Visualizzazione post con etichetta Note di lettura (poesia italiana). Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Note di lettura (poesia italiana). Mostra tutti i post

27/06/19

Roberta Dapunt, SINCOPE

["The olive trees were cut..." (Lerici 2019). Foto Rb]




Roberta Dapunt, Sincope. Torino, Einaudi, 2018

Il dizionario Treccani definisce sincope come “sospensione, per lo
più transitoria, della coscienza” nel campo medico; e “in linguistica, caduta di un suono o un gruppo di suoni all’interno di una parola” [1].

Il primo significato lo troviamo nella poesia intitolata “sincope 1”, ripetuta anche in copertina:

“Lì, in fondo ad ogni ultimo verso
improvvisa è la perdita di coscienza.
Lettore, io emetto suoni su tempi deboli,
che siano essi di giorni riposti o demenza,
così l’alcol, così l’amore  e la morte.
Sono queste le mie verità,
lasciano visioni accese persino al gelo notturno.
Che nella notte, io le rumino,
ma nel giorno, io di loro mi alimento” (p. 37).

Una dichiarazione di poetica che tiene conto tanto dell’aspetto stilistico (i “tempi deboli”), quanto della registrazione di eventi interiori e del passaggio delle vicende della quotidianità, queste ultime ribadite anche altrove, in particolare in “del vivere consueto”, in cui la normalità dell’esistenza diventa elemento di canto:

“Io ti parlo, da semplice condizione,
senza narrazioni sacre di avvenimenti,
senza i racconti in dottrine di imprese e di gesta,
senza le origini di dèi e di eroi.
Riservato campo il mio, in cerca solamente di zitte presenze,
e del comune esistere, poiché il tempo
in questo luogo è morsa di accadimento sempre uguale” (p. 28).

La “caduta di suoni” del secondo significato di sincope si rileva nello spesso citato silenzio, per esempio le zitte presenze qui sopra; e in “delle solitudini II”:

“È condizione di chi fugge il silenzio. E la solitudine
unico lasciapassare che non sarà chiesto” (p. 47).

Se il silenzio, nellultima citazione, si associa a solitudine, in un altro componimento, senza titolo, è denotato dall’assenza:

“Lontana sono dal mondo, ciò che vedo, leggo,
è tempo scorso, minuti finiti. Che sempre,
fuori così tanto succede fino al racconto
e ogni volta io sono stata assente” (p. 27).

L’area tematica della maggioranza delle poesie della raccolta comprende il corpo e un io che tenta di definirsi nel rapporto con l’esterno e con l’interiorità.

In “Fego”:

“[…] sono io
quel silenzio di mura, quella chiusura di porte,
oscuramento io della ante accostate, la conta dei camini spenti,
quel paese del nulla succedere […]” (p. 9).

In “del corpo I”:

“[…] davanti ad ogni mattino
io cerco un fardello d’incanto
e non trovo che un animo deforme”

[Roberto Bertoni]


[1] http://www.treccani.it/vocabolario/sincope/.


17/10/18

Raffaello Baldini, PICCOLA ANTOLOGIA IN LINGUA ITALIANA

["Life as an interval with people sitting for a while..." (Pisa 2018). Foto Rb]


Raffaello Baldini, Piccola antologia in lingua italiana. A cura di Daniele Benati ed Ermanno Cavazzoni. Con un’intervista all’autore. Macerata, Quodlibet, 2018

Raffaello Baldini (1924-2005) scrisse poesie nel dialetto romagnolo del suo luogo natìo, Santarcangelo. Le traduzioni in italiano comprese in questo volume sono dell’autore.

Si tratta di componimenti di lunghezza variabile, su temi universali come gli affetti e specifici come la burocrazia. Una vena risentita in certi casi e spesso ironica caratterizza invettive e domande sul perché del mondo e dello stare al mondo. L’effetto di naturalezza e spontaneità, per usare due concetti adoperati da Baldini (p. 89) e “una continua voce monologante” come la definisce Benati (p. 91) sono elementi ricorrenti.

Benati sottolinea l’importanza di Baldini nella storia letteraria: “Un grande poeta italiano che anziché scrivere in italiano ha scritto in dialetto” (p. 100); “le sue poesie […] sono un punto d’incontro tra diversi generi: quello poetico, quello narrativo e quello teatrale” (p. 101); Baldini si potrebbe paragonare a Beckett per l’“uso frammentario delle parole” (p.104).

Ci ha anche colpito, fin dagli esordi, una fenomenologia della normalità che rivela la perplessità dell’esistenza. Come in questo testo intitolato 1938 (p. 9):

La maestra di Sant’Ermete
delle volte, il pomeriggio,
si chiude in camera e accende una Giubek.
Non fuma.
Sdraiata sul letto
la guarda consumarsi.
Le piace l’odore.
Delle volte le viene da piangere.


[Roberto Bertoni]

09/05/18

Nicola Curzi, NUCLEO NON ATTINTO


[Genoa 2018. Foto Rb]


Nicola Curzi, Nucleo non attinto. Roma, Aletti, 2018



Nucleo non attinto è il secondo liber poetico a firma di Nicola Curzi, già autore della raccolta Lo scorrere e il rifluire (Sena Nova, 2010) e di altre liriche singole, apprezzate in competizioni letterarie nazionali e apparse in volumi collettanei.

Il titolo della raccolta esibisce a chiare lettere il tema cardine delle poesie in essa contenute, ossia il negativo e la mancanza di senso, che vengono ribaditi, anche se declinati su piani tematici diversi, nei titoli delle tre rispettive sezioni che compongono la silloge: I. Segmento interrotto, II. Calore incompiuto, III. Trasfigurazione mancata. Questi quattro sintagmi, identici per struttura sintattica (sostantivo più aggettivo di senso negativo), costituiscono nella loro sequenza quasi altrettanti capitoli di un percorso narrativo interno al libro e palesano l’ossatura argomentativa che poi le singole liriche (33 in tutto) si incaricano di dimostrare ed esemplificare: la precarietà di significato, la sfiducia nella totalità, la mancanza di un approdo certo nel percorso di senso compiuto dall’io lirico. Il “nucleo non attinto” è infatti per Nicola Curzi l’impossibilità di raggiungere la verità delle cose, l’incapacità di attingere a una dimensione profonda dell’esistenza che dia pienezza di senso al mondo e al soggetto che lo percepisce. Come recita uno dei tanti versi marmorei che puntellano il dettato di Curzi, “il mondo accade e basta”, la realtà si apre al soggetto senza una certezza definitiva da offrire, ricca solo di “assoluti sgretolati”, e l’io esiste in “un involucro di buio”, impossibilitato a raggiungere una comprensione totale di sé e del mondo. Il cuore stesso del poeta è un “vento immutabile e muto”, un elemento incapace di entrare in risonanza piena con il mondo e che può quindi limitarsi solo a registrare l’incompiutezza del reale.

L’assenza di certezze gnoseologiche e di pienezza vitale viene percepita dal poeta di Senigallia attraverso tre esperienze esistenziali diversi: l’impossibilità di una conoscenza esatta nel rapporto con il reale, sviluppato nella prima sezione, l’incontro con l’altro da sé, che domina la seconda parte, e l’incapacità di cambiamento, con conseguente passaggio dall’azione all’inerzia, che è il tema su cui si chiude il trittico. A questo io lirico mosso alla conoscenza del mondo a tratti sembrano aprirsi degli squarci possibili di senso, dei “varchi” che montalianamente accendono la speranza di attingere alla verità sulle cose (e il verbo che apre la raccolta, “balugina”, sembra rimandare proprio al Montale del Piccolo testamento), ma a differenza del poeta ligure, in Nucleo non attinto nessuna di queste possibilità riesce a concretizzarsi in un’opzione concreta di salvezza e queste ipotesi di senso sono costrette a rimanere interrogativi senza risposta. Anche l’incontro con l’altro, con una figura femminile che fa la sua prima esplicita comparsa nella lirica Lasciai uno spiraglio fioco, non determina una svolta esistenziale e non dà accesso a una sfera più autentica, collocata al di là della “corolla del contingente”: anche dopo l’unione con lei, che viene descritta con potenti immagini sintetiche di corporeo e spirituale, l’io rimane un “cuore di cartapesta” e l’amore un sentimento non totalizzante, esperibile solo “a brandelli”.

Questo stato di incertezza, di mancata adesione a una verità superiore è dunque il tema che informa tutte le liriche della raccolta e che si riflette anche sul piano dello stile. Saldamente incardinate sulla tradizione novecentesca del verso libero, le liriche sono costituite per lo più da versi brevi giustapposti in paratassi tra di loro e hanno un ritmo franto, un andamento discontinuo, rotto da frasi secche, incisive, che sembra mimare l’incapacità di un discorso totale sulla realtà e la rassegnazione del pensiero alla caduta inesorabile di ogni illusione. La cifra distintiva dello stile di Nicola Curzi è il vasto dispiegamento di sinestesie e di arditi accostamenti analogici che si riscontra in ogni testo (“spighe screziate di buio”, “scaleno d’orge”, “occhiate di carezze” alcune delle più memorabili), nei quali tuttavia non va ravvisato un mero repêchage tardo-simbolista ma un’esigenza espressiva più complessa. Più che testimoniare le capacità superiori di un poeta veggente in grado di raggiungere il cuore delle cose, i virtuosismi analogici vengono utilizzati dal poeta marchigiano per trascrivere sul piano verbale l’assurdità del reale, materializzare nel testo l’esperienza di mistero indecifrabile che l’io ha nel confronto con il reale.

In conclusione, Nicola Curzi, per quanto alle prime esperienze di scrittura di una silloge in sé conclusa, si pone agli occhi dei lettori come un poeta maturo, dotato di un bagaglio concettuale solido e ben delineato e consapevolmente imparentato con una tradizione tutta novecentesca di ‘stile oscuro’ che però nei suoi versi non cede mai alla ambiguità fine a sé stessa, ma è strutturato da un sapiente controllo degli strumenti espressivi ed è sempre incardinato, anche nel testo più breve, in un preciso percorso argomentativo. Una summa, per stile e per contenuto, di tutta la raccolta è la lirica seguente, che, attivando un interessante dialogo con il più noto carme di Orazio, si presenta come uno dei vertici di Nucleo non attinto, collocato forse non a caso nel centro geometrico del libro:

“Tentasti infine i calcoli babilonesi
e nel ghigno del loro responso
leggesti un eterno presente,
un’immanenza piatta e ultima.

Era il grigio costante
non infranto dalla linea eburnea
che discrimina i sì dai no.

Odio abitarti,
abitarti è un tepore 
incapace a dischiudersi”.



[Luca Zipoli]

13/01/18

Raffaele Piazza, ALESSIA


Roma, Associazione Culturale Rosso Venexiano, 2014


Di Raffaele Piazza è già stata rilevata sia la vivace immaginazione stilistica, veicolata da una lingua onirica e trasfigurante, sia, dal punto di vista tematico, la centralità dell’esperienza amorosa. In Alessia, la sua quinta raccolta poetica, questi due aspetti si fondono ad una temperatura lirica tale da rendere attraente (almeno per il sottoscritto) un approccio psicoanalitico. Vorrei proporre che il poeta realizza, in questa nuova raccolta, una sistematica, radicale immersione nella fantasia febbricitante del soggetto innamorato. Alessia è qui vera e propria ipostasi dell’innamoramento, una condizione, come si sa, almeno moderatamente psicotica, contraddistinta dalla percezione della realtà esterna come sensibilissimo controcanto dell’esaltazione psichica del soggetto. La personificazione della natura è un sintomo cospicuo di questo fenomeno e qui infatti alberi, fiori, uccelli, aria e corpi celesti (ma anche, in un’incursione allucinata del soprannaturale, schiere di “angeli”), tutti trasfigurati dalla frenesia amorosa di Alessia, diventano fedeli comprimari nello spettacolo fantasmagorico della sua passione.                    
Cogliamo l’occasione per sottolineare la sensibilità figurativa di Piazza, i cui “scenari”, “campiture” e “panneggi” denotano un’ispirazione e un vocabolario esplicitamente pittorici: e Alessia, carnale e divina (“nel differenziarsi dai / limiti del tempo, entra in galassie e ne esce / rinnovata…”), appare come un incrocio tra l’orgasmica Santa Teresa del Bernini e la Venere botticelliana, istigatrice della fertilità universale. Ma forse il DNA di questa scrittura gioiosamente panico-erotica va più opportunamente cercato nel naturalismo mistico di San Francesco (il ritmo sacramentale del cui cantico è pure richiamato dalle incessanti ripetizioni: “amniotica pioggia”, “anni contati come semi”, “sta infinitamente”). E del resto, l’immersione radicale nella fantasia amorosa esige proprio il mantenimento di un atteggiamento di mistica positività per cui il sentimento della “gioia”, parente stretto del thauma francescano di fronte alla natura delle cose, domina l’intera raccolta.

È uno stato che necessariamente esclude l’elemento traumatico, la cui dimensione spettrale è relegata a brevissime e ripetute allusioni (“gridano i gabbiani: ‘attenzione!’”; “tanto non mi lascia”; “non ho finito gli esami / e Giovanni non ha lavoro / né casa né culla”). L’estasi dell’innamorato non concepisce il trauma. Ma il costo di questa esclusione è la necessita di ribadire l’estasi ad ogni nuovo testo, in un tessuto martellante di ridondanze in cui, come già accennato, intere frasi, stilemi, parole chiave (la più notevole, “interanimarsi”) si ripetono, identici o sottilmente variati, alla stregua di formule incantatorie. Ogni poesia, in altre parole, è costretta a ridire quella che la precede, non tanto perché, banalmente, un testo non riesca mai a dire tutto, ma perché l’integrità della fantasia va costantemente riaffermata, difesa ad ogni costo e il più al lungo possibile dal sempre imminente assalto della grigia realtà: in questo consiste, appunto, la proverbiale “pazzia” o “cecità” della condizione amorosa. A lungo andare, però, il regime assolutistico del gaudio finisce per caricare la cesura (il silenzio, lo spazio bianco) tra ogni testo e il successivo di una sospensione di inusitata pregnanza, nella misura in cui vi si accumula – non detto perché indicibile – lo sconfessato lato oscuro della fantasia amorosa: come si gestiranno, finita l’ebbrezza, le miserie della quotidiana vita di coppia? Come si negozierà l’ontologica incompatibilità di genere, l’impossibilità che Lacan dimostra essere costitutiva del (non-) rapporto sessuale?

Se si intende la negatività hegelianamente, ossia come funzione del divenire e motore di sviluppo, risulta chiaro come proprio questa dimensione debba rimanere assente dall’universo fantasmatico di questa raccolta (che si potrebbe legittimamente intitolare l’Alessia innamorata). In questa estrosa eppure formalmente rigorosissima (sacra?) rappresentazione della psicopatologia dell’innamoramento non può esistere sviluppo, ma soltanto l’euforica riproposizione dello stesso scenario psichico, un universo atemporale in cui è sempre il “1984”, e tutto sobbolle gloriosamente nel fuoco del rapimento erotico.


[Giorgio Mobili]

09/12/16

Antonio Pibiri, CHIARO DI TERRA




["Clear (of?) land". (Westport 2015). Foto Rb]


Antonio Pibiri, Chiaro di terra. Postfazione di Davide Zizza, Forlì, L’arcolaio, 2016 

La fotografia di Saul Leiter, Ana, scattata a New York nel 1950, e scelta per la copertina del libro di Antonio Pibiri Chiaro di terra, mostra il viso della donna illuminato solo in parte, mentre il resto è in ombra.  Saul Leiter considerava le sue fotografie come frammenti di possibilità senza fine e questa spiegazione sembra dirci qualcosa anche di quest’opera di Pibiri in cui i dettagli paiono ridotti all’osso, all’essenziale, eppure rimandano sempre a altre esperienze, a altre possibilità. Il titolo della raccolta contiene in sé un’immagine astronomica: con l’allineamento del sole con la terra e la luna,  e prendendo come punto di riferimento quello lunare, si può assistere, come hanno potuto fare gli astronauti in orbita nello spazio, alla visione del nostro pianeta illuminato dal sole, all’immagine della terra  che risplende nel cielo. Il chiaro di luna è sostituito dal chiaro di terra, i dettagli vengono a essere giustapposti a una visione cosmica e ciò che la terra rappresenta, il basso, l’ombra, sembra essere fortemente attratto verso l’alto.
   
I dettagli e le possibilità senza fine si presentano sin dalla scelta dell’epigrafe iniziale di Cesare Viviani in cui si auspica un ritorno alla casa madre: “Tutti ritornano alla casa del Padre. Mai qualcuno che tornasse alla Casa della Madre”. Questo sembra il percorso che bisogna compiere accompagnati non dal chiarore lunare, ma dalla luce che nasce sulla terra o che dalla terra proviene. La luce è quella della poesia, della fotografia, della pittura, forme artistiche in grado di fermare riflessi essenziali, di creare forme che continuano a moltiplicarsi di significato, parole che si mescolano a esperienze complesse e essenziali di vita e di morte in cui si rinfrangono: la vita biologica, la vita nei fondali marini, il mondo vegetale e animale, la vita umana che pare allontanarsi dalle sue origini terrestri, ma che in esse risprofonda affondando nell’oceano dell’inconscio.  

Il ritorno alla casa della madre è una discesa verso il regno della madre o delle madri, eppure la prima immagine con cui si apre la raccolta poetica indica una strada in salita, anticipata da un’altra epigrafe di  Alessandro Ceni, “C’erano vaste zone di vento, poi niente”.  L’attenzione viene a focalizzarsi su un unico elemento naturale, il vento, richiamando la dimensione cosmica, il vuoto cosmico, uno spazio geografico in cui oltre al vento sembra non esserci niente.   Chi lascia la via maestra e si incammina in salita con “daini e stelle”, si porta addosso i camagli, le protezioni di ferro con cui i guerrieri medioevali proteggevano la testa, è un soggetto plurale, un “noi” che indica una dimensione collettiva che si sposta dalla condizione abituale per assurgere all’ “ovile consacrato” in cui sembrerebbe compiersi un rituale di sacrificio, mentre nel buio sprofondano i fari notturni e le “case perdute che eravamo”.

Una delle tante possibilità che si possono percorrere per ritrovare la casa materna perduta pare essere offerta dall’esperienza della scrittura che l’autore compie servendosi di quaderni di diverso colore:  un quaderno nero per l’”odio in carriera”, un quaderno verde per il tropismo delle piante e appunti musicali, il bianco per pungiglioni d’angeli,  il rosso per la vita della carne, il quaderno blu per la penombra della stanza e il quaderno color terra tabacco corda e legno per il ritorno alla  casa della madre.

 Il componimento Due epiloghi su tela, diversamente si interroga sulla luce fissata dalla pittura: al risvegliarsi dal sonno geologico dopo la salita,  al ritorno sulla terra con gli occhi “riacuti”, fatti più acuti nella capacità di vedere.  

Dal sonno geologico
da mura senza albe ci svegliamo per
 comprendere che anche la montagna
con il suo paesaggio conficcato
o sepolto di vocazioni stanziali
le vicende istoriate
non rimane.

Da pendici inizia la danza
vorticosa sale a staccare la cima.

Poi eccoci – qui per terra
dopo tanto giungere a noi,
dopo gli occhi riacuti.

Il flauto in asse alla luna
nella selva del Doganiere.

*

“Chi ha occhi non aspetti occhi!”

Cercali  i caduti.  Scavarli nei fossi,
due con l’ombra, due lacune.

- Punti luce, i cavi scoperti, i fuochi
inerti –

Non seguire in coda le torme
a rana o striscianti sul ventre
errare le porte.  Si allargano
sul dettaglio –quanti –
 a vanvera a tempera
i ciechi di Bruegel.

Le immagini del componimento sono racchiuse tra due tele, L’incantatrice dei serpenti di Rousseaux il Doganiere e I ciechi di Bruegel, la prima in cui il flauto, lo strumento musicale fondamentale nell’esperienza di Antonio Pibiri che è musicista e compositore, è in asse con la luna e si riflette di luce lunare, la seconda in cui i ciechi stanno per cadere uno dopo l’altro nel fossato trascinati dal primo compagno che ha perso l’equilibrio.  Le due tele sono separate dalla frase in discorso diretto: “Chi ha occhi non aspetti occhi”.  C’è dunque la visione lunare e la mancanza di visione degli occhi ciechi che sembrano comprendere in sé, al centro del componimento, la responsabilità affidata all’individuo nel guardare.

Rousseaux il Doganiere e Bruegel sono due dei tanti artisti e pittori chiamati in causa nel libro, Pibiri sembra far camminare il lettore all’interno di un suo personalissimo museo, come aveva già fatto Antonella Anedda con i quadri adorati del Catalogo della gioia, e con i frammenti de La vita  nei dettagli e di Isolatria  in cui di nuovo la poetessa si è soffermata  sui mondi fermi dei pittori da cui è bandita la tempesta, come nella carta topografica di Elisabeth Bishop. Qui Pibiri, attraverso il lunare incanto solitario legato alla musica e il capitombolo nel vuoto di Brügel, sembra avvisare che tra le varie possibilità di visione il poeta deve evitare di seguire le torme cieche e scegliere una via solitaria che però è stata additata da  altri artisti.

Il biografo annota, valuta i traumi attraverso pochissimi riferimenti biografici, mai riferiti a un io, e  subito la nuova epigrafe di Herberto Helder  porta in primo piano l’esperienza del poeta portoghese  che ribadisce l’importanza di creare parole nuove, l’arma innamorata, e prega contro la certezza della pena, che pare incorporare l’esperienza del padre (“Un padre non si accorge di te”), cui si oppone il sogno che permette psicoanaliticamente  di uccidere il padre per  arrivare  “alla felicità del sembiante”. Come quella di Helder la scrittura ha bisogno di pigmenti naturali e penne d’oca, di cigno e di airone, la sola esperienza praticabile, ribadisce Pibiri, che riesce ad avvicinarsi alla terra.
  
Un’altra epigrafe (“fuori dal limbo non v’è l’eliso”), tratta dall’Isola di Arturo di Elsa Morante, rimanda alla disillusione dell’adolescente che ha conosciuto la vita solo all’interno dei confini dell’isola e si trova di colpo proiettato in mondi che non conosce e che lo respingono.  Ma qual è l’isola di Antonio? Si potrebbe pensare alla Sardegna in cui è nato, invece l’isola ha confini molto più ristretti: è l’Asinara dove da bambino ha trascorso la prima infanzia e da cui è stato allontanato per poter andare a scuola.  L’isola è insieme paradiso e carcere, luogo della assoluta libertà infantile, e nello stesso tempo spazio di reclusione, casa protesa verso immensi orizzonti e insieme prigione, penitenziario in cui la pena si espia stando all’aperto, alla luce.  

In Res derelicta, la terra sacra, la prima immagine è quella di un abbandono: il cotonificio è sollevato al sole dalle radici del ficus e del vino, ma quell’immagine pare anche un ricordo o souvenir interrogato in sogno, quindi un ricordo onirico che ripropone la distinzione tra l’essere sempre sveglio, il tempo della coscienza, e il tempo del confronto con l’inconscio: con occhi “meravigliosamente chiusi”. È la memoria sprofondata nella dimenticanza dovuta alla perdita.

Il vecchio cotonificio abbandonato nel regno.
Le radici del ficus e del vino lo sollevano al sole
rompono la linea retta lì sull’attenti
Per il garbo di Dio.

Un dove interrogato in sogno, souvenir
che appartiene a nessun tempo.
Pietre in equilibrio la sua certezza.
Non uno sbavo di seme umano
dentro il perimetrale.  

Di quei ruderi mio sovrano,
tutto il tempo sveglio ma con occhi
meravigliosamente chiusi.

*

Un aranceto piantato nell’incolto
stretto da pianterreni a invaso.
La notte puoi vedere i suoi frutti per terra:
splendono tra le erbe, nel segreto crespo
di foglie, e cerchioni arsi in ruggine
( o era la grande ruota di Duchamp?).
Non di scorze al suolo l’impressione
ma tonde lanterne colme di sé, pleiadi,
lampadine da uno scampanio di ghiere
e per sortilegio ancora in vita nel buio.
La bio-luminescenza che radia
una natura morta, nella stanza
sempre in ombra del padre.  

Vanno soli a dormire
in piantagioni notturne
per il latte caglio dei papaveri.
Con sé il giallo ocra
ripiegato nelle tuniche,
i sacri colori di Bisanzio –
Malgrado il sonno e i veleni,
non pensare al Cristo di Holbein:
senza speranza giace.

“Ma tu mi svegli se muoio?” dice il bambino.
Pur distante l’amore
ci tiene a fuoco nel suo chiaro
mirino, e per la stessa ragione
bucata di luce la testa
riprende la ruota delle mani.

Nuovo stare al mondo
alle diecimila creature
come la più piccola parte.

Pur nel paesaggio notturno i frutti dell’aranceto sparsi per terra splendono tra le erbe come lanterne, mentre una domanda racchiusa tra parentesi ripropone l’immagine di un’opera d’arte, La grande ruota di Duchamp, in cui  una ruota di bicicletta è fissata su uno sgabello mettendo in congiunzione e in contraddizione la stasi di chi sta seduto e il movimento, lo spostamento nello spazio della ruota della bicicletta. La ruota che non si può muovere è accostata al dipinto di Holbein del Cristo morto rappresentato prima della resurrezione il cui corpo presenta già segni di decomposizione: A queste due condizioni si giustappone la domanda del bambino che si confronta per la prima volta con la morte: “Ma tu mi svegli se muoio”.  La conclusione del componimento mostra la complessità dei giochi di luce e di ombre e evidenzia la possibilità di un nuovo movimento e di un nuovo stare al mondo.

La prima sezione della raccolta, in cui sono richiamati i nomi di artisti come il giapponese Hokusai, dell’americano Cornell e l’epigrafe di Etty Hillesum, si conclude un’immagine vitale fissata dallo scatto di Leonard Freed, quella  dei bambini di Harlem che giocano con l’acqua che sprizza intorno:

Una pompa d’acqua fuori controllo per la pressione
picchia convulsamente sull’asfalto.  La coda del drago.
Ma il sole esaspera, e i bambini di Harlem accorrono
seminudi, saltano divertiti tra le sferzate gelate,
in festa per il refrigerio.
Gli adulti intorno li guardano
con in mano le pietre
del disdegno.

Nelle altre due sezioni, Visioni dell’ultimo e Le mani per terra, in cui prosegue serrato il confronto con altri artisti, da Kokoschka a De Chirico, Ida Travi, Sinisgalli, Stevens Auden e altri, si intravede nella prima l’immagine della casa percorsa dai venti, nella seconda quella dell’isola ritrovata.

Hai suonato i flauti
notte di vento
con la mia casa.

Imbracci premendo la lingua
Contro il bordo dei vani, gli abbaini,
le microfessure tra porte e finestre,
le trombe tibetane sotto il pavimento.

Dai luce così a un quadrante irrisolto,
assolo notturno – di frontiera alla
serie cronica di sempre le
stesse parole.

Quel vento lo stesso dio
dato per apparso
una volta
per tutti.

La vista dell’isola è affidata alle onde di Wellen, in cui con l’immagine dei ciclisti viene  ripresa l’immagine della ruota della bicicletta, questa volta libera di ruotare, mentre sembra venir meno la parola pronunciata a voce alta, e prevalere un silenzio carico di gesti che vuole a tutti i costi comunicare.  Ritorna anche il soggetto plurale, il “noi” del componimento iniziale:

Sul traghetto per l’isola con noi
una comitiva di ciclisti sordomuti
l’inquieta boscaglia dei gesti.  
Non emettono alcun suono.
Sono smorfie? Sorridono.
Stiamo tornando dove l’origine
 è ignota.  Ingenui.  Stiamo tornando
con il mare.
Dove il Santo e le capre
a uno sgomento apparire
ci ricoprono d’oro, di vita selvatica, linnea.
L’odore del letame sulla via
non spaventa, somiglia alla terra.
Abbiamo avuto la stessa opportunità
di morire, negli anni, degli anni.
Come ora.  Chi più? Chi
meno?

[Rossana Dedola]