31/01/09

CARTE ALLINEATE. Numero 25, Gennaio 2009 / Issue 25, January 2009

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INDICE ALFABETICO / INDEX

Le voci elencate qui sotto senza il nome dell'autore sono state scritte da Roberto Bertoni. Foto di Marzia Poerio / Entries listed below without the name of the author were written by Roberto Bertoni. Pictures by Marzia Poerio.

- AILING, Zhang, LA STORIA DEL GIOGO D'ORO. Note di lettura, 15-1-09.
- BOYLE, Danny, SLUMDOG MILLIONAIRE. Storie di film di Renato PERSÒLI, 1-1-09.
- FROM THE PAST. Fotografia e versi di Marzia POERIO, con commento, 11-1-09.
- GREMMO, Daniela, RAPSODIA DEL BOSCO. Testo, 29-1-09.
- FULKLER, John, SOMETHING MORE THAN SHADOW. Nota introduttiva e traduzione di Giuliana LUCCHINI. Testo con commento, 19-1-09
- LUHRMANN, Baz, AUSTRALIA. Storie di film di Renato PERSÒLI, 9-1-09.
- MATTEI, Piera. Note di lettura, 7-1-09.
- MONTOBBIO, Santiago, INIZI E FINI, LETTERE, LEI E LA SERA. Testo, 17-1-09.
- MUGNAINI, Ivano, SEI PERSONAGGI (PIÙ UNO) IN CERCA D'AUTORE. Riflessioni, 21-1-09.
- OTTO, Walter Friedrich, IL MITO. Rilettura, 31-1-09.
- PAICE, Andy, DOES SPIRITUALITY HAVE ANY RELEVANCE FOR WESTERN INTELLECTUAL CULTURE? LOOKING FOR ANSWERS IN THE BUDDHIST TRADITION [PART 1]. Riflessione, 13-1-09.
- PINI, Angelo, VAGALUCE. Testo, 23-1-09.
- RAGNOLI, Gian Paolo, TRE SUL DIVANO. Testo, 3-1-09.
- RAY, Satyajit, THE APU TRILOGY. Storie di film di Renato PERSÒLI, 27-1-09.
- SAVINIO, Alberto, LA NOSTRA ANIMA. Rilettura, 25-1-09.
- YOUNG, Augustus, HAPPY 2009. Testo, 5-1-09.

Walter Friedrich Otto, IL MITO

Genova, Il Melangolo, 2000

La visione del mito di Otto (1874-1958) è volta verso un’interpretazione che ne faccia rivivere la natura più propria e originaria: il mito “genuino” (p. 24), ovvero non riproposto in forme neoclassiche, come per il pensatore tedesco potrebbero essere tanto le favole di Apuleio quanto il neoclassicismo, rappresenta la “verità dell’essere”, conduce all’“essenza delle cose” (p. 23), orienta la vita individuale e la società.

Secondo Otto, il mito genuino non rappresenta una “mentalità” (p. 24) o una manifestazione di primitivismo. Si tratta semmai della resipiscenza del sacro, dell’emergenza del divino e di un richiamo anche cultuale. Il mito genuino è “vincolante per l’esistenza umana nella sua totalità” (p. 35).

Il mito modernamente, a parere dello studioso, rinasce nella poesia che, sebbene non sia mito, anzi ne costituisce un’“ombra” (p. 26), utilizza però le parole, che del mito sono una delle forme proprie, e può reincarnarlo dando l’impressione che a pronunciare non sia l’autore, bensì “l’essere stesso delle cose” (p. 25).

L’origine del termine “múthos” è ricondotto alla sua commistione originaria con “lógos”, che solo in una seconda fase storica si distinsero in quanto elaborazione fantastica e razionalità. In quanto “parola”, il mito è per Otto “un’autorivelazione dell’essere”, non c’è distinzione tra parola ed essere (p. 32).

Chi qui scrive apprezza l’importanza della differenziazione tra mito genuino e no, anche per un certa inflazione nell’uso del termine che pare giudicare mitico anche il fantastico o le imitazioni neomoderne oltre che neoclassiche. Il mito a nostro parere ha necessità di un contesto. Detto questo, il rilancio del sacro e del cultuale, e una certa funzione iniziatica del poeta, ci sono estranee.


[Roberto Bertoni]

29/01/09

Daniela Gremmo, RAPSODIA DEL BOSCO


[Winter fern. Foto di Marzia Poerio]


I

Impenetrate
antiche volte,
vorticanti
di verbena luce,
indecifrato
mormorio si attenua,
più sommesso riprende,
nel disegno violento
dei rami che intorti
vibrano
di ardenti foglie,
di linfa odorosa
e di verde cetonia;
una fila di formiche,
nera ostinata sfida,
sulla corteccia scabra
del leccio avanza,
ebbra di discernimento.


II

Come immobile e quieto
si addensa, in fondo
all’azzurro volo
del falco, inviolato
il tuo arcano,
radioso mezzogiorno
di ombre distillato e oro.
È l’ora del fauno,
sospesa a un filo d’erba,
che muta la sua voce
nel frinire ardente
delle cicale esangui,
è tempo di confine,
varco, indefinita soglia
tra le fronde in stormo
del bosco abbrunato,
è l’ora della biscia,
ondato serpeggiare
che nel suo guizzo
verderame racchiude
il segreto delirio
del meridiano silente.


III

Scivola sulle pietre
di nera verticale ardesia
il vento del nord
avido di stelle,
si dissolve la notte
in fauci boreali
di traboccante alba.
Come nembo cangiante
sull’ordito dell’oblio
traspare la trama
delle visioni notturne,
il lieve galleggiare
di foglie morte
su una corrente ignota,
un vago presentire
che abbrividisce il fiato
sul vetro della finestra.



Visioni e angoli di vista, l'ingresso nella foresta dell'interiorità e del panorama, il varco, il confine sul quale la caduta nell'Ombra orla il presente della luce e del vetro della finestra, con un mezzogiorno radioso e un vento stellato, come in un dipinto del Seicento o in un flusso modernista (RB).

27/01/09

Satyajit Ray, THE APU TRILOGY


[Life as a net of crossing paths. Foto di Marzia Poerio]


THE APU TRILOGY. Titolo italiano LA TRILOGIA DI APU: 1. PATHER PANJALI (IL LAMENTO SUL SENTIERO), 1955; APARAJITO (così anche in italiano, ma THE UNVANQUISHED, il non vinto, in inglese), 1956; 3. APUR SANSAR (IL MONDO DI APU), 1959. Tratto da romanzi di Bibhutibhushan Bandopadhyay. Musica di Ravi Shankar. Con Kanu Banerjee, Karuna Banerjee, Subir Banerjee, Soumitra Chatterji, Smaran Ghosal, Pinaki Sen Gupta, Sharmila Tagore

In PATHER PANJALI, in un villaggio rurale bengalese, un sacerdote induista, Harihar, è avvolto in una difficile esistenza assieme alla famiglia. La sventura si manifesta sotto forma di miseria come pure di destino: il film termina con la morte per malattia della figlia Durga e la decisione di Harihar di trasferirsi a Varanasi con la moglie Sarbajaya e il figlio Apu. In APARAJITO, sempre per malattia, muore Harihar; Sarbajaya e Apu riescono a superare il lutto; con sacrifici Apu frequenta la scuola, al termine della quale vince una borsa di studio per proseguire gli studi in città. La sventura è implacabile: muore la madre. Apu tuttavia non demorde e riesce a diplomarsi. In APUR SANSAR, sempre vivendo in miseria, Apu ormai adulto, con aspirazioni di romanziere, sposa Aparna, la sorella di un amico, per salvarne l'onore in quanto il matrimonio combinato di lei con un folle era stato necessariamente disdetto il giorno stesso previsto per le nozze. Da un incidente di questo tipo nasce una storia d'amore, ma la tragedia si abbatte di nuovo quando nel dare alla luce un figlio Aparna muore. Apu vaga per l'India per anni prima di essere in grado di venire a patti col dolore, riprendersi il figlio che era cresciuto con i nonni materni e guardare verso il futuro.

Si tratta di capolavori, il primo più degli altri apprezzato dalla critica. La qualità nitida e impeccabile del bianco e nero, la descrizione degli ambienti di miseria, l'alternanza delle espressioni di gioia e di dolore non melodrammatiche e vicine alla verità, l'impianto epico della costruzione strutturale, la capacità di introspezione nei personaggi, l’abilità nel cogliere tanto momenti di vita quotidiana negli esterni quanto di vicenda familiare negli interni.

I sentimenti hanno certo importanza e si combinano con un impianto non retorico nonostante il páthos che anima i tre episodi. La pianura è percorsa da un treno che risuona in distanza. Aparna recita con una compostezza non rassegnata. La madre porta i segni della scuola cinematografica russa. Il fato è di scena costantemente. La vita si rappresenta nelle sue variegate espressioni. I primi piani si posano sugli occhi e sui sorrisi. I campi lunghi mostrano il pullulare di attività del lungofiume di Varanasi.

Per un italiano, la somiglianza con l'accanirsi della mala sorte ricorda il verismo verghiano (e il Visconti di LA TERRA TREMA), mentre le somiglianze col neorealismo sono impressionanti.


[Renato Persòli]

25/01/09

Alberto Savinio, LA NOSTRA ANIMA


[Classical reference (The British Museum, London). Foto di Marzia Poerio]


La nostra anima. Prima edizione 1944. Milano, Adelphi, 1981


La nostra anima, un rifacimento della favola di Amore e Psiche narrata da Apuleio, si distacca dall’originale sotto molti aspetti. Savinio demitizza modernamente i protagonisti, invertendo il motivo della bellezza legata all’amore inteso come prototipo del comportamento umano. Psiche ha becco di pellicano (una dote che il testo, spesso comico, giudica positiva) e Amore non appare con ali d’angelo bensì in qualità di mostro, da cui l’orrore della fanciulla che per giunta non viene assunta in cielo, anzi la si incontra in una cella miseranda di un museo dei manichini di carne a Salonicco.

La demitizzazione è conseguente alla convinzione di Savinio che viviamo in un universo posteriore alla fine delle divinità. Nondimeno, per quanto umanizzata e in parte degradata, Psiche mantiene attributi simbolico-allegorici, che la avvicinano all’essenza della vita in quanto avvicendarsi di sfortune e illusione, abbrutimento oltre che parabola positiva, infine emblema fantastico e omaggio al surreale.

Il protagonista, alter ego utilizzato anche altrove da Savinio, è Nivasio Dolcemare, un essere postmitico, misurato e ironico, osservatore imparziale delle vicende umane, amante in questo caso di una signora sposata di nome Perdita, che a sua volta intreccia legami amorosi con un dottor Sayas, conoscitore e guida del museo.

È Perdita a voler illudersi che l’anima sia immortale e a essere delusa dallo scienziato (Sayas) che le spiega: “l’anima è un composto di ossigeno, azoto e anidride carbonica”, verità espressa sulla scorta, commenta Savinio, di “Volfango Goethe e […] altri pensatori universalmente ammirati e rispettati” (p. 33).

È sempre Perdita che vorrebbe che l’amore trionfasse e tra i Psiche e lo sposo ci fosse una fine tradizionale come quella della leggenda; sviene quando ciò non accade, esclamando tre volte quando rinviene “È la fine di tutto!”. Psiche annuncia che “alla fine di ciò che gli uomini chiamano amore, nascerà il vero amore”, ma è la medesima Perdita a metterla a tacere finché, nel finire della storia Psiche, ovvero “la nostra anima” gradualmente “si spegne” (p. 66).

Raccontata con ironia lieve, ma a volte anche scollacciata, questa storia non manca di risvolti di páthos, riorientati verso il lettore dopo la smitizzazione. Dallo zero della disillusione viene ricostruita una fiducia nel vivere?


[Roberto Bertoni]

23/01/09

Angelo Pini, VAGALUCE


[Inside light. Foto di Marzia Poerio]


Soltanto negli astri è suddiviso il destino
noi disunite voci lo sfidiamo
uncinando la luna per i capelli
branchie perdute che odorano
di cetre marine
vengono pescate come alghe affondate
sotto il mercurio della mente
la madre sommersa non degna
uno sguardo
accoglie e archivia il futuro
i temi della carne
annunciando il fuoco dell'ariete
sull'oceano niveo dei pesci
portandoci l'ignoto
dentro lo stomaco la luminosità della primavera
per l'enigma amoroso
dove inizio e fine
sono teneramente abbracciati
il battito della vita è puntuale
come la barriera corallina protegge la spiaggia
il rossetto le labbra


Quanto di colloquiale e quanto di arcaico e archetipico in questa poesia che cerca l'ignoto, ritmata dalla vita, da cadenze interiori e dal paesaggio (RB).

21/01/09

Ivano Mugnaini, SEI PERSONAGGI (PIU’ UNO) IN CERCA D’AUTORE

Con un po’ di ritardo mi presento con questi miei appunti di viaggio sulle strade del teatro alla porta di un altro degli “imprescindibili”. Busso in modo sommesso, con fare incerto, tra timore e ironia, un po’ alla Mattia Pascal. Sono quasi sicuro che il padrone di casa mi aprirà. Me ne rallegro, ma i tendini della mano sono quanto mai rigidi. Sì perché, lo confesso, don Luigi Pirandello da Girgenti un po’ mi spaventa. Sulla sua faccia qualcosa a metà tra riso e ghigno, ragione e follia, misura e ferocia. Mezzo siciliano e mezzo tedesco, per studi e temperamento, suadente come un ufficiale prussiano. Vissuto per decenni a fianco della pazzia, in famiglia, in casa, negli affetti più cari, e, al di là e al di sopra di tutto, dentro di sé. Eppure l’occhietto quasi strabico è rimasto brillante come una spada lucidata a specchio per una parata militare e carnevalesca al contempo. Assurda, ineluttabile. La vita. Forse.

Busso alla porta di Pirandello, spaventato ma anche ammirato. Sorrido anch’io con l’occhio altrettanto oscillante dell’ironia e della curiosità. Busso e insisto, quasi fossi il settimo dei suoi “Personaggi in cerca d’autore”. Settimo tra cotanto senno. O assenza di senno.

La parte che recito e vivo è quella di un lettore-spettatore che aspira a farsi personaggio per chiedere all’autore qualcosa riguardo all’ingranaggio perfetto e stritolante di una “Commedia da fare” che risulta quanto mai compiuta, completa. Perfino sovrabbondante di spunti, contesti, pretesti, realtà cruda nella spirale ritorta della menzogna.

I Sei Personaggi sono “contrariati nei loro disegni, frodati nelle loro speranze”, come osserva Pirandello stesso nella Prefazione. A loro pare unirsi idealmente una schiera infinita di altre figure, alla cui testa, chissà perché, mi viene fatto di immaginare ancora il Principe di Danimarca, con o senza teschio nella mano. Il risultato non cambia. I Sei sono alla ricerca di un autore, scritto con o senza maiuscola. Anche qui l’esito è identico. Così è se Gli pare. Cercano un autore per rappresentare un dramma a fosche tinte. Viene fuori, dalla ricerca, dall’attesa (ancora lei), una commedia. Una farsa amara che si realizza a tradimento, nell’atto del parlare, del dire, nello spazio occupato pensando a come dovrebbe essere. Anche questo richiama una cosa assai simile alla vita. Forse.

Parlando di Pirandello, per forza e per amore, i “forse” possono e debbono abbondare come non mai. E probabilmente è questa una delle chiavi della sua grandezza e attualità. “Nati vivi volevano vivere”, così l’autore descrive le sue petulanti creature. Scrittore “di natura propriamente filosofica”, Pirandello ha bisogno di far sì che figure e vicende si imbevano di un particolare senso della vita.

I Sei Personaggi hanno saputo con la loro bizzarra natura di confine, estrema e tuttavia riconoscibile, quasi paradigmatica, dare misura e paradossale corpo a quella mistura di tragico e comico, fantastico e verosimile, che ci porta di prepotenza in una dimensione teatrale per poi smarrirci, straniarci direbbe qualcuno, riconducendoci, contestualmente, a casa, nel bel mezzo del mondo a noi caro, o, perlomeno, noto.

Da buon Settimo Personaggio, o aspirante tale, griderei alle orecchie di Pirandello, aggiungendo frastuono al frastuono, che l’idea dell’autore che si rifiuta di far vivere alcuni personaggi nati dalla sua fantasia, è follemente geniale. Geniale e disperata, perché alla fine in un modo o in un altro la vita e la non-vita si strappano a vicenda le corde e i bavagli e corrono sul palco a smaniare e sbraitare. Griderei anch’io ad un palmo dalla faccia stordita che è vero, c’è un senso universale “nella concitazione della lotta disperata che ciascuno fa contro l’altro e tutti contro il Capocomico e gli attori che non li comprendono”. Ed è altrettanto vero, sulla polvere del palcoscenico e in quella delle strade e delle case, che “l’inganno della comprensione reciproca è fondato irrimediabilmente sulla vuota astrazione delle parole”. Ma è bello, l’Autore di Girgenti lo sa bene, provare a dare un senso, un sapore, un gusto, alla vuota e vitale astrazione. Fosse pure per vedere in uno specchio una bocca che si apre in un sorriso parente stretto di un ghigno.

Fosse pure per discutere come La Prima Attrice e Il Primo Attore per stabilire se “il povero ragazzo” sia morto davvero o per finta. Per poi magari ascoltare l’urlo finale del Capocomico che, non potendone più, sbraita: “Finzione! Realtà! Andate al diavolo tutti quanti! Luce! Luce! Luce!”.

E in quella luce c’è la fine e l’inizio. Una nuova fine ed un nuovo inizio.

19/01/09

John Fuller, SOMETHING MORE THAN SHADOW

Nìmes, Phoenix Press, 2004


John Fuller. Un inglese puro sangue. Poeta di lunga data. E un intellettuale (Docente al St. Magdalen College, Oxford). Figlio del poeta di memoria nazionale Roy Fuller.

Fra le sue varie opere, vale ricordare: WAITING FOR THE MUSIC,1983 (poesia); FLYING TO NOWHERE,1983(sorta di FINNEGANS WAKE, in cui si sfrutta la tecnica del correlativo oggettivo); THE CHATTO BOOK OF LOVE POETRY, 1990 (antologia); OXFORD BOOK OF SONNETS, 2000 (antologia); anche THE SONNET, 1972; EPISTLES TO SEVERAL PERSONS, 1973.

John Fuller è un poeta moderno coltivato al gusto classico, e attento alle cose minime. Per natura controllato e preciso cultore della forma. Geometrico, calligrafico, virtuoso della parola in lunghi poemi, “blank verse” perfetto, specialista del sonetto e della rima. (Shakespeare, un esempio per lui sempre presente). Ha sperimentato varie modalità di scrittura, dal tono serio al giocoso, l’inventivo, il brillante, il “civile”, fino a un tipo di linguaggio estremo per struttura e movimento grammaticale in FLYING TO NOWHERE. In poesia le sue strofe fluenti portano le linee del pensiero in un vocabolario semplice e sapiente, parola stringata, concreta, quotidiana, lo stile asciutto. Nella sua chiarezza l’autorità dell’espressione ha un rapporto con la musica e la matematica. Raramente un poeta è allo stesso tempo trasparente e di notevole spessore, come in questo caso. Unisce una sorta di gentilezza d’animo all’energia dell’intelletto. Tale, autentico poeta d’Inghilterra, appare questo poeta, nell’insieme, rispetto all’uso che fa della sua lingua madre nella sua opera complessiva.

La poesia in traduzione che qui si presenta inizia la plaquette SOMETHING MORE THAN SHADOW (i titoli dei suoi libri sono sempre accuratamente scelti), e si espone nella semplicità: “The little body I was in / Starred on the grass”. Battuta senza incertezze nelle linee iniziali del suo pentagramma poetico.

“Waiting”. Nel giardino chiuso, ciò che invita dall’esterno si trova già in nuce dentro l’essere, che cerca il giusto, la meraviglia, della conoscenza. Parole adulte, la visione à rebours. Si dialoga con la terra, con i vermi (cfr. Shakespeare).

L’età bella si mostra primavera della vita, come l’aprile “stirring memory and destre” (nell’espressione di T.S. Eliot), “che muove memoria e desiderio”. L’inizio è il presente progressivo di un adolescente, che, senza saperlo ancora , volge il gesto a ciò che l’attende, il suo futuro. “Nel dirsi agisce, nel nominarsi si concreta”. Tutt’intorno è il suo teatro. Il corpo è l’attore.
In un tempo senza tempo, lo spazio, il privilegio di esserci. L’“attesa” del titolo è l’avvento, “annuncio dell’evento”, la necessità di ciò che deve essere, di ciò che sarà. Un’attesa come ascolto, di un bene, di un male, di una felice crudeltà, qualcosa che non si esprime. Granello nel grembo della terra, ogni essere germoglia alla sua storia, alla disposizione innata dell’a-tendere. Attesa di qualcosa o qualcuno che ci mancherà sempre. Come in un sogno confuso, mai chiarito.

Il senso della vita viene in seguito a complicarsi in mezzo ad altre vite, le più vicine. E c’è sempre un suono che il Tempo lascia nel trascorrere, per richiamarci a ritroso. Più tardi negli anni riflettiamo. Alla fine vediamo una fila di morti che sorridono. Allora, “Pange lingua” (“Parla, lingua”), il Poeta prende la parola. “Di parola fa la carne” (Tommaso d’Aquino, “Verbo carnem efficit”). Resuscita i morti. Allegrezza e concordia operano misericordi dal silenzio finale.

Gran parte della vita è a questo punto svanita. Padri, nonni, gli ante-nati, “qualcosa più che Ombra”, tutto è trascorso, quanto nel ricordo ci resta. Essi, che ci hanno tonificato la mente nell’andare, ci chiamano. Verso di loro, come l’angelo di Klee, volgiamo indietro il viso. Il nostro passato di sapienza e di bellezza non ha portato alla soddisfazione dell’agire nella conoscenza. I nostri palazzi cedono alla rovina, mentre una forza, un vento, ci spinge avanti senza tregua, le ali costrette a piegarsi verso le generazioni sorgenti, che ci escludono, cui il futuro appartiene.
Il cerchio si conclude nel punto dove era cominciato. Questo il senso di tutta la plaquette.
Che termina così: “As my grandson said of my dead father : / ‘Well, when he’s finished being dead, / We’ll go to see him then’” (“Come ha detto di mio padre morto il mio nipotino : / “Beh, quando il nonno avrà finito di essere morto, / allora noi andremo a trovarlo” “).


WAITING

The little body I was in
Starred on the grass. While all around
The grimed yellow brick of London

Projected its iron balustrades
Into the theatres of unpruned garden,
Stalls of laurel, gods of willow,

With flinty paths on which my cats
Stood unconcerned as usherettes
And the clouds passing like scenery.

Gardens are the soliloquies
Of our agon with the authorial earth,
All morning interrogating worms.

All afternoon crucifying a tree
With an air-pistol, the silvery slugs
Studding the bark like slow typing.

I was still waiting for the scene to open,
Waiting for the downy-jawed girl
From the flat downstairs to come and play.

The lonely tangent of childhood locked
Into its slow ascent, the world
Bathed in the weathers of its future.



ATTESA

Una star sull’erba,
il piccolo corpo in cui ero. Mentre tutt’intorno,
fuligginosi mattoni giallofumo, Londra

proiettava balaustre di ferro
su teatri di giardino incolto,
altari d’alloro, dèi di salice,

sentieri sassosi su cui i miei gatti
stavano impassibili come mascherine
e le nubi passavano a scenario.

I giardini sono i soliloqui
di noi in gara con la terra autore,
tutto il giorno a interrogare i vermi.

Tutto il pomeriggio a crocifiggere un albero
con una pistola ad aria, i lumaconi lucenti
inchiodati lungo il tronco, un lento scrivere a macchina.

Ancora attendevo che la scena si aprisse,
attendevo che la ragazza dalla mascella forte
scendesse dall’appartamento giù a giocare.

La tangenziale solitaria della fanciullezza chiusa
nella sua lenta ascesa, il mondo
bagnato nei climi del suo futuro.


(Nota introduttiva e traduzione di Giuliana Lucchini )

17/01/09

Santiago Montobbio: INIZI E FINI, LETTERE, LEI E LA SERA

1.

PRINCIPIO Y FINAL DE NOVELA

No mata la noche ni el amor tampoco.
Nosotros nos matamos, quizá poco a poco.
(Sobre esta pared rientes nubes son las grasas
si a las derrotas de la vida las comparas).


INIZIO E FINALE DI ROMANZO

Non uccide la notte e neppure l’amore.
Siamo noi che ci uccidiamo, forse poco a poco.
(Su questa parete ridenti nubi sono il grasso
se alle sconfitte della vita lo paragoni).



2.

ÚLTIMA CARTA

Porque no habéis entendido nunca nada,
por vuestro amor y sueño unidos
al continuo teatro de vivir
como todo lo vivo, por no heriros
(pues que hasta el fin, hasta el sin saber os amo)
y por si revolvéis también papeles cuando me haya la vida
o mi tristeza entera consumido estos versos
tienen aún motivo. Son los últimos que escribo, pues
siento el final cerca, la absurda escena
en que recojáis mi cuerpo
sobre la calle herida, entre el dolor
y otras preguntas. Éstos, sí, son los últimos versos.
Los que dicen adiós, aunque el todo siempre un adiós dice;
los que hablan de amor y adiós, de que hasta el fin
os quise: hasta el fin adiós y amor, sobre la calle ahora,
tras esta carta última, padre, madre, amigos rotos,
que hasta el fin la nada sea, y que una soledad persiga.


LETTERA ULTIMA

Perché non avete mai capito nulla,
per il vostro amore e il vostro sogno legati
al continuo teatro di vivere
come tutto ciò che è vivo, per non ferirvi
(poiché fino alla fine, fino a non saperlo vi amo)
se per caso frugate tra le mie carte quando la vita
o la mia piena tristezza mi avrà consumato, questi versi
ancora hanno un motivo. Sono gli ultimi che scrivo,
perché sento la fine vicina, l’assurda scena,
in cui raccoglierete il mio corpo
sulla strada ferita, tra il dolore
e altre domande. Questi, sì, sono gli ultimi versi.
Quelli che dicono addio, benché tutto dica sempre un addio;
quelli che parlano d’amore e di addio, che fino alla fine
vi ho amato: fino alla fine addio o amore, sulla strada ora,
dietro quest’ultima lettera, padre, madre, amici spezzati,
che fino alla fine sia il nulla, e una solitudine perseguiti.



3.

SÓLO ELLA

Absoluta la tierra, y desierta.
Sólo ella queda. Sólo ella.
Absoluta o desierta. A través
de epitafios en andar rasgados,
piedras y ojos
que me negaron el nombre
queda la tierra donde
con mi antigua luz he muerto: porque
soy una despedida que no dice
adiós a nadie o, mejor, mi
dios muchacho está en el aire.



SOLO LEI

Assoluta la terra, e deserta.
Solo lei rimane. Solo lei.
Assoluta o deserta. Attraverso
epitaffi nel procedere stracciati,
pietre e occhi
che mi negarono il nome
resta la terra dove
con la mia luce antica sono morto: perché
sono un commiato che non dice
addio a nessuno, o meglio, il mio
dio fanciullo sta nell’aria.



4.

FIN DE AMOR

Aunque para estas cosas he sido siempre especialmente inhábil
supongo que por muy torpe que uno sea
al fin y con el tiempo va aprendiendo
y quizá por esto el día en que la despedí
no me olvidé de prólogos ni de fuera nervios
y así me apliqué en encender cuidadosamente
las palabras -¿o con el cigarrillo se hacía eso?-
antes de enseñarle un calloso corazón endurecido.
Y en ese adiós a mí se me acababa el mundo,
pues me parece que entonces yo tenía
una muy exigente y prolija lista
de honestidades, cosa que vergonzosamente
recuerdo con descuido, ya que ahora pienso
que a lo más que podemos aspirar
en esta vida es a ser dueños
de algunas confusiones. Pero sí: a mí
se me acababa el mundo –tanto la quise, tanto
y mucho- y cuidé los prólogos y apreté su dolor
y recuerdo que me molestó que la escena
tomara los contornos de una postal
hecha de encargo. (Era una calle
estrecha, y para colmo
llovía un poco).

Tras el cristal del bar se veían pocos coches
mientras yo me odiaba sintiendo que el adiós
puede alguna vez ser la peor
de las humanas, sigilosas tormentas.

-Pero casi no lloré
porque se me corría el rimmel,
al día siguiente
explicó a una amiga.


FINE D’AMORE

Benché per queste cose sia stato sempre particolarmente inabile
suppongo che per quanto uno sia molto maldestro
alla fine e col tempo vada imparando
e forse per questo il giorno in cui la lasciai
non mi dimenticai di prologhi né di eccessi di nervi
e così mi applicai ad accendere accuratamente
le parole –o forse con la sigaretta si faceta questo?-
prima di mostrarle un calloso cuore indurito.
E in quell’addio a me mi si finiva il mondo,
perché mi sembra che allora io avevo
un assai esigente e prolisso elenco
di onestà, cosa che vergognosamente
ricordo con trascuratezza, poiché ora penso
che il più a cui possiamo aspirare
in questa vita è a essere padroni
di alcune confusioni. Ma sì: a me
mi si finiva il mondo –tanto l’amai, tanto
e molto- e curai i prologhi e costrinsi il suo dolore
e ricordo che mi diede fastidio che la scena
assumesse i contorni di una cartolina postale
fatta su comissione. (Era una strada
stretta, e per colmo
pioveva un po’).

Dietro il vetro del bar si vedevano poche auto
mentre io mi odiavo sentendo che l’addio
qualche volta può essere peggiore
delle umane, silenziose tormente.

-Ma quasi non piansi
perché mi si sciogleva il rimmel-,
spiegò il giorno dopo
a un’amica.



5.

ESTAMPA RELATIVA A MIS TARDES DE DOMINGO

Yo ya sé que me quieres muchísimo,
que tú hablas y amas y hablas
y que como eso a veces me fatiga
yo enredo despistado palabras,
que mientras tú me amas o me hablas con malicia yo aprovecho
para hacer huir a mi corazón por más ciudades
y aunque modestamente creo que en ciertas ocasiones
he demostrado tener
para el teatro habilidades
mucho me temo que generalmente
este tipo de internas escapadas
no se te suelen pasar por alto.
Así cuando de pronto ayer dijiste ¿qué hacemos?
y yo tuve que bajar del cielo para contestar
con cara de muy serio: “Cuidado con el perro”.
Luego ya me di cuenta de que estabas preocupada,
que hablabas quizá de amor o de nosotros
y desde luego también de que esta vez
me agarraste in fraganti. Pero qué
quieres que te diga: las cosas
como salen bien es en su principio, y como
yo ya sé que tú me quieres muchísimo,
y que para colmo yo también te quiero,
entonces quizá sí que lo único
que debemos hacer es -¿no te parece?-
tener muchísimo cuidado con el perro.


STAMPA RELATIVA AI MIEI POMERIGI DOMENICALI

Io so già che mi ami moltissimo,
che tu parli e ami e parli
e poiché questo a volte mi stanca
io mescolo confuso parole,
e mentre tu mi ami o mi parli con malizia io approfitto
per far fuggire il mio cuore per altre città
e benché modestamente creda che in certe occasioni
ho dimostrato di avere
capacità per il teatro
molto temo che generalmente
questo tipo di fughe interne
non sogliano passarti inavvertite.
Così quando ieri d’improvviso mi dicesti, cosa facciamo?
e io dovetti scendere dalle nuvole per rispondere
con faccia molto seria: “Attenta al cane”.
Poi mi resi conto che tu eri preoccupata,
che parlavi forse d’amore o di noi
e naturalmente anche questa volta
mi avevi preso in fragrante. Ma cosa
vuoi che ti dica: le cose
quando vengono bene è all’inizio, e poiché
io ormai so che tu mi ami moltissimo,
e che per colmo anch’io ti amo,
allora forse sè che l’unica cosa
che dobbiamo fare è –non ti sembra?-
avere moltissima cura del cane.


(Traduzione di Giuseppe Bellini)

15/01/09

Zhang Ailing, LA STORIA DEL GIOGO D'ORO


[Shrine in Lantau. Foto di Marzia Poerio]


Zhang Ailing, LA STORIA DEL GIOGO D'ORO. Titolo originale JIN SUOJI (1943). Traduzione dal cinese e postfazione di Cristina Lavagnino. Milano, Rizzoli, 2006

Si intrecciano vari personaggi appartenenti a due famiglie di Shanghai, con un'ambientazione negli anni Dieci del Novecento. La protagonista, Qiqiao, andata sposa a un infermo più anziano di lei, al quale sacrifica la giovinezza, inasprisce il proprio carattere, perseguitando in risposta alla propria frustrazione chi la circonda con violenze psicologiche gravi che arrivano a far interrompere gli studi e stornare l'unica possibilità di matrimonio della figlia.

Storia di solitudini, di difficoltà di vita all'interno delle antiche istituzioni cinesi ancora vive in un mondo che si sta modificando, di prigionia dentro la vita personale e sociale (che sono come un "giogo d'oro"), questo romanzo esprime al contempo la claustrofobia della dimensione familiare portata all'estremo del controllo e della partecipazione, con un'attenzione verso i beni materiali mascherata in pubblico da convenzioni e comportamenti ritualizzati.

Il racconto ha una intenzionale universalità: "La luna di trent'anni fa è già da tempo tramontata, e sono morti quelli di trent'anni fa, ma le storie di trent'anni fa non sono finite, non possono finire" (p. 121). Nondimeno si tratta di un racconto imbevuto nella tradizione e nel paesaggio cinesi, privo di sentimentalismi ma carico della cultura da cui proviene.

La postfazione di Lavagnino commenta il romanzo e fornisce informazioni sulla vita dell'autrice, nata nel 1920, emigrata dalla Cina negli Stati Uniti e deceduta nel 1995.


[Roberto Bertoni]

13/01/09

Andy Paice, DOES SPIRITUALITY HAVE ANY RELEVANCE FOR WESTERN INTELLECTUAL CULTURE? LOOKING FOR ANSWERS IN THE BUDDHIST TRADITION [PART 1]

"Carte allineate" is grateful for this article by Andy Paice, who lived in a Buddhist monastery in France, and has recently come back from a Buddhist monastery in N.E. India. He is presently living in London.



[Buddha statue (Bangkok). Foto di Marzia Poerio]


Ever since the Western Enlightenment religion and spirituality have generally been treated with disdain within European academic circles. Ever since Voltaire exhorted "Remember the cruelties", referring to the millions killed and tortured by the Church, a strong memory has indeed been deeply embedded in Western intellectual culture. For over two centuries religion has been discredited as little more than a relic of a dark and distant past hanging on to the present because of un-inquiring minds content to accept what they are told. The Humanities dismiss it as nothing more than an oppressive force of social manipulation. And within the Sciences religion and spirituality have undergone a massacre, being seen as a collection of illogical, unfounded mythologies. For any inquiring, intelligent mind it seems as if the arguments were won long ago. There seem to be so many legitimate reasons for regarding religion and its practices with scepticism. When one looks at the turmoil created throughout the world by religious fanaticism of all kinds it is indeed hard to reconcile religion with its claims to be a force of good.

Yet could there still be a case for spirituality? In order to progress as human societies do we need to dismantle the entire edifice of religion? Is it nothing more than a collection of fairy tales for grown ups or are there individuals on this planet who really have uncovered spiritual truths? In rejecting that which is truly dogmatic or unjust in religion, have western intellectuals unwittingly made the mistake of 'throwing the baby out with the bathwater?'

The argument that I would like to put forward is that there are spiritual traditions which are living receptacles of real and authentic spiritual experience. A great deal of different Eastern and Western religions exist. It can be said that each of them carry a core of truth which has been codified into a structure according to the times, cultures and social conditions that gave birth to them. I would like to address the case that it is possible to approach spirituality in a manner which is both logical and verifiable. A manner which is grounded in investigation and personal inquiry. Without denigrating or denying the validity of other religions I will address these questions by looking at a tradition which exemplifies a particular analytical and logical approach to spirituality - that of Buddhism.

Two thousand five hundred years ago the society of India was a rich crucible of debate concerning the ultimate questions of human existence. Where do we come from? Why do we suffer and how do we find liberation from this suffering? A great number of philosophical schools flourished expounding various metaphysical systems and practices. Whereas the followers of today's religious (and indeed philosophical) schools of thought often adopt intransigent positions, the climate of scholarly debate during these times was one of an open minded quest for truth. Adherents of any system, which was seen to have been logically defeated by another deeper and more precise philosophical schema, immediately took up and became followers of the winning position. Such was the degree of scholarly openness. However questions of ultimate concern were not uniquely reserved to scholarly approaches but were also largely investigated through yogic and meditative techniques. By pursuing these techniques adepts looked into the nature of reality and consciousness in a direct and phenomenological manner. In Northern India, into this climate of spiritual investigation, came a young prince named Siddhartha from the Shakya clan of the Indian - Nepali borders. Disenchanted with the worldly luxury of his palace and moved by the realisation of his own and others mortality, he sensed that human existence was repository to a greater and deeper reality. Therefore he left his palace and retreated to isolated places in order to look deeply into the nature of his very own human condition.

Sitting under a Pippala tree at the place of Bodhgaya in what is now the modern state of Bihar, the Prince reached the conclusion of his search for truth. Simply sitting there, doing nothing in particular except looking into the nature of his own conscious mind he came to a profound realisation concerning the nature of all things. In doing so he discovered the causes and the solution for the perennial problem inherent to life: that of suffering. After attaining what came to be known as his 'enlightenment' or realisation, he then proceeded to set forth a doctrine or a path which others would be able to follow in order to come to the same experience of awakening that he was perceiving. His teaching was nothing to do with appeasing or living by laws laid down by a supreme entity. Conversely, he taught a way of life by which individuals would be brought to experiencing an ultimate plenitude through contemplation and meditation.

Nowadays we usually mistrust the all too dogmatic prescriptions of religious doctrine and this can be understandable. Tales of metaphysical quests for enlightenment or nirvana may easily be dismissed by serious thinkers. But for the sake of giving those who claim to find truth or authenticity in spiritual practice a proper hearing, let us investigate more closely what the ultimate reality that religious traditions are pointing out might actually be.

Various names have been given to an ultimate source - God, Atman, Tao, Spirit. As for the Prince Siddhartha he was said to have fully realised Buddha nature. Exotic names, but what relevance do they have to our reality?

If we look at the doctrine set forth by this man who was named "The Buddha" we will find a vast array of teachings and schools which arose as a result of his own and subsequent practitioners direct experiences of their own consciousness. They contain explanations of every kind of state of mind and the kind of actions which are conducive to states of well-being and those which lead to suffering. However the very basis of the doctrine reposes on the unique exposition of what is known in Buddhist terminology as selflessness or emptiness. This is a perspective of fundamental importance, especially for sceptics because one can approach it via logical arguments. Through intellectual analysis one can approach what can be termed as a spiritual reality. This is a key which enables one to go beyond surface appearances to penetrate a deeper reality at the heart of phenomena.

Within the Buddhist schools of philosophy the Madhyamaka tradition founded by Nagarjuna in the second century CE is seen to be the highest presentation of ultimate truth. Rather than a doctrine, Madhyamaka is primarily a system of philosophical criticism. Its procedure is to take a dogmatic assertion (for instance the existence of an inherently existing self or of a divine creator) and gradually refute it by exposing the theory's own inner incoherence. The assertion is systematically reduced to an illogical absurdity which stands out as being incoherent with the original claim. The end result is to bring all theories or intellectual constructions to a point in which they fall apart. The intellect is thus stilled. The aim is to use conceptual reasoning to come to a point in which the intellect itself drops away so that the mind can have an experience beyond concepts. This prepares the mind for the experience of selflessness. This Madhyamaka position therefore resembles Kantian critique in modern Western philosophy. However in this case it goes far beyond a mere critique in that the process yields a wisdom that provides the ground for a spiritual path.

An example of this kind of analytical contemplation on the selflessness of phenomena can be seen in the following meditation:

Firstly we establish an object that we are going to investigate. In this case we will look at the reality of the "I." The reason why this "I" is chosen as a subject of investigation is because this is seen to be the basis for all suffering. The Buddhist tradition is a radical approach which aims to uproot the fundamental cause of absolutely all problems and difficulties. Shantideva, a great Buddhist scholar of the 9th century states:

"If such a thing as 'I' exists indeed,
Then terrors, granted, will torment it.
But since no self or 'I' exists at all,
What is there left for fears to terrify?"

One particular contemplation proceeds to ascertain whether this notion of "I" does indeed exist as we believe it to. Firstly one tries to obtain a clear image of the object to be investigated. This "I" is something that habitually appears to consciousness throughout our waking and sleeping life. The "I" is the centrifugal point for all feelings: "I" feel happy, "I" feel depressed etc. It is what we are always striving to protect and gratify. So we attempt to have a clear feeling of what it is that is cherished so dearly.

Once we feel we have a notion of this "I" we proceed in examining it. Is this "I" the body? If it were the body there would be no sense in calling it "my body" since the owner and the owned would be the same thing. Is it a particular part of the body? We can examine each part and see that the "I" is not the head, nor the trunk, nor the arms, nor the legs etc. Nothing of the body can be said to be the "I."

If it is not the body then is it the mind that is referred to as "I"? Yet here once again we say "my mind" suggesting there is something other than the mind which owns it.
If the "I" is not the body or the mind, then perhaps it is the conglomerate of body and mind? Yet as we have seen the body and the mind are collections of things which are not the "I." So how does the combination of things which are not "I" suddenly become a truly existing "I". For example if a pile of apples contains no oranges, how can the pile itself said to be oranges?

So if this "I" which we cherish throughout our lives is not the body, nor the mind, nor the conglomerate of body and mind, then the only other possible solution is that it is something outside of the body and mind. But if we are to imagine our body and mind disappearing and dissolving into space what then can be found that could possibly be called an "I."

If this notion of an inherently existing self is put under thorough scrutiny in this way one comes to a rather strange and profound understanding. Namely despite the way in which we have a continual self-cherishing attitude, there is in fact no concrete self which can be found to cherish. With all of the four above possibilities for finding this self exhausted, all that can be found is the lack of a truly existing "I."


[To be continued in the next issue of "Carte allineate"]

09/01/09

Baz Luhrmann, AUSTRALIA

2008. Con Bryan Brown, David Gulpilil, Hugh Jackman, Nicole Kidman, Jack Thompson, Brandon Walters, David Wenham.


"I can't look at this movie and be proud of what I've done. [...]. It's just impossible for me to connect to it emotionally at all." ("China Daly", 9-1-2009)."Non riesco a guardare questo film sentendomi orgogliosa di ciò che ho fatto. Mi è semplicemente impossibile rapportarmici emotivamente". Così dichiara Nicole Kidman a proposito di AUSTRALIA, il suo film più recente. Ma come?, diciamo noi. Un momento di crisi? Una risposta ai critici che per lo più, finora, hanno dato voti non troppo alti alla pellicola? A noi pare una dichiarazione poco pertinente rispetto alla materia di cui si occupa. Kidman è splendida in questo film: presenza di scena evidente ma non invadente; recitazione senza ombre e non tutta shillerianamente sentimentale, anzi a tratti ironica e perfino distaccata, contrariamente a quanto hanno scritto in molti in proposito, accompagnata dall'ottima copartecipazione degli altri protagonisti [1].

La storia comincia con Sarah Ashley, inglese dell'alta borghesia che, per arrivare a un chiarimento col marito residente in Astralia riguardo i problemi di coppia e gli interessi di una proprietà nel Northern Territory, compie un viaggio, all'altro capo del quale, agli antipodi, trova il marito assassinato. Gradualmente scopriamo che l'uomo non è stato ucciso da King George, l'anziano aborigeno incolpato del delitto. Sarah licenzia l'amministratore corrotto della famiglia, Neil Fletcher; decide di portare il bestiame di sua proprietà a Darwin, cederlo all'esercito per ricavarne quanto dovuto, vendere la casa e il terreno e tornare in Gran Bretagna. Per il lungo percorso verso Darwin, si rivolge a un mandriano rude quanto affidabile, Drover. Ostacolati con metodi illegali e pericolosi da Fletcher, i nostri eroi... sì, riusciranno nell'impresa. Parallelamente, oltre a una storia romantica, si delineano un cambiamento di Sarah a favore dell'Australia, una modificazione interiore rispetto a ciò che conta davvero nella vita, un senso materno nei confronti di Nullah, un bambino di madre aborigena e padre bianco. Intanto c'è il bombardamento giapponese e...

Insomma, la dimensione epica è senz'altro presente. Le vicende private e pubbliche si intrecciano. Il destino agisce con coincidenze non sempre facilmente credibili, ma utili a creare una storia di identificazione emotiva. Indubbiamente il regista cerca di sollecitare la partecipazione, le lacrime, l'affetto, il rispetto per le comunità originarie del continente australe. Le scene di natura sono mozzafiato. I movimenti dei cavalli e degli altri animali sono dinamici e coinvolgenti. I buoni sono buoni anche se non vorrebbero esserlo; e i cattivi sono cattivi. Citato con funzioni narrative varie volte, con canzoni e alcune scene, anche IL MAGO DI OZ. A noi questo film è piaciuto tanto proprio per tutto questo.

I cliché, si potrà dire: ma per evitarli si doveva fare un antidramma o un film insipido e da nouvelle vague che non avrebbe avuto alcun senso in questo àmbito cinematografico? Se ricorda una certa Hollywood da VIA COL VENTO ai MAGNIFICI SETTE, meglio così, perché non si tratta di un revival vuoto, meramente spettacolare e melodrammatico. AUSTRALIA è infatti un film progressista; e non ci pare che la presenza forte delle ideologie dell'amore e dell'attaccamentoe alla terra lo inficino, anzi ci sembra bene che vengano ribadite visto che si trovano in un contesto di contrapposizione all'avidità, alla sopraffazione, al razzismo... (uno degli aspetti principali del film è anzi la contestazione del sistema di adozione forzata dei bambini aborigeni da parte di istituzioni del governo australiano, per "detribalizzarli" costringendoli poi ad assumere abitudini di tipo australeuropeo al fine di utilizzarli in lavori di servitù o comunque scarsamente qualificati nel periodo storico in cui è ambientata la pellicola).

Noi daremmo quattro stelle.


NOTE

[1] Tra le critiche negative, si veda per tutte, data anche la levatura del quotidiano su cui compare, la recensione di James Christopher ("Times On Line", 24-12-2008).


[Renato Persòli]

07/01/09

Piera Mattei, LA MATERIA INVISIBILE

Già in LA FINESTRA DI SIMENON, si notava da parte dell'autrice, Piera Mattei, la ricerca di una dimensione di nettezza stilistica e il racconto del dolore “stemperandolo” [FS, 93] [1] compostamente; si veda questa descrizione, allegorica della vita e forse anche della concezione di letteratura propria di Mattei oltre che descrittiva della foglia:

“La forma di una foglia
poggetto piatto
adatto a filtrare aria
vibra rema respira
non si spezza.
Ha un ritmo regolare
va e viene riposa
va e viene
nell’aria” [FS, 92].

LA MATERIA INVISIBILE è il titolo di un volume di versi del 2005. La nota dell’autrice specifica l’importanza della materia e allo stesso tempo la sua non visibilità anche diurna; sottintesa è una ricerca di una verità sottostante del mondo e dell’individuo. Uno dei punti di convergenza tra il mondo osservato e il pensiero è la contemplazione della natura intesa come materia, ovvero momento oggettivo, ma allo stesso tempo sentita come comprensibile solo in rapporto alla soggettività che la esprime. Così, per esempio, è l’albero che “è pieno di senso / e ti sussurra / che non solo vive per sé / ma ama il tuo sguardo” e “porge” frammenti di “neonata materia” [MI, 61]. Quanto è fuori di noi può trovare senso e risultare dicibile se filtrato dall’intelletto, presentandosi in quanto vita nata dall’occhio che la interpreta.

Oltre agli elementi di natura, sono presenti riferimenti alla persona, all’alter ego e all’identità, in particolare a quella femminile, come si ravvisa nei versi in cui il soggetto scrivente parla in terza persona: “Una donna resta presso di lei / non parla e certo non sa / spiegare perché è lì sempre con lei” [MI, 19]. Che si tratti di una proiezione, ma al contempo si trasformi in personaggio, in altro da sé, pare suggerirlo l’autrice quando scrive: “nei racconti mi colloco / alla terza persona” [MI, 41].

Il personaggio femminile compare anche a ritroso nel tempo, si veda COME BULBI, in cui un “bambina senza sorriso” compie un “gioco” di sepoltura dei “lutti” [MI, 25]. I ricordi hanno la maniera di presentarsi dei sogni o di reperti surreali, si tratta di scene enigmatiche che la poesia cerca di portare in luce per scoprirle nella loro verità, in un tessuto di immagini che, senza perdere la concretezza, rimandano alle sensazioni che ad esse si assmbrano, con una chiarezza di dettato verbale che fuorvia dall’inquietudine e difficoltà della sostanza profonda di quanto viene narrato o descritto. Un esempio di questa densità enigmatica è:

“All’indietro presero a correre
le strade risucchiavano l’asfalto
era di notte i netturbini
avevano concluso il turno.
Per alcuni minuti gridarono
i muri delle case sbattevano
come fossero denti si fermarono
poco discosti.
I corpi che abitarono le case
risvegliati aprivano le porte
calcavano i cappelli sopra teste
rpive di idee vuote di sguardi
solo l’udito ritornò
dentro gli antichi corpi” [MI, 14].

Quanto si presenta alla memoria è una serie di episodi definiti dall’autrice come “racconti a voce / sua e di altri”, pervenuti nel dormiveglia “dentro lei” che “non può snidarli” e “li sospinge / di lato” [MI, 11], come se solo distaccandosene potessero essere espressi in versi.

Se le poesie di LA MATERIA INVISIBILE hanno il compito di trovare la verità (definita come “una misura netta, / contro rumori di fondo”, MI, 42), si tratta di scoprirla per mezzo delle parole [MI, 19]. L’aspetto metalinguistico è affidato, oltre che al lessico relativo all’emissione vocale, con termini quali voce, gola, piangere, anche ad una sezione specifica del volume intitolata LE PAROLE, che sono state “scelte / una a una” [MI, 31], sono componenti embrionali (“girini / neonati”, MI, 32); stanno “nell’ombra” per esserne tratte dalla “passione” [MI, 33]; sono interiorità come pure provenienze del mondo esterno, “parole della strada” [MI, 34]; lessici della conversazione e dell’intertestualità (“parole lette”, MI, 36).

Mattei scrive di aderire a una lingua anti-barocca, anti-avanguardistica, antimediatica, anti–ovvia” [1].


NOTE

[1] Sigle utilizzate: FS: LA FINESTRA DI SIMENON, Roma, Zone, 1999; MI: LA MATERIA INVISIBILE, Lecce, Manni, 2005.
[2] Da una mail di Piera Mattei all'estensore di queste note.


[Roberto Bertoni]

05/01/09

Augustus Young, HAPPY 2009

Happy 2009

Two thousand and nine.
Bombing and shopping
will now be stopping.
Noone will be buying.

I put my trust in
a better climate.
A decline in hate.
What is promising.

A world much calmer.
No Dow Jones or cars,
sale of arms for wars.
Thank you, Obama.

I know you’re thinking.
What a fool am I.
You reach for the sky,
and get a Clinton.


Buon 2009

Duemilanove.
Bombe e compere
si fermeranno.
Gli acquirenti non compreranno.

Ripongo fiducia
nel miglioramento climatico.
Nel declino dell'odio.
In quel che sia promettente.

Un mondo più calmo.
Assenti Dow Jones, auto,
o vendite d'armi.
Grazie, Obama.

So a cosa pensi.
Alla mia insensatezza.
Tocca il cielo,
per acquisire un Clinton.

[Traduzione di Roberto Bertoni]

03/01/09

Gian Paolo Ragnoli, TRE SUL DIVANO

Lo so, lo so, si dice che se ti ricordi qualcosa degli anni sessanta vuol dire che non c'eri. Ma io c'ero, ci sono stato e ci sono ancora e qualcosa mi ricordo, anche se una buona fetta di ricordi se l' è portata via il tempo, e magari se ci fossimo strafatti un po' meno ricorderei qualcosa di più. E comunque quello era, come direbbe un filosofo tedesco, di quelli che studiavo all'Ucla quando ho conosciuto Jim, lo "Zeitgeist"...

Insomma, capitò nel soggiorno di Joni (o forse nella cucina di Cass?). Ero arrivato lì, come al solito, cercando di mettere dei chilometri, magari tanti, tra me e i miei problemi, sempre uguali, il fantasma di She, le cose intraprese e mai finite, il maggio a cui non aveva seguito l'estate ma il freddo inverno del nostro scontento, come aveva predetto William.
David e Stephen li conoscevo già, c'eravamo incrociati più volte nel giro dei folk club a New York, a tutti noi piaceva Fred Neil, era un maestro. C'era spesso anche Bobby, suonava a volte l'armonica con Fred o con Karen Dalton, stava sempre a sentire tutti con un'attenzione religiosa, poi magari scoprivi che il tuo arrangiamento di BABY LET ME FOLLOW YOU DOWN era diventato il suo, comunque allora nessuno avrebbe immaginato che pochi mesi dopo sarebbe diventato il "Portavoce Della Nostra Generazione" e poi tutto il resto, mentre ti affannavi a definirlo lui era già altrove, l’Uomo Invisibile...

Questo comunque era prima, anni prima che mi trovassi a bere una tazza di Lapsang nel soggiorno di Joni. Il metereologo aveva già annunciato cattivo tempo ma noi ce ne stavamo in questa casa al Laurel Canyon e stavamo amabilmente chiacchierando di chi avesse visto per l'ultima volta Richard (lei a Parigi, nel '68, io in Brin Place con Charlie e gli altri chissà quando). Suonano alla porta, Joni apre e entrano David e Stephen, con le custodie in spalla. David e Joni erano stati insieme, lui le aveva prodotto (va be', è una parola grossa, le aveva fatto incidere) il primo album, si vedevano ancora, ogni tanto. Lui e Stephen erano scappati dalle gabbie dei loro gruppi, Byrds e Buffalo Springfield, si erano messi a provare insieme, avevano l'idea di un gruppo acustico, qualcosa di personale, confessional writing disse David, forse aveva già fumato. Comunque tirano fuori le Martin dalle custodie, si siedono sul divano di Joni e attaccano.

Da paura si direbbe adesso, voci, armonie, melodie, tutto sembrava perfetto. Avevano scritto un sacco di pezzi nuovi, tutti strepitosi come GUINNEVERE di David o SUITE: JUDY BLUE EYES di Stephen, cui alternavano cover del loro passato da folk club, facevano anche EVERYBODY'S TALKIN' di Neil, anche quella benissimo. Joni stessa era ammirata, io stravolto. Quando attaccarono un pezzo nuovo, scritto insieme, che parlava di navi di legno, avevo gli occhi chiusi e non mi resi conto che stavo cantando anch'io, improvvisando una terza voce. A metà della canzone ci interrompemmo e scoppiammo a ridere, sapete com'è con l'erba.

David mi disse: "Però Ted, non male per essere un politico‚ non sapevo che cantassi". Non lo sapevo neanch'io a dir la verità, è che quando le cose mi piacciono mi ci butto dentro senza starci tanto a pensare, per quello c' è un sacco di tempo, dopo. Rifecero il pezzo, WOODEN SHIPS si chiamava, Stephen l'aveva fatto sentire a Grace e pareva che i Jefferson l'avrebbero inciso, poi ne suonarono altre, LONG TIME GONE, HELPLESSLY HOPING, YOU DON'T HAVE TO CRY, 49 BYE-BYES. Alla fine Joni tirò fuori una bottiglia di champagne e sogghignando fece un brindisi: a Crosby, Stills & Malvern. Era successo tutto molto in fretta, eravamo un gruppo, avevamo un nome. Poi prese la macchina fotografica e ci fece una foto, "quella" foto, noi tre sul divano, camicie a quadri, jeans e stivali.

Dopo due settimane avevamo già abbastanza materiale per un album, poi squilla il telefono a casa di Stephen e dicono che c'è un festival pazzesco, ci saranno centinaia di migliaia di persone, tre giorni di pace, amore e musica, come non andare?

Ma non ci sarei andato. Avevo un sogno, avevo dei compagni, avevo un posto a cui tornare, in cui ricominciare. Stephen e David erano amici sinceri e musicisti meravigliosi, ma non era la mia vita. Gli presentai un altro europeo espatriato, Graham, cantava in un gruppo pop, gli Hollies, ma non ne poteva più, voleva qualcosa di più autentico, cantava benissimo, molto meglio di me, non che ci voglia poi molto. Cominciarono a provare, erano strepitosi, poi Graham si innamorò di Joni e divenne chiaro che sarebbe rimasto.

Li abbracciai tutti, facemmo un' altra foto sul divano tutti assieme e poi loro andarono a Woodstock ed io tornai a Nomansland.

Se proprio volevo cantare potevo farlo con il Collettivo, nel frattempo potevamo di nuovo provare a rovesciare il mondo dalle fondamenta.

Come aveva scritto Bobby?

"A song will lift
as the mainsail shifts
and the boat drifts
onto the shoreline
and the sun will respect
every face on the deck
the hour that the ship comes in".

Volevo esserci anch'io, quel giorno.

Ma la foto di noi tre sul divano la conservo ancora, dietro c'è la dedica di Joni: with love, to Crosby, Stills & Malvern...


[NOTA DELL’AUTORE: Questo "rockonto", dopo Jim Morrison e Janis Joplin, chiude la trilogia californiana con Crosby, Stills & Nash. Poi il nostro eroe tornerà in Europa e si imbatterà nei Rolling Stones...]

01/01/09

Danny Boyle, SLUMDOG MILLIONAIRE

2008. Titolo italiano THE MILLIONAIRE. Basato sul romanzo Q & A di Vikas Swarup. Sneneggiatura di Simon Beaufoy. Fotografia: Anthony Dod Mantel. Musica: A.R. Rahman. Con Rubina Ali, Sanchita Choudhary, Azharuddin Mohammed Ismail, Anil Kapoor, Irrfan Khan, Ayush Mahesh Khedekar, Madhur Mittal, Dev Patel, Freida Pinto.


Chissà perché, invece di equivalenti nella nostra lingua, nella traduzione italiana viene utilizzata la parola inglese "the millionaire", visto che il titolo originale non è questo, bensì "slumdog millionaire". Comunque...

Jamal, un giovane che serve il tè il un call centre e proviene da un quartiere poverissimo, partecipa a una trasmissione a quiz in tv, riuscendo a rispondere a tutte le domande, tanto da guadagnare venti milioni di rupie nonostante sia cresciuto senza ricevere un’istruzione formale in un quartiere poverissimo di Mumbai.

Jamal riesce a fornire sempre le risposte giuste a causa di una formazione acquisita per esperienze di vita, come spiega a un commissario di polizia dopo essere stato arrestato al decimo milione per il sospetto di essersi fatto passare le domande. La fortuna lo assiste in quanto le domande che gli vengono rivolte corrispondono alle poche informazioni che conosce.

Le scene della trasmissione televisiva si alternano a quelle dei ricordi biografici da cui sorgono le risposte corrette, per cui di fronte allo spettatore si dipana un’esistenza che fin dall’infanzia è caratterizzata dalla miseria, dal conflitto interreligioso, dalla violenza, dalla criminalità e da un amore indistruttibile per una ragazza di nome Latika, che riuscirà infine a concretizzarsi, proprio in concomitanza col quiz televisivo (cui il protagonista partecipa per ritrovare l’amata, finita preda di malviventi di una banda in cui è coinvolto Salim, il fratello di Jamal).

Il diplomatico indiano Vikas Swarup, autore del romanzo da cui è tratta la pellicola, dichiara: “Volevo attingere al fenomeno globale dei quiz televisivi e del racket che ad essi si accompagna, ma da un’angolazione fuori degli schemi. Mi ero inoltre imbattuto in un servizio sui bambini delle baraccopoli […], il che mi ha portato a giustapporre la modalità dello spettacolo a quiz con la storia di vita di un concorrente piuttosto atipico, un cameriere diciottenne, squattrinato, residente nella maggiore baraccopoli dell’Asia. Volevo dimostrare che la conoscenza non è appannaggio dell’élite istruita e che anche a un ragazzo cresciuto per la strada può possedere la sapienza necessaria a vincere un gioco a quiz” (Swarup Interview).

Se le pagine del romanzo scorrono agevolmente per merito della leggerezza positiva dello stile di Swarup senza perdere in intensità e impegno, nel film la drammaticità degli avvenimenti narrati (che vanno da una corte dei miracoli in cui vengono cinicamente accecati i bambini per mandarli a mendicare, alla criminalità organizzata, alla violenza tanto del fanatismo quanto della polizia) è presente con una tecnica da presa diretta, ma rappresentata al contempo con una ironia che, mentre condanna, riesce a non presentarsi con toni di rigonfiamento spettacolare.

La personalità introversa di Jamal è ben evidenziata e costituisce quasi un contrappunto di flemma al mondo caotico che lo circonda (ma è costante il suo entusiasmo passionale per Latika).

Il mondo del cinema è presente con la passione dei ragazzini, nei riferimenti ad Amitabh Bachchan e nella recitazione di altri attori indiani noti (Anil Kapoor e Irfaan Khan).

È un bel film.


[Renato Persòli]