21/04/09

Marco Ercolani, UNA CERTA STRATEGIA

Intervista a Don Siegel di Alain Masson, in “Positif” (1978)


Qual è stato il tuo rapporto con le majors?

Non ho mai imparato il gioco di Hollywood. Non so neanche come si giochi. Ci sono registi che ottengono soldi per capolavori di serie Z che saranno dimenticati un anno dopo. Io non ce lo faccio a lavorare in quel modo, a fare la puttana per adescare qualche produttore facoltoso. Sono un professionista, un ingenuo. Alla Warner ho lavorato con Lorre, Greendstreet, Bogart, Davis, March; facevo il regista delle seconde unità. Le scene più sgradevoli o pericolose mi toccava dirigerle io, e così dovevo imitare tutti gli stili, per non compromettere l'equilibrio del film. Di volta in volta ero Huston, Curtiz, Walsh. Le confesserò un particolare: non ci vuole molto. Solo una certa dose di spavalderia, una bella abilità tecnica, un senso del ritmo, e la capacità di capire i tic del regista: riprese dall'alto, grandangoli, pause, primi piani. Lo sa che sono stato io a montare le scene di CASABLANCA, una per una?


Perché hai iniziato a dirigere film solo a trentasei anni, dopo una brillante carriera come direttore del montaggio?

Quando volevo dirigere film in proprio me lo vietarono: di registi ne avevano da vendere, ma un direttore del montaggio come me non lo si trovava tutti i giorni. Fui costretto a sgobbare come un mulo ancora per anni. E non ho avuto le possibilità che avrei voluto. Ho fatto il meglio con quanto mi veniva dato - ed era poco. Ho commesso anche un numero incredibile di errori e non c'è mai stato un solo film in cui sapessi esattamente cosa dovevo girare e in che modo. Improvvisavo su un'idea, con un solo scopo: eliminare il non-cinema, le parole superflue, le immagini a vuoto, i tempi morti. Ero dello stesso parere di Hal Wallis quando imponeva al velocissimo Howard Hawks di essere ancora più veloce «perché non si ha tempo di sentire tante parole...».


Che senso ha per te la trama, la storia di un film?

Ci sono storie che significano sempre qualcosa e storie che ti restano in mente per qualcosa che non è mai ovvio - un fattore sconcertante, irripetibile. Ad esempio, l'invenzione dei baccelli nell'INVASIONE DEGLI ULTRACORPI. Molti mi hanno accusato di semplicismo: ma io trovavo quelle bucce gigantesche dei contenitori efficaci ed ironici. Mi ricordavano bare per vampiri. E quando da quelle bare vegetali uscivano i replicanti, simili in tutto e per tutto agli abitanti di Mira, li guardavi subito con orrore, anche se niente, nel loro aspetto, era orribile.

Un dettaglio, niente di più. Sono particolari che a volte non ricordo neppure di aver diretto, e che restano impressi nella memoria - un volante, una macchia di sangue, una voce fuori campo. Se non ci fossero, non esisterebbe il film. Così, nell'INVASIONE, quando Miles e la donna sono nella miniera, sotto le travi di legno, e sopra passa la folla inferocita degli alieni, ho reso tutto molto semplice accentuando il rumore dei passi: il suono, negli occhi spalancati delle vittime, sembra molto più forte, quasi intollerabile.


Oggi ti consideri un regista di successo?

Sembra di sì, se mi fanno girare film. Sembra che le mie storie facciano soldi. DIRTY HARRY, ad esempio. Ma io continuo a odiare QUARTO POTERE, BARRY LINDON e tutti quei film che vengono chiamati capolavori. Li odio per l'ovvietà della loro bellezza. E chi ricorda MI CHIAMO NINA ROSS? - la finestra sbarrata, la spiaggia, gli occhi atterriti di Nina Foch? O L’ANGELO NERO? - l’incubo di Dan Dyurea che rivede se stesso, ubriaco, in una stanza distorta, uccidere la donna di cui cerca l'assassino?

Ci sono, nei film minori, delle singolari distorsioni, dei gesti o delle espressioni che non è possibile controllare: mentre li giri, sembrano ovvii; quando sono girati, ti aggrediscono come cose bizzarre, irreali. E ti sembra di aver fatto il film solo per quella scena. Non saprai mai se quello che stai filmando verrà ricordato oppure no. Dipende da fattori che non sai prevedere. Il cinema è unico, in questo. Lo chiamano arte, ma è una cosa molto diversa. Fai del caos, perché poi ti venga fuori una storia, e magari ti sembra noiosa, a rivederla, però poi brilla come un diamante nella merda. L'occhio di un'attrice dimenticata. Un paesaggio che non doveva esserci. Un fondale fuori posto. Parola di Don Siegel: è tutto un gran casino.


Parlaci del tuo ultimo film con Clint Eastwood, FUGA DA ALCATRAZ .

Con FUGA DA ALCATRAZ ho voluto girare un film di pura azione. Ho raccontato una strategia di fuga. Non mi piacciono le storie psicologiche, e non amo le utopie. Mi piace che un'idea sia desiderata, pensata e poi realizzata: non mi va di descrivere il volo degli uccelli che vanno a spasso nell'aria ma piuttosto il lento lavoro dei topi che rosicchiano le pareti, aprono mille buchi, conquistano spazio centimetro dopo centimetro. Ingegno, lavoro concreto, una certa strategia: e, naturalmente, dissimulazione. Per scappare bisogna ingannare, usare delle maschere.

In FUGA DA ALCATRAZ ho fatto parlare solo le cose. Il cucchiaio, la lente, il temperino, il mastice, la faccia di Clint. Più che un film, è il documentario di un'evasione riuscita.


Puoi parlarci del crisantemo che galleggia nel fiume Hudson alla fine del film? Ha qualche riferimento simbolico?

A film finito, nella memoria dello spettatore resta la testa del pupazzo nel letto della cella e il crisantemo gettato nell'Hudson. Quel crisantemo non è nessun simbolo: è un crisantemo vero, simile a quelli che l'eroe potrà vedere, da uomo libero, nei cimiteri dove non è sotterrato. Questi due dettagli non li ho voluti io. Li ha imposti la produzione. Io mi sono limitato a filmarli nel modo più sobrio possibile. È andata benissimo: sono due fra le scene più riuscite. Ma solo per caso. Sul film puoi lavorare come un dannato, ma poi ti sbeffeggia sempre. Quello che vedi non è neanche più tuo. È solo quello che accade. Gli stili dei registi sono tutti imitabili e intercambiabili. Ma i film no. Niente è sacro nel cinema. L'intenzione dell'autore si realizza oppure non si realizza, e sempre in modo deviato, mai come si prevedeva. Il cinema è un inganno, una coglioneria. Solo all'ultimo momento, quando l’occhio dello spettatore entra nelle tue scene, capisci cosa funziona e cosa fa schifo. Di effetti sicuri non hai neppure l'ombra. Certo, si deve lavorare. Più che si può. Quasi con ferocia. Se non lasci niente al caso, il caso si mostrerà benevolo con te: e riderai della scena bellissima che era una stronzata e della scena casuale che è un miracolo di cinema.