Visualizzazione post con etichetta Testi e intervista. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Testi e intervista. Mostra tutti i post

11/12/18

Roberto Bugliani, LA MANO (Parte 2) [1]

La seconda volta che il quadro l’aveva chiamato, ponendo fine a un esaltato intervallo trascorso in febbrili compulsazioni di libri sul pittore fiammingo e trapuntato da improvvisi sussulti ogni volta che s’imbatteva nella riproduzione fotografica delle Deux fillettes, prima di raggiungere con passo ansioso e trattenuto, come nell’estremo tentativo di differire l’incontro, la sala dov’era esposto, aveva tracciato rapidamente sul taccuino una serie di giudizi sommari e improbabili che avrebbero increspato in una smorfia compassionevole le labbra del più scalcinato critico di storia dell’arte. Erano una sorta d’infantile dichiarazione di poetica e insieme l’accettazione totale del quadro, la dedizione al suo significato primigenio, che aveva trasformato in deserto la lussureggiante foresta dei dipinti del Museo:

Edgar Degas fa le figurine
Pierre-Auguste Renoir fa il patinato non-mi-piace
Claude Monet fa dei fumetti
Edouard Manet fa statuette cortigiane
Paul Cézanne fa paesaggi immobili
Paul Gaughin fa il taciturno scontroso
Il doganiere Rousseau fa il calligrafo ingenuo
Alfred Sisley fa... no, semplicemente si diverte
Camille Pissarro fa cagare gradevolmente
Vincent van Gogh fa il Museo d’Orsay

Questa volta non cercò di sottrarsi all’arbitrio tirannico della rappresentazione. Si consegnò interamente al quadro, accogliendolo non solo come il prototipo dell’arte, dell’arte vera, mostruosamente sublime, ma come la prodigiosa testimonianza dell’origine, del principio, dell’arché di tutte le abiezioni. Quindi lasciò che l’impeto dello spaesamento sbriciolasse le sue già lesionate coordinate familiari del qui-e-ora, e che il tremito incontrollato agli angoli delle labbra si trasformasse in un’angoscia indecifrabile, mentre con le pupille dilatate dallo stupore del fanciullo che ha appena ricevuto senza motivo uno schiaffo, risalì dalla voragine illimitata aperta sotto le gambe della prima bambina al viso insieme altero e remissivo della seconda, nel quale lesse, come su una pagina offerta al fuoco insaziabile d’un flagello cosmico, l’inarrestabile dolore del mondo. Era un dolore orgoglioso e consapevole, il dolore della trasparente purezza che s’apre all’opacità della colpa, e sa che la condanna rappresenta non già un ingiusto castigo, bensì il premio della virtù, la suprema giustizia che l’essere ricerca e riserva a se stesso. Allora comprese non solo la ferocia sanguinaria dell’aguzzino, ma anche il supplizio dell’innocente che s’offriva deliberatamente al carnefice, e si chiese per chi Van Gogh avesse parteggiato dipingendo il quadro.

Prese a concentrarsi sul contrasto, che non era la semplicistica contrapposizione di bene e di male, d’Ormuzd e d’Ahriman insulsamente vecchia quanto il mondo, ma il conturbante sdoppiamento d’un insieme chiamato, a seconda dei casi, anima, essere, spirito, ego. La postura complice dell’ostaggio non soltanto tradiva l’accettazione della sottomissione, ma stimolava e in un certo senso giustificava il suo assoggettamento al dispotico volere dell’Altro. No, non imploravano salvezza quelle labbra sottili, quelle gote piene, quella carnagione rosea e liscia, quanto piuttosto la condivisione completa della tragica assolutezza della condizione umana, affidata a una situazione ordinaria.

La terza volta aveva cercato di tacitare il possente richiamo interiore con la scusa dell’attesa snervante cui avrebbe dovuto sottoporsi prima che giungesse il proprio turno e la cassiera gli staccasse con un blando sorriso il biglietto, ma sapeva fin troppo bene che la giustificazione non avrebbe retto perché il richiamo era più forte dei fragili pretesti avanzati per evitare l’agguato del dipinto.

La fila sghemba dei visitatori che si muoveva sinuosa come un serpente e più lenta d’una lumaca riprodusse la sua ansia zigzagante tra viscere e cervello, nelle cui spire si sentiva imprigionato, irrimediabilmente. E l’impatto col quadro fu, come sempre, devastante. Questa volta pensò che nelle Deux fillettes Van Gogh non aveva voluto esprimere alcun sentimento, la sua operazione era stata ben più radicale e nichilista, giacché si trattava della sistematica distruzione del sentimento. E non appena il suo sguardo riuscì a liberarsi prepotentemente dal perfido incantesimo del viso della prima bambina, e scese con impaziente sofferenza alla mano scellerata, l’atroce rivelazione della contiguità azzerante qualsivoglia presupposto di separatezza gli pulsò limacciosa nel sangue e l’immagine positiva della seconda bambina fu pervasa da una sorta di corrente pulsionale che la contaminò senza che ciò venisse ridotto a mero episodio dell’eterna lotta tra gli opposti, bensì gli rivelò la fattura dell’essere unico esplicitata in endiadi: iniquità e virtù, malvagità e dolcezza, abiezione e bontà.

L’iniziale dualismo affidato alla doppiezza d’animo delle fillettes era vanificato dal contagio della mano che ne illustrava il momento autentico. La sintesi era dunque ciò che precedeva tesi e antitesi, essa costituiva l’avvio e non la fine del processo: le bambine, pur sedendo fraternamente una accanto all’altra, erano altresì consapevoli della loro identità sdoppiata in ruoli, perché non era tanto la separatezza quanto lo sdoppiamento a consentire all’osservatore di familiarizzarsi con il torbido, conturbante riflesso d’una verità altra. Ed era appunto quell’insieme infantile a risultare inquietante, non già una sua parte, come aveva pensato fino ad allora, credendo ancora possibile un gesto di liberazione con cui separare l’inseparabile.

All’uscita, mentre inghiottiva avidamente cucchiaiate d’aria che gli sbloccarono i polmoni rattrappiti nel respiro spezzato, quasi un rantolo, mantenuto dinanzi al quadro, si disse resoluto che doveva liberarsi dell’ossessione visionaria che il dipinto di Van Gogh gli procurava. L’improvviso frastuono del traffico serotino e il brulicare dei passanti lungo il viale lo riportò alla realtà rassicurante di corpi e voci ignari di verità inconcepibili affidate a un dipinto del 1890. E guardando la gioiosa gincana di due bambini che si rincorrevano vocianti e spensierati sul marciapiede dribblando passanti distratti e richiami dei genitori, stabilì che l’indomani sarebbe rientrato in Italia. La sua permanenza a Parigi s’era prolungata più di quanto aveva inizialmente progettato, ed era giunto il momento di ripartire.

Con quella determinazione nell’animo salì i quattro piani della scala a chiocciola che lo conduceva allo studio di rue Monsieur Le Prince. E con quella idea in testa si cucinò l’abbondante cena di commiato, dando fondo al contenuto commestibile del frigorifero assieme a quello alcolico della bottiglia di Côte du Rhône acquistata la mattina. La sonnolenza dovuta ai bicchieri di troppo lo colse che aveva appena iniziato la lettura di Rayuela di Julio Cortázar, scovato la settimana scorsa in uno scaffale d’angolo della libreria spagnola sottocasa, e benché non fossero ancora le undici di sera, decise d’infilarsi il pigiama e di mettersi a letto.

Un gemito prolungato come un’insistente nenia infantile lo risvegliò di soprassalto. Spalancò gli occhi nell’oscurità frattalica della stanza e con terrore scorse il biancore spettrale d’una mano che lo fissava con ostilità (sì, erano quelli i termini giusti, o almeno i soli che riuscì a trovare per quella situazione assurda). Era una mano larga e pesante, da contadino, una mano adunca e spietata, da carnefice, una mano inesorabile, da incubo. Una mano priva di braccio, di spalla, di faccia contratta, di pupille fiammeggianti, di ghigni malefici, di gelidi sibili di condanna. Una mano che fulminea gli si lanciò alla gola come un insetto schifoso acquattato nella fetida pozza del delirio.

Tentando inutilmente di divincolarsi dalle grinfie d’un destino ineluttabile, mentre il rigurgito di suoni spezzati misti a saliva gli gorgogliava in gola, capì che quella mano ripugnante dotata di vita propria non era, non poteva essere la mano della prima bambina, ma doveva essere la mano del pittore, la mano di Vincent Van Gogh, quella stessa mano assassina che aveva premuto il grilletto del revolver dell’artista, e che adesso gli stringeva la gola con la forza sovrumana dell’ultima pennellata, obbedendo all’ingiunzione dalle ragioni imperscrutabili ricevuta dal dipinto. E nell’agonia del corpo scosso da sussulti sempre più deboli capì che era stata proprio quella mano dispari a fornire al pittore il modello per la mano della prima bambina. Allora la mano andò ai suoi occhi, richiudendoli [2].
























[1] La prima parte di questo racconto è stata pubblicata sul numero precedente di Carte Allineate.
[2] Come ben sa chi l'ha visto, nel quadro di Vincent Van Gogh Les deux fllettes, la mano della prima bambina non ha la postura descritta in questo racconto, ma potrebbe averla, se l'osservatore cedesse all'inganno ottico provocato dalle linee di drappeggio delle maniche delle due bambine.

19/10/18

Roberto Bugliani, SERRAGLIO ITALIA


[Urban landscape (La Spezia 2018). Foto Rb]



Roberto Bugliani, Serraglio Italia. Cosenza, Santelli, 2018


L'ultimo libro di racconti di Roberto Bugliani è al contempo sperimentale e realista, si occupa di temi sociali e presenta elementi di gioco letterario e intertestualità. Scorrevole e di impegno, fornisce un quadro di aspetti dell’Italia contemporanea e del mondo globalizzato. L’autoconsapevolezza dell’autore è elevata; ed è per questo che lasciamo a lui, nell’intervista sottostante, la parola per descrivere la propria poetica. L’autore ha inoltre consentito la pubblicazione su Carte Allineate di uno dei racconti di modalità fantastica, “La mano”. Restando nei limiti di numero di parole permesse a Carte, pubblichiamo una parte del racconto in questo numero, alla fine dell’intervista, e riserviamo la parte rimanente al prossimo numero

[Roberto Bertoni]      



INTERVISTA

1.

Dal punto di vista dell’autore, di cosa parla questo libro e perché l’ha scritto?

Il libro, Serraglio Italia, è la mia seconda raccolta di racconti. Si tratta di venti “pezzi” a tematiche varie, anche se gli argomenti affrontati nei singoli racconti hanno complessivamente a che fare con la condizione umana del tempo che ci è toccato vivere. Perciò a calcare la scena narrativa sono temi quali la precarietà del lavoro e la sua perdita, la globalizzazione, la strategia della tensione, l’emigrazione, il terrorismo, la cooperazione umanitaria, naturalmente colti da angolazioni particolari e, direi, sostanzialmente anomale, che rovesciano i punti di vista usuali. Ci sono poi tutta una serie di racconti legati alla quotidianità, in cui ho inteso rappresentare personaggi comuni colti in momenti particolari delle loro peripezie esistenziali, di natura talvolta tragica, talvolta comica. A complemento di tutto ciò ho posto racconti allegorici come La Volpe e il Gatto; Così parlò Paperino, oppure ambientati in luoghi lontani come la selva amazzonica di Puerto Misahuallí, o ancora che si “risolvono” nel surreale, una specie di horror soft, come in La mano. Infine c’è l’amore, l’amore nelle sue diverse forme e modi, ma in ogni caso si tratta d’amori tristi, sconfitti, perché, come scrisse tempo fa Denis de Rougemont, in letteratura l’amore felice non ha storia.

Ho scritto questo libro, che raccoglie racconti composti grosso modo negli ultimi quindici anni, perché ho voluto sperimentare le varie possibilità stilistiche e formali che offre la forma-racconto. E la misura breve propria del racconto mi ha costretto a misurarmi con la scrittura in modo ben diverso da quanto sono solito fare nei romanzi; insomma, qui ho fatto propria l’arte letteraria del “levare”, mentre nel romanzo ho sempre praticato quella dell’”aggiungere”.



2.

Alcuni racconti sono a sfondo sociale e altri più intrinsecamente intertestuali o letterari in senso stretto. Come si integrano queste dimensioni nella Sua poetica?

L’alternanza di testi che affrontano problematiche sociali con altri “intrinsecamente intertestuali” è dovuta alla mia indole, per dir così, che mi spinge a sperimentare le varie possibilità formali e stilistiche insite nel racconto. Ma oltre a questa alternanza, ho cercato anche di condensare in un unico testo queste due tendenze narrative. Faccio un esempio. Nel racconto Un bel cazzotto in testa parlo d’un anziano pensionato arrabbiato col mondo e ne descrivo una giornata, insieme banale e speciale perché sarà quella della sua morte, e alterno brani narrativi a brani di riflessione teorica di stampo saggistico sulla “scomparsa della fabbrica fordista”. Insomma, ho cercato di rappresentare, giocando anche sulla contrapposizione, l’irruzione della storia sociale, in questo caso raffigurata nella trasformazione tardo-novecentesca del modo di produzione e dell’organizzazione del lavoro, nelle vicende biografiche d’un soggetto qualsiasi, un pensionato che, come la fabbrica fordista, non fa più parte del ciclo produttivo. Anche nel romanzo che ho appena terminato compare questo doppio binario, per dir così, della narrazione, che da un lato porta avanti la trama nel modo convenzionale, e dall’altro opera una serie di digressioni che imprimono alla narrazione un moto a spirale, anche sul piano cronologico. Sarà perché sono ancora influenzato dalla lettura - tarda, avrei dovuto farla prima - del Tristram Shandy di Sterne, ma ritengo che la digressione sia il sale della letteratura.



3.

In Suoi testi precedenti, c’era un peso forse superiore dello sperimentalismo derivante dalla neoavanguardia. È quella un’esperienza ancora valida secondo Lei oggi?

La neoavanguardia e lo sperimentalismo in genere hanno marcato anche pesantemente le mie prime scritture, sia in poesia che in prosa. Poi, con i libri successivi, ho sviluppato una scrittura più “lineare”, ma tracce di sperimentalismo sono ancora evidenti nei miei testi.

Al netto di certe mie sperimentazioni, diciamo, gratuite, condotte all’insegna dell’entusiasmo più sfrenato per ogni testo che la neoavanguardia sfornava, direi che quell’esperienza per me è ancora valida e condiziona un certo aspetto, oggi secondario, del mio stile. Anche nella mia poesia la situazione è simile.

Voglio però aggiungere che, nell’odierno panorama editoriale, gli sperimentalismi sono divenuti rarissimi. I tempi sono cambiati, per dire con Palazzeschi, e oggi la “bella prosa”, ripulita da tracce e scorie sperimentali e immediatamente fruibile, è egemone. Ma la scrittura immediatamente fruibile, quella levigata, che fa a meno di mediazioni culturali e d’asperità semantiche, è anche immediatamente dimenticabile. Infatti molta letteratura contemporanea è del tutto priva di memorabilità.



4.

Cosa pensa del rapporto tra narrativa e realtà?

Nessun argomento letterario è stato più dibattuto di questo. A livello teorico il secolo scorso ha dato importantissimi contributi a questo proposito. Penso allo studio, per certi versi ancora centrale, di Erich Auerbach, Mimesis. So di essere banale, ma per me il nodo che ogni testo letterario si trova ogni volta a dover sciogliere (o a ingarbugliare, a suo piacimento) è il verosimile. È facendo i conti non già con la realtà bensì col verosimile che il romanziere riesce a scrivere qualcosa di credibile, anche se parla di società utopiche, di futuri distopici o quant’altro. La credibilità del testo, questo conta. E per un testo la credibilità è condizione indispensabile per poter catturare il lettore nella sua rete, sia essa realista o fantastica, per circuirlo, per affascinarlo, per farlo piangere o ridere, a seconda dei casi.



5. Chi è il Suo lettore ideale?

Un lettore inesistente, una sorta di alter ego della mia voce narrante, una persona non in carne e ossa ma di carta, o di byte per essere al passo coi tempi, che ha in sé l’esperienza formale e storica della letteratura che amo e con cui cerco di dialogare. Ma sono altresì consapevole che si scrive per lettori reali, lettori che lo scrittore non conosce a priori, e forse nemmeno a posteriori, per cui allo scrittore viene da immaginarseli, i suoi lettori, e magari da idealizzarli, cosicché il serpente si morde la coda e il ciclo ricomincia.




Roberto Bugliani, LA MANO (racconto, prima parte)

Fu soltanto quando si recò al Museo D’Orsay di Parigi per la seconda volta a rivedere Les deux fillettes dipinte da Vincent Van Gogh come s’era ripromesso subendo il fascino misterioso del quadro, che notò il particolare inquietante della mano. Quella mano, la mano sinistra della bambina in primo piano, in prospettiva la più vicina all’osservatore, stretta, meglio: avvinghiata, ecco, proprio così, avvinghiata alla mano della seconda bambina. Era una mano eccessiva, sbilanciata, all’apparenza del tutto fuori luogo se proprio quel dettaglio non conferisse al ritratto innocente di due bambine perfettamente simmetriche nell’abbigliamento e nelle fattezze, la cuffietta candida e immacolata sulla testa e il vestitino celeste da scolarette nella campagna vagamente olandese di Auvers-sur-Oise, il luogo che gli spettava nella geografia cavernosa dell’animo umano. Una mano ferocemente avida nella sua volontà d’impossessarsi della mano abbandonata in grembo della seconda bambina che soggiaceva alla sopraffazione dell’Altra, patendone il dominio. Da quella mano sinistra si diramava la crudeltà originaria che colmava lo sguardo da megera della prima bambina d’uno spaventevole epos. Da comune elemento raffigurativo, il dettaglio della mano s’era dilatato smisuratamente, fino a colonizzare del proprio senso estremo l’intero dipinto.

Nessun altro quadro del pittore fiammingo gli appariva parimenti terrificante. Il genio visionario di Van Gogh aveva trasformato un viso innocente nella quintessenza della malvagità, stravolgendo le rigorose leggi fisiche che organizzano l’ordine formale del mondo. E la mano era stata il grimaldello che aveva scardinato la porta blindata della coscienza, sospingendo lo sguardo dello spettatore sul baratro dell’abiezione e rendendolo partecipe della scelleratezza dell’oppressione allo stato puro. Questo anfitrione della percezione tardo-moderna aveva imprigionato sulla tela delle Deux fillettes la materialità dell’inconscio, precedendo d’almeno dieci anni i primi vagiti freudiani.

Quando era entrato la prima volta al Museo d’Orsay, l’ascesa all’Inferno era stata graduale. All’inizio aveva indugiato davanti all’Origine du monde di Courbet a inalarne gli effluvi umorali, quindi aveva voltato a destra e, scendendo i pochi gradini, s’era introdotto nella prima sala del pianterreno, bighellonando un po’ annoiato tra le tele di Daumier, Millet e Corot. Lì aveva assaporato oziosamente i toni ocra, rosa arancio e blu chiaro delle cuffie delle contadine prima di risolversi ad attraversare l’atrio gremito di statue senz’anima fredde più del loro marmo e infilarsi nella sala di fronte, dove venne prontamente respinto dalla languida retorica delle Veneri imperiali e dalla grazia stucchevole dello sciame immoto di fanciulle borghesi immortalate nel loro corredo di sete, crioline e mussole bianche.

Salendo al piano superiore, aveva gustato masticandoli piano i giochi di luce sulla cattedrale di Rouen di Claude Monet, poi aveva accennato a qualche passo di danza invitato dal ballo di Renoir non senza indugiare in cerca d’orientamento lungo le strade pissarriane di Ennery e di Voisins, mentre un soffio gelido gli aveva corso la schiena dinanzi al paesaggio innevato di Sisley. Infine aveva sbadigliato assieme alle stiratrici di Degas e s’era messo a interrogare la malinconia del viso della bevitrice d’assenzio accoccolata a fianco a loro. Infastidito dalla voce burbera del maestro della scuola di ballo, s’era provato a sbirciare senza successo tra le carte dei giocatori di Cézanne, quindi il chiacchiericcio insipiente dei bagnanti vicini lo aveva distratto, sospingendolo verso il severo cipiglio della donna con caffettiera. Ma non riuscendo a percepire alcun aroma di caffè, aveva seguitato col suo passo ciondolante da perdigiorno che lo condusse in una sala all’apparenza uguale alle altre.

All’improvviso il cuore si mise a battere celermente e il ritmo del suo andare curioso si scompigliò in una serie di passetti esitanti e disorientati, quasi non ritrovasse più la strada nell’infilata di sale spaziose e solari. Cercando di capire la ragione di quel brusco soprassalto dell’umore si guardò attorno e lo sguardo fu attratto dai gialli eccessivi di ritratti senza decorazioni né prospettiva prima di scivolare sull’inclinazione impossibile d’una camera sconsolatamente semplice e di scoprirsi avvolto come in una ragnatela dal blu intenso del cielo appiattito che gravava col suo peso eterno sull’edificio violetto della chiesa d’Auvers. Così, a quarant’anni suonati, si trovò, senza altra mediazione che uno stupore idiota, faccia a faccia con Van Gogh.

La tavola a cui il suo sguardo da naufrago s’aggrappò per non venire inghiottito dai flutti burrascosi di linee e colori, fu ancora più funesta che se non si fosse abbandonato inerme a quel mare ringhioso. E a confronto colle Deux Fillettes discoste e silenti in un angolo della sala non c’era Renoir, non c’era Gauguin, non c’era Monet, non c’era Degas, non c’era Manet, non c’era Pissarro che ne valessero una pennellata. Tutti i maestri del secondo Ottocento s’erano mummificati, larve rinsecchite, sotto il sole allo zenit dell’entelechia Van Gogh.

Dinanzi a quel capolavoro della pittura universale sostò impietrito a gambe larghe a sostenere le ondate di dolore e di perfidia che si fransero sul suo petto oppresso con un fragore che solo lui udiva, e la nozione del tempo si smarrì in un labirinto di squilibri immobili. Non poté dire quanti minuti, quante ore o quanti giorni trascorse ipnotizzato davanti al quadro, né in quale avatar lo trascinasse la corrente impetuosa di sconcerti e turbamenti. Soltanto quando un giapponese corpulento e sbadato lo urtò facendogli quasi perdere l’equilibrio si riscosse dal suo vaneggiamento. Accolse le scuse di quello con una faccia da sonnambulo cronico e uno sguardo assente che provocarono un sorriso di perplessità nel turista giapponese.

Infilando un passo da ubriaco dopo l’altro, con le gambe ancora impastoiate nel groviglio materico dell’immagine mostruosa, riuscì finalmente ad allontanarsi dalla sala e a guadagnare a fatica l’uscita senza che il suo sguardo smarrito cercasse orientamento o protezione in altri quadri.

Le allucinazioni e le crisi che avevano segnato nel profondo la vita del pittore s’erano materializzate sulla tela delle Deux fillettes, concentrandosi sul viso della prima bambina. Ma nella tela c’era molto di più della rappresentazione d’un delirio. Proprio lavorando su un soggetto modesto e ordinario l’artista aveva conseguito la percezione assoluta dell’animo umano: empietà, efferatezza, crudeltà, l’intera panoplia dei sentimenti malvagi, delle passioni perverse, dei peccati più inconfessabili v’era racchiusa, e la mano aggallava dalla tela come una condanna implacabile che lo risucchiava nel vortice della dissipazione entropica, mandando in frantumi l’ordine chiuso delle azioni e dei giorni che regolava la vita degli uomini.



[Continua sul prossimo numero di Carte Allineate]




07/09/09

Corrado Prestianni, QUATTRO PEZZI FACILI

1.

(“[...] scheggia di luce che ritorna nella notte”). L.F. Cèline

Si vien qui su dal buio
già con l'amo in gola
si crede un vasto mare
di libertà e mistero
da navigare insieme

poi un brusco strappo
a caso della lenza
e sei a boccheggiare
sul bordo di una vasca
ancora verso il niente


2.

DIONISO INVIDIOSO

siamo stati amati
dalla divina voglia
di sbranare il mondo
poi d'improvviso folle
suicida sugli scogli
di piccoli dettagli


3.

RADICE DI DUE

Siamo quozienti impuri
mai a resto zero
ci sta sempre accanto
un decimale d'ombra
un rimasuglio oscuro
di vizio originale


4.

LIGHT SIDE

Giorni che se ne vanno
con il fruscìo sottile
di pagine girate
da un libro molto amato

(Sebastopoli, notte)


[Poesie tratte da NOTTURNO IN NO MAGGIORE e pubblicate in precedenza su DALLA PARTE DEL TORTO]



DUE DOMANDE ALL’AUTORE

1.

Che rapporto vede tra metafora e descrizione?

La metafora è un trasportarsi semantico oltre il reale ma che di questo offre una più ampia e significativa visione, ancor più pregnante e immediata, a volte scioccante. Più i termini sono lontani (ma non estranei al circuito, pur molto ampio, del senso, altrimenti la metafora è arbitraria e incomprensibile, quindi priva di effetto cognitivo ed evocativo) e più è efficace e spiazzante.

A mio modesto avviso, non esiste poesia (e non solo) senza metafora. L'immagine che ne scaturisce è una sintesi poetica mirabile. E credo che la sintesi sia una caratteristica indispensabile della poesia.

Non amo assolutamente la descrizione sia in poesia che in prosa. Oggi cinema,video,tv sono miglior sostitutivi di qualsiasi descrizione (con rare eccezioni). Da una parte, la ritengo un retaggio di quando nessuno aveva mai visto la jungla, la Cina, l'Alaska, il deserto, tipologie umane, oggetti ed usanze esotici, macchinari nuovi... Diventava quindi indispensabile descrivere al lettore il contesto e le cose in cui la storia, il romanzo si svolgeva. Oggi tutti hanno visto tutto, de visu o attraverso i media, quindi la ritengo inutile. Ripenso, ad esempio, a certe pagine descrittive dostojevskiane che appesantiscono i suoi pur mirabili romanzi,ma a quei tempi necessarie per far conoscere luoghi,usi,costumi... sconosciuti al maggior parte dei lettori. Dall'altra, il tipo di vita, di società, di cultura del nostro tempo, credo abbisogni di una tecnica di scrittura lontana da stilemi descrittivi. Con la poesia poi, sempre a mio vedere, ritengo non ci sia nessun rapporto dato che la poesia più che descrivere deve lasciar intuire.

Anche il metro che mi è naturale è spesso il settenario libero, verso non certo atto ad una descrizione. Si può dire che penso in tale metro sintetico, peraltro poco usato. Non leggerei mai una poesia descrittiva, come vedo che oggi molti fanno. Ma ripeto, è un'opinione molto personale.


2.

Lingua semplice e concetto aperto nella sua poesia?

Lei ha visto giusto. Io cerco di adoperare programmaticamente una lingua il più possibile semplice, la più scarna possibile, con espressioni anche gergali, ma sintetiche (non ermetiche), della lingua viva.

Penso che i termini, le espressioni della lingua più comune e quotidiana, assemblati in un certo modo fuori del contesto abituale, possano esprimere, suscitare una visione poetica altrettanto evocativa di una lingua terminologicamente sofisticata.

Un esempio: in una mia poesia, questa frase: "mi piace essere nato uno da spariglio".

Ovviamente questa operazione, rivalutare poeticamente la lingua ed il lessico "più triti" ed usurati, non sempre riesce.


[Intervista a cura di Roberto Bertoni]

11/07/09

Marina Pizzi. TESTI 1-5 DA IL SONNO DELLA RUGGINE (2009)

1.

la giacca della rupe l’ho messa
accanto alla culla. così si capirà
che non è nascita essere bambini
i ragazzini con le caviglie esangui
le lunghe nuche senza fidanza.
in palio non c’è niente se non vedetta
di vendetta guardarci dritti negli occhi.
un compagno di asilo è stato ammesso
a fischiettare con le rondini. questo il
buono che si staglia tutto fecondo e dotto.
una minaccia di pioggia fa da tara
all’abaco che non conta che sfila
il pallottoliere dentro il pozzo.


2.

in merito alla girandola furbetta
resta la nube imbrattata di sangue.
qui le sanguisughe sono condominiali
i panni stesi non nascondono amori.
i dondolii di cuori reciproci
gemellano i cipressi ben futuri
al prossimo adesso, adesso.
qui sfinito il mosto senza nettare
condanna la fuga fradicia di muschio.
devo restare per un diverbio netto
con le ciliegie spinose sotto la rena
e fingono languori le formiche
operaie. tu in gola al nome
mi chiami febbre tanto per
innamorarmi. ma è tardissimo
il movimento di ancorare i gabbiani.


3.

così cominciò l’estate della frutta
bacanti scrosci di pioggia
rovinarono le polpe.
in autunno arrivò la sciabola del vento
il triste evento di ridacchiare pazzi
una resistenza di teatro di platea.
nessuna voglia di pianto ma la furia
dell’ennesimo giorno la pessima marea
sul sudario del certo. e mi convinse
la viandanza di non tornare
sulla resina del dubbio. andai balorda
dove precipitano i sassi e la pepita
d’oro e con un calcio non la volli.
veggente a tavola vidi le marette
di famigliole morte. tutto un esito
di tagliola e niente più.


4.

resta un nugolo di spaesamenti
il segno, più, croce infissa
dentro l’iride più colorita.
il tempo ruota la ruota dell’infelice
lince cieca. la nuca fa già da cella
alla bellezza dell’esule. le scarpe
sono in palio all’atleta più veloce.
non c’è accetta che possa svergognare
la luce. qui ti sopporti perche sei
un anello in via di ruggini e cipressi.
pensa a piangere di te la norma
dell’addio. la resina votiva che
non ti darà niente e nessuno.
sorridi pazzo e forse sarai salvo
dalle liane della giungla velenose.


5.

in meno di una deriva ho fatto conto
di morire. in mare un abisso che bestemmia
le piscine. le sciabole erette non fanno
paura ai canali. le bollette della luce
non hanno dato illuminazioni. nei cimiteri
monumentali le erbacce fanno brecciame
di vita. in tutto il colonnato dell’entrata
ci sono bambini che giocano a nascondino.
in ogni gingillo di ricordo
la mensola si ritira a dire
vattene da solo che ti verrò appresso.


6.

qui da me innumeri compagni
che tramandano le dacie di poeti
per panchine di endecasillabi dove lo strazio
un’ecumene di sabbia e di polvere.
le giurie di passeri pungenti
inventano le genti compassionevoli
di una briciola soltanto.
invece non basta una ciotola stracolma
a partorire una statua veritiera
una bella femmina come sul dirsi
senza mai darsi a verità conclusa.



DOMANDE ALL’AUTRICE


Il tuo tessuto lessicale è molto denso e associativo. Che rapporto c'è nella tua poetica tra musicalità e significato?

un rapporto molto stretto. spesso la musicalità suggerisce il significato, nuovo, inedito. il significante si fa genesi del significato. ua sordina che mi entra in mente consistente e tenace, un ritornello ossessivo.


In che modo la tua tematica presuppone uno scandaglio di tipo psicoanalitico?

i versi sono la mia psicoanalisi. mi riaffiorano la vita, la denunciano, la placano, la contaminano con attacchi sferzanti. una terapia vitale e vitalistica, un farmaco con il veleno e l’antidoto insieme. mi curo verbalmente per non scoppiare di crepacuore.


La poesia, a tuo parere, è metafora del mondo?

tutta l’arte è metafora del mondo, cruda realtà rappresentata e rappresentabile. il mondo si fa piccolo e immenso contemporaneamente. il rischio di perdere il gusto della vita si fa particolare, sibillino. la meraviglia del segno genera eclissi e aurore, nerezza e lucore.


La poesia, secondo te, è allegoria dei destini individuali?

sì, ha rapito tutta la mia vita e, alle volte, me ne sento addirittura tradita.


Quali sono i tuoi autori preferiti?

Celan, Cioran, i poeti di ricerca linguistica, i marginali, gli sconfitti, i suicidi, i diaristi, i mistici.


[L'intervista è a cura di Roberto Bertoni. Il minuscolo dopo il punto fermo, nelle risposte, per preferenza dell'autrice]