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13/04/19

Massimo Marasco, L’ANNUNCIO



["Like a window on an outside world" (Portovenere 2018). Foto Rb]

Massimo Marasco, L'annuncio. Sottotitolo: Il mito del popolo nuovo. Presentazione di Silvia Montefoschi. Milano, Zephyro, 2003

Nelle Stazioni Orbitali dopo la Grande Catastrofe intervenuta sulla Terra, R, dipendente del Dipartimento per la Ricostruzione Culturale, è incaricato di ascoltare la testimonianza di un sopravvissuto, M, il quale gli racconta la configurazione geografica, sociale, politica e la storia letteraria di uno Stato denominato Jeckpolis come la sua capitale, situato in Nord-America ma non negli USA, sede del popolo dei Finni, di cui nel corso del libro apprendiamo la lingua e la mentalità. Si scopre verso la fine che questo Stato era stato inventato di sana pianta, nondimeno R lo produce come memoria valida del passato terrestre in quanto, sebbene i Finni non siano mi esistiti, la testimonianza di M “parla di un popolo veramente straordinario, che ha dato vita a istituzioni politiche e sociali uniche, forse le più avanzate del mondo di prima della Grance Catastrofe, nonché a una cultura che ha aspetti filosofici, musicali e letterari all’avanguardia” (p. 361).

Nelle centinaia di pagine precedenti, che compongono ciascuna le tessere di ampio mosaico, invece di una narrazione distesa convenzionale abbiamo letto i sunti di varie opere e i commenti a testi al contempo intellettualmente impegnativi e commoventi, una sorta di enciclopedia della realtà immaginaria costruita da Marasco, sulla base di proprie riflessioni e, si direbbe, spigolature culturali nel mondo del Nord-Europa scandinavo e gaelico forse in prevalenza, ma non senza escursioni in altre culture.

In parallelo a storie terrestri, come il Dinamic Man di Marasco, emerso dal Superman del noto fumetto reale, ma orientato a fini politici contrari a “un possibile indebolimento della compagine sociale dello stato finno, basata sull’autogestione, che avrebbe causato l’asservimento di Jeckpolis alla super-potenza statunitense” (p. 288).

In rapporto parodico anche, per esempio, il vampiro finno, nel romanzo intitolato appunto Il vampiro, di uno scrittore immaginario di nome Belobromavchenko. L’autore viene definito “un disadattato, incapace di vivere in una società che non rispecchiava affatto l’armonia e la perfezione a cui tendeva” (p. 224). Il suo personaggio “irrompe in quel mondo vuoto e superficiale”, mettendo in rilievo “il significato profondo dell’arte” e la “profondità dei […] sentimenti” (p. 225).

[Roberto Bertoni]


11/04/19

Riccardo Bacchelli, LA CITTÀ DEGLI AMANTI


["That city including occasional old-fashioned buildings..." (Spezia 2018). Foto Rb]


Riccardo Bacchelli, La Città degli Amanti. I ed. 1960. Milano, Oscar Mondadori, 1966


Questo romanzo semiutopistico si presenta dichiaratamente come “una favola” e s’iscrive “nell’atlante dei sogni e degli errori” (p. 7), con una dedica piuttosto centrata a Swift, Bernardin de Siant-Pierre e Bartoli.

Del primo ritroviamo nel testo la satira dei costumi, del secondo forse l’innamoramento più che la descrizione della natura, e del terzo il gusto per i popoli altri.

Viene inoltre citata in epigrafe un’affermazione di Baudelaire: “Dirò che è un libro di mera arte, di scimmiottatura, giullaresco; e mentirò come un cavadenti” (p. 9).

C’è in effetti un elemento giullaresco, nella scelta fantasiosa dei nomi dei personaggi: Eustachius Vandenpeereboom, pittore e amante non ricambiato di una donna conosciuta in guerra in Francia; Titus Tubalcain Pankoucke, milionario che fonda, finanziandola, la città degli amanti negli USA, innamorato di Dorotea, la sua segretaria, che riuscirà a condurre a nozze solo alla fine del romanzo; Enrico De Nada, napoletano coinvolto dapprima in un matrimonio sfortunato e poi, nella fuga da Caporetto, innamoratosi della nobile e moralmente retta Cecchina Gritti, che accetta di vivere con lui pur non maritandosi per la sincerità dei sentimenti che prevale sulle convenzioni sociali.

La storia di De Nada e Cecchina occupa la parte centrale e quella finale del libro. In quella centrale, il registro “giullaresco” cede il passo alla narrazione storica, col disastro di Caporetto descritto realisticamente nei particolari di truppe sbandate, trincee abbandonate, ritirata verso il Piave, combattimenti contro gli Austriaci lanciati all’inseguimento. Si asseconda in questa parte anche il romanzo sentimentale, raccontato con delicatezza di affetti e semplicità.

La satira prevale nelle pagine sulla Città degli Amanti propriamente detta, fondata per dare ai vari tipi di amanti, siano essi delusi, soddisfatti, solitari, sodali o altro, dei luoghi di soggiorno e di individuazione delle tematiche che più a ciascuno si confacciano. La città, gestita dal manager Gervasio Pisciavino, si trasforma col tempo in un campo turistico con qualche nota anche di decadenza etica (contrastata dal convento confinante di frati predicatori), finché decade.



[Roberto Bertoni]

09/04/19

Edgardo Franzosini, IL MANGIATORE DI CARTA

Sottotitolo: Alcuni anni della vita di Johann Ernst Biren. Palermo, Sellerio, 2017

Franzosini sviluppa uno spunto di Balzac, che in due pagine delle Illusions perdues, parla di Biren, segretario del Barone di Görtz (1668-1719) alla corte del re di Svezia, Carlo XII. Come spiega Balzac, Biren, affetto da un disturbo compulsivo consistente nel mangiare la carta, divenuto segretario di Görtz, mangiò il trattato della Svezia con la Russia, relativo alla Finlandia. Condannato a morte e imprigionato, fuggì con l’aiuto del Barone, si rifugiò in Curlandia (territorio compreso oggi nella Lettonia occidentale), rendendosi colpevole di un analogo delitto, che Balzac esamina in base alla forza irrefrenabile del vizio sull’animo umano:

“Si vous croyiez que ce joli homme, condamné à mort pour avoir mangé le traité relatif à la Finlande, se corrige de son goût dépravé, vous ne connaîtriez pas l’empire du vice sur l’homme; la peine de mort ne l’arrête pas quand il s’agit d’une jouissance qu’il s’est créée! D’où vient cette puissance du vice? est-ce une force qui lui soit propre, ou vient-elle de la faiblesse humaine? [1]

Salvato, per la sua avvenenza, dalla sovrana di Curlandia, Biren fece carriera e finì col diventare reggente alla morte dell'imperatrice Caterina e poi consigliere di Anna di Russia.

Questa vicenda viene ampliata da Franzosini con riferimenti tanto all’epoca storica dei fatti narrati, quanto a un ipotetico attraversamento dello spazio-tempo per discutere con Balzac, che però, nel dialogo con lautore che dice io nel volume di Sellerio, non spiega perché dedicò poco spazio a Biren. È con le parole dello scrittore francese che si conclude il volumetto di Franzosini: Biren fu “a suo modo un cercatore d’infinito” (p. 130).

Dell’autore ci eravamo occupati al tempo della pubblicazione di Bela Lugosi, biografia di una vita insolita. In questo secondo caso, il meta-riferimento a Balzac e all’epoca di Carlo XII si accompagna alla ricostruzione indiziaria, sostenuta da una vena archeologica e al contempo ironica.


[Roberto Bertoni]


[1] Honoré de Balzac, Les illusions perdues (1837-1843), pp. 1222-1223. 

13/03/19

Roberto Bugliani, UN’OCCHIATA FUORI




[From a window to the outside world (Carrara 2018). Foto Rb]



Roberto Bugliani, Un'occhiata fuori. Bisignano (Cosenza), Apollo, 2018 (Versione di layout in formato PDF)
  

Se, tra i libri pubblicati di recente da Bugliani, in Serraglio Italia emergeva in primo piano una casistica di tic e disfunzioni della compagine sociale della penisola, in Un’occhiata fuori lo sguardo si amplia in direzione internazionale, e in un confronto tra paesi a economia più e meno avanzata.

Per questi ultimi, si veda, tra gli altri il racconto intitolato “L’Hotel Ballena Azul”, ambientato in Ecuador, ma si ricorda che la terza parte del libro si intitola Racconti dal resto del mondo, con flash memoriali in “La traversata di Parigi”; elementi antropologici e socio-politici in “Frammenti del viaggio di Santo Loffredi nel nord-est del Brasile”; e altre storie e altri resoconti dal Messico e dagli Stati Uniti.

La prima sezione della raccolta s’intitola L’inetto, che ricorda le montaliane definizioni dei personaggi di Svevo aggiornate al presente.
Esemplare dei personaggi di questa parte del volume ci pare “Italexit”, storia, di un “buono a nulla”, come lo definisce la madre della fidanzata (p. 22), in realtà un individuo sfortunato, costretto, nonostante l’età  che si intuisce abbastanza avanzata, a lavori precari, che impediscono persino di festeggiare con un regalo degno la ricorrenza di San Valentino. Del resto, some si legge in un altro racconto intitolato “Proletario del blog”, “i sogni a occhi aperti non erano consentiti ai precari” (p. 53).

In “Il grassone”, il contrasto allegorico tra mondo sviluppato e meno sviluppato è tra un obeso dei paesi prosperi, affetto, leggiamo, con un neologismo “attestato dall’Organizzazione Mondiale per la Sanità”, da “globesità” (p. 9), e un ragazzo indigeno di corporatura sottile. In sogno l’obeso segue il ragazzo nella foresta, infine affondando in un fiume a bordo di una canoa troppo gracile per sostenerne il peso.
Si assiste in altri racconti all’espressione della sfortuna come fondante dello stato di cose del capitalismo avanzato, ma spesso con un risvolto che si sottrae alla banalità e allo stereotipo. Un esempio:

“[…] oramai se ne incontrano pochi in giro per la città. E non mi riferisco a coloro che, a un certo punto dell’esistenza, vengono espulsi dal processo produttivo e sono costretti a sopravvivere di stenti. ovvero alla moltitudine umana dei prescindibili, degli scarti, degli esclusi dalla contabilità del capitale, oggidì in impressionante crescita esponenziale, tanto nelle desolate periferie urbane come nel cuore delle metropoli industriose. io parlo invece dei barboni, quelli autentici, quelli che nel processo produttivo non sono mai voluti entrare e che in gioventù hanno rifiutato con una sdegnosa scrollata di spalle il sicuro posto in banca propostogli dall’amico di famiglia, preferendo consegnare la propria esistenza a ciò che Majid Rahnema definisce povertà conviviale. E ancora meno se ne incontrano nelle città piccole e provinciali, dove soltanto qualche spicciolo hanno da raggranellare” (p. 47).

Così di seguito, con personaggi emblematici di fissazioni dell’attualità italiana e internazionale, dal calcio alle scommesse dell’ippica in un “mondo senza coordinate” (p. 32). Più ancora nella parte del volume intitolata, significativamente, Gli ultimi.

Ci sono racconti che restano irrisolti nello sviluppo dell’intreccio, interrompendosi senza una svolta decisiva, ma lasciando intuire una sconfitta dei protagonisti. Questa mancanza di “fine della storia” (p. 61) è allegorizzata con maggiore energia in “Proletario del blog”, in cui si ipotizza che il protagonista, ossessionato dalla blogosfera, vi sia finito dentro, lasciando sulla sedia, quali spoglie mortali, gli indumenti. La voce dell’autore interviene ad affermare una funzione di testimonianza del personaggio, in definitiva della letteratura:

“Ma non mi si domandi che fine abbia fatto Aristide, alias Il proletario del blog. Perché non v’è alcuna fine nella sua storia, lui è ancora lì, ombra dell’ombra che era, le mani eteree sulla tastiera, le dita immateriali a premere sui tasti, con i suoi quarant’anni suonati e le milleuna personalità virtuali, lui è sempre lì, nell’aria stagnante, palpitante, fremente, ancora” (p. 61).

Una vena allo stesso tempo malinconica e ironica percorre la scrittura di Bugliani in questo libro.

Il linguaggio è  standard e non esente da moduli colloquiali.

Solitudine nel mondo globalizzato e polemica con le sue cause sembrano prevalere nell’area tematica.


[Roberto Bertoni]

05/01/19

Paolo Luporini, A PROPOSITO



 [Open doors (La Spezia 2018). Foto Rb]


Paolo Luporini, A proposito, GEDI, 2016

Questo libro esuberante fa punti di forza del frammento, o meglio, forse delle tessere del mosaico, componibile da parte del lettore man mano che si legge; e della battuta e dell’ironia, un che alla Campanile.

Il gioco di parole parte dal titolo che si presenta in prima di copertina come “A proposito di Paolo Luporini”. In effetti, a un necrologio dell’autore, seguono momenti autobiografici, o, in parte, presunti tali, che variano a informazioni sugli studi a un racconto sulle vicende del padre e dello zio, alla ricetta di un altro zio sull’insalata di arance combinata con riflessioni sui popoli oppressi.

Una storia dominicana informa sulla storia del cantante Confesor Gonzalez. In un’altra zona del libro si trova un resoconto della guerra anglo-spagnola iniziata nel 1739 tra Caraibi e America Centrale.

Reale e immaginario si alternano e convivono. C’è un racconto di fantascienza. Si ha anche la cronaca della creazione di una Radio Popolare negli anni Settanta.

Un capitolo propone le reazioni di vari lettori, opportunamente riportate, a un aforisma di Musil: "Chi voglia varcare senza inconvenienti una porta aperta deve tener presente che gli stipiti sono duri".

Questo di Luporini è un volume che fa della leggerezza e del sorriso una delle chiavi di lettura, proponendo frattanto valori democratici e un incoraggiamento esistenziale a resistere nella vita giorno per giorno.


[Roberto Bertoni]


23/05/18

Maurizio Masi, RECENSIONE A UN ARTICOLO DI G. SCARFONE SUL LANCIATORE DI GIAVELLOTTO DI P. VOLPONI

L’articolo di Gloria Scarfone parte da una precisa intenzione:[1] fare una puntualizzazione e ricollocare l’esperienza narrativa del Lanciatore di giavellotto di Paolo Volponi in un margine più vasto di vedute e considerazioni, di motivazioni ideologiche che non si limitino a relegare il testo fra le opere minori dell’autore urbinate, considerandolo, soprattutto da un punto di vista psicologico, quale ritorno ad una fase primigenia, adolescenziale, di romanzo di formazione del protagonista, rappresentata, ad esempio,  da La strada per Roma.

Sulla base del dialettico rapporto adorniano avanguardia-conservazione, argomenta l’autrice del saggio, anche Emanuele Zinato si è espresso, per questo romanzo, a favore della seconda linea interpretativa. In particolare tale considerazione nasce dalla constatazione del fatto che la mentalità del nonno di Damìn, l’anziano Damiano Possanza, conservatore di un ordine familiare atavico, quasi  inviolabile e sacro, di un’arte – quella del vasaio – che si tramanda di generazione in generazione, sulla cui rottura e cambiamenti Damiano non ascolta né prevede ragioni plausibili di mutamenti, il nipote incarna l’elemento di rottura rappresentato da un’adolescenza difficile, silenziosa ed introversa, che si scontra con i modelli e gli archetipi mentali forti ed ossessivi, del tutto totalizzanti: quelli del fascismo e dei suoi miti e rituali fisico-corporali. A questo punto, evidenziando anche il rapporto difficile e mal vissuto tra il corpo sensuale, vivo, della madre e la cittadina di Fossombrone, il fisico robusto dell’adolescente e l’arte del vasaio che viene a contatto con l’elemento primigenio della terra, l’autrice si sofferma in particolare su quest’ultimo rapporto che sostiene, secondo lei, tutta l’impalcatura metaforica del testo, connotandolo di significati non sempre facilmente intuibili.

Mentre il nonno spiega il carattere e la predisposizione artistica di Damìn riconducendola ad un contesto famigliare, rinvenendo in lui la fisionomia del vasaio ideale, abile disegnatore stimato dai compagni di scuola, Damìn, in una riflessione a latere nel testo, riferendosi all’amata sorella minore, paragona la figura sottile, allungata e stretta di un raffinato vaso di terracotta smaltato, all’indole ed al fisico ancora innocente, non formatasi e contaminato dalle suggestioni del sesso della sorella che, con evidente riferimento all’esilità stessa del vaso in questione, si chiama Vitina. Questo pensiero di purezza e delicatezza nei riguardi di Vitina costituisce il nucleo ossessivo del pensiero di Damìn: l’antitesi fra sensualità e purezza, tra candore e corporalità che non potrà risolversi, se non in un crescendo ossessivo di suggestioni e di ripensamenti, infine nella morte del protagonista e nell’omicidio della sorella della cui integrità morale e fisica Damìn è nascostamente custode.

Damìn è, sicuramente, segnato dalle contraddizioni del suo tempo, a cui non si piega ed oppone una resistenza che finisce per trasformarsi in idee fisse ed incapacità di concentrazione nello studio, consunzione di energie psichiche, quasi ossessione e psicosi. Se, da un certo punto di vista, il contesto storico-sociale sembra sintetizzare in sé la causa di questo malessere del protagonista quale specchio dei fatti esterni, reali, non si può semplicemente ricondurre il comportamento di Damìn ad una facile regressione nell’infanzia preedipica. Il contesto psicologico è semplicemente descritto, fatto palese al lettore e Damìn lo accetta per come si configura; l’autore non propone soluzioni, si limita ai dati di fatto. Il dolore di Damìn, in questo senso, può essere definito astorico perché prescinde dal contesto di riferimento per divenire dimensione interiore ed esistenziale: quasi a significare che il dolore del protagonista è anche quello di Guido Corsalini, il giovane e bel narcisista, innamorato dei suoi riflessi sugli altri, che si compiace delle sue conquiste erotiche, delle sue pulsioni e della sua corporalità con la quale tenta di approcciarsi alla realtà circostante.

Mentre per Gadda, a cui viene subito da pensare, il fascismo è pieno di riferimenti e pulsioni sessuali, nel caso del Lanciatore di giavellotto - ricorda Scarfone - fu proprio l’autore stesso - a  suo tempo - ad affermare che col termine Storia, in questo caso, è bene rifarsi ad un contesto molto più ampio di quello fascista rappresentato nel romanzo. Il testo si realizza ed il suo messaggio si compie, piuttosto, quale dimostrazione di una crescita mancata, di una difficoltà relazionale del personaggio con i vari aspetti della realtà. Scarfone, molto saggiamente, insiste sul fatto che il nodo del romanzo, la sua chiave interpretativa è da ricercare proprio nell’impatto lacerante del personaggio con la Storia e viceversa. L’autore è interessato non solo ad una rappresentazione interiore, psicologica, ma va al di là del singolo caso, per ritrarre una condizione generale di distonia fra adolescenza e maturità, fra Io e Storia, tratto tipico - quest’ultimo - della sua narrativa.

L’etica del lavoro di cui il nonno si fa forte si ferma solo ad una fredda constatazione di fatto dell’assiduità lavorativa di Norma che, effettivamente, riesce nel suo lavoro, ma non sottintende il dolore per la morte dei figli e distoglie i sensi di colpa concentrandosi sulle piacevoli forme fisiche e cromatiche dei vasi d’argilla. Ed anche il ceppo funebre reciso e modellato dal nonno per la tomba dei due nipoti simboleggia in realtà la sua incapacità di portare ad una risoluzione, o almeno di ricercare gli strumenti adeguati per risolverla, la drammatica situazione interiore vissuta da Damìn. Ma l’arte rappresenta, in questo modo, solo una sublimazione fine a se stessa, senza risoluzioni, visto che neppure lo sport - il lancio del giavellotto appunto - riesce per Damìn a dimostrarsi un valido strumento di salvezza e di distrazione mentale.

L’incapacità di Damiano Possanza di sciogliere il malessere del nipote risale alla disparità di età e di vedute ideologiche fra due generazioni lontane nel tempo e nei fatti, come nel pensiero: nell’antitesi fra presente e passato, quando era ancora poteva avere un senso reprimere con l’attenzione al lavoro, la passione e la dedizione totalizzante ad esso, i moti istintuali che Damìn non riesce a dominare e che intorbidano i suoi pensieri. Damìn è un paradigma del male dei nostri giorni e il Lanciatore di giavellotto un contesto tipico o, forse meglio, un dramma intimo che raffigura l’inadattabilità degli schemi mentali del passato a quelli del presente, alle profonde difficoltà esistenziali dell’età post-moderna.  


[1] Gloria Scarfone, “L'uscita dall'idillio primigenio. Sul Lanciatore di giavellotto di Paolo Volponi”, Italianistica, 3, 2016, pp. 163-75.


05/05/18

Gianni Morelli, ROSSO AVANA




Lugano, ADV, 2016



Il romanzo si svolge nel 1958, in dicembre a cavallo del nuovo anno, in concomitanza con l’avanzare della rivoluzione castrista, realizzata infine il primo gennaio del 1959.

Rosso Avana significa passione, sentimenti, sangue, rivoluzione, a detta dell’autore in un’intervista radiofonica.

In effetti il romanzo dipana questi vari fili, intrecciando principalmente due storie, quella della truffa di un sedicente Principe di Bisanzio che, col suo falso entourage, concede titoli nobiliari a pagamento; e quella di una morte in un albergo, un incidente, o forse un’autodifesa, da cui fugge la cameriera indiziata, Alicia, che vive di qui altre tre vite, camuffandosi, per occultarsi alla giustizia, sotto varie identità e in ambienti sociali compositi. Le due storie principali si congiungono nelle ultime pagine, con un lieto fine che porterà la ragazza e il falso Principe protagonisti fuori di Cuba verso una salvezza.

La ricostruzione della Cuba degli anni Cinquanta è uno dei meriti di questo romanzo, che rappresenta quella realtà con cura e non senza ironia e umanità.

La rivoluzione resta tra le quinte, ma è onnipresente, costituendo il momento epocale di una nuova vicenda per l’isola e la sua popolazione.

Sia il giallo che le storie d’amore sono costruiti con sequenzialità e buon gusto.


[Roberto Bertoni]

01/05/18

Gianluca Ciccarelli, BALLATA PER I DISPERSI


Roma, Castelvecchi, 2018



Il clima di un inverno insperatamente tiepido che riporta la curva dei suicidi alla media annuale sembra dare il tono alla scrittura della ballata che Gianluca Ciccarelli, facendo ricorso a una forma letteraria che prende le distanze dalla prosa, dedica ai dispersi. Sin dall’incipit, in effetti la scrittura si rivela più vicina alla lingua poetica, alla lingua cantata: “Lenta scende questa notte sul mio mare, il mare che mi riporta a casa”.  Proprio la scelta di una lingua vicina alla poesia dà una coloritura particolare alla prosa di Ciccarelli e dispone all’ascolto di un racconto che tocca corde intese e profonde e che e dà l’avvio a un ritorno in Sicilia che è soprattutto un viaggio all’interno di se stessi.

Dopo la dispersione, l’essersi perduti, l’aver subito una catastrofe, si ritorna attraversando il mare a casa. Qui c’è una madre che non può più riconoscere il figlio, chiusa come in un antro buio da una malattia che ne ha spento la memoria. La madre non può più riconoscere il figlio, ma è il figlio stesso a non sapere più chi sia, si sente solo uno straniero che chiede asilo.  È straordinaria la densità che Ciccarelli riesce creare nel testo narrativo, sovrapponendo nello spazio di poche righe il tema del viaggio, del ritorno, il ritorno alla madre, col ricorso a figure retoriche più adatte alla poesia che alla prosa. L’ossimoro è usato per definire l’impossibile dialogo con la madre (“silenziosi colloqui”), e più avanti “assordante silenzio” viene definita la vita moderna che ci riempie di immagini false e insensate, ci spinge alla ricerca frenetica del nuovo che stanca e intossica.

Grazie anche all’uso di queste figure retoriche, il testo si trasforma in una spirale che cambia continuamente di segno il significato trasformandolo nel suo contrario e permettendoci di rivedere la realtà da un nuovo punto di vista. Lo sguardo vuoto di sua madre, ormai persa in se stessa dalla malattia, si può rivelare più acuto del nostro, in realtà potrebbe essere rivolto verso un punto che noi non riusciamo più a vedere, oppure potrebbe difenderci da qualcosa di troppo forte che solo lei può vedere e che solo lei è in grado di sopportare.

Il ritorno del figlio avviene dopo un lungo viaggio per mare attraverso la notte, ma il buio è anche quello che ha accompagnato per lungo tempo la vita del protagonista, percepita ora come morte interiore. L’allontanamento dall’isola, dalla madre, dal padre, dalla famiglia e dalla terra, la Sicilia, si è trasformato in una fuga proprio da se stessi. 

Il viaggio inizia dunque nel regno della notte e del sonno in cui è il sogno che la fa da padrone e in cui ritornano a galla immagini oniriche colme di nuovi significati, cariche del peso vitale dei simboli vivi da cui l’anima viene visitata e rigenerata. Ed ecco come la densità del testo descrive questo processo che da anni la psicoanalisi e la psicologia del profondo hanno scandagliato: “Si affollano garbatamente, queste immagini umide e disordinate verso la sponda della mia veglia, come ne uscissero dopo il lavacro in una piscina naturale, abbellita da mille giochi d’acqua, che ne alternano la percezione, rendendole continuamente mutevoli a seconda di come la luce vi si posa. O, forse, sono le stesse immagini a sprigionare dal loro interno una luce che si frange e ricompone, rendendomi la loro apparizione costantemente inafferrabile?”. Le immagini anche se incomprensibili alla coscienza hanno una forza vitale che sembra sostenere, addirittura indirizzare in avanti verso il futuro e ripescare dal passato ricordi, scene di vita e racconti.

Il testo si scioglie in molteplici rivoli che danno spazio a pensieri, a riflessioni, a brevi dichiarazioni filosofiche come questa affidata alla voce del padre: “Ho sempre voluto passare il mio tempo con chi ha amato i propri demoni. Ho sempre disprezzato chi ne ha paura e li trasforma in malattie. Come puoi aver paura di qualcosa di tuo che ti appartiene e che ti forma.” Di fronte alla madre che non lo riconosce più o forse è la prima volta che lo riconosce veramente, il figlio recupera con tenerezza la figura del padre, siciliano atipico, lieve e poco virile, ma capace di indicare al figlio una via iniziatica per la propria mascolinità al di fuori degli stereotipi, fatta di accettazione della propria irriducibile unicità. È la ricerca della vera natura di noi stessi a rendere unico e sacro ogni vero atto d’amore, anche l’amore di Achille per il padre e del padre per Achille che è in grado di reggere alla prova della morte. 

Il padre e la sua vita diventano dunque il perno intorno al quale la vita del protagonista riprende a srotolarsi, i luoghi del padre si oppongono, anzi insorgono contro le sue “abitudini di cosmopolita, di poliglotta, aggiornato di tutto, perennemente connesso col niente” al di là del nostro “tempo affamato”, e la vita precedente fatta di troppi viaggi, di troppi incontri, di troppe immagini, di troppe parole, moltiplicate a dismisura dalle connessioni della “realtà” virtuale, si sgretola davanti a un presente che costringe a percepire la vita senza filtri.



[Rossana Dedola]

13/03/18

Daniele Benati, CANI DELL’INFERNO


[From the city walls (Dublin 2017). Foto Rb]


Daniele Benati, Cani dell'inferno. Macerata, Quodlibet, 2018


Dieci personaggi, ciascuno con un diverso cognome iniziante con la lettera P, narrano in prima persona esperienze vissute in Mystic Avenue, in uno stabile e altri edifici presso un McDonald, in una città degli Stati Uniti.

I personaggi narranti sono tutti simili tra loro (un po’ come nel Malerba di Salto mortale); e le vicende in cui vengono coinvolti si somigliano, essendo soprattutto racconti misantropici, storie amorose, osservazioni relative all’istituzione che ha inviato queste persone all’estero e paga il soggiorno: un fantomatico (e satirizzato) “Istituto di Cultura, Arte, Letteratura, Filosofia, Eccetera”. Bersaglio dell’ironia la società americana (come i coniugi che litigano tra loro di fronte a uno dei narratori dopo averlo invitato a pranzo), gli intellettuali pomposi, la società dei consumi.

Allegoria della solitudine esasperata.

L’atmosfera è quella di un Kafka umoristico.

Il linguaggio è colloquiale; e a volte infrange la grammatica, per esempio quando utilizza l’ausiliare avere al posto di essere.

I dialoghi sono senza virgolette e in flusso continuo.

Un altro volume controcorrente di questo autore emiliano.


[Roberto Bertoni]

05/06/17

Antonio Moresco, L’ADDIO



 [‘What key to that other city?” (Dublin 2016). Foto Rb]


Antonio Moresco, L’addio. Firenze e Milano, Giunti, 2016


Nell’introduzione, l’autore presenta il romanzo come il testo con cui dà l’addio alla narrativa, un silenzio futuro, se mai sarà tale, in ogni caso una scrittura presente, nati, l’uno e l’altra, dal nucleo di motivazione del romanzo, innestato su un disagio sociale:

“Non riesco più a sopportare i rapporti umani così come sono configurati in questa epoca, dove ogni cosa viene immiserita e rimpicciolita, anche l’elezione, l’amicizia e l’amore, dove ogni anelito si trasforma in delusione, ferita e perdita irreparabile. Non riesco più a sopportare il cinismo dominante, il piccolo cabotaggio esistenziale, la ristrettezza di orizzonti, la mancanza di grandezza, di sentimento, di libertà, di invenzione” (p. 5).

La rappresentazione allegorica, nelle pagine di narrativa che compongono il resto del volume, è quella di una “città dei morti” senza tempo e con parametri di esistenza e di spazio diversi, eppure non dissimili in tutto dal mondo dei vivi, in cui un investigatore, denominato D’Arco, indaga sul canto dei bambini, iniziato all’improvviso e provocato da lutto per le sevizie che l’infanzia subisce con sempre maggiore frequenza: “cantano ogni volta che viene ucciso un bambino nella città dei vivi” (p. 44). Il detective si reca pertanto dai vivi accompagnato da una guida, un bambino che non parla, ma scrive messaggi a mano.

L’indagine si svolge con vari colpi di scena. Metaletterariamente, la voce narrante, cui si sovrappone l’autore, dichiara che i lettori non troveranno “le descrizioni minuziose e raccapriccianti degli orrori che ho visto”, come invece succede in altri libri. Lo scopo è etico: “Vi mostrerò solo quel poco che è necessario per rivelarvi tutto il male che c’è nel mondo” (p. 71).

Con varie parodie di sparatorie, tiri di balestra e altri dettagli in qualche modo connessi coi moduli del thriller, l’indagine conduce al responsabile sommo, il capo dei malavitosi, l’“Uomo di luce” (p. 172), che rivela di avere attratto egli stesso D’Arco nella città dei vivi, in quanto il detective, dovendo sconfiggere il male, è la ragione delle azioni delittuose, il nemico necessario alla perpetrazione dei reati.

Nel finale si torna nella città dei morti.

C’è un’inversione dantesca: il viaggio del protagonista di Moresco nella “città dolente” (Inferno, III.1) avviene verso il mondo di qua, non quello di là. Del resto, nel precedente romanzo di Moresco, Gli increati (Milano, Mondadori, 2016) si leggeva: Finora solo qualche grande poeta antico ci aveva raccontato la discesa di eroi vivi nel regno dei morti, o aveva preteso di essere andato di persona, da vivo, nellaldi e di esserne poi ritornato. Io sono il primo che vi racconto, da morto, quello che succede nel regno dei morti”. Magari non il primo, data la vasta presenza di storie di fantasmi, tra le altre, ma indubbiamente una prospettiva dotata di originalità per il meccanismo retorico con cui viene presentata.

Si deve poi supporre una continuità metafisica tra vita e morte, anche se tale punto non viene mai dichiarato.

Qualche riferimento si potrebbe fare al Manganelli di Dall’Inferno, per la coesistenza di opposte dimensioni e il viaggio medesimo nella sfera esistenziale allegorizzata dall’oltreterra, per esempio:

“E anche adesso che sono qui nella città dei morti e vi sto raccontando cosa è successo prima e cosa è successo dopo… sto rivivendo qui la mia morte o sto invece morendo su quella macchina guidata da un uomo che non so chi è e del quale non sono riuscito a vedere il volto? Sto rivivendo la mia morte o sto rivivendo la mia vita?” (p. 224).

Cenni calviniani non troppo mascherati, in particolare, come in Se una notte d’inverno un viaggiatore…: “E anche questo racconto dove sta andando? Sta andando verso la fine o verso l’inizio?” (p. 225).

Il motivo delle due città è proprio della dicotomia di male e bene della letteratura cristiana (si veda Agostino con la Città Celeste contrapposta alla Città Terrena); come pure della fantascienza (in questo secolo, cfr. tra la narrativa China Miéville, The City and the City, 2009,  e nel cinema Juan Solanas, Upside Down, 2012).


[Roberto Bertoni]