13/03/19

Roberto Bugliani, UN’OCCHIATA FUORI




[From a window to the outside world (Carrara 2018). Foto Rb]



Roberto Bugliani, Un'occhiata fuori. Bisignano (Cosenza), Apollo, 2018 (Versione di layout in formato PDF)
  

Se, tra i libri pubblicati di recente da Bugliani, in Serraglio Italia emergeva in primo piano una casistica di tic e disfunzioni della compagine sociale della penisola, in Un’occhiata fuori lo sguardo si amplia in direzione internazionale, e in un confronto tra paesi a economia più e meno avanzata.

Per questi ultimi, si veda, tra gli altri il racconto intitolato “L’Hotel Ballena Azul”, ambientato in Ecuador, ma si ricorda che la terza parte del libro si intitola Racconti dal resto del mondo, con flash memoriali in “La traversata di Parigi”; elementi antropologici e socio-politici in “Frammenti del viaggio di Santo Loffredi nel nord-est del Brasile”; e altre storie e altri resoconti dal Messico e dagli Stati Uniti.

La prima sezione della raccolta s’intitola L’inetto, che ricorda le montaliane definizioni dei personaggi di Svevo aggiornate al presente.
Esemplare dei personaggi di questa parte del volume ci pare “Italexit”, storia, di un “buono a nulla”, come lo definisce la madre della fidanzata (p. 22), in realtà un individuo sfortunato, costretto, nonostante l’età  che si intuisce abbastanza avanzata, a lavori precari, che impediscono persino di festeggiare con un regalo degno la ricorrenza di San Valentino. Del resto, some si legge in un altro racconto intitolato “Proletario del blog”, “i sogni a occhi aperti non erano consentiti ai precari” (p. 53).

In “Il grassone”, il contrasto allegorico tra mondo sviluppato e meno sviluppato è tra un obeso dei paesi prosperi, affetto, leggiamo, con un neologismo “attestato dall’Organizzazione Mondiale per la Sanità”, da “globesità” (p. 9), e un ragazzo indigeno di corporatura sottile. In sogno l’obeso segue il ragazzo nella foresta, infine affondando in un fiume a bordo di una canoa troppo gracile per sostenerne il peso.
Si assiste in altri racconti all’espressione della sfortuna come fondante dello stato di cose del capitalismo avanzato, ma spesso con un risvolto che si sottrae alla banalità e allo stereotipo. Un esempio:

“[…] oramai se ne incontrano pochi in giro per la città. E non mi riferisco a coloro che, a un certo punto dell’esistenza, vengono espulsi dal processo produttivo e sono costretti a sopravvivere di stenti. ovvero alla moltitudine umana dei prescindibili, degli scarti, degli esclusi dalla contabilità del capitale, oggidì in impressionante crescita esponenziale, tanto nelle desolate periferie urbane come nel cuore delle metropoli industriose. io parlo invece dei barboni, quelli autentici, quelli che nel processo produttivo non sono mai voluti entrare e che in gioventù hanno rifiutato con una sdegnosa scrollata di spalle il sicuro posto in banca propostogli dall’amico di famiglia, preferendo consegnare la propria esistenza a ciò che Majid Rahnema definisce povertà conviviale. E ancora meno se ne incontrano nelle città piccole e provinciali, dove soltanto qualche spicciolo hanno da raggranellare” (p. 47).

Così di seguito, con personaggi emblematici di fissazioni dell’attualità italiana e internazionale, dal calcio alle scommesse dell’ippica in un “mondo senza coordinate” (p. 32). Più ancora nella parte del volume intitolata, significativamente, Gli ultimi.

Ci sono racconti che restano irrisolti nello sviluppo dell’intreccio, interrompendosi senza una svolta decisiva, ma lasciando intuire una sconfitta dei protagonisti. Questa mancanza di “fine della storia” (p. 61) è allegorizzata con maggiore energia in “Proletario del blog”, in cui si ipotizza che il protagonista, ossessionato dalla blogosfera, vi sia finito dentro, lasciando sulla sedia, quali spoglie mortali, gli indumenti. La voce dell’autore interviene ad affermare una funzione di testimonianza del personaggio, in definitiva della letteratura:

“Ma non mi si domandi che fine abbia fatto Aristide, alias Il proletario del blog. Perché non v’è alcuna fine nella sua storia, lui è ancora lì, ombra dell’ombra che era, le mani eteree sulla tastiera, le dita immateriali a premere sui tasti, con i suoi quarant’anni suonati e le milleuna personalità virtuali, lui è sempre lì, nell’aria stagnante, palpitante, fremente, ancora” (p. 61).

Una vena allo stesso tempo malinconica e ironica percorre la scrittura di Bugliani in questo libro.

Il linguaggio è  standard e non esente da moduli colloquiali.

Solitudine nel mondo globalizzato e polemica con le sue cause sembrano prevalere nell’area tematica.


[Roberto Bertoni]