05/05/08

Rossana Dedola, ALTARAS, ZIARATI E ALI FARAH: PERCORSI DELLA DIVERSITÀ


[The Thai dancer. (From the streets of Bangkok). Foto di Marzia Poerio]


LA VENDETTA DI MARICIKA (Roma, Voland, 2004), dello scrittore di Israele Alon Altaras (di cui è uscito due anni dopo, presso lo stesso editore, IL VESTITO NERO DI ODELIA), è un libro dichiaratamente autobiografico, la foto in copertina è quella della madre di Altaras, la protagonista del romanzo le assomiglia moltissimo. Maricika ha lasciato da giovanissima la Romania e si è trasferita in Israele; è un’emigrata molto povera, ha con sé solo una valigia, non sa parlare l’ebraico, ma ha una straordinaria vitalità e una gran voglia di fare, soprattutto di affermarsi nel lavoro di sarta. L’altro protagonista, Puiu, che ha parecchi tratti in comune con il padre dello scrittore, è anche lui rumeno, anche lui emigrato con la sola valigia. Sarà proprio Puiu a mettere in contatto Maricika con un oggetto che diventa fondamentale nella sua vita: la macchina da cucire con cui darà vita alle sue creazioni. L’abito permette di costruirsi una figura con cui apparire all’esterno, mostrarsi agli occhi degli altri; una sarta, come sa bene Maricika, può imbellire, far scomparire difetti modificando il giro vita, allentando una pense, mascherando con una piega. Tanto più importante il vestito appare perciò in uno ambiente nuovo in cui tutta l’esistenza deve essere ricostruita da capo.

Mentre Maricika si muove con grande intraprendenza femminile nel nuovo paese in cui è emigrata, non rinunciando ai propri sogni ma affrontando con caparbietà le difficoltà della nuova vita, al contrario Puiu, divenuto ben presto suo marito, si sottrae alla realtà, vive di immaginazioni megalomani inconcludenti, conduce un’esistenza mediocre, priva di ambizioni e di ispirazione. La sua inettitudine, la sua incapacità d’amore lo rendono simile a quei personaggi maschili di cui parla Kundera ne L’IGNORANZA che non sanno entrare in relazione con le donne ma solo sfruttarle. E dopo la nascita del figlio, Puiu si dimostrerà un padre completamente assente.
Di Israele, Altaras riesce a mettere allo scoperto non solo una dimensione particolare, quella degli emigrati rumeni, ma calandosi nelle piccole incombenze quotidiane dei suoi protagonisti, mostrarci tra quante difficoltà, conflitti personali, speranze, aspirazioni e falsi sentimenti i sogni del futuro prendano corpo, mettendo in luce lo “strano cortocircuito” tra sogni e insidie della storia e della vita che la vicenda di Maricika sembra rivelare al lettore [1]


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Il titolo SALAM, MAMAN del romanzo di Hamid Ziarati (Torino, Einaudi, 2006) mette al centro la figura della madre; come lo scrittore ribadisce in un’intervista, è proprio lei “il perno centrale di tutto il libro, unica figura di buon senso in un crescendo di follia collettiva”.

Sin dalle prime battute siamo calati immediatamente nella vita familiare e messi a confronto diretto con il rituale che la famiglia si appresta a compiere per il capodanno. E’ l’ultima gelida giornata d’inverno, l’intera nazione sta per festeggiare il capodanno persiano e l’arrivo della primavera. Un pezzo molto importante dell’arredamento, il korsì, un tavolo basso, viene riportato in casa alla prima nevicata, e coperto con la trapunta sotto la quale la famiglia dorme, con un braciere piazzato sotto che la riscalda. I bambini devono attenersi a delle regole precise quando si sta sotto il korsì.

Siamo dunque immediatamente introdotti nel cuore della famiglia, nella sua più profonda intimità e grazie agli scherzi e ai giochi dei bambini ci sentiamo molto vicini a loro anche se non abbiamo mai dormito sotto un korsì. La stessa sensazione si ha leggendo le pagine che descrivono la cerimonia del Noruz: la scelta della tovaglia colorata, ben stirata dalla madre, poi lo specchio, le cinque ciotole e un piatto di porcellana, i sette sin. Il serké, la prima ciotola viene riempita con aceto, nella seconda ciotola si mette il samanu, un dolce pastoso di color marrone scuro, poi si passa ai sendjed e ai sir, che capiamo si tratta di germogli di grano che la madre è molto abile a far germogliare in un paio di settimane e infine i secché, le banconote da un Toman. Con questi oggetti di buon augurio tutti i membri della famiglia festeggiano l’arrivo dell’anno nuovo.

Anche se non conosciamo queste usanze ci sentiamo immediatamente partecipi alla vita e alle vicende dei protagonisti. Anche se la loro religione è diversa dalla nostra, le loro preghiere sono diverse, i sentimenti sono simili: la devozione, i giochi e i i bisticci tra i bambini, l’alacrità della madre, l’amore per i figli che la spinge a far bene le cose e qualche volta a ricorrere anche alle maniere forti se non ubbidiscono.
Dopo aver conosciuto così da vicino la vita della famiglia, quello che avverrà dopo i giorni gelidi e felici di capodanno, le vicende storiche che travolgeranno l’Iran, la tragedia che coinvolgerà la famiglia, le persecuzioni, l’affermazione di un nuovo totalitarismo, la fuga, l’esilio, l’inizio di una nuova esistenza in Italia, non perderanno spessore umano. Il senso di vicinanza che si avverte sin dalle prime pagine accentua lo strazio per ciò che si è perduto senza cadere in una visione della vita cinica e priva di speranze e futuro.


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MADRE PICCOLA di Cristina Ali Farah (Milano, Frassinelli, 2007), attraverso tre protagonisti che parlano in prima persona, descrive gli eventi della diaspora somala. L’infanzia a Mogadiscio delle due protagoniste femminili, due cugine molto legate tra loro, poi la vita in Italia e precisamente a Roma di una delle due donne, Barni, divenuta ostetrica, l’incapacità del protagonista maschile che ormai si è trasferito in America di adattarsi alla nuova condizione d’esiliato e di assumersi la responsabilità della sua nuova famiglia e del figlio, e la crisi, la nevrosi di Domenica, la seconda protagonista femminile del romanzo.

Libro complesso e ricchissimo, MADRE PICCOLA è fatto di storie che si intrecciano tra loro e si prolungano in parabole, vanno a sovrapporsi a racconti nel racconto e a fiabe, tanto da rischiare in alcuni momenti che si perda il filo del racconto oppure che il filo si aggrovigli in nodi inestricabili. In realtà Cristina Ali Farah riesce con grande abilità non solo a tenere abilmente in mano i tanti fili, ma a sbrogliarne i nodi creando degli snodi che permettono di guardare avanti e di intravedere pur nel dolore della perdita del proprio paese, della propria famiglia, delle proprie radicie e della propria storia, la possibilità di una nuova vita e di una nuova esperienza.

Il lettore si confronta con molteplici realtà di cui non saprebbe niente, con luoghi che sbucano improvvisamenete dall’anonimato per rivelarsi carichi di umanità. Anche alcuni luoghi di Roma sembrano assumere una nuova dimensione. La stazione Termini con l’odore desolato del dolore dell’emigrazione di cui sembra carica, acquista di colpo un volto più umano, il romanzo ci permette infatti di penetrare in uno dei negozietti somali sorti nelle sue vicinanze e di partecipare agli incontri che avvengono al suo interno tra gli odori delle spezie, i colori sgargianti dei fazzoletti che le donne somale portano sul capo e di assistere a inaspettati incontri.

Se la patria si è sgretolata sotto i colpi della guerra, se la famiglia si è dispersa nel mondo, nuovi legami familiari, anche quello tra una “madre piccola” e sua cugina, permettono una nuova nascita, fanno intravedere oltre lo squallore di un parto avvenuto in macchina in una strada deserta di Roma, come la vita voglia a tutti i costi riprendere il suo corso.

Come le opere di Altaras e di Ziarati, anche il romanzo di Cristina Ali Farah, permette al lettore di compiere un’esperienza particolare, di conoscere da vicino un mondo da cui sarebbe inevitabilmente escluso. Vedendolo così da vicino, conoscendolo nelle sue pieghe più intime quel mondo rivela, pur nel dolore e nelle difficoltà, risorse insperate. Permettendo al lettore di compiere delle esperienze e di conoscere realtà diverse e particolari, i romanzi di Alon Altaras, di Hamid Ziarati e di Cristina Ali Farah paiono allontanarsi a gran velocità da quella letteratura dell’inesperienza di cui ha parlato qualche anno fa Antonio Scurati, capace solo di farsi specchio della mancanza di senso di un mondo unidimensionale in cui qualsiasi diversità è stata cancellata, e di intraprendere un nuovo percorso.


NOTA

[1] In P. Di Paolo, OGNI VIAGGIO È UN ROMANZO. LIBRI, PARTENZE, ARRIVI: 19 INCONTRI CON SCRITTORI, Bari, Laterza, 2007, p. 123.