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19/04/17

C.S. Richardson, THE END OF THE ALPHABET



[Not Z as the end in these luggage tags, but A as a beginning of 
the traveling alphabet... (Hong Kong 2016). Foto Rb]


C.S. Richardson, The End of the Alphabet. 1st edition 2007. Toronto, Anchor Canada (Penguin Random House), 2008

Questo libro voltairiano e minimalista tratta con eleganza, umanità e leggerezza non superficiale l’argomento tabù della morte, senza soffermarsi sul decorso di una malattia letale, né eroicizzare o. peggio, sentimentalizzare in modo deteriore, la resistenza prima del decesso da parte del protagonista.

Si mostra al contrario lieve per arguzia non pretenziosa, selettivo e parco nel numero limitato di parole che usa: una decisione tutta controcorrente in questi tempi di verbosità e romanzo-fiume, il cui elevato numero di pagine spesso non aggiunge niente, anzi talora sottrae, al valore letterario.

I dialoghi sono ridotti all’essenziale, con frasi brevi che vanno a capo e una spiccata tecnica teatrale.

Lo spunto narrativo è la notizia della fine nel giro di un mese, annunciata da parte di un medico al protagonista Ambrose Zephyr nei giorni immediatamente antecedenti il suo cinquantesimo compleanno. Ambrose decide di non abbattersi, anzi rifare quanto ha già fatto in materia di viaggi e rassicurare con questo ritmo di visite a città e paesi la moglie amata, Zipper.

Visitano luoghi dalla A alla Z, da Amsterdam a Zanzibar e l’alfabeto si fa allegoria del percorso di vita. Nella selva di citazioni esplicite e implicite, spesso fornite con nonchalance e ironia, la fine di questo libro è la fine della vita. 

La fine è anche, in modo metaletterario, l’inizio del diario che la moglie tiene e la cui frase iniziale, riprodotta nell’ultima pagina del romanzo, “This story is unlikely” è, circolarmente, la prima frase del volume intitolato The End of the Alphabet.

Un’intervista con l’autore chiarisce in parte la sua prospettiva esistenziale.


[Roberto Bertoni]

05/12/13

Guy Delisle, PYONGYANG

Sottotitolo: A Journey in North Korea. Londra, Jonathan Cape, 2003, 2005.


È un che sconfortante notare quanti resoconti di viaggio occidentali nella Corea del Nord si somiglino gli uni con gli altri, non perché le cose che pare gli autori abbiano da dire sono le stesse, ma soprattutto perché non portano contributi nuovi alla conoscenza del Paese.

Talora, come abbiamo avuto occasione di costatare in precedenza, si tratta di pura e semplice propaganda, che insiste sullo stato dittatoriale, una realtà che conosciamo prima ancora di aprire certi libri sulla Corea del Nord che non rivelano altro che questo, oppure non elaborano il tema con argomentazioni approfondite e soprattutto con documentazione verificabile scientificamente.

Ci si domanda come mai i viaggiatori, specie se animati da sentimenti anticomunisti, non notino per esempio nel sorriso e nelle negatività i volti delle persone, o come mai si stupiscano (lo abbiamo letto in alcune occasioni) che a Pyongyang le famiglie escano insieme di domenica, o che la gente manifesti sentimenti positivi genuini per il regime.

Non stiamo cercando di fare del giustificazionismo dell’assenza di democrazia e del controllo sulla popolazione, ma c’è di più dell’osservazione superficiale di chi soggiorna in Corea del Nord per pochi giorni, tra l’altro senza sapere una parola di coreano, quindi senza avere accesso per lo meno ai murali, ai quotidiani, all’ascolto o alla visualizzazione in TV delle notizie, da cui già si potrebbe estrarre informazione.

Non fa eccezione questo fumetto di Delisle, che evidenzia la censura sull’uso della fotografia, la presenza costante delle guide messe a disposizione obbligatoria dal governo col compito di mostrare solo certi aspetti del Paese.

C’è inoltre una certa sordità anche agli aspetti meno irreggimentati, come la visita a una scuola in cui le allieve suonano la fisarmonica, attività comune nella Corea del Nord, ma presentata semplicemente da Delisle come risultato di una disciplina micidiale. La musica proposta dalla segretaria del protagonista europeo del fumetto viene respinta mentre capiamo dal contesto trattarsi più di musica folclorica che di propaganda politica.

Non certo che sia facile rapportarsi a un paese chiuso ermeticamente in se stesso e aperto agli stranieri solo a condizioni limitate e restrittive.

Peccato anche perché i disegni sono ben eseguiti e non manca una qualche malinconica ironia.


[Roberto Bertoni]





03/09/13

Lisa See, DREAMS OF JOY







[Modernariato (Hong Kong, 2007). Foto Rb]


Lisa See, Dreams of Joy. 2011. Londra, Bloomsbury, 2012

Shanghai Girls, un precedente romanzo di Lisa See (autrice canadese di discendenza cinese), puntava, come quest’ultimo, sulla letteratura popolare, connotata da un’epica familiare critica nei confronti della società cinese patriarcale pre-1949, in base alla quale due sorelle, May e Joy, innamorate dello stesso uomo, l’artista Z.G., sono costrette, per sanare i debiti del padre, a sottostare a matrimoni combinati che le portano a Los Angeles, dove conducono una vita ricostruita a Chinatown, non priva di affetti e remunerazioni quanto triste al fondo per ciò che era perduto della madrepatria. Il segreto di famiglia, con un assunto tipico delle serie televisive contemporanee, ma in definitiva anche radicato nella narrativa popolare e nel melodramma, è la maternità della figlia di May, Joy, avuta da Z.G., che viene ceduta dalla madre biologica alla sorella Pearl in parte per egoismo, ma in parte perché la madre possa starle vicina sebbene finga di esserne la zia, la quale ultima riesce a nascondere la verità, facendo credere al marito Sam che Joy sia figlia di quest’ultimo. Morte tragica di Sam per suicidio in seguito a persecuzione dell’F.B.I. per motivi politici, ma soprattutto, si scopre nell’ultimo romanzo, per proteggere Joy medesima, di idee comuniste e maoista nell'America degli anni Cinquanta.

A onore del vero, va detto che See è una narratrice di strumenti tecnici ben calibrati e capace di evocare lo sfondo della Cina tradizionale con abilità e notazioni di carattere etnologico e sociale ben manovrate e interessanti. Inoltre ha capacità di rendere con naturalezza le emozioni e in Dreams of Joy articola modernamente la scrittura tramite due voci alternate di capitolo in capitolo in prima persona, quella di Pearl e quella di Joy. I rimpianti per l’amore perduto, le emozioni della maternità, i riti adolescenziali della crescita sono resi con credibilità e umanità.

Allora perché questo romanzo, che è stato recensito positivamente da testate prestigiose come il New York Times [1], ci ha invece deluso?

La risposta è perché, nonostante i meriti di cui sopra, si presenta come un’operazione propagandistica tesa a denigrare ogni aspetto della rivoluzione cinese. Vediamo brevemente.

Joy sedicenne lascia la casa materna dopo la morte tragica del padre adottivo e appena scopre la verità su quale delle due sorelle è la madre e quale la zia, sentendosi tradita, e si reca in Cina con entusiasmo per conoscere il vero padre e partecipare alla costruzione del socialismo. Finirà in una comune popolare rurale, innamorandosi di un ragazzo di famiglia contadina e povera, che dopo pochi giorni di matrimonio si rivela un opportunista che cerca di servirsi del padre biologico di Joy, personaggio influente, per diventare a sua volta famoso e lasciare la casa paterna. Pearl l’ha frattanto seguita, ha dato riluttante il consenso a un matrimonio che non approva, ha chiarito la storia di gioventù con Z.G. e si innamora di un anticomunista mentre tenta di riportare la figlia a casa negli U.S.A. È il tempo del Grande Balzo in Avanti e della carestia che nella storia reale effettivamente ci fu. In un episodio, la famiglia del marito di Joy tenta di mangiare (sic, letteralmente) la figlioletta di lei per placare la fame dovuta alla carenza di cibo e Joy la salva in extremis. Vero che suocero, suocera e cognata vengono puniti dalla dirigenza della comune popolare cui appartengono, ma come?, in modo altrettanto barbaro: sepolti vivi... Veramente siamo nel Grand Guignol. E se non bastasse il fatto che la famiglia del marito è composta da cannibali, i funzionari sono corrotti; l’atmosfera è invariabilmente e ovunque negativa; i processi popolari contro i controrivoluzionari sono presentati semplicemente come messa alla gogna di innocenti; in un capitolo compare Mao Zedong (di cui Z.G. era compagno d’armi ai tempi della Grande Marcia) e la sua statura morale è resa soltanto come quella di un individuo che fa quel che gli pare ed è assai interessato alle giovani attraenti, mentre tutto il gruppo dirigente banchetta in continuazione alle spalle della classe operaia e dei contadini affamati. Questo il quadro, tanto per fare qualche esempio, che rende opera di propaganda, lontana da una rappresentazione complessa della realtà, il testo di See, presumibilmente tanto approvato dalle recensioni perché risponde ai criteri del corrente, presunto atteggiamento “politicamene corretto” di denigrare in modo nettamente anticomunista la Cina.

Il finale, tanto per concludere sull’intreccio, è quindi la fuga in Occidente, ove si dipana il lieto fine anche delle storie sentimentali delle due sorelle May e Pearl e lo scioglimento dall’"incubo" marxista, con conversione anche ideologica all'anticomunismo di Joy e addirittura, in modo meno plausibile, di Z.G., che era invece un’artista di grido in madrepatria e si muoveva con ruoli di responsabilità  elevata nelle sfere della dirigenza politica.

Ora, che il Grande Balzo in Avanti sia stato un fallimento è risultato piuttosto chiaro, tra l’altro fin da subito, dato che Mao perse il controllo del potere e dovette fare autocritica. È vero che ci fu la carestia. Resta invece da documentare, nonostante opere clamorose uscite negli ultimi anni, quanti siano stati effettivamente i morti, mentre le motivazioni erano di carattere ideologico, e probabilmente fu anche attraverso quegli errori (non certo giustificabili, non ci si fraintenda) che si creò la modernizzazione della Cina che, col prevalere della linea di Deng Tsiaoping dal 1978, si è incrementata come si sa fino a portarla a essere la seconda potenza mondiale [2].

A scanso di equivoci, a noi sta a cuore la verità; e non difendere quanto va contro l’umanità, tutt’altro. Però ci sembra che la commercializzazione della letteratura conduca a perseguire le vie della propaganda, distorcendo in direzione anche grottesca e rappresentando solo la ferocia e il negativo anziché cercare motivi di complessità in un periodo denso di avvenimenti e ideologie come quello in cui è ambientato questo romanzo.


NOTE

[1] Cfr. Janet Maslin, "A Comrade by Accident, a Seeker by Design", The New York Times, 9-6-2011.

[2] Per un bilancio ragionato del Grande Balzo in Avanti, che ci convince più di opere sensazionalistiche recenti, si veda il saggio di Joseph Ball, “Did Mao Really Kill Millions in the Great Leap Forward?”, Monthly Review, 21-9-2006. Venti milioni le vittime della carestia, determinata non solo dal Grande Balzo in Avanti, ma anche da cause naturali secondo M. Dillon, Contemporary China: An Introduction, Londra, Routledge, 2012.


[Roberto Bertoni]