11/05/08

Piera Mattei, “IO SONO COME IL PICCOLO ANEMONE”: RILKE A VILLA STROHL-FERN

“Io sono come il piccolo anemone che ho visto una volta a Roma, nel giardino; di giorno si era spalancato tanto che non riusciva più a chiudersi per la notte. Era terribile vederlo nel prato buio, aperto, ancora intento ad accogliere tutto nel calice follemente spalancato, con troppa notte sopra di sé che non voleva finire [...] Anch'io sono inguaribilmente volto all'esterno, e dunque tutto mi distrae, e non rifiuto nulla; i miei sensi, senza chiedermelo, si riversano in mille cose che disturbano; se c'è un rumore, io mi annullo e sono quel rumore. E siccome ciò che si abitua allo stimolo vuole poi essere stimolato, io in fondo voglio essere disturbato, e lo sono, senza fine” (26 giugno 1914).

Così, nel ricordo, Rilke tornava a dare vita a una minuscola e ostinata forma di vita incontrata e osservata, dieci anni dopo il suo soggiorno romano. Dopo dieci anni eccolo a ricordare quell'anemone talmente dilatato dalla sua sete di luce da trovarsi incapace di serrare ormai più i petali, anche nel buio. Dopo aver dimostrato pietà per il folle anemone e per se stesso, “io”, scrive con un improvviso trasalimento e autoironica accettazione, “in fondo voglio essere disturbato, e lo sono, senza fine”, introducendo un' inversione fortemente assertiva per la volontà di assimilare tutta la luce, tutte le immagini possibili.

“Nel giardino”, scriveva: il nome connotato con l'articolo determinativo - come dire nel mio giardino - dovrebbe senza meno essere il giardino della Villa Strohl-fern, dove, a Roma, Rilke fu ospite, con la scultrice Clara Westhoff, sua moglie, dal settembre 1903 al giugno 1904. Erano arrivati, dopo aver lasciato ai nonni materni la piccola Ruth, col proposito comune di cercare insieme ma separatamente la loro realizzazione artistica. Da Parigi si erano allontanati quasi furtivamente nel marzo 1903. Lì si era trattato di un primo soggiorno, deprimente, allucinato, come traspare dalle lettere e soprattutto dai ritratti di tipi umani, ospedali, solitudine e disperazione muta, che aprono il romanzo I QUADERNI DI MALTE LAURIDS BRIGGE, la cui stesura inizia proprio nell'autunno di quell'anno 1903. Dopo aver cercato un po' di ristoro – una vacanza – a Viareggio, Venezia e Firenze, si erano dunque stabiliti, era già settembre, a Roma, nella villa Strohl-fern.

Il mecenate Alfred Wilhelm Strohl, artista alsaziano che, dopo la guerra franco-prussiana, aveva lasciato la sua terra (aggiungendo al suo nome l'aggettivo fern, lontano) nel 1879 aveva acquistato un ampio parco di 80.000 mq di superficie, adiacente alla Villa Borghese, e vi aveva costruito la sua abitazione, per trascorrerci il resto della vita e ospitare, in numerosi studi spartanamente attezzati, artisti, soprattutto pittori e scultori. Clara era appunto scultrice e allieva di Rodin e pertanto ospite gradita con il giovane intellettuale marito, già noto per la sua attività di poeta, per aver scritto una serie di monografie di artisti contemporanei (tra le quali quella di Rodin) e anche per la storia d'amore, ormai conclusa, con la sua affascinante pigmalione, Lou Andreas Salomé.

In quello scorcio di fine estate il patto con cui i due giovani coniugi avevano deciso di recarsi a Roma, era che ciascuno avrebbe cercato di trarne profitto per la propria arte, ma la situazione, una sistemazione che definiremmo da comune di artisti, si presentava, già in partenza, lontana dall'ideale per la personalità solitaria ed egocentrica del nostro, e il rapporto con Clara cominciava a risentirne.

Neppure a Roma, quindi, Rilke si sentì a suo agio e lamentò apatia e carenza d'ispirazione. Eppure a Roma scrisse tre importanti e ispirati componimenti in endecasillabi sciolti che collocherà in chiusura del primo libro delle NUOVE POESIE e, come accennavamo, il primo abbozzo dei QUADERNI DI MALTE.

Infine immagini s'impressero nella sua mente, che richiamerà molti anni dopo: “Voci, voci.[...]Ecco fruscia qualcosa da quei giovani morti e viene a te. / Dove entrassi tu mai nelle chiese / di Roma o di Napoli, non ti parlava pacato il loro destino?” (ELEGIE DUINESI – Prima vv. 54, 61-63); e ancora, nell'elegia nona che terminerà solo nel 1922: “Loda all'angelo il mondo [...]. Allora mostragli / quello che è semplice, quel che, plasmato di padre in figlio / vive, cosa nostra, alla mano e sotto i nostri occhi / . Digli le cose. Resterà più stupito; stupito come rimanesti tu / dinanzi al cordaio a Roma”.

Immagine quest'ultima del cordaio, come quella dell'anemone, ritagliata e collocata in posizione di cosa, che diventano oggetti della poesia, della riflessione filosofica e introspettiva, secondo una poetica che, proprio in quell'anno 1903, comincia a disciplinare l'ispirazione e a distanziarla dalla forma soggettiva, e che da allora resterà salda.

Nel giugno 1904, il caldo nei piccoli studi di Villa Strohl era diventato insopportabile. I Rilke decisero di concludere il soggiorno e, molto volentieri, accettarono un invito presso amici, in Svezia.

Nel sonetto CAMPAGNA ROMANA (NUOVE POESIE) una Roma riarsa nella sua stanca magnificenza spinge lo sguardo assetato verso i sui acquedotti mentre brucia di febbre ed è assediata dalla meschinità che occhieggia da finestre di piccole case maligne. Magnanimità e miseria. Il vuoto come vero volto della grandezza, che non ha mezzi per farsi capire:

“Dal folto della città che vorrebbe
dormire sognando le alte terme,
dritta verso la febbre va la via delle tombe,
e le finestre dell'ultime casupole

con uno sguardo maligno la seguono.
[...]
E mentre gli acquedotti

lontani accenna perché s'avvicinino,
le danno i cieli in cambio del suo vuoto
il loro vuoto che le sopravvive”.

Ancora nel novembre precedente le sensazioni che Roma andava imprimendo nella memoria del poeta erano state di armonia e frescura, acque, e scalinate come cascate, giardini, terrazze e quelle notti colme di stelle.

“Ti ricordi ancora di Roma, cara Lou? Com'è nella tua memoria? Nella mia rimarranno un giorno solo le sue acque, queste limpide, stupende, mobili acque che vivono nelle sue piazze; e le sue scale, che sembrano modellate su acque cadenti, tanto stranamente un gradino scivola dall'altro come onda da onda; la festosità dei suoi giardini e la magnificenza delle grandi terrazze; e le sue notti, così lunghe, silenziose e colme di stelle” (Lettera a Lou Salomé, novembre 1903).

A una “fontana romana”, al suo moto di amorosa corrispondenza dall'una all'altra vasca concentrica aveva più tardi dedicato un altro sonetto:

Due vasche, una sovrastante l'altra
con un antico, tondo orlo marmoreo,
che sommessa dall'alto inclina l'acqua
verso l'acqua che sotto era in attesa,

tacendo a quella che sommessa parla
e quasi dentro il cavo della mano
dietro ombra e verde in segreto mostrandole
come un oggetto sconosciuto il cielo [...] (NUOVE POESIE)

La città di terme, di tombe, d'acquedotti, di vuoto, nel silenzio insidiata da invisibili sguardi e la fontana di vasche sorelle, quasi sognanti, che mostrano il cielo come oggetto sconosciuto: mi sono chiesta quale relazione potrebbe correre tra queste immagini e i paesaggi metafisici immobili di ville e piazze nella luce totale e irreale di Giorgio de Chirico. Monaco e Nitzsche, può essere la risposta, costituiscono gli anelli di congiunzione, predispongono le analogie o almeno l'atmosfera comune in cui maturarano le due sensibilità. Nietzsche scriveva in ZARATHUSTRA un monito valido per entrambi: l'artista sarà capace di volgere una realtà spaventosa e sbalorditiva, rivelatagli dalla sensazione, in un effetto di calma sublime e di stupore beato, carico di pathos.

Tuttavia Rilke, che molto ha scritto sugli artisti contemporanei, non mi pare abbia mai conosciuto o dedicato la sua attenzione a de Chirico, per quanto uno strano destino porti i due a frequentare gli stessi ambienti e le stesse città in periodi solo leggermente sfalsati. Monaco dove Rilke nel maggio 1897 avrà il fatale incontro con Lou Andreas Salomé - e quindi, indirettamente, anche col pensiero e la personalità di Nietzsche - e dove avrà la sua casa fino al definitivo distacco nel 1919, è anche la città dove il giovane de Chirico si trasferirà alla morte del padre, per restarvi dal 1905 al 1910 circa, studiando, appunto appassionatamente, Schopenhauer e Nietzsche. Sono certo un'eredità nietzschiana, in entrambi, soprattuto l'idea del tempo come attimo immobile, la centralità delle "cose" considerate generalmente insignificanti, delle quali occorre penetrare l'enigma, il rapporto con la classicità, in cui il pathos non è sinonimo di commozione ma di contemplazione e immobilità.

A Roma, l'abbiamo accennato, Rilke aveva cominciato la prima stesura dei QUADERNI DI MALTE, un romanzo breve, dalla scrittura tormentata, che ha ai margini della narrazione, ma forse al centro dell'ispirazione più autentica, una Parigi di solitudine e squallori, d'ospedali e di poveri squilibrati. Dopo quel primo breve soggiorno a Parigi tornerà, per periodi più lunghi e a più riprese. Quella città diventerà sempre più per lui la città per eccellenza, luogo insostituibile di contraddizioni, amicizie e incontri.

I tre grandi componimenti romani in endecasillabi sciolti, che rivedrà nell'autunno del 1904, e saranno posti a conclusione del primo volume delle NUOVE POESIE, sono tutti e tre di argomento classico, anche se, solo in maniera vaga respirano l'atmosfera del luogo.

Il primo,TOMBE DI ETÈRE, nella sua preziosità e nel suo freddo sguardo sul macabro è lontano dal profondo contatto con la natura, che tutta è mortale, destinata a scendere, a cadere, come “i penduli ameti”, dell'ELEGIA DECIMA. Si tratta qui piuttosto di un perfetto gioiello d'arte Liberty, direi klimtiano, un catalogo di oggetti lucidi, insieme esposti e misteriosi:

“Scheletri, bocche, fiori. Nelle bocche
i denti lisci in fila come pezzi d'avorio
degli scacchi da viaggio.
E fiori, perle gialle, ossa snelle,
mani e camicie, stoffe che avizziscono
sul cuore sprofondato”.

Solo in conclusione del lunghissimo elenco, e poi nella seconda, più breve strofa, compare la metafora che finalmente dona un senso di vita, anche se fossile, a quel giacere – sopra e dentro – di fiori, pietre, frammenti d'utensili: “E giacciono così, colme di oggetti, / di preziosi, di pietre, balocchi, suppellettili / gingilli rotti (tutto ciò che cadde in loro) / e come il fondo d'un fiume s'oscurano”.

Anche NASCITA DI VENERE è un pezzo di grande bravura. Dal mare in travaglio, il poeta fa nascere non la dea ma proprio il suo corpo come oggetto di perfezione, dapprima come tenero germoglio. Poi continua a formarne la materia perfetta, proprio sotto i nostri occhi. La sfida è all'Ovidio delle METAMORFOSI e anche, pur invertendo l'orribile col perfettamente bello, a Dante della bolgia dei ladri. Tuttavia, con grande capacità sinestetica, sul piano figurativo il quadro che ci pone davanti è piuttosto la Nascita di Venere di Botticelli:

“Si levarono chiari come lune i ginocchi,
nelle cosce immergendosi come in orli di nuvole.
Scemò l'ombra sottile dei polpacci,
si distesero i piedi impregnandosi di luce
e le giunture s'avvivarono
come gole che bevono”.

Delle tre composizioni quella che più profondamente scava nel mistero dell'amore e della morte, del desiderio, del rumore e del silenzio - altro tema fortemente presente nella vita come nella poesia di Rilke - è tuttavia ORFEO. EURIDICE. ERMETE.

In silenzio incede l'amante, i sensi della vista e dell'udito scissi: questa che lo porta a correre verso l'uscita degli Inferi, quello che lo trattiene indietro, per spiare il “passo inudibile” dell'amata, guidata da Ermete. All'impazienza di lui, in lei corrisponde l'impaccio delle lunghe bende funebri, la mitezza, la mancanza di fretta, l'affidarsi al dio che la tiene per mano come una bambina.

“Come d'oscurità e dolcezza un frutto,
era colma della sua grande morte,
così nuova che tutto le era incomprensibile.
Ella era una verginità nuova
ed intangibile. Il suo sesso chiuso
come un giovane fiore sulla sera”.

Non compare qui il dolore della separazione, né l'eroismo ingenuo del sacrificio femminile, come in ALCESTI, (altra composizione in endecasillabi di argomento mitico, pubblicata in sequenza con le tre scritte a Roma). Qui l'apatia misteriosa, la concentrazione di Euridice nella sua ritrovata purezza è un'immagine straordinaria che rinnova e capovolge il racconto mitico, con la coscienza del mistero, e denuncia una profonda, dolente conoscenza dell'alterità dei sessi.


NOTA

Le traduzioni delle poesie di Rilke sono di Giacomo Cacciapaglia, Anna Lucia Giavotto Kunkler, Andreina Lavagetto in Rainer Maria Rilke, POESIE 1907-1926, Torino, Einaudi, 2000; di Enrico e Igea De Portu in Rainer Maria Rilke, ELEGIE DUINESI, Torino, Einaudi, 1978.