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17/06/17

LEE Min Jin, PACHINKO



[Busan 2013. Foto Rb]


Lee Jin Min, Pachinko. New York, Barnes and Noble, 2017 (Edizione Kindle)


Il romanzo, in contrasto con le determinazioni temporali precise del resto dell’opera, inizia in una data imprecisa, “at the turn of the [20th] century”, su Yeongdo, distretto-isola di Busan, nella parte meridionale della Corea del Sud, allora unificata e sotto la dominazione coloniale giapponese dal 1910, data cruciale che appare nella seconda pagina. Sposatasi per povertà con un pescatore dalle labbra sfigurate per nascita, la capostipite di questa saga familiare e sociale, dopo la morte del marito organizza una pensione familiare. La figlia Sunja viene sedotta da Hansu, un coreano nipponizzato e benestante, che poco per volta scopriamo appartenere alla yakuza, dalle cui attività proviene il suo benessere. Sebbene per tutta la vita vegli a modo suo, per lo più da lontano, su Sunja, essendo egli sposato, lei rifiuta di divenire la sua amante e preferisce una vita di stenti. Riscattata agli occhi della comunità da un pastore protestante, Isak, che, innamorato di lei la sposa e dà una famiglia al figlio illegittimo, la vita continua a partire dagli anni Trenta in Giappone, ove raggiungono Joseb, il fratello di Isak, sposato e senza figli. Si dipana una storia di questa e delle successive generazioni, in cui si susseguono personaggi opposti: donne virtuose e donne che si perdono nel mercato del sesso, uomini d’azione e intellettuali, vincenti e perdenti, oppressori e oppressi. Fino all’ultima generazione, con conclusione nel 1989: nelle ultime pagine, con andamento circolare, Sunja accudisce il sepolcro di Isak.

Il principale ambiente sociale è quello della comunità coreana del Giappone, dunque non stupisce che il discorso sociologico del romanzo si articoli soprattutto sulla difficoltà di accettazione dei coreani da parte dei giapponesi, dapprima per pregiudizi coloniali e  in seguito per difficoltà generale della società giapponese, a parere dell’autrice, a integrate gli stranieri, o, come rivela Lee in un’intervista “You could become a Japanese citizen today after being there for four or five generations but no one will ever think of you as Japanese. In order to be considered Japanese, you have to be fully by blood Japanese” [1]. Nel romanzo: “Japan will never change. It will never integrate gaijin”; e:

Zainichi, a term used often to describe Korean Japanese people who were either migrants from the colonial era or their descendants.  Some Koreans in Japan do not want to be called Zainichi Korean because the term means literally ‘foreign resident staying in Japan. There are many Koreans who are now Japanese citizens, although this option to naturalize is not an easy one. There are also many who have intermarried with the Japanese or who have partial Korean heritage. Sadly, there is a long and troubled history of legal and natural discrimination against the Koreans in Japan and those who have partial ethnic Korean background”.

Ciò non significa che la rappresentazione risulti dogmatica, è al contrario dotata di parecchie sfumature, con giapponesi aperti verso i coreani al punto da mettere a repentaglio la propria reputazione sociale per costruire una famiglia con loro; e coreani che puntano all’integrazione completa acquisendo la cittadinanza, oppure, più spesso, a distinguersi in modo che una posizione di preminenza li renda meno vulnerabili.

Si tratta dunque, in larga misura, di un romanzo sull’identità

La posizione femminile è un altro elemento ben evidenziato: dall’idea che “a woman’s life is endless work and suffering” a quella più autonoma e asseverativa delle ultime generazioni rappresentate nel libro.

Si tratta anche di identità fondata sulle differenze di classe e religiose. Riguardo queste ultime, i fondatori della genealogia sono di religione protestante; e l’operato dei missionari tanto in Corea che in Giappone è raffigurato in luce positiva.

In un’intervista in appendice al volume, Lee dichiara interesse, oltre che per autori della modernità quali Faulkner e Virginia Woolf, per gli scrittori dell’Ottocento: “I adore nineteenth writers Bronte, Eliot, Trollope, Dickens, Flaubert, Tolstoy, and Balzac”. Anche il punto di vista narrativo viene ascritto al fatto che “in Western literature, omniscent narration was the popular style in the nineteenth century, and it is my favorite point of view for community narratives”.

Il destino, articolato ora nelle convinzioni buddhiste di alcuni personaggi, ora nell’idea cristiana di “divine design”, costituisce uno dei due elementi che muovono le azioni e le scelte, accanto al libero arbitrio, o, per restare nella metafora dominante del titolo del romanzo, nell’alternanza di caso e causalità del gioco, come nel pachinko, il passatempo a scommesse, ben assestato in Giappone, e cui si dedicano, arrivandovi per strade autonome l’una dall’altra, i due fratelli Solomon e Noa.

Il romanzo ha una carica emotiva notevole pur senza scadere nel sentimentalismo trito. Nell’intervista appena citata,  l’autrice dichiara: “I think my themes are forgiveness, loss, desire, aspiration, failure, duty, and faith”.


NOTE




[Roberto Bertoni]

15/10/16

Han Kang, LA VEGETARIANA



[Shadow of a broken plant (Wicklow 2016). Foto Rb]


Han Kang, La vegetariana. Prima ed. coreana 채식주의자, 2007. Traduzione di M.Z. Ciccimarra. Milano, Adephi, 2016

Questo romanzo è, per evidenza del testo, ma anche per esplicita dichiarazione dell’autrice, una denuncia della brutalità e della sopraffazione [1]. Come più esplicitamente in un’altra storia della stessa narratrice, Human Acts nella traduzione inglese di D. Smith (2016), il trauma della rivolta del Movimento per la Democratizzazione della Corea del Sud di Kwanju, del 1980, repressa nel sangue, ha fin dall’infanzia svolto una funzione profonda e motivato varie opere di Kang [2], rendendola sensibile alle tematiche della violenza.

La vegetariana è stato rielaborato da un racconto scritto in precedenza da Kang, negli anni Novanta, e in parte, per dichiarazione dell’autrice, è nato dalla riflessione su un verso del poeta coreano Yi Sang: “Ritengo che gli esseri umani dovrebbero essere piante”.

La protagonista, Yeong Hye, smette di mangiare carne, il che presto si rivela una ribellione piuttosto inaccettabile alla “normalità” da parte del padre e di altre figure sia all’interno della famiglia che all’esterno. Accompagna questo atteggiamento una serie di altri comportamenti insoliti per questa donna fino a quel momento piuttosto disposta a un conformismo di circostanza. Nella seconda parte il cognato, un artista di installazioni mass mediali, la usa per soddisfare sue fantasie erotiche. Nella terza parte si comprende che la problematica di Hyeong Hye è più complessa delle apparenze: si tratta di una forma di schizofrenia anoressica e corrisponde, al rifiuto degli alimenti, una tendenza a trasformarsi in una pianta. La nutrizione forzata non dà risultati. Dopo il logico disfarsi della sua famiglia in seguito al comportamento del marito, la sorella la accudisce e nelle ultime pagine si trova dalla sua parte empaticamente, comprendendola. Il romanzo si conclude senza la morte o la cura della protagonista su una scena di natura.

Si tratta di un libro che punta sull’umanità e sul pacifismo, in tal senso la metamorfosi vegetale è un’allegoria antiviolenta. È un’indagine sul disagio sociale, sulla miscela di libertà e violenza caratteristica del mondo urbanizzato e sviluppato, sulla differenza dell’alienazione mentale dal comportamento comune. Accanto a questi temi universali, l’ambientazione coreana rende più specifica la scelta vegetariana e la nevrosi sociale [3].

Allo sesso tempo, tuttavia, si tratta di una storia globalizzata e, nonostante gli indubbi valori di letterarietà che hanno portato Kang all’attribuzione del premio “Man Booker International”, è una narrativa in parte commercializzata, in cui l’elemento morboso e, nella seconda parte, lo sconfinamento dell’erotico nel pornografico sembrano a volte avere la meglio.



NOTE

[3] Si veda l'intervista in italiano con l'autrice sul sito di Fahrenheit 27-10-2016.


[Roberto Bertoni]

29/01/15

Choi In-hoon, THE SQUARE




1960. Translation from Korean by Kevin O’Rourke


The plot of this novel is comprised of events in the life of Lee Myong-jun from his childhood and adolescence mostly spent in the house of one of his father’s friends due to the fact that his father, Lee Yong Do, a communist, had moved to North Korea, and her mother had died immediately afterwards. After his arrest and exposure to violence by the South Korean police, he decides to go North where he lives with his father’s and his father’s North Korean new wife. He returns to South Korea as a member of the North Korean army in 1950. Finally, as POW, he chooses to settle in a country other than North and South Korea, namely (probably) India. Two main love stories are interwoven in this plot - one with South Korean Yoon’hae (who marries his friend Tae-sik), and one with North Korean Un-hye (who dies in a bomb attack during the war).

The story is told as a flow of free indirect speech, and partly also stream of consciousness, mostly in the third person singular, occasionally shifting to the first person, and it consists of a patchwork of memories, told in chronological sequence but recollected as the protagonists crosses the sea on a ship interacting with the Captain of the vessel and some of his fellow compatriots being transported abroad.

It is a rather complex narrative that recalls western modernist works such as Virginia Woolf’s Mrs Dalloway and some of Joyce’s own writing.

The title of the novel derives from an idea expressed in the first page: “the square”, understood as “a place where we meet destiny”. This concept is repeated and elaborated in various sections of the narrative.

The flow of events is fluid as “the river of life” in which Myong-jun fails to “grasp some complete wholeness in the stream of time” (p. 18). Water is the unconscious in Jung’s terms, and therefore relevant to the recollection of the past. And the water of the sailing crossing leads from the past of Korea to the future of the next location where the protagonist is going to live. As a transitional allegory, the ship on the sea is the tool of revising his own life, that does not appear to be seen by Myong-jun as desperate until the second last page, where he commits suicide, by diving into water (as it is suggested without an explicit statement – his body is simply not found on board anymore).

There are several quotations from the Scriptures (see in particular pp. 14, 20, 25, 63, 115-116). Lack of trust in God, however is stated, and Myong-jun defines himself as a “man of no religion”, coming in fact to compare Christians and Bolsheviks as on a par (p. 133).

It is, partly, a philosophical novel, and the importance of philosophy is often reiterated in the story.

On a political plan, Myong-jun is obviously disappointed with the way current affairs are conducted both in the North and the South of Korea. South Korea is defined as a society characterized by “masked desire for power” (p. 88), where "private desires were taboo” (p. 95). South Korea “was a square of non-existent people” where “there was freedom to become corrupt and freedom to be idle” (p. 134). North Korea upsets Myong-jun more for its “ordinariness” (p. 86) and conformism than due to Communism as such. North Korea’s is defined as rather the “imitation of a revolution” than a real revolution, and Myong-jun learns how to behave according to the rules of that society to the point of becoming an official tempted to damage his best South Korean friends, even though after being violent to them he lets them escape, with the thought of having failed even to be totally evil. “In his store of emotions in South Korea he had never discovered anything except disdain. In North Korea all he got was disillusion” (p. 122).

An individualist, deluded sentimentally and disillusioned socially and politically, maybe Myong-jun is an allegory of total discomfort with environment and fellow human beings.


[Roberto Bertoni]