27/04/09

Daniele Del Giudice, ORIZZONTE MOBILE

Torino, Einaudi, 2009

La cifra stilistica di Daniele Del Giudice è la precisione basata, tra gli altri sensi, sull'osservazione degli eventi e delle persone, con sostrati metaforici di derivazione tanto letteraria (come nello STADIO DI WIMBLEDON, 1983, ricerca su Bazlen e le montaliane Ljuba e Gerti tra Trieste e Londra), quanto scientifica (le dinamiche della fisica sono corrispettivi di situazioni esistenziali in ATLANTE OCCIDENTALE, libro che è storia di un dialogo tra il mondo scientifico del protagonista, occupato presso l'anello di accelerazione del CERN nel sottosuolo di Ginevra, e quello letterario dello scrittore Ira Epstein: quasi marginali l'intreccio dei rapporti di amicizia tra il fisico e il letterato e un'esile storia sentimentale del protagonista con una giovane.

Nei romanzi di Del Giudice c'è una tendenza a scrivere su quanto è di rilievo senza cedere a eccessive presenze autoriali non motivate dalle funzionalità delle storie che narra o degli avvenimenti che descrive. La fenomenologia degli accadimenti e il commento sui fatti si associano e si integrano. L'esperienza concreta della vita è filtrata dalla citazione e dalle letture, come avviene in ORIZZONTE MOBILE, un libro che assume su di sé il significato del termine "narrativa" in diverse accezioni. Riferisce in prima persona, intercalate l'una all'altra a capitoli alterni, tre spedizioni nell'Antartide, due scientifiche e non recenti, quella di Giacomo Bove (1882) e quella di Gerlache de Gomery (1897-1899), basate sui loro diari di bordo, e una compiuta dallo scrittore nel 1990. Si combinano qui il diario di viaggio tardo moderno con le scritture archetipiche che lo hanno motivato in una diversa fase della modernità e si individuano elementi documentari frammisti a traversie umane nell'ambito scientifico che è la geografia. Una quarta linea narrativa, introduttiva, è inventata (come spiega l'autore nella NOTA, p. 141) e datata al 2007.

Tra il registro scientifico e quello letterario si danno connubi, ma il primo sembra da preferirsi al secondo: "qualche volta tra scienza esatta e phantasia può avvenire una collusione, ma il fisico non deve abbandonare la severità della sua disciplina" (p. 11).

Si narra facendo parlare la natura e le cose oltre agli umani: "il guaio delle storie [...] è che sono narrate da un unico punto di vista, quello umano" (p. 7), quando invece l'ambito degli esseri sensibili li accomuna: "loro, i pinguini in fila, noi, umani in fila. Due comunità egualmente in marcia [...]. Loro, noi, vivevamo la stessa solitudine in un oceano di ghiacci e nevi, le stesse preoccupazioni" (p. 7) .

L'Antartide è la fine spaziale del mondo; il terreno su cui si sono misurate la resistenza e la capacità di sopravvivenza di animali ed esseri umani; la metafora principe del viaggio di ricerca, come pure, ad altri livelli, della solitudine, della difficoltà della tenebra e dell'abbaglio dei bianchi, di una natura che è leopardianamente non partecipe delle vicende antropiche e allo stesso tempo, dall'angolazione dei visitatori, animata al punto da influire sulla percezione del reale:

"Nonostante la grande violenza, la natura qui non è ostile o tanto meno amica, è solo indifferente alla presenza umana che è un fatto del tutto accidentale. Per noi il paesaggio è sempre un sentimento del paesaggio, ma quel che chiamiamo paesaggio non sgorga dalla coscienza, bensì la altera e le impone un'altra direzione. Per questo le storie antartiche sono così nervose" (p. 95).

Se da un lato il "Sud assoluto" segna il carattere delle persone incontrate dall'autore nel viaggio del 1990 con tratti non esenti da una "crinatura folle o depressiva" (p. 112), dall'altro la quest arriva al fondo del sé e del tempo individuale e collettivo allegorizzato dai picchi montuosi e dalla posizione stessa del continente:

"[...] mi chiedevo se riuscivo a distinguere come i cristalli fossero più grandi mano a mano che si scendeva, come i cubicoli e le bolle d'aria diminuissero nelle pareti, per effetto della pressione sovrastante. Così il ghiaccio cambiava colore attraverso i bianchi, i celesti, i grigi, e cambiava d'età, di cristallizzazione in cristallizzazione, indietro per millenni e millenni. Più giù ancora doveva esserci il punto in cui il ghiacciaio aveva perso plasticità per uno stress da piegamento e si era spaccato in ferite visibili in superficie, parallele come un'aratura e profonde magari fino alla terra, al continente vero e proprio" (p. 108).

L'ambiente è dunque uno dei protagonisti del libro; fornisce parole esatte come quelle soprastanti e proprio per questo capaci di ritmi serrati e di mancanza di retorica; possiede infine connotazioni arcane: "certe volte, [...] attraverso questi paesaggi di ghiaccio e di luce, cerco di rappresentarmi il loro tipo di mistero", che non è "generico" o fatto di "stupore e terrore", ma è dovuto al fatto che, mentre il Sud estremo condivide aspetti col resto della Terra, tutto "qui diventa eccezionale" ed esercita la propria influenza sull'intero pianeta (pp. 120-21).


[Roberto Bertoni]