Con un po’ di ritardo mi presento con questi miei appunti di viaggio sulle strade del teatro alla porta di un altro degli “imprescindibili”. Busso in modo sommesso, con fare incerto, tra timore e ironia, un po’ alla Mattia Pascal. Sono quasi sicuro che il padrone di casa mi aprirà. Me ne rallegro, ma i tendini della mano sono quanto mai rigidi. Sì perché, lo confesso, don Luigi Pirandello da Girgenti un po’ mi spaventa. Sulla sua faccia qualcosa a metà tra riso e ghigno, ragione e follia, misura e ferocia. Mezzo siciliano e mezzo tedesco, per studi e temperamento, suadente come un ufficiale prussiano. Vissuto per decenni a fianco della pazzia, in famiglia, in casa, negli affetti più cari, e, al di là e al di sopra di tutto, dentro di sé. Eppure l’occhietto quasi strabico è rimasto brillante come una spada lucidata a specchio per una parata militare e carnevalesca al contempo. Assurda, ineluttabile. La vita. Forse.
Busso alla porta di Pirandello, spaventato ma anche ammirato. Sorrido anch’io con l’occhio altrettanto oscillante dell’ironia e della curiosità. Busso e insisto, quasi fossi il settimo dei suoi “Personaggi in cerca d’autore”. Settimo tra cotanto senno. O assenza di senno.
La parte che recito e vivo è quella di un lettore-spettatore che aspira a farsi personaggio per chiedere all’autore qualcosa riguardo all’ingranaggio perfetto e stritolante di una “Commedia da fare” che risulta quanto mai compiuta, completa. Perfino sovrabbondante di spunti, contesti, pretesti, realtà cruda nella spirale ritorta della menzogna.
I Sei Personaggi sono “contrariati nei loro disegni, frodati nelle loro speranze”, come osserva Pirandello stesso nella Prefazione. A loro pare unirsi idealmente una schiera infinita di altre figure, alla cui testa, chissà perché, mi viene fatto di immaginare ancora il Principe di Danimarca, con o senza teschio nella mano. Il risultato non cambia. I Sei sono alla ricerca di un autore, scritto con o senza maiuscola. Anche qui l’esito è identico. Così è se Gli pare. Cercano un autore per rappresentare un dramma a fosche tinte. Viene fuori, dalla ricerca, dall’attesa (ancora lei), una commedia. Una farsa amara che si realizza a tradimento, nell’atto del parlare, del dire, nello spazio occupato pensando a come dovrebbe essere. Anche questo richiama una cosa assai simile alla vita. Forse.
Parlando di Pirandello, per forza e per amore, i “forse” possono e debbono abbondare come non mai. E probabilmente è questa una delle chiavi della sua grandezza e attualità. “Nati vivi volevano vivere”, così l’autore descrive le sue petulanti creature. Scrittore “di natura propriamente filosofica”, Pirandello ha bisogno di far sì che figure e vicende si imbevano di un particolare senso della vita.
I Sei Personaggi hanno saputo con la loro bizzarra natura di confine, estrema e tuttavia riconoscibile, quasi paradigmatica, dare misura e paradossale corpo a quella mistura di tragico e comico, fantastico e verosimile, che ci porta di prepotenza in una dimensione teatrale per poi smarrirci, straniarci direbbe qualcuno, riconducendoci, contestualmente, a casa, nel bel mezzo del mondo a noi caro, o, perlomeno, noto.
Da buon Settimo Personaggio, o aspirante tale, griderei alle orecchie di Pirandello, aggiungendo frastuono al frastuono, che l’idea dell’autore che si rifiuta di far vivere alcuni personaggi nati dalla sua fantasia, è follemente geniale. Geniale e disperata, perché alla fine in un modo o in un altro la vita e la non-vita si strappano a vicenda le corde e i bavagli e corrono sul palco a smaniare e sbraitare. Griderei anch’io ad un palmo dalla faccia stordita che è vero, c’è un senso universale “nella concitazione della lotta disperata che ciascuno fa contro l’altro e tutti contro il Capocomico e gli attori che non li comprendono”. Ed è altrettanto vero, sulla polvere del palcoscenico e in quella delle strade e delle case, che “l’inganno della comprensione reciproca è fondato irrimediabilmente sulla vuota astrazione delle parole”. Ma è bello, l’Autore di Girgenti lo sa bene, provare a dare un senso, un sapore, un gusto, alla vuota e vitale astrazione. Fosse pure per vedere in uno specchio una bocca che si apre in un sorriso parente stretto di un ghigno.
Fosse pure per discutere come La Prima Attrice e Il Primo Attore per stabilire se “il povero ragazzo” sia morto davvero o per finta. Per poi magari ascoltare l’urlo finale del Capocomico che, non potendone più, sbraita: “Finzione! Realtà! Andate al diavolo tutti quanti! Luce! Luce! Luce!”.
E in quella luce c’è la fine e l’inizio. Una nuova fine ed un nuovo inizio.