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05/12/18

Lasse Hallstrom e Joe Johnston, THE NUTCRACKER AND THE FOUR REALMS

USA 2018. Con Misty Copeland, Jayden Fowora-Knight, Mackenzie Foy, Keira Knightley

Ci è piaciuto questo film colorato e di decor sontuoso, ambientato nell’Inghilterra vittoriana, con riferimenti alle bambole e ai congegni meccanici di quell’epoca, il che già mette in una luce particolare la fiaba di Hoffman e il balletto di Petipa/Chajkovskij, citato tramite alcune scene con protagonista la ballerina Misty Copeland. Il personaggio dello Schiaccianoci è Jayden Fowora-Night. Si ha quindi un cast, oltre che di bravura, interetnico e volto contro gli stereotipi.

A incrementare questa scelta, la protagonista femminile è una Mackenzie Foy indipendente e attivamente coinvolta nell’azione.

I topi non sono i marrani, ma si rivelano a un certo punto come i difensori della giusta causa.

Una fatina/strega Knigthley al suo meglio nella finta frivolezza e nella crudeltà, ridotta infine ai minimi termini di una bamboletta esanime.

Se le favole sono rivitalizzate, ben vengano il non eccessivo uso di effetti speciali, i paesaggi innevati, una Londra che si converte, raggiunto il regno fatato, in un palazzo simile al Cremlino, con allusioni dunque alla landa originaria del balletto.

Il racconto è modificato, ma non in peggio.

Certo la versione di danza nell’esecuzione del Balletto di San Pietroburgo al Teatro Mariinskij per la coreografia di Vasilij Vainonen è impareggiabile altra cosa…



[Roberto Bertoni]

21/09/16

Travis Knight, KUBO AND THE TWO STRINGS



[From a Shop-Window in Osaka, Umeda Area, 2012. Foto Rb]
  
 
Travis Knight, Kubo and the Two Strings. USA 2016. Soggetto di Marc Haimes e Shannon Tindle. Sceneggiatura di Marc Haimes e Chris Butler


Per noi interessati allo scambio interculturale, questo film è un buon esempio, ambientato in Giappone, con fiabe e miti misti orientali e occidentali e scritto e animato da occidentali.

È un film accattivante per il design dei personaggi, soprattutto il protagonista Kubo, bambino che accudisce la madre in parte maga, che a sua volta lo accudisce nella seconda parte trasformandosi in scimmia. La madre è caduta dal cielo per un amore umano; dopo averle tolto il marito samurai, che si reincarna in parte in uno scarafaggio, in parte in un guerriero di carta, le sue sorelle e il padre li cercano per togliere gli occhi a Kubo, affinché smetta di vedere il mondo delle passioni terrene e assurga col nonno al cielo. Vince alla fine la mondanità del bambino, che invoca il cuore contro la freddezza dell’assenza di passioni equiparata a crudeltà. Si trasforma anzi in essere umano anche il Re del Cielo, il nonno.

Rispetto ai modelli orientali, è una storia fortemente trasgressiva. Se si pensa, per esempio, alla storia giapponese di Kaguya, animata nel 2013 per la regia di Isao Takahata, ovvero la principessa della Luna che si immedesima con la vita sulla Terra fino a quando la famiglia originaria, fattole indossare il mantello dell’oblio, la riconduce nel cielo e nella dimensione della serenità imperturbabile, in Kubo abbiamo una netta inversione, con la difesa tutta occidentale dei valori della passione e del coinvolgimento.

Altri elementi sono misti. La lotta col drago feroce è un’altra inversione occidentale delle caratteristiche benefiche del drago orientale. Il conflitto tra il bene e il male è universale e archetipico. L’ambientazione è decisamente giapponese. Eppure il design delle sorelle crudeli della madre di Kubo ricorda vagamente i cartoni pubblicitari di Armando Testa.

Oltre l’integrazione del mondo fantastico orientale e di quello occidentale, è notevole la riflessione sul concetto di “storia”: come le storie si creano dalla fantasia impersonata da origami animati, evocati magicamente dall’immaginazione; come coincidono col destino personale, come si compongono diproblematiche etiche e avventurose.

È un bel film.


[Roberto Bertoni]

03/12/15

Jennifer Phang, ADVANTAGEOUS



 
["What was behind the sun that day in the future?" (Killiney 2015). Foto Rb]


Jennifer Phang, Advantageous. USA, 2015. Con Freya Adams, Jennifer Ehle, Ken Jeong, Jacqueline Kim, Samantha Kim, James Urbaniak


Questo film impegnato di fantascienza è elegante esteticamente; sfugge a ogni sensazionalismo, esprimendo sommessamente, quindi con maggior efficacia, i contenuti; conta su una recitazione di buona qualità, soprattutto per merito di Jacqueline Kim e Samantha Kim.

In un futuro non troppo lontano, che da un riferimento del dialogo si suppone verso la metà del secolo in corso, l’automatizzazione è arrivata al punto da escludere in larga misura gli esseri umani dal ciclo produttivo e dall’impiego, per cui abbondano i disoccupati e scarseggiano le possibilità di costruire una vita di classe media, tranne che per i favoriti che ancora svolgono mansioni di responsabilità. Le donne sono più svantaggiate in questa situazione: la protagonista, Gwen, a cinquant’anni perde il posto di lavoro prestigioso presso una società di chirurgia estetica (il Center for Advanced Health and Living), di cui rappresentava il volto pubblicitario, ma che intende ora assumere una persona più giovane. Non trova un altro impiego adeguato, che le consenta di pagare la retta elevata della scuola di musica cui desidera iscriversi la figlia Jules. L’unico lavoro che le viene proposto è quello di donatrice per l’inseminazione artificiale. Respinge questa possibilità e si sottopone invece a un esperimento del Center for Advanced Health and Living per diventare lei stessa la persona che la sostituirebbe sul lavoro, trasferendo ogni zona del cervello in quello di un corpo più giovane. L’operazione si svolge con successo, ma nella nuova, seconda vita, dopo avere scoperto che in realtà, mentre sopravvive il suo cervello, il suo corpo precedente è deceduto, proprio ciò che costituiva il suo scopo più profondo, l’amore materno, è scomparso, ricostruito però infine, in seguito a un periodo di pena per le e per Jules, su nuove basi, dal fondo della coscienza della giovane donna che è adesso.

Oltre al tema dell’eugenetica e del rapporto col lavoro, entrambi corrispondenti alle previsioni della scienza e della sociologia attuale, si profilano sottotemi non secondari: il terrorismo (con grattacieli che di quando in quando esplodono tra l’indifferenza, dovuta ad assuefazione, generale); il progresso tecnologico, immaginato con realismo, per esempio le telefonate con immagini a tre dimensioni, la diminuzione di supporti meccanici per la comunicazione telematica, l’urbanizzazione verso l’alto.


 [Roberto Bertoni]

01/12/15

Edgardo Franzosini, BELA LUGOSI


Milano, Adelphi, 1998

Bela Lugosi (nome d’arte dell’attore ungherese Béla Ferenc Dezső Blaskó, nato a Lugoj, oggi in Romania, nel 1882) fu l’interprete cinematografico, dopo l’emigrazione negli Stati Uniti, di una serie di film su Dracula, particolarmente noti quelli degli anni Trenta. Ben adatti al ruolo la presenza fisica e il volto.

Franzosini ricostruisce la vita dell’attore, in parte fondandosi su elementi reali e documentati della biografia, in parte sviluppando un paradosso di identificazione tra interprete e personaggio:

“Dote singolare dell’‘ultimo volto’ è di sciogliere, se ma ve n’è stata, ogni volontaria maschera ingannatrice, di scolpire nella rigidezza della morte la fisionomia delle passioni più esclusive, di quelle che recano in sé l’impronta del destino. Analoga prerogativa possiedono le ‘ultime parole’.

[…].

Bela Lugosi spirò il 16 agosto 1956 pronunciando questa frase: ‘Io sono il conte Dracula, io sono il re dei vampiri, io sono immortale’. Ed è, tale suo trasformarsi in vampiro, un fatto che ormai pochi si sentono di contraddire.
Ho scritto queste pagine con il fine, che mi auguro non del tutto superfluo, di cercar di comprendere le cause e di chiarire le circostanze in cui l’orribile metamorfosi di Lugosi si è verificata” (p. 12).

L’ironia tra le righe dell’intero testo si accompagna a una ricostruzione dell’epoca, dotata di precisione antiquaria, di momenti comparativi, di una tendenza potenziale (per dirla alla Calvino), cioè, in questo caso specifico, di ipotesi su quanto della vita di Lugosi non si sa, ma si può dedurre osservando i suoi film e mettendoli in relazione contrastiva con altre interpretazioni del personaggio di Stoker nella storia del cinema.

Il libro si chiude su una constatazione metalinguistica:

“La macchina da presa agisce […] con l’attore come il vampiro con la sua vittima. Nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore Luigi Pirandello riconosce al cinema la facoltà di succhiare e assorbire la realtà viva degli interpreti ‘per renderla parvenza evanescente’. La descrizione dello stato in cui essi cadono dopo che la loro immagine è stata impressionata dalla pellicola presenta sorprendenti analogie con le condizioni in cui viene a trovarsi un individuo morso da un vampiro: ‘Avvertono confusamente, con un senso smanioso, indefinibile di vuoto, anzi di vôtamento, che il loro corpo è quasi sottratto, soppresso, privato della sua realtà…” (pp. 118-119).


[Roberto Bertoni]