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27/05/16

Sange Dorjee Thongdok, CROSSING BRIDGES

India 2013. Con Anshu Jamsenpa e Phuntsu Khrime

La metafora del ponte ha vari significati in questo bel film. È un tronco d’albero, leggermente livellato sulla superficie superiore; si trova sopra un torrente all’ingresso del villaggio natale del protagonista, Tashi, che è andato a lavorare in città, a Mumbai, a miglia e miglia di distanza dal paesello isolato dello Stato indiano dell’Arunachal Pradesh, nell’Hymalaya, confinante con Cina, Myanmar e Bhutan, parecchi anni prima con mansioni di web designer. Tashi ha perso il lavoro, per questo torna a casa: il ponte è in tal senso un tramite tra il passato e il presente. La prima volta che cerca di attraversarlo non ci riesce con facilità, deve essere aiutato da un parente, in seguito dalla ragazza di cui si innamora, che lo prendono per mano per condurlo sull’altra riva, quella del paese, quindi si tratta di un ponte degli affetti e della solidarietà. Chiaramente, tanto il ponte, quanto tutta la prima metà del film segnalano la difficoltà di riadattamento di Tashi. L’apprendimento del passaggio sul ponte coincide con il graduale riadattamento alla vita del luogo natio, nonostante l’innamorata, pur ricambiandolo, segua il suo destino di un matrimonio combinato; e un lavoro alla fine si riprofili per Tashi nella parte più sviluppata dell’India. Tashi ha recuperato il senso del luogo, un’identità, una riumanizzazione che lo spingono a restare per occuparsi dei campi e delle attività della famiglia. Il ponte segnala dunque anche il passaggio tra la modernizzazione e la società tradizionale, con la scelta significativa della seconda, pur nella consapevolezza che anche lì prima o poi tutto cambierà.

È una pellicola antropologica, che indaga senza compiacenza e con precisione le credenze, le abitudini della vita quotidiana, il lavoro, gli affetti.


[Roberto Bertoni]

09/09/15

Rajat Kapoor, THROUGH MY OWN EYES



[Detail from Hindu Temple (Singapore 2015). Foto Rb]


Titolo in hindi: Aankhon Dekhi. India 2014. Con Rajat Kapoor, Sanjay Mishra, Seema Pahwa


È un film intelligente, ben recitato e ambientato nei quartieri poveri di Nuova Dheli che ricordano certe riprese nel neorealismo italiano, mentre il dialogo potrebbe a tratti, per la drammaticità ironica che lo caratterizza, essere paragonato con il teatro di De Filippo.

Il capofamiglia di mezza età Raje Babuji, impiegato in un’agenzia di viaggi, riceve informazioni negative sul fidanzato di sua figlia. Sotto pressione del fratello di Babuji, viene organizzata una spedizione punitiva a casa del ragazzo, che però si rivela tutto il contrario di come era stato descritto: “un agnellino”, come lo chiama poi Babuji, cuore tenero e onesto lavoratore.

Ne consegue una trasformazione filosofica di Babuji: “Se le cose non stanno come credevo che fossero, significa che non posso conoscere niente se non lo verifico di persona”. Da qui nasce un mutamento, pirandellianamente, ma descritto nel film sempre con leggerezza e ironia: Babuji porta all’estremo le sue nuove convinzioni ideologiche, arrivando a licenziarsi per nbon ingannare i clienti che ritiene di non poter fa viaggiare in paesi che non ha visitato di persona.

Babuji diviene una specie di guru del rione, facendo accoliti che lo rispettano e pendono dalle sue parole anche quando egli tenta di sottrarsi e di cacciarli. Entra in contatto con un malavitoso perché nella neo-disposizione verso gli altri c’è anche l’idea che non si possa dare per scontata la cattiveria. Si dà al gioco d’azzardo con fortuna, risollevando le sorti finanziarie.

Non senza ammiccamenti critico-umoristici a Bollywood, giunge l’immancabile scena del matrimonio della figlia, insomma anche un lieto fine non clamoroso, ma che rivaluta umanità e sentimento.

Bene in rilievo la povertà del quartiere, l’assurdo della vita, il rischio di dissoluzione dei nuclei familiari sotto la spinta dell’arricchimento e della modernizzazione.



[Roberto Bertoni]

15/03/15

Mehboob Khan, MOTHER INDIA


India 1957. Con Sanil Dutt, Raaj Kumar, Rajendra Kumar, Nargis


Radha, la protagonista di questo film, sposa giovanissima, è colpita dalla sventura, con lo strozzino che si appropria dei scarsi averi poco per volta e indebita la famiglia della donna; il marito che perde entrambe le braccia, schiacciate da un masso mentre dissoda un campo, e per non essere di peso si allontana da casa per sempre; un’alluvione che distrugge i raccolti; la perdita di un figlioletto; gli altri due figli che crescendo si differenziano: Ramu, equilibrato e responsabile, si sposa e conduce una vita tranquilla, mentre Birju, inasprito dalle disgrazie e vendicativo, si incanaglisce, uccide infine l’usuraio e cerca di rapire la figlia di questi, fermato dalla madre che gli spara uccidendolo.

Se lo stile è prettamente melodrammatico, sebbene intercalato a momenti di attenuazione del tragico tramite canti, danze e spunti comici, il contenuto è impegnato, anzi si tratta di uno dei film indiani di maggiore rilievo sociale e discusso da varie angolazioni critiche.

Da un lato, in relazione al titolo, oltre ad essere polemico verso il libro dallo stesso titolo, di Catherine Mayo (1927), che si opponeva all’indipendenza indiana, esso rappresenta un’allegoria tanto dell’importanza della maternità in India (per cui si è evocato il culto della dea madre [1]), quanto dell’India come repositorio di identità sociale.   

In quest’ultimo senso la forza d'animo nei confronti delle avversità, che così verghianamente si abbattono su Radha, rappresenta allegoricamente la rettitudine dell’India indipendente, la sua capacità di resistere con integrità nella mala sorte.

Similmente trasposta sulla Nazione si profila la dirittura della madre, che non cede alle lusinghe del benestante che sarebbe disposto a risolverle i problemi della vita materiale, mettendo però a repentaglio la dignità.

Una lettura psicanalitica vede un complesso edipico nei rapporti col figlio Birju. L’uccisione del figlio, tuttavia, ha motivazioni sociali: Radha sacrifica anche il bene più caro, un figlio, per difendere l’onore della ragazza, pur figlia di un suo nemico, che il ragazzo disonorerebbe rapendola.

In Radha, Chakravarty legge la raffigurazione della madre della comunità, anche sulla base di una comparazione tra Mother India e il diverso accento di Arat, un film precedente di Khan sullo stesso tema, ove si accentuava il carattere individuale della protagonista.

Stranamente, Radha ormai anziana, all’inizio e alla fine del film, è, per il prestigio acquisito negli anni nel villaggio, madrina del nuovo sistema di irrigazione, con funzione ideologica di legittimazione dell’innovazione governativa; al contempo, difende socialmente la tradizione, l’onore e la dignità, che sono certo valori etici più che nobili, ma nel caso specifico, secondo letture di genere del film, anche la riconferma del ruolo femminile arcaico.


[Roberto Bertoni]




[1] Sumita S. Chakravarty, National Identity in Indian Popular Cinema 1947-1987, University of Texas Press, 1993, p. 152.