time has come for me to go.
Tomorrow comes like yesterday
The autumn fades our love away”.