29/05/08

CARTE ALLINEATE. Numero 17, Maggio 2008 / Issue 17, May 2008

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INDICE ALFABETICO / INDEX

Le voci elencate qui sotto senza il nome dell'autore sono state scritte da Roberto Bertoni. Foto di Marzia Poerio / Entries listed below without the name of the author were written by Roberto Bertoni. Pictures by Marzia Poerio.

- ARGENIO, Giuliana, VENTO ROSSO. Note di lettura, 24-5-08
- CONGREVE E LA “COMMEDIA DI COSTUME”. Rilettura di Ivano MUGNAINI, 14-5-08
- DEDOLA, Rossana, ALTARAS, ZIARATI E ALI FARA. Note di lettura, 5-5-08
- DICKINSON, Emily, THEY SHUT ME UP IN PROSE. Testo, 12-5-08
- ERCOLANI, Marco, PER LA MANO SINISTRA, 1. Testo, 16-5-08
- FORD, Laura, ARCHEOLOGIA. Testo, 27-5-08
- JUNG, Carl Gustav, LA DINAMICA DELL'INCONSCIO. Rilettura, 22-5-08
- LABAKI, Nadine, CARAMEL. Storie di film di Renato Persòli, 23-5-08
- LASCH, Christopher, L'IO MINIMO. Note di lettura, 18-5-08
- MALERBA, Luigi, COMMEMORAZIONE. Testo con commento, 9-5-08
- MATTEI, Piera, RILKE A VILLA STROHL-FERN. Riflessione, 10-5-08
- MOVIMENTO DEL SESSANTOTTO. Riflessione, 11-5-08
- MONTOBBIO, Santiago, TRE POESIE. Testo con commento, 7-5-08
- O'DONNELL, Mary, UNA POESIA. Testo, 3-5-08
- RAY, Satyajit, MAHAPURUSH. Storie di film di Renato Persòli, 6-5-08
- SUZUKI, Seijun, PRINCESS RACCOON. Storie di film di Renato Persòli, 13-5-08

28/05/08

Laura Ford, ARCHEOLOGIA


Illustrazione: Riproduzione fotografica di Laura Ford, Corvo


ARCHEOLOGIA


Sedimentando i giorni

nascosto il gran cerchio del passato

il segno sognato è conciso

gravido e attento

in gestazione di un futuro

già coniato.

S'intesse in tratti di minimi crottini

in vivaci concimi e colori

maturandone discreto lo scritto

nel saggio noto al corvo

là dove sasso ogamico parla;

fosse un bunker di gioia!!

questa nuova famiglia d'incertezze

e pacato dubbio,

s'aprisse al domani

come i biancospini alla luce e

il bianco dei sassi sul cerchio

di verità sepolte, profonde

dove

imbevendosene il secolo sera

occhio poeta ne possa gestire

le superfici verdi d'animazione

in teatro all'aperto....

26/05/08

Giuliana Argenio, VENTO ROSSO


[Red. Foto di Marzia Poerio]


Giuliana Argenio, VENTO ROSSO, Roma, Il Filo, 2007

Con un passato di delusione alle spalle, un matrimonio, una successiva storia sentimentale non riuscita, una figlia, Emma Senardi, occasionalmente dedita anche alla cocaina, risponde una sera a un messaggio via Internet di Mauro Gruben, anch’egli proveniente da esperienze sentimentali negative, poeta, dedito all’alcool. I due si conoscono, si innamorano. Improvvisamente, però, proprio mentre la loro storia sembra diventare promettente e salvarli, persino, dalle negatività, Mauro si assenta e scompare. Ha partecipato a un’azione terrorista, è ricercato dalla polizia. Rifugiatosi a Caracas, si rende conto di dover tornare, anche per qualcosa che lo lega a Emma, ma eventi tragici in un finale movimentato glielo impediranno.

Si tratta, da un lato, di un racconto sentimentale, che non si sottrae a momenti anche di lingua carica. Ci sono frasi come “Così gli si rigirava l’anima avvelenata negli anni dai morsi di una vipera che era diventata la sua malattia […]” (p. 29). Da questa angolazione, si rivela una fiducia negli affetti che possano riscattare vite altrimenti problematiche: “dicono che […] l’amore sia la panacea a tutti i dolori della terra” (p. 138). Tale impostazione, tuttavia, non è esente, metalinguisticamente all’interno del romanzo stesso, da critiche e richiami alla realtà, attuati tramite dubbi: “Dicono, perché in verità […] non vi è nessuna certezza” (ibidem); o per mezzo del contrappunto di altri personaggi, per esempio la voce della figlia di Emma, che sostiene della madre: “Pareva uscita da un romanzo di Dumas!” (p. 75).

Dall’altro lato, si ha una storia a sfondo politico. Di sinistra, ma in modo trasparente totalmente aliena al terrorismo, è Emma, capace di individuare le questioni dello zeitgeist vivendole con drammaticità: dalle Torri Gemelle alla Palestina alla povertà dei diseredati. Idealista e in realtà, pur se appartenente a un’organizzazione terrorista, non assassino, Mauro, il cui compagno che si fa chiamare Vento Rosso, dando il titolo al romanzo, è distinto dal protagonista per dogmaticità e avventurismo.

L'ambiente sociale è quello della frammentazione dell’identità contemporanea, della segmentazione della famiglia, dei secondi e terzi rapporti con costruzione familiare, dell’incertezza dei valori e delle concezioni, ma con una critica senz’altro coerente delle istituzioni corrotte e dello stato negativo del mondo contemporaneo.


[Roberto Bertoni]

23/05/08

Nadine Labaki, CARAMEL

Sceneggiatura di Rodney el Haddad e Nadine Labaki. Con Yasmine Al Masri, Gisèle Aouad, Sihame Haddad, Nadine Labaki, Joanna Moukarzel, Aziza Semaan.

Umano questo film della regista libanese Nadine Labaki, la quale vi partecipa in veste anche di sceneggiatrice e attrice. È sulla condizione femminile nel Libano, vista attraverso le storie intrecciate di varie donne che lavorano o ruotano in veste di amiche o clienti attorno a un salone di bellezza di Beirut, ciascuna con una sua impostazione disincantata e ironica sulla vita, che alleggerisce la visione della pellicola e la storia difficile di ognuna delle protagoniste: Layale coinvolta in una storia sentimentale sbagliata dalla quale saprà tirarsi fuori solo dopo aver conosciuto la moglie dell'innamorato; Nisrine che per non turbare il matrimonio imminente ricorre a una clinica al fine di recuperare la verginità; Rima col suo interesse per un'altra donna; Jamale che ad ogni costo cerca di negare l'età; Rose, che si occupa della sorella malata mentalmente e rinuncia a un amore tardivo.

In una recensione pubblicata su questa rivista si esamina L'IO MINIMO di Lasch. Una delle tesi del sociologo statunitense in quello studio è che la modernità recente abbia perso il senso del realismo, stereotipandolo, riducendolo. Non è certo così per Labaki, la quale recupera la rappresentazione mimetica senza banalizzarla, restituendo la realtà raffigurata non solo attraverso le azioni dei personaggi recitate con naturalezza come se avvenissero nella vita quotidiana e fossero tra di noi, ma anche per mezzo dell'allusione indiretta e perciò efficace alle verità esistenziali di cui i personaggi sono rappresentanti tipici, nonché alla situazione politica libanese: ci sono famiglie cattoliche e musulmane, riferimenti chiari alla diminuzione da parte delle istituzioni dell'autonomia femminile e della libertà personale, al coprifuoco, al conflitto.

La metafora del titolo, la pellicola caramellata utilizzata per depilare, è essa stessa un elemento di doppio taglio: dolorosa quanto liberatoria per l'effetto che produce in chi la usa, talora esprime stati di irritazione, talora di ironia, viene applicata anche a un uomo. Un'allusione al mondo tramite un fatto linguistico e simbolico-allegorico.

Un film da vedere.


[Renato Persòli]

22/05/08

Carl Gustav Jung, LA DINAMICA DELL’INCONSCIO

Titolo originale: DIE DYNAMIK DES UNBEWUSSTEN (1967). In italiano nell’edizione delle OPERE, vol. 8, Torino, Bollati Boringhieri, 1994.

È uno dei libri in cui Jung ricapitola e definisce molte delle proprie idee, tra queste in particolare il concetto di “energia psichica” (p. 23), la sua distribuzione tra le varie componenti dell’inconscio, la dinamica di compensazione per cui ciò che si perde in una direzione viene riacquisito in un’altra.

Uno degli aspetti centrali è la “progressione e regressione della libido”, ovvero il “processo psicologico di adattamento” tra le “condizioni poste dall’ambiente” e l’evoluzione interiore tramite atteggiamenti sentimentali, di pensiero (p. 41) in funzione dei quali si presentano le coppie di contrari che tendono a combattersi o a convivere e che necessitano reciproca compensazione per esistere in equilibrio. Anche nella regressione ci sono germi di rinascita e di rinnovamento, per cui la regressione, più che come ritardo è da interpretarsi secondo Jung come un momento dello sviluppo. Se lo sviluppo è paragonabile a un flusso, la stagnazione è uno sbarramento che “costringe l’acqua a imboccare un’altra strada” (p. 47).

La cosa importante è comprendere le necessità e i movimenti interni e indirizzarli appropriatamente. “L’energia di certi fenomeni psichici viene portata […] a trasformarsi in altri dinamismi” (p. 50) per mezzo di un “travaso su un analogo dell’oggetto pulsionale” (p. 51). La volontà non esce interamente dall’ambito dell’inconscio sebbene esso contenga in grande maggioranza processi istintuali. Esiste infatti non solo quanto è conscio e inconscio, ma anche una "coscienza approssimativa” (p. 208). La differenza tra l’atteggiamento equilibrato e quello psicoide è riposta nell’uso della scelta di atteggiamento; ed è nella scelta crescente dell’atteggiamento, una volta acquisita la coscienza di sé, che consiste l’adattamento del processo di individuazione (pp. 203-07).

Jung trae spesso gli esempi di questi meccanismi dall’universo sociale delle tribù americane e di altri luoghi, riscontrando in siti disparati della Terra la credenza in una forza che anima l’individuo. Tale forza si presenta sotto la forma di spirito e anima, e spesso raffigura l’intero universo. Jung cita tra queste forze il “wakanda" dei Dacota, l'"oki" degli irochesi, il “wong” della Costa d’Avorio; l’”arunquiltha” degli aborigeni australiani, il “mana” melanesiano (pp. 72-74), deducendone che “quando noi insistiamo nella nostra psicologia sulla concezione energetica operiamo in sintonia con fatti psichici che da tempi immemorabili sono sepolti nello spirito dell’uomo” (p. 77).

“Il fenomeno degli spiriti è per l’uomo primitivo l’evidenza immediata della realtà dell’elemento spirituale” (p. 324); e uno dei canali di accesso al territorio degli spiriti è il sogno. Le visioni sono “l’irruzione momentanea di un contenuto inconscio nella continuità della coscienza” (p. 328). Jung distingue tra “spirito” (ominoso) e “anima” (elemento personalizzato, forse) (p. 331). Lo spirito è un’“intenzione dell’inconscio” collaterale alla presenza dell’io (p. 360).

Le cerimonie tribali vengono interpretate secondo modalità psicologiche, per esempio l’uso della magia come “formazione analogica all’energia pulsionale” o mezzo di accostamento all’inconscio. Nell’ambito della magia spicca la formazione del simbolo, concepito “come un simbolo reale e non come un segno” (p. 55), ovvero come qualcosa che agisce proprio per la sua natura di simbolo e non potrebbe prendere altre forme perché indica aspetti “non ancora afferrati chiaramente dalla coscienza” (p. 89).

I “motivi” interiori si condensano in “simboli più e meno stereotipi” che emergono anche nell’arte (p. 99).

Un elemento analogico è il mito: “Il mito non è altro che una proiezione proveniente dall’inconscio e non un’invenzione consapevole, allora è comprensibile non solo il fatto che ci imbattiamo dovunque negli stessi motivi mitici, ma anche che il mito rappresenti tipici fenomeni psichici” (p. 47).

La “funzione trascendente psicologica risulta dell’unificazione di contenuti ‘consci’ e contenuti ‘inconsci’” (p. 83): scopo dell’analisi è la loro composizione armonica.

Il processo di individuazione prevede delle fasi. “Il nevrotico è […] colui che non riesce mai nel presente come vorrebbe e che non può neppure rallegrarsi del passato. Prima non riusciva a staccarsi dall’infanzia; ora non può liberarsi dal periodo della gioventù” (p. 425).

Interessanti infine anche le notazioni sparse; per esempio questa: “il fanatismo è sempre presente in coloro che devono soffocare un dubbio interiore” (p. 329).


[Roberto Bertoni]

18/05/08

Christopher Lasch, L’IO MINIMO. LA MENTALITÀ DELLA SOPRAVVIVENZA IN UN’EPOCA DI TURBAMENTI


[Minimal blue. Foto di Marzia Poerio]


Titolo originale: THE MINIMAL SELF: PSYCHIC SURVIVAL IN TROUBLED TIMES (1984). Edizione italiana 1985. Ristampa: Milano, Feltrinelli, 2004.


Lasch parte dalla constatazione della difficoltà a essere se stessi entro i parametri, ormai crollati, che danno identità sociale e personale. Paradossalmente, proprio mentre pare che l’io si manifesti con grande evidenza nella società contemporanea, con un egocentrismo e un individualismo accentuati, tali atteggiamenti sono in realtà motivati, a parere dello studioso americano, da necessità autodifensive, o meglio dalla sopravvivenza. Ecco come la situazione è delineata nel volume:

“In un’epoca di turbamenti la vita quotidiana diventa un esercizio di sopravvivenza. Gli uomini vivono alla giornata; raramente guardano al passato, perché temono d’essere sopraffatti da una debilitante ‘nostalgia’, e se volgono l’attenzione al futuro è soltanto per cercare di capire come scampare agli eventi disastrosi che ormai quasi tutti si attendono. In queste condizioni l’identità personale è un lusso e, in un’epoca in cui incombe l’austerità, un lusso disdicevole. L’identità implica una storia personale, amici, una famiglia, il senso d’appartenenza a un luogo. In stato d’assedio l’io si contrae, si riduce a un nucleo difensivo armato contro le avversità. L’equilibrio richiede un io minimo, non l’io sovrano di ieri. […] L’occuparsi di se stessi, tanto tipico ai giorni nostri, assume il significato di una sollecitudine per la propria sopravvivenza psichica” (p. 7).

L’io minimo è narcisista non tanto per la sua invadenza quanto per il fatto che, “incerto dei propri contorni, aspira a riprodurre il mondo e a fondersi con esso in felice comunione” (p. 10), abolendo la distanza e la separazione tra individualità e universo esteriore.

Ciò accade in relazione a quella che Beck ha definito la società del rischio e che Lasch vede come percorsa da pericoli quali la guerra, il terrorismo, la minaccia della stabilità quotidiana, il fatto che si vive circondati da un universo che ha perso solidità e ha prodotto un io “incerto e problematico” (p. 20), per cui conviene un “disimpegno emotivo” (p. 67), un distacco flessibile, una condizione appunto di sopravvivenza.

Sebbene chi scrive queste note abbia difficoltà a concordare con la diminuzione dell’io proposta da Lasch, e gli sembri anzi che si sia verificato un gigantismo dell’io, pare però vera la configurazione delle difficoltà identitarie come sono sopra delineate.

Altrettanto valide, inoltre, sono altre osservazioni dell’autore di questo libro, che già più di venti anni fa anticipava riflessioni attuali.

Si vedano le idee sul consumismo, in particolare l’ipotesi che l’io stesso sia un prodotto fantasmatico del mercato:

“La produzione di beni e il consumismo non alterano solo la percezione di sé, ma anche quella del mondo circostante. Creano un mondo di specchi, immagini inessenziali, illusioni sempre più inscindibili dalla realtà. L’effetto di specchio trasforma il soggetto in oggetto; e, contemporaneamente, trasforma il mondo degli oggetti in un’estensione o in una proiezione dell’io. È fuorviante considerare la cultura del consumo come dominata dalle cose: il consumatore infatti vive circondato non tanto dalle cose, quanto da fantasie. Vive in un mondo privo di un’esistenza oggettiva e indipendente, che sembra esistere soltanto allo scopo di appagare frustrare i suoi desideri” (p. 18).

Si veda la concezione dei valori, la cui discussione pubblica, secondo Lasch, è messa in discussione da un pluralismo accentuato che, accettando ogni possibilità, azzera i parametri sulla base dei quali si emettono i giudizi, per cui “la libertà di scelta si riduce in pratica a un’astensione dalla scelta stessa” e “l’ideologia pluralista rispecchia con esattezza la situazione del mercato, dove prodotti in apparenza concorrenti diventano sempre più indistinguibili” (p. 24).

Questo in un ambito in cui la tolleranza è importante, ma l’esasperazione dell’accettazione totale porta a una crisi della democrazia, come si nota nell’indebolimento del sistema partitico, dell’autogoverno locale e dell’iniziativa popolare (p. 26). La politica cede il passo all’amministrazione, col che si genera un senso di impotenza nei cittadini rispetto alla possibilità di influire partecipando.

La cultura del narcisismo, come lo intende Lasch, investe sfere disparate, tra queste l’arte, la letteratura, la memoria storica (c’è un capitolo anche sull’Olocausto).

L’IO MINIMO va letto in relazione a un precedente saggio di Lasch, THE CULTURE OF NARCISSISM: AMERICAN LIFE IN AN AGE OF DIMINISHING EXPECTATIONS (1979) (edizione italiana LA CULTURA DEL NARCISISMO. L’INDIVIDUO IN FUGA DAL SOCIALE IN UN'ETÀ DI DISILLUSIONI COLLETTIVE, Milano, Bompiani, 1981).


[Roberto Bertoni]

16/05/08

Marco Ercolani, PER LA MANO SINISTRA, 1


["Light is secret for those who think of it". Foto di Marzia Poerio]


PER LA MANO SINISTRA, 1


La vita: cristallo e formicaio.

Scrivo in stato di assillo.

I miei, sono paradisi sotterranei.

Chiude gli occhi ai morti, non sopporta che vedano cose indicibili.

L’uomo è sorpreso quando si riconosce, non quando si perde.

Senza un segreto che sia solo nostro si sarebbe vivi?

La luce di certi cieli è vietata ai sani.

A quale età si osserva meglio la luce?

La morte è le mie ossa, quando non potrò raccontare niente a nessuno.

Sognare senza risvegliarsi: essere folli.


***


Ogni artista autentico raffigura il suo fallimento con opere adeguate.

Conoscere le storie della letteratura è perturbante.

Il linguaggio può trasformare, ma bisogna esserne all’altezza.

Quando sogna di fermare l’ombra, l’artista inizia il suo autentico lavoro.

Ogni estetica è dissimulata dal silenzio.

Smettere di scrivere: gettare grida di sgomento.

Abbiamo scritto. Abbiamo modulato il nostro nulla. Adesso aspettiamo.

Rileggere sogni già sognati. Comporre libri con vana ostinazione.

Sentire ancora un brivido per qualche scrittura imminente.

La composizione di una storia è la difesa estrema dell'illusione.

Reale nell'atto in cui trascrivo fantasmi.

Resistere nella parola - infedeli abitatori della lingua.


***


Le parole intollerabili: quelle che ho il dovere di pronunciare.

Vivo diecimila vite: ma questa, che subisco, ha un nome?

Sognare il fuoco significa disamorarsi di ogni architettura eterna.

La luce è segreta a chi la pensa.

I sogni, prima di ritornare misteriosi, devono essere interpretati.

Esistono forme rigorosamente segrete e realmente incompiute.

I fiumi si differenziano per i detriti.

Scrivere o curare: rendere dicibile.

Il foglio bianco nasconde parole non nate. La scrittura ne rivela alcune.

Lo stile è la superficie esatta sotto la quale battono i colpi di migliaia di tamburi senza suono.

Scrivere nel buio, estendendo i confini del foglio.

Nella visione, la vista impara se stessa.


***


Il canto di un uccello per il tempo in cui risuona - non oltre.

Quale terra premerò, nel passo successivo? E sarà proprio una terra?

L’assillo della scrittura è pronunciare le penultime parole.

Al suo culmine l'arte si distrugge, annulla ogni regola, sprigiona immagini e profezie.

Si può essere originali ripetendosi all'infinito.

Follia: deformità o sapienza?

Restare suscettibili di trasformazione: questo è il segreto.

Ho male alle corde vocali. Ho gridato tutta la notte, per qualcosa che riguardava un sogno.

Ogni poeta è immerso nel sonnambulismo che lo guida al prossimo verso.

Quale parola può definirsi giusta per descrivere un evento perturbante?

Un occhio semiaperto: la penultima maschera.

Il fondo di ogni scrittura è un’immagine-pensiero.

Si immagina essendo stanchi di sopravvivere.


***


Non l’esperienza estetica, che consente l’ammirazione della bellezza, ma l’evento perturbante, che obbliga ad esserne sopraffatti.

Le parole hanno il potere di abbandonarci perché non sono mai nostre.

Nessuna opera vera corrisponde a qualcosa se non al sogno del suo autore.

Mi trovo nella condizione di aver raccontato tutti i miei sogni e non aver più nessun desiderio di sognarli ancora.

Dentro un’ombra, è leggibile tutto.

Sentire qualcosa di irriducibile a quanto fino ad oggi è stato sentito.

Che cosa posso raccontare se tutto ciò che accade deve essere raccontato e simultaneamente taciuto?

A salvare i sommersi o si perde la vita o si condivide il loro destino.

Fingi di annuire, e il mondo sarà innocuo.

Il dolore mentale è quella sensazione intollerabile che si prova senza il sollievo della scrittura.

L'opera è interminabile, come talvolta appare il deserto, ma al deserto c'è un limite.

Vivere in uno stato di finzione reale.

Non ci sono disperazioni necessarie. Solo inevitabili.

14/05/08

Ivano Mugnaini, COSI' VA IL MONDO. WILLIAM CONGREVE E LA “COMMEDIA DI COSTUME”

Nato nel 1670 a Bardsey, un villaggio dello Yorkshire, William Congreve è noto soprattutto per le sue “Comedies of Manners”, termine traducibile all’incirca con “commedie di maniera”, ossia di costume, satire degli atteggiamenti e delle mode, tanto consolidate da divenire fisse, rigide, comicamente ingessate in rituali che si eternano fino a perdere il senso, conservando solo la valenza esteriore. La più nota di tali commedie in cui Congreve eccelleva è senza dubbio THE WAY OF THE WORLD, titolo reso spesso tramite la formula, libera in parte, ma efficace e onnicomprensiva, di COSÌ VA IL MONDO.

Nella Prefazione all’opera, pubblicata per la prima volta nel 1700, Congreve esprime sincera sorpresa per l’ottima accoglienza riservata dal pubblico al suo testo. Riteneva infatti che la sua “audience” non fosse preparata a recepire nel migliore dei modi i temi e le situazioni proposte nella pièce. Ancora una volta, con un procedimento un po’ arbitrario, ma a cui, a dire il vero, non è agevole resistere, almeno per me, mi viene fatto di immaginare cosa avrebbe scritto Congreve se si fosse trovato a vivere nell’epoca attuale, come avrebbe interagito, il brillante autore britannico, con i suoi potenziali spettatori, con gli attori dei palcoscenici, e con quelli, non meno funambolici e a tratti “macchiettistici”, della vita reale.

Ho scritto reale, comprendendo però in questo ambito anche ciò che strettamente reale non è, ma con esso si interseca, influenzandolo, manipolandolo, condizionandolo: il fittizio. In particolare, per forza di cose, l’etere mediatico. Avrebbe avuto un bel po’ da fare, e da dire, Congreve, seduto, volente o nolente, a casa sua, o magari in qualche ristorante, di fronte alle infinite variazioni sul tema dei “Grandi Fratelli” e alla schiera dei parenti e affini dei cosiddetti “reality shows”. Non meno infervorato, divertito, magari con un gusto agrodolce nella bocca e nella mente, sarebbe risultato, il drammaturgo, dovendo assistere ai duelli rusticani (e in alcuni casi semplicemente rustici) di politici disposti anche a ballare il tip-tap pur di conquistare una telecamera (antipasto di una Camera tout court) e qualche punto in più del famigerato share.

Si sarebbe divertito, forse. Di sicuro avrebbe rispolverato i personaggi a suo tempo creati per COSÌ VA IL MONDO, trovandoli ancora adatti, consoni, magnificamente calzanti. Nulla di nuovo sotto il sole. Appunto. Si tratta solo di assegnare immutabili e immarcescibili ruoli a facce nuove. Nuove nel senso che continuano a proporsi, periodicamente, ciclicamente. Non certo nuove nel senso di un’auspicabile e in parte utopica metamorfosi. Come faceva notare Tomasi di Lampedusa nel “Gattopardo”, tutto cambia affinché tutto resti uguale. La citazione non è esattissima nella forma. Ma la sostanza, ahimè, è corretta, ineluttabile.

Di sicuro si divertirà lo spettatore, e il lettore, andando a cercare in qualche teatro una riedizione della commedia di Congreve, oppure attingendo direttamente dal testo scritto, magari tramite un’adeguata traduzione. Il gioco nel gioco, forma ludica di metateatro, potrebbe essere quello di abbinare a ciascun ruolo un personaggio moderno che dimostra di incarnarne in modo adeguato vizi e virtù. Confrontando poi gli abbinamenti.

In COSÌ VA IL MONDO di Congreve, operano e tramano, tra gli altri, un certo Fainall, nome che corrisponde più o meno a “Fingitutto”. Si tratta di un cinico, il quale ritiene che l’inganno sia normale, e considera il matrimonio una farsa.

C’è, poi, un epiteto ancora più gustoso, Witwoud. Qui necessita una parafrasi per rendere bene il gusto del nome: “colui che vorrebbe essere arguto”. E quel “vorrebbe” è di per sé fonte di ironia. Lo colloca sarcasticamente nella terra di confine tra atteggiarsi e valere, apparire ed essere. Personalmente per questa categoria considero perfetti candidati molti politici ipersorridenti e generosi di aneddoti e barzellette, non di rado fuori luogo e fuori contesto. Tuttavia, pur non essendo un esperto, credo che anche diversi personaggi dei “reality” non sfigurerebbero nei panni di Witwoud. E, in ultima analisi, con un atto di autoironica onestà, credo che tutti noi, presto o tardi, e almeno una volta nella vita, siamo afflitti dal morbo di Witwoud.

Altro “character” degno di nota, anche se magari non altrettanto di simpatia, è Petulant. Stavolta il nome non necessita traduzione, e neppure particolari postille. Se non forse per specificare che questo personaggio è grande amico di Witwoud. Vanno spesso in coppia, ma, mentre Witwoud benché ciarliero e vanitoso ha un buon carattere, Petulant è acido, irritabile e irritante. Anche in questo caso la caccia al tesoro è aperta. Nella fauna dei politici, in particolare, la convivenza tra il buono e il cattivo è frequente. Si tratta solo di aggiungere il brutto di turno per completare il mirabile trio di ispirazione cinematografica. Ma l’impresa non appare affatto improba.

Tra i personaggi femminili spicca Millamant. Ogni commento sul nome è superfluo. La signora, bella e per di più brillante, non disprezza affatto la compagnia maschile, diciamo così. Dimostra interesse soprattutto per il protagonista della commedia, Mirabell. Tuttavia, essendo anche molto realista e con i piedi ben piantati a terra, affianca all’amore romantico la ragione. Sotto forma di eventuali alternative, quasi una sorta di panchina lunga, per dirla in termini calcistici. Nel caso in cui Mirabell non dovesse rivelarsi all’altezza, da qualche fondamentale punto di vista. E’, tuttavia, almeno nella visione di Congreve, un personaggio positivo. Il ricorso alla panchina lo fa malvolentieri. Attende piuttosto che l’amore cresca e con esso la fiducia reciproca. Alcune soubrette televisive, di recente notorietà, non sfigurerebbero nei panni, a dire il vero succinti, dell’eroina di Congreve.

C’è, ultimo ma non ultimo, Waitwell. Un ottimo servitore. Ha le sue idee, le sue convinzioni, ma, di fronte al padrone, si piega docile come un giunco. E’ pronto, a seconda delle esigenze dei personaggi principali che occupano la scena, a fare da spalla, interpretando i ruoli più disparati. Comici, tragici, tragicomici. Sa essere frivolo e accondiscendente. Inoltre, qualità molto apprezzata dai suoi rispettivi padroni, sa sparire, sa togliersi di mezzo al momento giusto, lasciando campo libero ai monologhi degli altri, di qualunque colore e genere essi siano. Mi viene fatto di pensare che a molti politici odierni non dispiacerebbe affatto un Waitwell. Ma chissà che, su qualche canale pubblico o privato, non possano trovare qualche omologo. Oppure, sempre restando nel campo delle ipotesi, chissà che non lo abbiano già trovato. Misteri, più o meno buffi.

Non è mistero invece, e necessità ribadirlo anche correndo il rischio di ripetersi, che il teatro, quello autentico, sia esso tragico o comico, impegnato o leggero, sa individuare percorsi di universalità. Sa essere fresco e vitale. Attuale, proprio perché non ammica a nessun presente che non possa essere degno di rappresentare il passato e pronto per rispecchiare qualsiasi futuro. Perché così va il mondo, così è andato, e, prevedibilmente, che ci piaccia o meno, andrà. Si ride, vedendo o leggendo la commedia di Congreve, di un riso particolare, mai vuoto, mai fine a se stesso. Carico di quel “wit”, di quell’arguzia che è allo stesso tempo prova dell’esistenza in vita dell’intelligenza, e, in misura non minore, forma di resistenza estrema contro l’imbruttimento dei costumi, la violenza del grottesco e dell’assurdo. Una commedia solare, quella di William Congreve, ricca di verve ed esuberante. Non resta che sperare, nella situazione attuale, sul palcoscenico della vita di oggi, in una qualche forma comparabile di lieto fine, non forzato né intimamente amaro. Sperando cioè che si possa dire anche noi “Così va il mondo”, conservando un sorriso. Ironico ma tenace.

13/05/08

Seijun Suzuki, PRINCESS RACCOON

Director: Seijun Suzuki

Sceneggiatura di Yoshio Urasawa. Con Mikijiro Hira, Joe Odagiri, Hiroko Yakushimaru, Taro Yamamoto, Zhang Ziyi.


Il signore feudale Azuki viene a sapere che suo figlio, il principe Amechiyo, diventerà il più bello del reame, sopravanzandolo; decide pertanto di esiliarlo. Un servitore Ninja accompagna Amechiyo nella foresta, dove lo trova la principessa tanuki (raccoon nella versione inglese, cioè procione), la quale si innamora di lui, prende forma umana e viene ricambiata. Difficoltà notevoli si frappongono tra i due protagonisti; tra queste l'ostilità delle loro due comunità, l'avversione costante di Azuki per il figlio, che sfocerà in un duello; la morte della principessa, resuscitata da una "rana del paradiso" parlante; la morte del principe, resuscitato da un sortilegio.

Radicata nel folclore, la fiaba è elaborata con un meccanismo postmoderno di miscela di generi: il teatro tradizionale giapponese si combina con canzoni rock ed echi di musical statunitensi. Di per sé è un film musicale con canzoni e balli, vivace e colorato. Tuttavia, abbiamo avuto l'impressione che andasse guardato come teatro; e quando abbiamo pensato a questa ipotesi è diventato gradevole e stimolante. È vero che ci sono alcuni esterni di natura, ma in prevalenza le azioni si svolgono su palcoscenici con sfondi illustrati come dipinti giapponesi classici o come cartoni animati.

Esperimento interessante, destinato a essere apprezzato o meno. Lo abbiamo visto in dvd (WCL, 2007) e chi lo ha guardato con noi chiedeva: "Ma ti interessa questa roba?" De gustibus... A noi è piaciuto; e concordiamo con Jonathan Trout che si tratta di "a hallucinatory hybrid of MONKEY and THE WIZARD OF OZ" [1] e con Manhola Dargis che questo film è "mad, nuts, [...], funny" [2], con tutti i difetti e i pregi di un'estetica in parte avanguardista e in parte kitsch.


NOTE

[1] BBC Reviews.
[2] New York Times Reviews.

[Renato Persòli]

12/05/08

Emily Dickinson, THEY SHUT ME UP IN PROSE


["Shut in prose". Foto di Marzia Poerio]


They shut me up in Prose -
As when a little Girl
They put me in the Closet -
Because they liked me "still" -

Still! Could themself have peeped -
And seen my Brain - go round -
They might as wise have lodged a Bird
For Treason - in the Pound -

Himself has but to will
And easy as a Star
Abolish his captivity -
And laugh - No more have I -


Mi hanno chiuso nella prosa -
come quando ero piccola
rinserrata in un armadio -
per farmi stare "ferma" -

Ferma! se avessero osservato
girare il mio cervello -
sarebbe stato uguale
ingabbiare un uccello

che - per togliersi dal carcere -
basta che lo voglia -
agile come stella -
ridendo - così ho fatto io -

[Traduzione di Roberto Bertoni]

11/05/08

Roberto Bertoni, MOVIMENTO DEL SESSANTOTTO

In senso ristretto il 1968 è un anno di movimento studentesco, giovanile, operaio, intellettuale e di ceti medi di risonanza internazionale, ma in senso lato parlare di Sessantotto significa, in Italia, riferirsi a un periodo di vari anni, connotato da contestazione, lotta di classe, mutamenti politici e sociali. Quanto alla conclusione del periodo, Donatella Della Porta e Paul Ginsborg la vedono nel 1973, anno in cui i movimenti del Sessantotto perdono parte della propria spontaneità e assumono nuovi caratteri organizzativi. Altri pongono la data conclusiva al 1976-77, anni in cui nasce il movimento del Settantasette con connotazioni distinte da quelle del Sessantotto. Col 1979 e il rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse, il periodo degli "anni di piombo" aprì una fase diversa. La violenza fu presente nel movimento del Sessantotto in forma verbale in primo luogo; si ritiene che solo in minoranza sia stata violenza offensiva; non va però negato che si produssero dal 1968 in poi anche gli embrioni delle Brigate rosse; ciò che stupisce è quanto il conflitto armato, che fu minoritario, condannabile senza mezze misure e folle, abbia preso il campo in varie rievocazioni recenti, soffocando così (forse per la sua spettacolarità) le altre istanze, pacifiche e sociali, del movimento del Sessantotto; è invece queste ultime che si intende qui richiamare brevemente.

Gli anni del miracolo economico (1957-1963) avevano provocato l'industrializzazione di vaste aree dell'Italia, con cambiamenti della struttura economica e emigrazione dal Meridione al Settentrione. Si ritiene ancora valida la tesi della formazione di una forza lavoro, spesso meridionale emigrata al nord, poco fedele ai sindacati tradizionali e che avrebbe dato vita all’"autunno caldo" del 1969.

Lo sviluppo economico aveva inoltre ampliato la classe media, più disponibile a modificazioni della mentalità e del costume in un'Italia allora caratterizzata da modelli di comportamenti tradizionali e di stampo prevalentemente cattolico. Caso clamoroso era la non esistenza del divorzio, accompagnata da una legislazione familiare retriva. Alcuni settori di questa classe media erano progressisti e finiranno col radicalizzarsi negli anni successivi. La mentalità retriva dominante favoriva la formazione di gruppi di liberazione, che attraversavano le diverse classi sociali.

All'interno della classe media, e sarebbe meglio dire della piccola e media borghesia, si era verificato un miglioramento di tenore di vita durante il boom economico, ma in concomitanza con l'introduzione della scuola media dell'obbligo (fino ai 14 anni) e l'accesso libero alle facoltà universitarie (avvenuto in varie fasi durante gli anni '60), le nuove leve generazionali di questo ceto correvano il rischio della disoccupazione: una "disoccupazione intellettuale" che era uno degli aspetti della massificazione della società. La massificazione comportava, secondo una teoria del periodo in esame, la "proletarizzazione degli intellettuali", cioè la loro perdita di un ruolo privilegiato direzionale e l'assunzione di un ruolo subordinato e prevalentemente tecnico. Perciò gli studenti universitari, i laureati, i tecnici, gli intellettuali in genere cominciarono a sentirsi in una qualche misura vicini al proletariato seppure appartenenti per formazione culturale e per provenienza familiare alla borghesia.

Occorre tener conto del fatto che l'intelligentzia italiana era sensibile al marxismo, che, in parte all'interno del PCI, in parte in forme più "eretiche", si era diffuso tra accademici, scrittori, insegnanti e in misura inferiore professionisti, fin dagli anni dell'antifascismo e della Resistenza. Questo fenomeno contribuì a radicalizzare a sinistra strati di piccola e media borghesia e alcuni medici e magistrati.

In campo cattolico il pontificato di Giovanni XXIII proponeva aperture. Scavalcando le gerarchie, a sinistra, su un terreno più propriamente politico sorsero le Comunità di Base nel 1970 e il Movimento dei Cristiani per il Socialismo nel 1973. Fu anzi un prete, don Lorenzo Milani, che pubblicò nel 1967 uno dei documenti preparatori della rivolta studentesca: LETTERA A UNA PROFESSORESSA, in cui veniva esaminata l'ideologia trasmessa attraverso i libri di testo e gli atteggiamenti valutativi da parte degli insegnanti nella scuola di Barbiana di Vicchio Mugello in provincia di Firenze, sottolineando i meccanismi di selezione tipici della scuola, mettendo in rilievo il meccanismo meritocratico degli esami, delle promozioni e delle bocciature, che, lungi dall'essere imparziale, favoriva in realtà i figli degli abbienti e sfavoriva studenti provenienti da strati proletari industriali e agricoli.

Nel 1966 venne occupata la Facoltà di Architettura di Napoli (l'Università principale del Meridione). Nello stesso anno, la Facoltà di Sociologia di Trento venne bloccata da scioperi, agitazioni e da una occupazione (in gennaio) di 18 giorni. Nella primavera, a Roma, in seguito alla morte dello studente di architettura Mario Rossi, che cadde dalle scale dopo un'aggressione fascista, si tentò di occupare l'Università La Sapienza. La Sapienza di Pisa (cioè la Facoltà di Scienze Politiche e Giurisudenza, contenente anche la biblioteca universitaria) venne occupata dagli studenti all'inizio del 1967. In febbraio seguì l'occupazione della Facoltà di Architettura di Milano. In aprile venne occupata la Facoltà di Architettura di Venezia; in giugno quella di Torino. In novembre dilagarono le occupazioni a Napoli, venne occupata l'Università Cattolica di Milano e venne occupato Palazzo Campana, sede delle Facoltà Umanistiche di Torino. Il 31 gennaio del 1968 venne occupata la Facoltà di Sociologia di Trento. Da questo punto in poi il movimento, che si era svolto, come si vede, con grande rapidità, dilagò in tutta Italia e si diramò anche nelle scuole medie superiori. Frattanto simili avvenimenti si verificavano nel resto d'Europa: enormi furono la risonanza del maggio 1968 francese (che vide grandi manifestazioni a Parigi e in altre città e fu un pò il simbolo del movimento di contestazione in Europa) e delle università americane e tedesche. Il fenomeno aveva dimensioni mondiali: per i protagonisti era come se le contraddizioni del sistema politico, sociale, scolastico del neocapitalismo internazionale fossero esplose tutte assieme.

Per i contenuti della protesta studentesca, si rimanda alla lettura dei documenti principali che essa produsse. Tra questi, si ricordano, costretti dalla brevità di questo scritto, le Tesi della Sapienza di Pisa, in cui si delineava la funzione della scuola e dell'università interpretandola come funzione di "riproduzione della forza lavoro qualificata", che perciò "rientra come costo sociale nel ciclo di riproduzione del capitalismo". Ciò significava che la scuola e l'università erano uno degli aspetti con i quali il capitalismo prevaleva e si manteneva. Da qui la "saldatura" col movimento operaio è resa possibile, secondo le Tesi, dalla "parcellizzazione del lavoro intellettuale" e dalla sua "proletarizzazione" [1].

L’obiettivo di fondo del movimento studentesco, oltre la critica alla selezione, era la lotta contro l’inefficienza amministrativa dell’università italiana e contro l'autoritarismo. Si rivendicava, come ricorda Peppino Ortoleva, un' "educazione permanente", un "autodidattismo collettivo" [2], che spingeva gli studenti ad apprendere tramite "forme di didattica alternative" [3].

“Liberazione" è un'altra delle parole chiave del Sessantotto. Accomunava i ribelli un'etica della liberazione dall'alienazione individuale, tale da politicizzare tutti gli aspetti dell'esperienza personale. Si trattava di cambiare gli atteggiamenti individuali condizionati dalla società borghese alienata. La fonte culturale di questa volontà di cambiamento era nei classici del marxismo, accompagnata dall'analisi di altri teorici, il più importante dei quali fu Herbert Marcuse.

Il conflitto generazionale, assieme alla scossa inflitta al comportamento e all’etica dei sentimenti, è un elemento importante del Sessantotto. In tal senso, ancora Ortoleva osserva che “il Sessantotto diede rilevanza politica a una trasformazione che era già in corso nel costume” [4].

Fondamentale l’antifascismo, soprattutto in relazione alla strategia della tensione.

I narratori sensibilizzatisi a sinistra proponevano una narrativa di impegno politico e sociale. Tra i titoli: VOGLIAMO TUTTO (1971), LA VIOLENZA ILLUSTRATA (1976) e GLI INVISIBILI (1987) di Nanni Balestrini; CANI SCIOLTI (1973) di Renzo Paris; il teatro di Dario Fo.

Non si concorda con chi sostiene che il Sessantotto non produsse una vera e propria letteratura. Non solo i nomi citati e altri proponevano, con moduli espressivi originali, una nuova versione della letteratura impegnata, ma scrittori non coinvolti direttamente nella contestazione vennero influenzati dagli avvenimenti. Basti pensare al CONTESTO (1971) di Leonardo Sciascia, sulle trame del potere per provocare un colpo di Stato; a OCCIDENTE (1975) di Ferdinando Camon, sui gruppi eversivi padovani; al Paolo Volponi di CORPORALE (1974), storia di un intellettuale in crisi sullo sfondo del post-Sessantotto, e di SIPARIO DUCALE (1975), che parla degli ambienti fascisti di quegli anni.

Tra le riviste si ricorderanno "Quaderni piacentini", "Nuovo impegno", "Che fare", "Contropiano", "Nuova corrente". Negli anni '70 sorsero tre quotidiani della Nuova Sinistra: "Lotta continua", "Il Quotidiano dei lavoratori" e "Il Manifesto".

La critica nei confronti dell'industria culturale era feroce: venivano contestati premi letterari, mostre d'arte, festival cinematografici. Il movimento del Sessantotto cercava di produrre in proprio la propria cultura.

Del conflitto sociale si sono visti finora alcuni aspetti. Quelli più importanti furono quelli che coinvolsero il movimento operaio e strati più ampi della società. Il punto tradizionale di avvio è l' "autunno caldo" del 1969, seguito da agitazioni operaie costanti negli anni successivi con scioperi, occupazioni, cortei, picchettaggi, comizi, assemblee, riunioni in numerose fabbriche italiane. Gli obiettivi principali dell'agitazione erano l'unificazione dei livelli salariali tra impiegati e operai, la democrazia interna in fabbrica e la lotta contro la nocività. Parte di questi obiettivi (assemblea, Consigli, aumenti con integrazione di livello tra operai e impiegati) venne raggiunta col contratto del dicembre 1969. Nel 1970, sotto la spinta del movimento operaio e sindacale, venne promulgato lo Statuto dei Lavoratori, che garantiva, come dice il testo della legge, "la tutela della libertà e della dignità dei lavoratori, la libertà sindacale e l'attività sindacale nei luoghi di lavoro".

Le tematiche del movimento degli operai e degli studenti si collegavano frattanto ad altri settori della società che avevano dato vita a movimenti di contestazione delle istituzioni carcerarie, manicomiali, militari, giudiziarie, ospedaliere.

Il movimento delle donne ebbe notevole risonanza, e fu sotto la sua spinta che venne promulgata la legge 151 del 1975 sul diritto di famiglia; venne respinta nel referendum del 1974 la proposta di abrogare la legge sul divorzio; venne approvata nel 1978 la legge sull'aborto.

Il Sessantotto ebbe aspetti estremisti, idealistici, anche semplicistici nei confronti della complessità sociale, ma fu uno dei momenti significativi della storia italiana del Novecento. Fallì nelle aspirazioni utopistiche, ma influì sul costume e influenzò la formulazione di leggi di riforma, contribuì a promuovere cambiamenti nella sinistra italiana e la formazione di una cultura progressista.


NOTE

[1] AA.VV., IL SESSANTOTTO. LA STAGIONE DEI MOVIMENTI (1960-1979), Roma, Edizioni associate, 1988, pp. 22-23.
[2] P. Ortoleva, SAGGIO SUI MOVIMENTI DEL 1968 IN EUROPA E IN AMERICA. CON UN'ANTOLOGIA DI MATERIALI E DOCUMENTI, Roma, Editori riuniti, 1988, p. 68.
[3] Ibidem, p. 78.
[4] Ibidem, p. 102.

Piera Mattei, “IO SONO COME IL PICCOLO ANEMONE”: RILKE A VILLA STROHL-FERN

“Io sono come il piccolo anemone che ho visto una volta a Roma, nel giardino; di giorno si era spalancato tanto che non riusciva più a chiudersi per la notte. Era terribile vederlo nel prato buio, aperto, ancora intento ad accogliere tutto nel calice follemente spalancato, con troppa notte sopra di sé che non voleva finire [...] Anch'io sono inguaribilmente volto all'esterno, e dunque tutto mi distrae, e non rifiuto nulla; i miei sensi, senza chiedermelo, si riversano in mille cose che disturbano; se c'è un rumore, io mi annullo e sono quel rumore. E siccome ciò che si abitua allo stimolo vuole poi essere stimolato, io in fondo voglio essere disturbato, e lo sono, senza fine” (26 giugno 1914).

Così, nel ricordo, Rilke tornava a dare vita a una minuscola e ostinata forma di vita incontrata e osservata, dieci anni dopo il suo soggiorno romano. Dopo dieci anni eccolo a ricordare quell'anemone talmente dilatato dalla sua sete di luce da trovarsi incapace di serrare ormai più i petali, anche nel buio. Dopo aver dimostrato pietà per il folle anemone e per se stesso, “io”, scrive con un improvviso trasalimento e autoironica accettazione, “in fondo voglio essere disturbato, e lo sono, senza fine”, introducendo un' inversione fortemente assertiva per la volontà di assimilare tutta la luce, tutte le immagini possibili.

“Nel giardino”, scriveva: il nome connotato con l'articolo determinativo - come dire nel mio giardino - dovrebbe senza meno essere il giardino della Villa Strohl-fern, dove, a Roma, Rilke fu ospite, con la scultrice Clara Westhoff, sua moglie, dal settembre 1903 al giugno 1904. Erano arrivati, dopo aver lasciato ai nonni materni la piccola Ruth, col proposito comune di cercare insieme ma separatamente la loro realizzazione artistica. Da Parigi si erano allontanati quasi furtivamente nel marzo 1903. Lì si era trattato di un primo soggiorno, deprimente, allucinato, come traspare dalle lettere e soprattutto dai ritratti di tipi umani, ospedali, solitudine e disperazione muta, che aprono il romanzo I QUADERNI DI MALTE LAURIDS BRIGGE, la cui stesura inizia proprio nell'autunno di quell'anno 1903. Dopo aver cercato un po' di ristoro – una vacanza – a Viareggio, Venezia e Firenze, si erano dunque stabiliti, era già settembre, a Roma, nella villa Strohl-fern.

Il mecenate Alfred Wilhelm Strohl, artista alsaziano che, dopo la guerra franco-prussiana, aveva lasciato la sua terra (aggiungendo al suo nome l'aggettivo fern, lontano) nel 1879 aveva acquistato un ampio parco di 80.000 mq di superficie, adiacente alla Villa Borghese, e vi aveva costruito la sua abitazione, per trascorrerci il resto della vita e ospitare, in numerosi studi spartanamente attezzati, artisti, soprattutto pittori e scultori. Clara era appunto scultrice e allieva di Rodin e pertanto ospite gradita con il giovane intellettuale marito, già noto per la sua attività di poeta, per aver scritto una serie di monografie di artisti contemporanei (tra le quali quella di Rodin) e anche per la storia d'amore, ormai conclusa, con la sua affascinante pigmalione, Lou Andreas Salomé.

In quello scorcio di fine estate il patto con cui i due giovani coniugi avevano deciso di recarsi a Roma, era che ciascuno avrebbe cercato di trarne profitto per la propria arte, ma la situazione, una sistemazione che definiremmo da comune di artisti, si presentava, già in partenza, lontana dall'ideale per la personalità solitaria ed egocentrica del nostro, e il rapporto con Clara cominciava a risentirne.

Neppure a Roma, quindi, Rilke si sentì a suo agio e lamentò apatia e carenza d'ispirazione. Eppure a Roma scrisse tre importanti e ispirati componimenti in endecasillabi sciolti che collocherà in chiusura del primo libro delle NUOVE POESIE e, come accennavamo, il primo abbozzo dei QUADERNI DI MALTE.

Infine immagini s'impressero nella sua mente, che richiamerà molti anni dopo: “Voci, voci.[...]Ecco fruscia qualcosa da quei giovani morti e viene a te. / Dove entrassi tu mai nelle chiese / di Roma o di Napoli, non ti parlava pacato il loro destino?” (ELEGIE DUINESI – Prima vv. 54, 61-63); e ancora, nell'elegia nona che terminerà solo nel 1922: “Loda all'angelo il mondo [...]. Allora mostragli / quello che è semplice, quel che, plasmato di padre in figlio / vive, cosa nostra, alla mano e sotto i nostri occhi / . Digli le cose. Resterà più stupito; stupito come rimanesti tu / dinanzi al cordaio a Roma”.

Immagine quest'ultima del cordaio, come quella dell'anemone, ritagliata e collocata in posizione di cosa, che diventano oggetti della poesia, della riflessione filosofica e introspettiva, secondo una poetica che, proprio in quell'anno 1903, comincia a disciplinare l'ispirazione e a distanziarla dalla forma soggettiva, e che da allora resterà salda.

Nel giugno 1904, il caldo nei piccoli studi di Villa Strohl era diventato insopportabile. I Rilke decisero di concludere il soggiorno e, molto volentieri, accettarono un invito presso amici, in Svezia.

Nel sonetto CAMPAGNA ROMANA (NUOVE POESIE) una Roma riarsa nella sua stanca magnificenza spinge lo sguardo assetato verso i sui acquedotti mentre brucia di febbre ed è assediata dalla meschinità che occhieggia da finestre di piccole case maligne. Magnanimità e miseria. Il vuoto come vero volto della grandezza, che non ha mezzi per farsi capire:

“Dal folto della città che vorrebbe
dormire sognando le alte terme,
dritta verso la febbre va la via delle tombe,
e le finestre dell'ultime casupole

con uno sguardo maligno la seguono.
[...]
E mentre gli acquedotti

lontani accenna perché s'avvicinino,
le danno i cieli in cambio del suo vuoto
il loro vuoto che le sopravvive”.

Ancora nel novembre precedente le sensazioni che Roma andava imprimendo nella memoria del poeta erano state di armonia e frescura, acque, e scalinate come cascate, giardini, terrazze e quelle notti colme di stelle.

“Ti ricordi ancora di Roma, cara Lou? Com'è nella tua memoria? Nella mia rimarranno un giorno solo le sue acque, queste limpide, stupende, mobili acque che vivono nelle sue piazze; e le sue scale, che sembrano modellate su acque cadenti, tanto stranamente un gradino scivola dall'altro come onda da onda; la festosità dei suoi giardini e la magnificenza delle grandi terrazze; e le sue notti, così lunghe, silenziose e colme di stelle” (Lettera a Lou Salomé, novembre 1903).

A una “fontana romana”, al suo moto di amorosa corrispondenza dall'una all'altra vasca concentrica aveva più tardi dedicato un altro sonetto:

Due vasche, una sovrastante l'altra
con un antico, tondo orlo marmoreo,
che sommessa dall'alto inclina l'acqua
verso l'acqua che sotto era in attesa,

tacendo a quella che sommessa parla
e quasi dentro il cavo della mano
dietro ombra e verde in segreto mostrandole
come un oggetto sconosciuto il cielo [...] (NUOVE POESIE)

La città di terme, di tombe, d'acquedotti, di vuoto, nel silenzio insidiata da invisibili sguardi e la fontana di vasche sorelle, quasi sognanti, che mostrano il cielo come oggetto sconosciuto: mi sono chiesta quale relazione potrebbe correre tra queste immagini e i paesaggi metafisici immobili di ville e piazze nella luce totale e irreale di Giorgio de Chirico. Monaco e Nitzsche, può essere la risposta, costituiscono gli anelli di congiunzione, predispongono le analogie o almeno l'atmosfera comune in cui maturarano le due sensibilità. Nietzsche scriveva in ZARATHUSTRA un monito valido per entrambi: l'artista sarà capace di volgere una realtà spaventosa e sbalorditiva, rivelatagli dalla sensazione, in un effetto di calma sublime e di stupore beato, carico di pathos.

Tuttavia Rilke, che molto ha scritto sugli artisti contemporanei, non mi pare abbia mai conosciuto o dedicato la sua attenzione a de Chirico, per quanto uno strano destino porti i due a frequentare gli stessi ambienti e le stesse città in periodi solo leggermente sfalsati. Monaco dove Rilke nel maggio 1897 avrà il fatale incontro con Lou Andreas Salomé - e quindi, indirettamente, anche col pensiero e la personalità di Nietzsche - e dove avrà la sua casa fino al definitivo distacco nel 1919, è anche la città dove il giovane de Chirico si trasferirà alla morte del padre, per restarvi dal 1905 al 1910 circa, studiando, appunto appassionatamente, Schopenhauer e Nietzsche. Sono certo un'eredità nietzschiana, in entrambi, soprattuto l'idea del tempo come attimo immobile, la centralità delle "cose" considerate generalmente insignificanti, delle quali occorre penetrare l'enigma, il rapporto con la classicità, in cui il pathos non è sinonimo di commozione ma di contemplazione e immobilità.

A Roma, l'abbiamo accennato, Rilke aveva cominciato la prima stesura dei QUADERNI DI MALTE, un romanzo breve, dalla scrittura tormentata, che ha ai margini della narrazione, ma forse al centro dell'ispirazione più autentica, una Parigi di solitudine e squallori, d'ospedali e di poveri squilibrati. Dopo quel primo breve soggiorno a Parigi tornerà, per periodi più lunghi e a più riprese. Quella città diventerà sempre più per lui la città per eccellenza, luogo insostituibile di contraddizioni, amicizie e incontri.

I tre grandi componimenti romani in endecasillabi sciolti, che rivedrà nell'autunno del 1904, e saranno posti a conclusione del primo volume delle NUOVE POESIE, sono tutti e tre di argomento classico, anche se, solo in maniera vaga respirano l'atmosfera del luogo.

Il primo,TOMBE DI ETÈRE, nella sua preziosità e nel suo freddo sguardo sul macabro è lontano dal profondo contatto con la natura, che tutta è mortale, destinata a scendere, a cadere, come “i penduli ameti”, dell'ELEGIA DECIMA. Si tratta qui piuttosto di un perfetto gioiello d'arte Liberty, direi klimtiano, un catalogo di oggetti lucidi, insieme esposti e misteriosi:

“Scheletri, bocche, fiori. Nelle bocche
i denti lisci in fila come pezzi d'avorio
degli scacchi da viaggio.
E fiori, perle gialle, ossa snelle,
mani e camicie, stoffe che avizziscono
sul cuore sprofondato”.

Solo in conclusione del lunghissimo elenco, e poi nella seconda, più breve strofa, compare la metafora che finalmente dona un senso di vita, anche se fossile, a quel giacere – sopra e dentro – di fiori, pietre, frammenti d'utensili: “E giacciono così, colme di oggetti, / di preziosi, di pietre, balocchi, suppellettili / gingilli rotti (tutto ciò che cadde in loro) / e come il fondo d'un fiume s'oscurano”.

Anche NASCITA DI VENERE è un pezzo di grande bravura. Dal mare in travaglio, il poeta fa nascere non la dea ma proprio il suo corpo come oggetto di perfezione, dapprima come tenero germoglio. Poi continua a formarne la materia perfetta, proprio sotto i nostri occhi. La sfida è all'Ovidio delle METAMORFOSI e anche, pur invertendo l'orribile col perfettamente bello, a Dante della bolgia dei ladri. Tuttavia, con grande capacità sinestetica, sul piano figurativo il quadro che ci pone davanti è piuttosto la Nascita di Venere di Botticelli:

“Si levarono chiari come lune i ginocchi,
nelle cosce immergendosi come in orli di nuvole.
Scemò l'ombra sottile dei polpacci,
si distesero i piedi impregnandosi di luce
e le giunture s'avvivarono
come gole che bevono”.

Delle tre composizioni quella che più profondamente scava nel mistero dell'amore e della morte, del desiderio, del rumore e del silenzio - altro tema fortemente presente nella vita come nella poesia di Rilke - è tuttavia ORFEO. EURIDICE. ERMETE.

In silenzio incede l'amante, i sensi della vista e dell'udito scissi: questa che lo porta a correre verso l'uscita degli Inferi, quello che lo trattiene indietro, per spiare il “passo inudibile” dell'amata, guidata da Ermete. All'impazienza di lui, in lei corrisponde l'impaccio delle lunghe bende funebri, la mitezza, la mancanza di fretta, l'affidarsi al dio che la tiene per mano come una bambina.

“Come d'oscurità e dolcezza un frutto,
era colma della sua grande morte,
così nuova che tutto le era incomprensibile.
Ella era una verginità nuova
ed intangibile. Il suo sesso chiuso
come un giovane fiore sulla sera”.

Non compare qui il dolore della separazione, né l'eroismo ingenuo del sacrificio femminile, come in ALCESTI, (altra composizione in endecasillabi di argomento mitico, pubblicata in sequenza con le tre scritte a Roma). Qui l'apatia misteriosa, la concentrazione di Euridice nella sua ritrovata purezza è un'immagine straordinaria che rinnova e capovolge il racconto mitico, con la coscienza del mistero, e denuncia una profonda, dolente conoscenza dell'alterità dei sessi.


NOTA

Le traduzioni delle poesie di Rilke sono di Giacomo Cacciapaglia, Anna Lucia Giavotto Kunkler, Andreina Lavagetto in Rainer Maria Rilke, POESIE 1907-1926, Torino, Einaudi, 2000; di Enrico e Igea De Portu in Rainer Maria Rilke, ELEGIE DUINESI, Torino, Einaudi, 1978.

10/05/08

LUIGI MALERBA: COMMEMORAZIONE

Luigi Malerba (1927-2008), pseudonimo di Luigi Bonardi, è stato uno dei maggiori autori dei decenni che vanno dagli anni Sessanta del Novecento a oggi.

La sua scrittura è capace di comunicazione immediata col lettore tramite la lingua standard e mai banale, tesa a cercare tra le righe delle parole le trappole dei paradossi, dei doppi sensi, degli sdoppiamenti dell’identità.

Così negli apologhi e nelle favole della SCOPERTA DELL’ALFABETO (1963).

Tali anche i primi romanzi a ossatura sperimentale: IL SERPENTE (1966, storia di un omicidio che avrebbe potuto essere commesso ma forse non è stato commesso da un personaggio inventore del “canto mentale”) e SALTO MORTALE (1968, storia di un personaggio denominato Giuseppe chiamato Giuseppe, che ha vari doppi e ne invia uno lontano con un treno); libri già da allora, nonostante la vicinanza al Gruppo 63, volti a evitare l’elitismo esasperato e a indagare l’onirico pervaso da un umorismo di origine tanto inquietante, pirandelliana, quanto fondata sulla ripetitività farsesca e l’autoironia da parte dei personaggi.

Si trattava, per il Malerba degli anni Sessanta, di scuotere il panorama del neorealismo senza allontanarsi dalla diffusione, non commerciale, delle opere tra strati di pubblico sia colti sia popolari. Gli statuti di certezza dei ruoli sociali individuali venivano contestati dalle nevrosi paradossali dei suoi personaggi insoliti. Tanto la narratività folclorica quanto l’avanguagrdia del primo Novecento stavano alla base delle sperimentazioni malerbiane.

Più costruiti strutturalmente, con intrecci anche da giallo, i romanzi degli anni Ottanta e Novanta, tra i quali si ricordano IL PIANETA AZZURRO (1986, al contempo una parodia e una denuncia delle trame segrete dell’Italia degli anni Settanta); LE PIETRE VOLANTI (1992, articolato sulle forze del caso e del caos attorno alla vicenda di un artista, Ovidio Romer, in parte collegato col pittore reale Fabrizio Clerici); e LA SUPERFICIE DI ELIANE (1999, un giallo di spionaggio industriale). In queste trame complesse, sempre agevolmente seguibili, il piacere della lettura si combina con insistenza con la designazione di problematiche dell’attualità. In tal senso Malerba si può senz’altro ritenere anche uno scrittore d’impegno, sebbene egli avrebbe forse respinto non il concetto, ma questa parola troppo legata agli anni Quaranta e Cinquanta.

Recensore di SALAMBÒ, attento anche al passato e all’insegnamento che ne proviene, Malerba scrisse vari romanzi storici. Si segnala qui, apologo sul tempo remoto verso la modernità, IL FUOCO GRECO per la sua scelta di argomento: l’invenzione di un’arma segreta nella società bizantina e gli intrighi e tradimenti determinati dai risvolti machiavellici della politica.

Volto al fantastico è IL CIRCOLO DI GRANADA (2002, recensito su “Carte allineate”, cfr. MALERBA, CIRCOLO).

Scelto più per la brevità che per preferenza (chi qui scrive non saprebbe scegliere una pagina di Malerba da privilegiare rispetto ad altre), si propone poco sotto un racconto tratto da IL PESCECANE (1988).

È mancato con Malerba uno scrittore di valida impostazione culturale, che ha saputo essere vitale e capace di esprimere l’esperienza fenomenologica e psicologica del quotidiano e della società a cui tutti apparteniamo.

[Roberto Bertoni]



Luigi Malerba, LA SIGNORA DEL WWF


[A little house in the garden was wrongly taken for a forest dwelling. Foto di Marzia Poerio]


Io le proponevo quasi ogni giorno di scappare e di andare a vivere insieme nella foresta africana. Conoscevo il suo impegno ecologico, credo che avesse un incarico nel WWF, amava gli animali selvatici compresi i coccodrilli e i serpenti. Lei temporeggiava ma era lusingata della proposta, di questo sono sicuro. La foresta che preferisco io, dicevo, è quella di alberi di castagno non soltanto per la bellezza degli alberi ma anche per ragioni di sopravvivenza. Le castagne sono molto nutrienti sia arrostite che bollite e il castagnaccio coi pinoli mi piace da pazzi. Anche a me, diceva la signora del WWF. Nei boschi di castagni, dicevo, ci nascono anche i funghi, porcini e ovoli, che si possono cucinare facilmente sulla brace con un pizzico di sale e niente altro. Quando le parlavo di funghi vedevo che le luccicavano gli occhi, non faceva commenti ma si capiva che i funghi le piacevano molto.

Mi dicono che le donne che hanno temperamento sono anche golose. Pare che in Africa ci siano foreste di castagni, diceva, bisognerebbe informarsi. Io mi accontento anche delle foreste dove si trovano le banane o le noci di cocco, dicevo, con te scappo in qualsiasi tipo di foresta perché ti amo. Ma a lei le noci di cocco non piacevano mica tanto e le banane così e così. E io dicevo perché dobbiamo pensare che in Africa non ci siano i ristoranti? Sicuramente ci sarà qualche foresta con un ristorante abbastanza vicino, così all'ora dei pasti ci facciamo cucinare quello che ci pare, questa mi sembra l'idea migliore, e dopo avere mangiato ritorniamo a fare i selvaggi, io e te, noi due soli, e ci rotoliamo nudi su un letto di foglie come due scimmie. Se vogliamo nessuno ci impedisce di portarci dietro una coperta da stendere sulle foglie e uno spazzolino per i denti. Per il resto possiamo andare in giro nudi per la foresta dalla mattina alla sera, tanto in Africa fa caldo. Dobbiamo solo fare attenzione ai serpenti e a certe formiche voraci e golose di uomini che possono spolpare un uomo in un batter d'occhio. Bisognerà stare attenti anche a tanti altri animali feroci, dicevo, come i leoni le tigri i giaguari i leopardi e certe scimmie ferocissime con le unghie taglienti come coltelli. Insomma io le proponevo di scappare per andare a vivere nella foresta però non avevo nessuna voglia di finire mangiato dalle formiche o sbranato da un giaguaro. Nemmeno io, diceva quella signora del WWF, nemmeno io. A un certo punto, mentre le facevo un quadro delle malattie tropicali che mi ero studiato con attenzione su una rivista medica, mi ha interrotto e mi ha detto che nessuno ci costringeva a scappare proprio in Africa dove si corrono tanti rischi per la nostra salute mentre ci sono foreste bellissime in tanti altri posti come in Carinzia in Austria o la Foresta Nera in Germania.

In Austria e in Germania fa freddo, dicevo io, non possiamo andare in giro nudi come piace a noi. Allora abbiamo scartato sia l'Austria che la Germania e abbiamo deciso che ci conveniva scegliere una foresta italiana, per esempio quella del Gargano. Intanto c'è il vantaggio che si può attraversare tutta in automobile, c'è una bella strada asfaltata e se uno si ferma si possono vedere i caprioli che si rincorrono tra gli alberi e centomila uccelli che svolazzano da un ramo all'altro o sfrullano tra i cespugli. Purtroppo ai margini di questa strada c'è una rete alta due metri per impedire alla gente di entrare, siete voi del WWF che fate mettere queste reti, dicevo, e va bene proteggere la natura ma non è giusto lasciare tutta la foresta agli animali e escludere l'uomo che in un certo senso è il re degli animali. Lei rideva ma io dicevo non c'è mica tanto da ridere perché ci sono anche degli umani come noi che vorrebbero vivere come selvaggi in mezzo alla natura e non possono farlo per via di queste reti alte due metri.

Sai che cosa ti dico? diceva questa signora alla quale avevo proposto di scappare nella foresta, ti dico che c'è una stupenda foresta di querce secolari a Manziana sopra il lago di Bracciano a una trentina di chilometri da Roma. Il Gargano è lontano, saranno almeno sei o settecento chilometri e con quello che costa oggi la benzina e il pedaggio dell'autostrada non è uno scherzo, mentre a Manziana ci possiamo arrivare in una mezzoretta. Lì c'è questa foresta di querce antiche e ci sono uccelli di ogni specie, gli scoiattoli che saltano da un ramo all'altro, lepri ricci ghiri lucertole e ramarri. Naturalmente ci saranno anche le formiche i ragni le bisce gli scorpioni e le vipere, dicevo io, ma basta stare attenti a non farsi morsicare. Altrimenti ci possiamo anche mettere gli stivali, nessuno ce lo impedisce. In mezzo alla foresta di Manziana, diceva la mia amica, ci sono tanti sentieri e strade di terra battuta dove si può arrivare anche con l'automobile, lo so perché ci vanno quelli del cinema a girare i film in costume quando hanno bisogno di una foresta. Ma allora come facciamo a andare in giro nudi, dicevo, se c'è la gente del cinema io mi vergogno. Hai proprio ragione, diceva lei, c'è anche il rischio che incontriamo qualcuno che ci conosce, per esempio qualche amico di mio marito che alla domenica va lì a fare il picnic con la famiglia. Il sabato e la domenica la foresta è tutta piena di turisti che vanno a prendere il fresco e a raccogliere i fiori, cosa che sarebbe proibita perché ci sono dei fiori molto rari che non si possono toccare altrimenti il seme non cade nel terreno e l'anno dopo non rinascono più. Ci sono anche degli sporcaccioni che buttano in terra recipienti di plastica e di vetro che non sono biodegradabili, gente che non sa nemmeno che esiste l'ecologia. E io dicevo dovrebbero obbligare i turisti a spogliarsi nudi quando entrano nella foresta perché in ogni evenienza l'uomo nudo è biodegradabile. Quando mi ci metto sono ecologico più di quelli del WWF. Addio vita selvaggia, dicevo, ho paura che dovremo proprio rinunciare a stare nudi in mezzo alla natura, nella foresta. Detto tra noi questa proposta della vita selvaggia e dell'andare in giro nudi in mezzo alla foresta, sia pure quella italiana, era soltanto una idea romantica e romanzesca per sedurre questa signora ecologa amante della natura e degli animali. In realtà io non sopporto nemmeno le zanzare e se vedo uno scorpione mi prende un tremore ai ginocchi che non mi reggo in piedi. Non sono certo il tipo più adatto a vivere come un selvaggio in mezzo ai centomila pericoli della foresta. Ma di fronte a una donna non confesserò mai le mie debolezze, non racconterò mai che una volta sono svenuto per il morso di una vespa.
Così abbiamo deciso di andare a fare una passeggiata nel parco di Villa Borghese. È inutile andare tanto lontano, ci siamo detti, quando abbiamo a portata di mano un parco favoloso come questo. A Villa Borghese ci sono alberi secolari, pini romani lecci tigli platani e un viale di magnolie gigantesche, ci sono anche due laghetti con i pesci rossi e una infinità di uccelletti che cinguettano fra i rami. Per fortuna non ci sono serpenti né giaguari né tigri né coccodrilli e non ci sono nemmeno quelle scimmie ferocissime con le unghie taglienti come coltelli. Bisogna stare attenti a sdraiarsi sull'erba, questo sì, perché purtroppo in mezzo all'erba ci può sempre essere una vipera e sicuramente ci sono le formiche e centomila insetti pericolosi. Non come quelli africani in ogni caso.

Mi sono messo in tasca un impermeabile di plastica di quelli che stanno tutti dentro una piccola busta, e quando siamo arrivati in una zona solitaria dietro il Prato dei Cani ho detto guarda che fortuna, ho in tasca questo impermeabile che si può stendere sull'erba. Così ci siamo nascosti dietro un grande cespuglio di pitosforo in fiore, profumatissimo, fin troppo perché io soffro di allergie e ho fatto subito qualche sternuto. Io sono previdente e in primavera tengo sempre in tasca qualche pilloletta di antistaminici così ho rimediato a questo piccolo inconveniente e abbiamo cominciato a farci delle carezze e dei piccoli giochi erotici. Guarda come è bella la natura, dicevo, senti come sono profumati questi alberi, guarda quante sfumature di verde che hanno queste foglie, come si sta bene qui in mezzo alla foresta, lontani dalle automobili, lontani dalla civiltà e intanto la mia mano correva su e giù a carezzarla e lei sospirava e mi sembrava molto felice. Se non avessi avuto paura che arrivasse qualche cane randagio mentre stavamo ansimando allacciati stretti stretti, sarei stato felice anch'io.

07/05/08

Santiago Montobbio, TRE POESIE


[Life abode at the sea with bars. Foto di Marzia Poerio]

1.

REPETIDA ESTANCIA DE LA VIDA

Repetida estancia de la vida:
calle sin agua o, mejor, esquina,
más aún playa, ascensor, lavabo
que en los pasados del que fui
anónimos persiguen sin amor
las olvidadas sombras de un fantasma.
Repetida estancia de la vida:
sola pregunta y sin respuesta alguna,
calle, agua muerta, erizos, seco fuego
y esquinas y un mar con espuma
ya de nadie esta estancia en cuyas paredes
la soledad en insomnio me devora y a manera
de ridículo crucifijo hay una talla
tras cuyas sucesivas y groseras capas de barniz
se adivina que sólo cuelga el sexo triste y tibio
de los días.

RIPETUTA DIMORA DELLA VITA

Ripetuta dimora della vita:
strada senz’acqua o, meglio, angolo,
ancor di più spiaggia, ascensore, lavabo
dove i passati di colui che fui
anonimi perseguono senza amore
le dimenticate ombre di un fantasma.
Ripetuta dimora della vita:
una sola domanda senza risposta alcuna,
strada, acqua morta, riccio, fuoco secco
e angoli e un mare con schiuma
di nessuno già questa dimora sulle cui pareti
la solitudine in insonnia mi divora e a modo
di ridiccolo crocifisso c’è una scultura
dove dietro i successivi e rozzi strati di vernice
s’indovina che soltanto pende il sesso triste e mite
dei giorni.


2.

LEYENDA

No porque tanto el Registro Civil como las calles
preferidas por las ancianas floristas lo desconozcan
en todo tiempo y mundo la mujer
que me trajo al mundo por un solo
instante va a dejar
de llover sobre Dios
con la exacta forma
del amor y del pájaro.

LEGENDA

Non perché l’Anagrafe o le strade
preferite dalle anziane fioriste lo ignorino
in ogni tempo e mondo la donna
che mi mise al mondo per un solo
istante cesserà
di piovere su Dio
con l’esatta forma
dell’amore e dell’uccello.


3.

COMÚN MAPA QUE TRAZO CUANDO NOS MIRAMOS

Alturas de ti, extremidades de mí, labios, lunas
y el resto de una pobre mitología con la que no te alcanzo,
con la que jamás llego al corazón de un cuerpo,
estanque o cetro, mundo y sitio. Alturas de ti,
extremidades de mí. Enredaderas, salivas,
tentáculos. Donde la noche cerró las puertas,
donde perdí la vida, ¿hace ya cuánto?,
en el mismo lugar en que olvidé el lenguaje
de palabras o de abrazos con que proclama
estar vivo
aquel que ama.

MAPPA COMUNE CHE TRACCIO QUANDO CI GUARDIAMO

Altitudine di te, estremità di me, labbra, lune
e il resto di una povera mitologia che non basta a raggiungerti,
con la quale mai arrivo al cuore di un corpo,
stagno o scettro, mondo e luogo. Altitudine di te,
estremità di me. Edere, salive,
tentacoli. Dove la notte chiuse le porte,
dove persi la vita, quanto tempo fa?,
nello stesso luogo dove dimenticai il linguaggio
di parole o di abbracci con cui dichiara
di essere vivo
colui che ama.

[Traduzione di Monica Liberatore]


La vita intesa dome “dimora ripetuta”, in cui il passato insegue spettri dell’identità. La solitudine. La perdita di un passato come smarrimento del linguaggio. La notte è momento onnubilante, di oblio. Dalla vita persa può rinascere una vita mutata nella comunicazione dei messaggi tramite la lingua e nel rapporto col prossimo.

Se questi sono i motivi conduttori delle tre poesie, il tessuto tematico di Montobbio affronta le questioni universali dell’identità e del tempo; frattanto compaiono oggetti-immagini, simboli in elenchi non ordinati: associazioni? Sfere di competenza allegorica distinte e accostabili? Come nella lista di “edere, salive, / tentacoli”.

Visioni aperte a interpretazioni contestualizzate all’interno di un discorso dell’ombra.

[Roberto Bertoni]

06/05/08

Satyajit Ray, MAHAPURUSH

1965. Con Soumitra Chatterjee, Charuprakash Ghosh, Rabi Ghosh, Prasad Mukherjee, Satindra Banerjee.

Il breve film satirico del grande regista indiano punta sull'impostura e sulla commedia, incentrando il racconto su un falso profeta, Birinchi Baba (il Mahapurush, o Santone), che finge di essere vissuto da sempre e di avere una rivelazione fondamentale per l'umanità al fine di spillare denaro alle sue vittime. Satya, innamorato di Bunchki, la figlia di un discepolo di Birinchi, che lo respinge inizialmente per seguire la volontà paterna, smaschera il profeta in una serie di inganni e numeri farseschi, strappando a Bunchki una promessa di matrimonio.

Si contrappongono la superstizione e il razionalismo, mentre viene messa in evidenza con naturalezza la vita della società della classe media bengalese degli anni Sessanta. La credulità è giustificata e allo stesso tempo punita. L'ignoranza è derisa tanto più quanto si annida in chi si vanta di sapere senza avere una cultura approfondita. Le teorie fantasiose del profeta sono un'interessante sintesi sincretica di Occidente e Oriente.

Adeguatamente grottesca la recitazione del Mahapurush. Si insinua nella trama un sottointreccio fondato su un triangolo amoroso. Alla fine dei conti, c'è un doppio lieto fine: i giovani innamorati si mariteranno; il profeta è stato smascherato e si reca altrove mentre il suo assistente gli porge varie borse di signore rubate nella casa in cui è avvenuto il fatto. Questo secondo finale è disincantato quanto reale, forse.

È un film di interni, ma che nei brevi esterni non rinuncia alla concretezza propria di Ray, dando spazio a rumori di strada e di treno. La colonna sonora, ossessiva, è dello stesso Ray.

[Renato Persòli]

05/05/08

Rossana Dedola, ALTARAS, ZIARATI E ALI FARAH: PERCORSI DELLA DIVERSITÀ


[The Thai dancer. (From the streets of Bangkok). Foto di Marzia Poerio]


LA VENDETTA DI MARICIKA (Roma, Voland, 2004), dello scrittore di Israele Alon Altaras (di cui è uscito due anni dopo, presso lo stesso editore, IL VESTITO NERO DI ODELIA), è un libro dichiaratamente autobiografico, la foto in copertina è quella della madre di Altaras, la protagonista del romanzo le assomiglia moltissimo. Maricika ha lasciato da giovanissima la Romania e si è trasferita in Israele; è un’emigrata molto povera, ha con sé solo una valigia, non sa parlare l’ebraico, ma ha una straordinaria vitalità e una gran voglia di fare, soprattutto di affermarsi nel lavoro di sarta. L’altro protagonista, Puiu, che ha parecchi tratti in comune con il padre dello scrittore, è anche lui rumeno, anche lui emigrato con la sola valigia. Sarà proprio Puiu a mettere in contatto Maricika con un oggetto che diventa fondamentale nella sua vita: la macchina da cucire con cui darà vita alle sue creazioni. L’abito permette di costruirsi una figura con cui apparire all’esterno, mostrarsi agli occhi degli altri; una sarta, come sa bene Maricika, può imbellire, far scomparire difetti modificando il giro vita, allentando una pense, mascherando con una piega. Tanto più importante il vestito appare perciò in uno ambiente nuovo in cui tutta l’esistenza deve essere ricostruita da capo.

Mentre Maricika si muove con grande intraprendenza femminile nel nuovo paese in cui è emigrata, non rinunciando ai propri sogni ma affrontando con caparbietà le difficoltà della nuova vita, al contrario Puiu, divenuto ben presto suo marito, si sottrae alla realtà, vive di immaginazioni megalomani inconcludenti, conduce un’esistenza mediocre, priva di ambizioni e di ispirazione. La sua inettitudine, la sua incapacità d’amore lo rendono simile a quei personaggi maschili di cui parla Kundera ne L’IGNORANZA che non sanno entrare in relazione con le donne ma solo sfruttarle. E dopo la nascita del figlio, Puiu si dimostrerà un padre completamente assente.
Di Israele, Altaras riesce a mettere allo scoperto non solo una dimensione particolare, quella degli emigrati rumeni, ma calandosi nelle piccole incombenze quotidiane dei suoi protagonisti, mostrarci tra quante difficoltà, conflitti personali, speranze, aspirazioni e falsi sentimenti i sogni del futuro prendano corpo, mettendo in luce lo “strano cortocircuito” tra sogni e insidie della storia e della vita che la vicenda di Maricika sembra rivelare al lettore [1]


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Il titolo SALAM, MAMAN del romanzo di Hamid Ziarati (Torino, Einaudi, 2006) mette al centro la figura della madre; come lo scrittore ribadisce in un’intervista, è proprio lei “il perno centrale di tutto il libro, unica figura di buon senso in un crescendo di follia collettiva”.

Sin dalle prime battute siamo calati immediatamente nella vita familiare e messi a confronto diretto con il rituale che la famiglia si appresta a compiere per il capodanno. E’ l’ultima gelida giornata d’inverno, l’intera nazione sta per festeggiare il capodanno persiano e l’arrivo della primavera. Un pezzo molto importante dell’arredamento, il korsì, un tavolo basso, viene riportato in casa alla prima nevicata, e coperto con la trapunta sotto la quale la famiglia dorme, con un braciere piazzato sotto che la riscalda. I bambini devono attenersi a delle regole precise quando si sta sotto il korsì.

Siamo dunque immediatamente introdotti nel cuore della famiglia, nella sua più profonda intimità e grazie agli scherzi e ai giochi dei bambini ci sentiamo molto vicini a loro anche se non abbiamo mai dormito sotto un korsì. La stessa sensazione si ha leggendo le pagine che descrivono la cerimonia del Noruz: la scelta della tovaglia colorata, ben stirata dalla madre, poi lo specchio, le cinque ciotole e un piatto di porcellana, i sette sin. Il serké, la prima ciotola viene riempita con aceto, nella seconda ciotola si mette il samanu, un dolce pastoso di color marrone scuro, poi si passa ai sendjed e ai sir, che capiamo si tratta di germogli di grano che la madre è molto abile a far germogliare in un paio di settimane e infine i secché, le banconote da un Toman. Con questi oggetti di buon augurio tutti i membri della famiglia festeggiano l’arrivo dell’anno nuovo.

Anche se non conosciamo queste usanze ci sentiamo immediatamente partecipi alla vita e alle vicende dei protagonisti. Anche se la loro religione è diversa dalla nostra, le loro preghiere sono diverse, i sentimenti sono simili: la devozione, i giochi e i i bisticci tra i bambini, l’alacrità della madre, l’amore per i figli che la spinge a far bene le cose e qualche volta a ricorrere anche alle maniere forti se non ubbidiscono.
Dopo aver conosciuto così da vicino la vita della famiglia, quello che avverrà dopo i giorni gelidi e felici di capodanno, le vicende storiche che travolgeranno l’Iran, la tragedia che coinvolgerà la famiglia, le persecuzioni, l’affermazione di un nuovo totalitarismo, la fuga, l’esilio, l’inizio di una nuova esistenza in Italia, non perderanno spessore umano. Il senso di vicinanza che si avverte sin dalle prime pagine accentua lo strazio per ciò che si è perduto senza cadere in una visione della vita cinica e priva di speranze e futuro.


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MADRE PICCOLA di Cristina Ali Farah (Milano, Frassinelli, 2007), attraverso tre protagonisti che parlano in prima persona, descrive gli eventi della diaspora somala. L’infanzia a Mogadiscio delle due protagoniste femminili, due cugine molto legate tra loro, poi la vita in Italia e precisamente a Roma di una delle due donne, Barni, divenuta ostetrica, l’incapacità del protagonista maschile che ormai si è trasferito in America di adattarsi alla nuova condizione d’esiliato e di assumersi la responsabilità della sua nuova famiglia e del figlio, e la crisi, la nevrosi di Domenica, la seconda protagonista femminile del romanzo.

Libro complesso e ricchissimo, MADRE PICCOLA è fatto di storie che si intrecciano tra loro e si prolungano in parabole, vanno a sovrapporsi a racconti nel racconto e a fiabe, tanto da rischiare in alcuni momenti che si perda il filo del racconto oppure che il filo si aggrovigli in nodi inestricabili. In realtà Cristina Ali Farah riesce con grande abilità non solo a tenere abilmente in mano i tanti fili, ma a sbrogliarne i nodi creando degli snodi che permettono di guardare avanti e di intravedere pur nel dolore della perdita del proprio paese, della propria famiglia, delle proprie radicie e della propria storia, la possibilità di una nuova vita e di una nuova esperienza.

Il lettore si confronta con molteplici realtà di cui non saprebbe niente, con luoghi che sbucano improvvisamenete dall’anonimato per rivelarsi carichi di umanità. Anche alcuni luoghi di Roma sembrano assumere una nuova dimensione. La stazione Termini con l’odore desolato del dolore dell’emigrazione di cui sembra carica, acquista di colpo un volto più umano, il romanzo ci permette infatti di penetrare in uno dei negozietti somali sorti nelle sue vicinanze e di partecipare agli incontri che avvengono al suo interno tra gli odori delle spezie, i colori sgargianti dei fazzoletti che le donne somale portano sul capo e di assistere a inaspettati incontri.

Se la patria si è sgretolata sotto i colpi della guerra, se la famiglia si è dispersa nel mondo, nuovi legami familiari, anche quello tra una “madre piccola” e sua cugina, permettono una nuova nascita, fanno intravedere oltre lo squallore di un parto avvenuto in macchina in una strada deserta di Roma, come la vita voglia a tutti i costi riprendere il suo corso.

Come le opere di Altaras e di Ziarati, anche il romanzo di Cristina Ali Farah, permette al lettore di compiere un’esperienza particolare, di conoscere da vicino un mondo da cui sarebbe inevitabilmente escluso. Vedendolo così da vicino, conoscendolo nelle sue pieghe più intime quel mondo rivela, pur nel dolore e nelle difficoltà, risorse insperate. Permettendo al lettore di compiere delle esperienze e di conoscere realtà diverse e particolari, i romanzi di Alon Altaras, di Hamid Ziarati e di Cristina Ali Farah paiono allontanarsi a gran velocità da quella letteratura dell’inesperienza di cui ha parlato qualche anno fa Antonio Scurati, capace solo di farsi specchio della mancanza di senso di un mondo unidimensionale in cui qualsiasi diversità è stata cancellata, e di intraprendere un nuovo percorso.


NOTA

[1] In P. Di Paolo, OGNI VIAGGIO È UN ROMANZO. LIBRI, PARTENZE, ARRIVI: 19 INCONTRI CON SCRITTORI, Bari, Laterza, 2007, p. 123.

03/05/08

Mary O'Donnell, UNA POESIA

THE CROWS REWRITE THE GOSPELS IN MAYNOOTH

By late October, crows write poems
in the clouds, unadulterated texts
for anyone who dares to look.
They draft first notes silently,
in fields, speculative beaks
transcribe leaf-rot, limp grass, soil.
Later, wrapped in gloomy cloaks,
they rest on electricity pylons,
flap their wings, frighten
the soul’s dark entities into submission.

A timely surge decides it,
dense knots loosen, then clatter airwards.
Crows remember to dot i’s, cross every t,
as necessary to finished work;
each wingbeat exhorts, contradicts
in soaring certainty –
I am not the Messiah! The End is not nigh!
Do not repent –
the lines are scattered,
freeform subversions lost to the eye.


I CORVI RISCRIVONO I VANGELI A MAYNOOTH

A fine ottobre, i corvi scrivono poesie
tra le nuvole, testi incontaminati
per chiunque osi guardare.
Stendono primi appunti in silenzio,
nei campi, becchi speculativi
trascrivono marciume di foglie, erba molle, terra.
Più tardi, avvolti in tristi mantelli,
riposano sui tralicci della corrente,
battono le ali, incutono
soggezione alle scure entità dell’anima.

Un tempestivo impulso lo decide,
fitti nodi si disfano, poi strepitano in aria.
I corvi spaccano il capello in quattro,
come si conviene a un lavoro ultimato,
ogni colpo d’ala esorta, contraddice
con una certezza che s’innalza in volo –
Non sono il Messia! La fine non è vicina!
Non pentitevi -
i versi sparsi,
liberi sovvertimenti si perdono alla vista.

[Traduzione di Anamaría Crowe Serrano e Annamaria Ferramosca]


Altre poesie di Mary O'Donnell sono state pubblicate su "Carte allineate" il 20-4-2008

01/05/08

CARTE ALLINEATE. Numero 16, Aprile 2008 / Issue 16, April 2008

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INDICE ALFABETICO / INDEX

Le voci elencate qui sotto senza il nome dell'autore sono state scritte da Roberto Bertoni. Foto di Marzia Poerio / Entries listed below without the name of the author were written by Roberto Bertoni. Pictures by Marzia Poerio.

- ARRIGO, Nino, VERSO UNA NUOVA RAZIONALITÀ. IL PENSIERO COMPLESSO COME “STRATEGIA” DELLA CONOSCENZA. Riflessione, 12-4-08
- BORNE, Alain: PROSE INEDITE, a cura di Lucetta Frisa. Testi, 14-4-08
- JAMES, Oliver, THE SELFISH CAPITALIST. Note di lettura, 30-4-08
- KLEIN, Melanie, SCRITTI 1921-1958. Note di lettura, 8-4-08
- LA RETE CULTURALE DI ANGELO TONELLI. Riflessione, 26-4-08
- MITO E ESPERIENZA LETTERARIA. INDAGINI, PROPOSTE, LETTURE, a cura di Fausto Curi e Niva Lorenzini. Note di lettura, 14-4-08
- MIZOGUCHI, Kenji, CHIKAMATSU MONOGATARI. Storie di film di Renato Persòli, 28-4-08
- MONTOBBIO, Santiago, TWO POEMS (translated by Alexandra van de Kamp and William Glenn). Testi, 6-4-08
- NATALI, Vincenzo, CYPHER. Storie di film di Renato Persòli, 21-4-08
- NOTA SU CONVERSAZIONE IN SICILIA DI ELIO VITTORINI. Rilettura, 18-4-08
- RAGNOLI, Gian Paolo, ANNI. Testo, 24-4-08
- SEMERARA, Stefano, IMMORTALITÀ DEI SIMBOLI DA BABILONIA A OGGI. Note di lettura, 4-4-08
- SIVAN, Santosh, AŚOKA. Storie di film di Renato Persòli, 10-4-08