Visualizzazione post con etichetta Note di lettura (Saggistica - Varie religioni). Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Note di lettura (Saggistica - Varie religioni). Mostra tutti i post

09/02/16

Nils Bubandt e Marijn van Beek, VARIETIES OF SECULARISM IN ASIA AND IN THEORY

[The secular and the religious side by side (Bugis, 2016). Foto Rb]



Pp. 1-27 of Nils Bubandt e Marijn van Beek, Varieties of Secularism in Asia: Anthropological Explorations of Religion, Politics and the Spiritual, Abingdon (UK) and New York, Routledge, 2012


Gli autori di questo saggio mettono in rilievo il fatto che la secolarizzazione non coincide con la scomparsa della spiritualità e della religiosità; e studiano il fenomeno, già notato nei confronti dell’Occidente, applicandolo all’Asia.

Sostengono che, sebbene la modernizzazione sia avvenuta, aspetti di spiritualismo sono ancora evidenti in vari campi, tra cui la politica.

Portano l’esempio del tempietto per gli spiriti costruito al momento della costruzione dell’aeroporto di Bangkok per pacificare le creature dell’oltreterra, cioè una pratica spiritualista nell’allegoria per eccellenza della modernità, l’aeroporto, che tra parentesi è uno dei più ben organizzati, tecnologici ed efficienti del mondo.

La narrativa della secolarizzazione, o, come la definiscono gli autori del saggio, “a clearly recognisable global master narrative”, è divenuta “increasingly hegemonic in recent decades” (p. 11). E avanzano l’idea che “the claim that the world is in the midst of a global clash between secularism and religion has become generally accepted” (p. 12) alla luce dei conflitti successivi all’11 settembre.

Ritengono infine che in Asia “secularism would not be imaginable without the nation” (p. 13).


[Roberto Bertoni]

09/12/13

Ulrich Beck, IL DIO PERSONALE

[How many behind the door of that Church? (S. Lorenzo, Genoa). Foto Rb]


Ulrich Beck, Il dio personale, Sottotitolo: La nascita della religiosità secolare. 2008. Traduzione di S. Franchini, Roma-Bari, Laterza, 2013. Edizione digitale per Kindle.


La costruzione di una religiosità collegata solo in parte alle concezioni tradizionali e derivata invece da una personalizzazione, o meglio individualizzazione, del concetto di Dio e delle pratiche cultuali si attua nell’ambito della globalizzazione con il suo eclettismo forse inevitabile e la miscela di elementi provenienti da varie culture.

In parte queste strategie di gestione del bisogni di spiritualità sono da ricollegarsi ai fenomeni New Age, che rappresentano uninterazione “tra Dio e idoli”, tanto che non si fa più differenza tra l'uno e gli altri; e si spingono fino al “mercato” in cui “il Dio personale si possa acquistare”.

Se il disincanto del mondo, stando a Weber, consegue alla Riforma e ha costituito una componente della prima modernità, si assiste nella fase attuale al “collasso delle teorie della secolarizzazione” nei casi in cui c’è stato un ritorno delle religioni. In Europa, tuttavia, la resipiscenza religiosa si tinge di soggettività, in breve stranamente gli aspetti secolarizzati convivono con quelli spirituali sotto l’egida dell’individualismo.

Il Cristianesimo non muore ma subisce, in Europa, una flessione verso l’interiorità e la personalizzazione, mentre i luoghi di culto collettivi, le chiese, si svuotano. Si ha un paradosso di non frequentazione della Casa di Dio, ma un “reincanto del pensiero e dell’agire umani”; e mentre s’indeboliscono le organizzazioni religiose, si rafforza una “religiosità fluida”.

Frattanto, anche guardando ad altre religioni e in varie parti del mondo, il cosmopolitismo religioso pare essere caratterizzato da un generale rientro nell’ortodossia conservatrice, così per esempio, a parere di Beck, nei casi dell’Induismo e del Buddhismo.

Si determinano “nuove forme di coesistenza e di conflitto delle religioni universali entro la “costellazione cosmopolitica”, ovvero si profila “l’elemento storicamente nuovo della conditio humana religiosa all’inizio del XXI secolo”: cioè si hanno “il contatto e la compenetrazione tra religioni universali e nuovi movimenti religiosi”, tanto con trasmissione di pratiche (per esempio la meditazione orientale tra alcuni cristiani occidentali), quanto con creazione di dinamiche transnazionali. Esempio di tutto ciò potrebbe essere l’adozione, non rara oggi, del “modello Ghandi” o del “modello Martin Luther King”.

Al contempo si assumono modelli secolari, religiosizzandoli. Un esempio di questo atteggiamento potrebbe essere, secondo Beck, Amnesty International.

Quanto sta accadendo in campo religioso è dovuto ai tratti della seconda modernità: “l’intreccio di uomini e popolazioni in tutto il globo; le crescenti disuguaglianze nello spazio globale; la formazione di nuove organizzazione sovranazionali”, ecc. “In presenza di confini che diventano sempre più permeabili, e che dunque non sono più tali, si pronuncia la parola magica dell’esistenza cosmopolitica” con conseguente modificazione “del rapporto con Dio, col mondo e con se stessi”, fino a tradursi, in determinati casi, in conflitto tra fondamentalismi.

“Si possono distinguere tre forme di adeguamento religioso alla modernità: a) quella anti-moderna, b) quella post-moderna (che rompe tra gerarchie del sapere scientifico e della religiosità), c) quella deutero-moderna”, la quale ultima nega “sia il relativismo assolutistico post-moderno, sia la privatizzazione della religione”, aderendo allo “spirito cosmopolita” di cui sopra.


[Roberto Bertoni]





17/11/12

Paul R. Fleischman, KARMA E CAOS




 [Buddhist statues in Hong Kong. Foto Rb]



Paul R. Fleischman, Karma e caos. Perché meditare. Ed. originale in lingua inglese 1986, 1994, 1999. Traduzione di Maria Caterina Cravignani. Roma, Astrolabio – Ubaldini 2001 (ristampa 2011).


Il volume contiene una serie di scritti dell’autore psichiatra, discepolo di S.N. Goenka, sulla meditazione vipassana.

Pur insistendo sulla necessità della trasmissione orale e tramite i corsi, veri o propri ritiri della durata di dieci giorni, organizzati in varie parti del mondo, compresa l’Italia, Fleischman spiega il rilievo di questa tecnica buddhista della tradizione originaria, nell’accezione birmana, sia di per sé che dal punto di vista psicologico.

Vipassana significa ‘visione profonda’, vedere le cose come realmente sono” (p. 73). Questa modalità di meditazione “non è una religione, non richiede conversione ed è aperta ai praticanti di qualsiasi fede, nazionalità, razza e cultura” (p. 74). Si fonda sull’“interdipendenza [...] tra corpo e mente” (p. 75). La meditazione va intesa come impegno di vita e quotidiano, comprende i principi buddhisti, ma si attua a partire dalla considerazione del corpo e si estende alle aree esistenziali e della psiche profonda.

Si propone effetti terapeutici benefici per l’“integrazione del passato” (p. 57), l’acquisizione di responsabilità etica, la “risoluzione dei conflitti” (p. 61), il superamento delle paure radicate nell’essere, la consapevolezza di anicca, ovvero l’impermanenza, da cui la “diminuzione del narcisismo” e lo sviluppo di qualità umane come la generosità e l’altruismo.

L’aspetto terapeutico è tuttavia solo uno dei fattori. La meditazione vipassana “differisce” infatti “dalla psicoterapia per la sua base di specifici valori etici e perché propone un percorso che porta alla trascendenza” (p. 79).

Uno dei presupposti è: “io non soffro in conseguenza di quanto mi è accaduto, ma perché sono incapace di staccarmi dalle reazioni a quegli eventi che si sono prodotte all’interno della mia mente e del mio corpo” (p. 79).

Nel dialogo interiore sulle problematiche quotidiane il meditante apprende a scegliere la “ragionevolezza” (p. 90), elemento anch’esso terapeutico.


[Roberto Bertoni]

29/12/11

Radmila Moacanin, C.G. JUNG ET LA SAGESSE TIBÉTAINE


[Bongeunsa, Seul, 2011. Foto Rb]


Radmila Moacanin, C.G. JUNG ET LA SAGESSE TIBÉTAINE. Ed. originale 1986. Traduzione dall’inglese di D.-L. Verne e N. Vallée. Gordes, Éditions du Relié, 2001.

Sebbene vengano indicate nella prefazione necessità di stabilire tanto le somiglianze quanto le differenze tra la psicoanalisi junghiana e il Buddhismo, il testo insiste più sulle prime che le seconde.

In aggiunta all’interesse esplicito manifestato da Jung per le religioni orientali e alle sue prefazioni a varie opere di ispirazione buddhista, il processo medesimo di individuazione costituisce un terreno di comparazione col Buddhismo in quanto trasformazione verso il conseguimento di una totalità psichica ed etica.

Da parte di Jung si nota l’utilizzo di specifici elementi simbolici, più eclatante di altri forse i mandala.

Tanto l’analisi junghiana quanto la meditazione buddhista innescano meccanismi introspettivi di autoconoscenza che conducono in direzione di una rinascita simbolica.

Ulteriori elementi di compatibilità le visualizzazioni del buddhismo tantrico, tra cui l’utilizzo delle immagini delle divinità come corrispettivi delle emozioni e dell’interiorità, somiglianti alle produzioni simboliche, oniriche e della veglia, nell’opera di Jung.


[Rb]

19/06/11

RELIGION AND SOCIETY IN CONTEMPORARY KOREA, a cura di Richard K. Payne e Karen M. Andrews


[Shamanic totems (Seoul 2010). Foto di Marzia Poerio]

RELIGION AND SOCIETY IN CONTEMPORARY KOREA, a cura di Richard K. Payne e Karen M. Andrews, Berkeley, Institute of East Asian Studies, University of California, 1997

Tra i molti e tutti interessanti capitoli di questo volume, che fa il punto sulla situazione di pluralismo religioso della Corea, soprattutto sulle religioni cristiana, buddhista e confuciana che, come osserva Yoon Yee-heum nel suo contributo, THE CONTEMPORARY RELIGIOUS SITUATION IN KOREA, sono diffuse tutte e tre e nessuna pare prevalere (p. 1), se ne scelgono qui tre, per brevità necessaria di questo post e per curiosità più personale che per motivazioni di altro tipo: Choi Chungmò, HEGEMONY AND SHAMANISM: THE STATE, THE ELITE, AND SHAMANS IN CONTEMPORARY KOREA; John Duncan, CONFUCIAN SOCIAL VALUES IN CONTEMPORARY SOUTH KOREA; e Shim Jae-ryong, BUDDHIST RESPONSES TO THE MODERN TRANSFORMATION OF SOCIETY IN KOREA.

L’analisi dello sciamanesimo di Choi si prospetta particolarmente stimolante per un lettore italiano, dato l’utilizzo di categorie gramsciane. Riscontrando l’esistenza di pratiche sciamaniche come componente religiosa perdurante nella modernità, ma esistente in Corea fin dalla preistoria, viene evidenziato l’uso ideologico dello sciamanesimo da parte delle giunte militari del periodo della dittatura successiva al 1961, intese a dominare tramite il consenso, gramscianamente.

Un aspetto dell’egemonia, fondato su quello che Geerz indica come importante sentimento di simbolizzazione dell’elemento primordiale nelle società in corso di modernizzazione, è stato in Corea proprio lo sciamanesimo, inteso come un aspetto delle proprietà culturali, o immateriali, della nazione, sancite da una legge del 1962 e usate come una maniera di rivolgersi alle classi popolari, soprattutto a quelle rurali ed ottenerne il sostegno rivitalizzandone le tradizioni.

Nondimeno, nei confronti dello sciamanesimo gli atteggiamenti dello stato durante la dittatura variarono e furono caratterizzati anche da contraddizioni, in quanto venivano soppresse le pratiche superstiziose mentre si incoraggiavano le ascendenze culturali:

“Under these circumstances, shamans in Korea faced two opposing forces: the government's promotion of shamanic rituals as Important Intangible Cultural Properties and, simultaneously, the suppression of shamanic healing practices. While some shamans were honored as Human Cultural Treasures and became superstar shaman artists, the lesser-known neighborhood shamans were frequently harassed by the police” (pp. 26-27).

Si ha così, secondo Choi, la trasformazione della tradizione sciamanica, con distruzione del suo significato originario e la sua ristrutturazione mercificata e modernizzata.

A partire dagli anni Ottanta, invece, dello sciamanesimo si riappropriarono i gruppi progressisti e utopisti. Un esempio di questa neo-tradizione è il “madang-guk”, una forma di teatro di protesta che congiunge i rituali sciamanici col teatro popolare. La figura dello sciamano viene a rappresentare un tramite tra il popolo e l’aspirazione al cambiamento:

“Revolutionaries employ shamanism as a cultural frame for their reform movement. The shaman's lowly social status is compared with that of oppressed people. The shaman, however, has overcome the physical and spiritual trauma caused by spirit possession and social segregation. Through this very suffering, a shaman has developed sympathy and insights into the lives of oppressed people. Furthermore, a shaman brings the problems of individuals to the attention of community members. During rituals, shamans mediate and eliminate the distance between humans and gods and between individuals and their alienated neighbors. In the revolutionary mind, the shaman is at once a symbol of oppressed people and a savior” (p. 34).

Quanto al capitolo di Duncan, si misura col confucianesimo, uno dei sistemi ideologici che più hanno influito sulla Corea contemporanea e che viene costantemente citato per spiegare, non solo in Corea, ma anche in altri paesi orientali, soprattutto in Cina, alcuni aspetti dello sviluppo. Duncan nota l’interesse confuciano per l’istruzione, il trasferimento di tale valore dall’aristocrazia coreana preindustriale sulle classi medie sudcoreane dello sviluppo, con applicazione all’apprendimento di nuove tecnologie occidentali, ma non solo. Al contempo parevano sopravvivere, ancora negli anni Novanta, i valori confuciani dei rapporti familiari e della dedizione filiale, come pure la lealtà e la dedizione al lavoro.

Si assisteva al contempo a una trasformazione del confucianesimo in modo tale che potesse adattarsi alla modernizzazione:

“The personal virtues of sincerity (sŏngŭi), humility (kyŏmson), frugality (kŏmso), and self-restraint (chaje) are still upheld by some individuals, but these values are better suited to the rural scholar than to the urban businessman, and they, too, seem to be increasingly ignored as South Korean society heads down the path of commercialization and conspicuous consumption. These trends seem to suggest that as a general rule Confucian values have survived where they have been compatible with the needs of modernization and have declined where they are not” (p. 50).

Non potevano più sussistere determinati valori in una società in cui si sono modificati aspetti intrinseci di portata ideologicamente ampia come l’emancipazione femminile ed estrinseci quali il codice di vestiario. Nondimeno, l’autore di questo capitolo nota la sopravvivenza dell’etica sociale e familiare confuciana negli anni Novanta e la ascrive vuoi allo scarto culturale, per cui certi elementi si evolvono tramite sradicamento e altri tramite adattamento, vuoi al rapporto tra stato e confucianesimo, al fatto cioè che l’ottica confuciana, soprattutto il senso della gerarchia, venne utilizzata come strumento politico non troppo difforme dalla “long tradition of official inculcation of Confucian values for political purposes” della Corea anche premoderna (p. 53).

Infine il capitolo di Shim sul budddhismo nella modernità dimostra come anche in Corea questa religione si sia rivelata flessibile, capace di adattamenti, manifestandosi come categoria di valori pratiche appartenenti a una mentalità riemergente sotto forma di altruismo e di Buddhismo della liberazione (minjung pulgyo), diffusa anche, sull’onda dell’influsso del Cristianesimo e del liberalismo politico, tra i ceti intellettuali:

“Educated intellectuals and radical activists see that society is undergoing large-scale industrialization. They are trying to revive the Buddhist consciousness, which aims to eradicate human suffering. Partly motivated by competition with Christianity, which follows Latin American liberation theology, and partly energized by the traditional Mahāyāna bodhisattva spirit of helping and saving all beings, there has arisen among the educated class a renewed interest in Buddhist philosophy and Sŏn meditation” (pp. 82-83).

Secondo Yoon, al momento in cui questo volume fu scritto, negli anni Novanta, “Confucianism remains the most pervasive of the traditions, but we can hardly say that it represents contemporary Korean culture. The nation is at the moment caught in a chaos of conflicting values. This chaos has occurred in the process of Western culture, including Christianity, being transplanted into Korea. The situation is made more intense by the decline of the Confucian worldview” (p. 14).

[Aurelio Devanagari]

09/04/11

Giampiero Comolli, I PELLEGRINI DELL'ASSOLUTO


[Chinese miniature temple. (From the windows of Brussels). Foto di Marzia Poerio]

Giampiero Comolli, I PELLEGRINI DELL'ASSOLUTO. STORIE DI FEDE E SPIRITUALITÁ TRA ORIENTE E OCCIDENTE. Milano, Baldini&Castoldi, 2002

Suddiviso in tre parti e organizzato tra il 1999 e il 2001, questo libro si proponeva inizialmente di indagare le ragioni della conversione di persone incontrate dall'autore durante viaggi in Oriente, poi ha assunto una forma più coesa con la trasformazione degli appunti presi durante le conversazioni con vari interlocutori (contenute nella seconda parte del volume) in interviste vere e proprie che occupano la terza parte del libro prima dell'11 settembre, mentre la prima parte è relativa a interviste svolte in concomitanza o dopo quella data epocale.

L'autore si propone da un lato come voce saggistica non giudicante, dal che risulta un panorama pluralista di decisioni e interpretazioni sia del perché delle conversioni, sia del fenomeno religioso contemporaneo che da parte sua ascrive al fatto che "ci troviamo a vivere in un mondo sempre più multireligioso. Non solo nel senso che religioni diverse tendono a convivere fianco a fianco, all'interno di un medesimo spazio sociale. Ma soprattutto nel senso che si vanno facendo progressivamente più labili e incerti i confini teologici, culturali e sociali che tradizionalmente separavano le une dalle altre le diverse religioni e i loro rispettivi membri" (p. 288). Ciò rende più facile il passaggio da una religione a un'altra. Nel complesso, a parere di Comolli, la presenza della neoreligiosità "si rivela come una 'riserva di senso' utilizzabile da tutta la società" (p. 289).

Dall'altro lato, è lo stesso Comolli a dar conto della trasformazione dell'intervistatore in io narrante non necessariamente coincidente con lo scrittore biografico.

Leggibile con fluidità, I PELLEGRINI DELL'ASSOLUTO presenta una serie variegata di esperienze: dalla conversione di cattolici a diverse confessioni cristiane, alle conversioni di atei al buddhismo, all'esposizioni di persone dedite all’ateismo medesimo e così di seguito.

Le motivazioni e le riflessioni variano. Da chi ritiene che il Buddhismo sia un "movimento politico efficace" (p. 32) in quanto la meditazione individuale diffonde pace e compassione "a tutto il cosmo" (p. 33), a chi dalla militanza di sinistra degli anni Settanta si è spostato sulla meditazione per necessità di risolvere drammi personali e per ricerca di autenticità.

Per quanto riguarda in particolare la scelta di religioni orientali (il Buddhismo, il taoismo, l'induismo), una delle spiegazione è che "l'ideale, tipicamente occidentale, della tensione verso un avvenire sempre migliore si fonde [...] in modo sincretistico con la concezione orientale del tempo come ciclo ininterrotto di morti e di rinascite. Sarebbe quindi la crisi di progettualità, che investe oggi la nostra cultura, a favorire questa particolare tendenza alla reincarnazione, dove il senso di un progetto viene in qualche modo recuperato" (p. 171) e a spiegare perché, per esempio, circa il 20% degli europei (e il 4% degli italiani) ci creda.

[Aurelio Devanagari]

03/01/11

Raffaele Torella, PASSIONI ED EMOZIONI NELLE TRADIZIONI FILOSOFICO-RELIGIOSE DELL’INDIA PREMODERNA


[Tempio buddhista (Seoul 2010). Foto di Marzia Poerio]

“Rivista degli studi orientali”, LXXX.1-4, 2007, pp. 11-20

Si tratta dell’articolo di apertura di questo fascicolo che raccoglie gli ATTI DEL CONVEGNO “PASSIONI ED EMOZIONI IN INDIA E IN TIBET” (Roma, 2007).

Torella nota che l’India non ha mai concepito una scienza simile alla psicologia occidentale, nonostante l’esistenza di una tradizione di introspezione. Nei testi filosofico-religiosi di ascendenza brahmanica c’è una “forte integrazione […] fisica, emotivo-psichica e intellettuale dell’individuo” (p. 12), che comprende anche il mondo vegetale e animale. “L’universo materiale, emozionale e psichico viene a esistere […] solo perché l’anima possa riconoscersene estranea e isolarsi nella propria autoidentità” (p. 13).

In vari sistemi di pensiero e di comportamento, come per esempio nella scuola jaina e in quella buddhista, si “imbocca l’opzione che potremmo definire, un po’ all’ingrosso, ‘ascetica’” (p. 13), orientata attorno ai concetti di “attaccamento” e di “desiderio”, da cui occorre “liberarsi per salire verso l’atman o il nirvana” (p. 15).

Si distingue semmai una parte del tantrismo per cui le passioni e le emozioni “sono da coltivare, infine da far esplodere e dilagare al fine ultimo di creare contatto col magma nella universale Coscienza/Energia. La liberazione non avrà luogo […] a dispetto delle umane passioni ma precisamente in virtù di esse” (p. 20).

Sembra in definitiva che le soluzioni del rapporto con le passioni e le emozioni passino attraverso strade opposte: quella della psicoanalisi con la sua appendice contemporanea di espressione anche conscia e aperta, che si fa poi sempre più espressa nella società contemporanea occidentale sempre più disposta verso l’estroversione fino alla sua esagerazione narcisista e iperindividualistica; e quella dell’introspezione orientale, che non reprime le passioni, ma le studia, le contempla, le lascia scorrere senza afferrarne le negatività di fronte alla coscienza fino a quando questa, idealmente, possa esserne libera. La conoscenza delle passioni e delle emozioni, specie quelle afflittive, è difficile e implica percorsi lunghi; il dominio sulle passioni e le emozioni fino al conseguimento della serenità è ancor più complesso.

[Aurelio Devanagari]

07/12/10

Lieh-tzu, IL VERO LIBRO DELLA SUBLIME VIRTÙ, DEL CAVO E DEL VUOTO




[That symbol of harmony was written there. Foto di Marzia Poerio]


Lieh-tzu, IL VERO LIBRO DELLA SUBLIME VIRTÙ, DEL CAVO E DEL VUOTO. Edizione italiana a cura di F. Tomassini, Torino, Utet, 1977 (Tea 1988)

Scritto probabilmente tra il quinto e il quarto secolo a.C. Cito solo qualche frase, mi sembrerebbe di turbare la complessità e chiarezza del testo inserendo un commento.

- "Chi nel suo interno ha le cose facili non le trova difficili all'esterno" [IV, 56, p. 63].

- "A chi nulla trattiene in sé, la ragione delle cose appare chiara. Egli si muove come l'acqua, sta quieto come uno specchio, risponde come un'eco. Perciò la sua Via (tao) è di conformarsi alle creature. [...] [Al Tao] si perviene solo nel silenzio e vi perviene solo chi lo perfeziona nella propria natura. Sapere e obliare le passioni, essere capace di non agire, è la vera sapienza e la vera capacità" [IV, 59, pp. 66-67].

- "Tra le secche del Kiang nascono dei minuscoli insetti, chiamati chiao-ming, che volando a nugoli si raccolgono sui peli della ciglia d'una zanzara senza urtarsi: la zanzara nemmeno s'accorge del loro appollaiarsi e del loro andirivieni. Li Chu e Tzu-yu li guardarono in pieno giorno, strofinandosi l'angolo degli occhi e scostando le ciglia, ma non ne videro la forma. Chih Yü e il maestro K'uan li ascoltarono in piena notte, nettandosi le orecchie e chinando il capo, ma non ne udirono il ronzio. Soltanto Huang Ti e Yung Ch'eng-tzu, quando dimorarono sui monti K'ung-tung e parimenti digiunarono per tre mesi, a cuore morto e forma inerte, con la visione dello spirito li videro subito massicci come le coste del monte Sung, con l'ascolto dell'energia vitale li udirono subito assordanti come il rombo d'un tuono" [V, 60, pp. 71-72].

- "L'equilibrio, che è il supremo principio del mondo, è tale anche nei riguardi delle cose e delle creature. A capello equilibrato cose appese equilibrate: leggere o pesanti che siano, se il capello si spezza è perché non erano in equilibrio. Quando v'è equilibrio ciò che si spezzava non si spezza. Gli uomini credono che non sia così, ma vi sono alcuni che sanno che ciò è vero" [V, 67, p. 78].

- "Se le parole sono belle l'eco è bella, se le parole sono brutte l'eco è brutta; se la persona è alta l'ombra è lunga, se la persona è bassa l'ombra è corta. Ecco quell che è la fama: un'eco. Ecco ciò che è la persona: un'ombra. Perciò si dice: 'Sii cauto nelle tue parole e qualcuno vi farà coro, sii cauto nella tua condotta e qualcuno vi si adeguerà'. Per questo l'uomo santo conosce ciò che entra vedendo ciò che esce, conosce ciò che viene guardando ciò che va. Questo è il principio per cui egli conosce in anticipo. La norma che è in noi trova corrispondenza negli altri. Se gli altri ci amano è perché noi li amiamo, se gli altri ci odiano è perché noi li odiamo. [...] Quando la norma e la corrispondenza sono chiare ma non si conformano al Tao, è come uscire senza passare per la porta e camminare senza seguire il sentiero. [...] Non s'è mai dato che il sopravvivere o il perire, la rovina o la prosperità non passino per questa Via. [...] Chieh e Chou dettero importanza grande all'interesse e scarsa alla Via e in tal modo perirono. [...] L'uomo senza giustizia non fa altro che mangiare [pensare al proprio interesse esclusivo]. Per mangiare si scorna con gli altri e chi vince detta legge [...], vuole che gli altri lo rispettino e non può ottenerlo. Quando gli altri non lo rispettano, gli arrivano pericoli e umiliazioni" [VIII, 106, pp. 124-25].

- "Quando entro [nella cascata impetuosa che è la vita] comincio con l'essere leale e sincero [...]. Quando esco continuo ad essere leale e sincero. Con lealtà e sincerità abbandono il mio corpo alle onde e alla corrente e non oso avere una volontà mia propria: in tal modo sono capace di entrarvi e poi di uscirne. [...] Se con la lealtà e la sincerità si può trovare davvero un'affinità persino con l'acqua, quanto più con gli uomini?" [VIII, 114, pp. 130-31].

- "Il sommo parlare è evitare di parlare, il sommo fare è il non fare. Chi ha una sapienza superficiale lotta per cose insignificanti" [VIII, 115, p. 131].


[Pagina a cura di Aurelio Devanagari]

19/11/10

S.N. Dasgupta, IL MISTICISMO INDIANO


[Buddha defeats Mara. (From the windows of Brussels). Foto di Marzia Poerio]


S.N. Dasgupta, IL MISTICISMO INDIANO. Titolo originale: HINDU MYSTICISM, 1926. Traduzione di Bruno Romano. Roma, Edizioni Mediterranee, 1995

Dasgupta ha il merito di scrivere con chiarezza e di rivolgersi a un pubblico di formazione anche occidentale, per cui i suoi libri sono sempre accessibili oltre che qualificati, da docente universitario quale egli fu a Cambridge, Calcutta e in altre sedi.

Da un lato, in questo volume, vengono messi in rilievo i temi del misticismo in generale: l'aspirazione al sacro prima ancora che al divino, la trascendenza, la familiarità con la contemplazione di Dio, il ritiro nel sé spirituale interno all'individuo (l’Atman, l’anima) e il principio universale (il Brahman) riscontrato al contempo nel cosmo.

Dall'altro lato, e più in dettaglio, essendo questo il tema specifico del libro, viene fornito un quadro particolareggiato e allo stesso tempo riassuntivo di varie scuole mistiche indiane, tra le quali si distinguono con più evidenza di altre l'Induismo delle origini con la dinamica del sacrificio; l'Induismo successivo e la trasformazione degli dei originari in quelli classici; le UPANISHAD; il Jainismo; il Buddhismo.

Tra i brani che per me sono stati più significativi, ricordo qui la teoria della trasformazione del sacrificio in simbolo. Scrive Dasgupta che "il potere trascendente, misterioso e segreto del sacrificio rimpiazza le forze della natura personificate dagli dei" (p. 40). Se qui si pone una "mediazione sostitutiva", per cui ad esempio la testa del cavallo sacrificale può essere equiparata all'alba, il cielo alla carne, le stelle alle ossa, tale mediazione si accresce in astrazione col passare del tempo fino a che si arriva alla meditazione sostitutiva sulle "lettere dell'alfabeto, come se rappresentassero il Brahman o qualche altra divinità" (p. 40).

Infine, con le UPANISHAD(i VEDANTA o parte conclusiva dei VEDA), l'astrazione si amplia ulteriormente; ed ecco la meditazione mistica sulle parole "magiche" e che racchiudono in sé le leggi dell'universo, parole come la sillaba Om o i termini Bhuh, Bhuvah, Svah del mantra Gayatri, ognuno dei quali equivale a significati multipli e cosmici: Bhu, terra, materia spessa, mattino, passato; Bhuvah, atmosfera, materia sottile, mezzodì, presente, azione incisiva; Svah, etere, futuro, sera, spiritualità.

Le UPANISHAD, o, come ne definisce uno degli aspetti Dasgupta, la "scienza del Brahman", a differenza del misticismo più arcaico e sacrificale:

"[...] non comporta alcuna ricerca dei vantaggi ordinari della vita. Essa scaturisce da una necessità spirituale della nostra anima, la quale può essere soddisfatta solamente col raggiungimento dello scopo più alto. Tutto ciò che è mortale, tutto ciò che è transitorio ed evanescente, conferisce all'uomo le gioie ordinarie della vita, come la ricchezza e la fama, le quali non sono altro che piaceri e soddisfazioni rudimentali in grado di procurare gioia solo fino a quando l'uomo permette a se stesso di essere sviato dalle richieste dei propri sensi" (p. 53).

La privazione è dunque la ricerca dell'autenticità interiore e per il mistico del contatto con la divinità, con la dinamica di Atman e Brahman delle UPANISHAD. Una dinamica che lo yoga porta avanti con l'"elevazione della vita morale, compreso il controllo assoluto di tutte le passioni e di tutti i desideri, l'abbandono delle ambizioni e delle speranze mondane, il raggiungimento di uno stato imperturbabile di pace della mente" (p. 73). Il fine dello yoga, tramite la tecnica di "fermare completamente e assolutamente sia il flusso mentale che quello inconscio" (p. 81), è "dissociarci dalle nostre sensazioni, pensieri, idee, emozioni" e apprendere che esse sono "solo associazioni estranee, sconosciute alla natura del sé, ma che aderiscono a questo, diventandone quasi sempre così inseparabili da impedirci la scoperta del vero sé come un'entità separata e indipendente" (p. 77). Gli yogi che conseguirono questo risultato nell'antichità non erano animati da pessimismo, al contrario: se queste persone non provavano attaccamento per il mondo non era perché il mondo fosse privo di gioie e di piaceri da offrire, ma piuttosto perché il loro desiderio di ottenere il bene più grande, il loro vero sé, era talmente forte da non tollerare alcun compromesso con nessun altro desiderio" (p. 79).

Proseguendo cronologicamente in avanti per questa strada, emerge con chiarezza in Dasgupta come il Buddhismo rappresenti una specie di protestantismo dell'Induismo e una variante dello yoga di Patanjali, con cui coincide per principi etici e finalità di liberazione, compresi i concetti di amicizia universale e di altruismo. Tra queste due scuole, secondo Dasgupta, c'è un unico punto di differenziazione: "per il Buddha, il fine ultimo di tutta la concentrazione e della sua più alta perfezione è l'estinzione assoluta, mentre per Patanjali è la liberazione dello spirito per mezzo dell'autoilluminazione" (p. 96).

Mondi e percorsi di conoscenza interiore e panica profondi e irti di difficoltà. A volte mi domando quanto siano a essi corrispondenti le varianti contemporanee e occidentalizzate di queste scuole di pensiero; ma è un fatto che la tarda modernità, nella sua ibridazione costante di elementi, ha bisogno di adattamenti. La questione è quale sia il confine tra il mutamento geo-filosofico-esistenziale dell'importazione dello spiritualismo orientale in Occidente, e il travisamento, la secolarizzazione, l'uso per scopi diversi da quelli della ricerca interiore?

[Aurelio Devanagari]