31/12/18

CARTE ALLINEATE. Seconda serie, numero 70, dicembre 2018 / Second series, issue 70, December 2018

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INDICE ALFABETICO / INDEX

Le voci elencate qui sotto senza il nome dell’autore sono state scritte, e le foto sono state scattate, da Roberto Bertoni.

29/12/18

Filippo Paganini, I GIORNI DEL 1968



[Spezia from St George castle, 2018. (Foto Rb)]


Filippo Paganini, I giorni del 1968. Sottotitolo: Un anno di cronaca e storia spezzina. La Spezia, Giacché, 2018

A cinquant’anni dal movimento del 68, senza nulla togliere alle pubblicazioni che ogni dieci anni storicizzano quel periodo, non ultima e importante per esempio la serie di supplementi del quotidiano Il Manifesto di quest’anno, pare positivo ricordare, come fa Paganini, il 1968 come anno di avvenimenti complessivi, qui colti nel microcosmo della dimensione locale della zona di La Spezia, che a sua volta rimanda al macrocosmo degli eventi nazionali e internazionali.

La ricerca di questo volume riferisce eventi di cronaca sociopolitica come la crisi economica incentrata sulle vicende dell’Arsenale, la presenza di “quattro spezzini a Praga durante l’invasione sovietica” (p. 149), la “scuola di massa” (p. 111), ma anche avvenimenti della vita collettiva, ora di musica leggera, dalle “messe beat” (126) alla presenza in città di Rita Pavone e Caterina Caselli, ora più drammatici come la sventura metereologica della “città allagata” (p. 146).

Ci sono, naturalmente anche le occupazioni delle scuole (pp. 205-216), ma risultano in un contesto interattivo di cronaca cittadina.

A noi questo libro è piaciuto proprio per la sua impostazione giornalistica oggettiva nella distanza cronologica; oltre che, in modo qui maggiormente soggettivo, per averci ricordato un anno lontano, dato che chi scrive queste note di lettura andava a scuola a Spezia a quel tempo.


[Roberto Bertoni]

23/12/18

THE FESTIVE SEASON


[The plant and the lamp (Dun Laoghaire 2018). Foto Rb]

19/12/18

Marina Pizzi, DAVANZALI DI PIETA', 2008 (Strofe 46-50)

46.


ha le origini del fossile
un giro antico
cremato.


47.

imperio di domanda starti accanto
dove quaggiù si arena la gimcana
nell’ordine malevolo del vero.
plettro di compieta panici del verbo
l’erettile fatuo le rovine delle rondini
le giacche delle fosse le nicchie delle fole
le rondini del ferro.


48.

nessuno ha rotto il calice del sangue
stracolmo mondo un tavolo di morgue


49.

ho un cortocircuito che mi sposta 
il petto e la cintola del sonno:
è grave indizio di ultima stecca.
appena ti vedrò a mano stretta
allora la natura della borchia
avrà capienza per porgerti 
una pietà salina da alambicco.


50.

aggiungimi al cipresso casalingo
alla gola dell’intima bravura
al sapientone enigma del mare aperto
dove troneggia un apice di cellofan 
che ha ucciso una tartaruga.
in gara con la fronte contro l’onda
dammi lo scacco che possa sorriderne
senza la rima pendula del branco.
un dubbio trama ad ernia di sfinge
spingendo contromano la marea
per un unguento di volta finalmente
verso la torba del fiore principesco.




[Le strofe precedenti sono sui numeri scorsi di Carte Allineate]

15/12/18

VIAGGI (SENTIMENTALI) ASIATICI NEL TEMPO

[Symmetry in Space-Time (Marine Hotel, Dun Laoghaire 2018). Foto Rb]


Le serie televisive e i film dell’Asia orientale si servono di vari elementi tematico-strutturali, uno dei quali, non raro, è il viaggio nel tempo. Su Carte allineate lo abbiamo trovato in Rooftop Prince, serie coreana del 2012 per la regia di Lee Hee Myung) e nel più noto The Girl Who Leapt throughTime (2006), film giapponese di animazione diretto da Mamory Osoda, con Gwey Lunmei e Anthony Wong. 

Si veda anche la pellicola di grande affluenza di pubblico asiatico Secret (2007), scritta e diretta dal regista taiwanese Jay Chou, con Gwey Lunmei e Anthony Wong, ambientata in un conservatorio di Taipei, i cui protagonisti si innamorano per mezzo di una porta nel tempo apertasi tramite l’esecuzione, al pianoforte, di uno spartito misterioso. Interessante, in Secret, che la prima metà del film risulti interamente realistica: non si sospetta il fantastico fino a quando il protagonista maschile si accorge di essere stato l’unico a vedere la viaggiatrice del tempo e a comunicare con lei, ora deceduta per una malattia letale, ma che lui riuscirà a raggiungere, infine, viaggiando a ritroso nel tempo dopo avere eseguito il medesimo pezzo musicale che aveva suonato lei prima di tornare nella sua epoca. Il passato viene così modificato con effetti di continuità serena del rapporto di coppia nel presente. In questo film elegante e dalla recitazione piacevolmente antispettacolare, in cui la musica classica svolge un ruolo rilevante, non si dà uno dei corollari dei viaggi del tempo asiatici, ovvero l’effetto farfalla”, che nelle teorie del caos prevede modificazioni significative del sistema, dato il sovvertimento di un elemento anche minimo; in questo caso, se si cambia un dettaglio del passato, si potrebbe influenzare in maniera decisiva il futuro, come invece avviene in Your Name (2016), film giapponese d’animazione diretto da Yakoto Shinkai.

Your Name, uno dei cartoni animati di maggiore risonanza degli ultimi anni, ha disegni nitidi e motivi di contrasto tra la perdita dei valori tradizionali nelle grandi città e la possibilità, ricorrente in molta narrativa scritta e visiva nipponica, del disastro che distrugge una popolazione, un evidente incubo archetipico nato dalla ricorrenza dei terremoti e dalla tragedia di Hiroshima e Nagasaki, più recentemente dallo tsunami di Fukushima. Gli adolescenti protagonisti, lei residente in un paese, lui a Tokyo, si incontrano via sogno a tre anni di distanza dal tempo in cui ciascuno dei due vive; e occupano l’uno il corpo dell’altra con qualche affetto di alleggerimento comico. Scoperta infine la dimensione del viaggio temporale, lei con l'aiuto di lui riesce a sventare la distruzione totale del paese di campagna, facendo evacuare per tempo la popolazione. Otto anni dopo, i due protagonisti si rivedono per caso, ma hanno dimenticato le esperienze vissute come, suggerisce la pellicola, avviene ai crononauti; tuttavia l’iniziale disastro avvenuto è stato modificato dal viaggio nel tempo e il lieto fine sentimentale si presuppone avverrà nel neo-incontro a Tokyo dei due, ormai laureati, ora ignoti reciprocamente ma mutualmente attratti, su cui si conclude il film. 

Due serie taiwanesi dello stesso anno 2016 presentano anch’esse il motivo del viaggio nel tempo. 

Shuttle Love Millennium (2016), taiwanese, appunto, ma diretta dal coreano Kim Byung Soo, con Janice Man, Puff Kuo, Wei Daxun, Zhang Zimu, vede due personaggi in viaggio nel tempo tramite una combinazione magica di chiaro di luna e una bevanda alcolica con proprietà particolari. Chi si trova a utilizzare questi strumenti e ha un doppio nel passato o nel futuro si trasferisce nel sosia e agisce al suo posto. Qui l’arco temporale è la Shanghai del 2016 e quella del 1936, quest'ultima con l’atmosfera gangsteristica e l’incombenza della battaglia del 1937 tra l’esercito giapponese e cinese, nota al viaggiatore proveniente dal futuro, che cerca di minimizzarne le conseguenze. L’effetto farfalla è qui prevalente e conduce alla formulazione del destino sentimentale della coppia protagonista e di quello di vita generale altri personaggi.


L’altra serie taiwanese è Back to 1989, diretta da Ker Choonhui, con Marcus Chang, Ivy Chao, Mini Tsai. Qui il protagonista viaggia nel passato, ivi proiettato casualmente da un incidente in moto, e si ritrova nel 1989, l’anno prima della sua nascita; frequenta un gruppo di persone tra cui sua madre da giovane e cerca il segreto di chi fosse suo padre che, nel futuro, non aveva saputo risolvere in quanto la madre non glielo aveva mai voluto rivelare. Nel 1989, il nonno astronomo, cui confessa chi egli sia in realtà, gli parla dei rischi dell’effetto farfalla e della possibilità che la sua stessa esistenza venga annullata in dipendenza da quali fattori modificherà nel passato

Il tópos del viaggio attraverso il tempo, in questi prodotti visivi, sembra voler sanare le ferite di una vita trascorsa, in ogni caso lenire il dolore personale e collettivo. Sono più che semplici fiabe, insomma.


[Roberto Bertoni]

13/12/18

Han Suyin, THE MORTAL FLOWER

["But after that, the frost came..." (Corniglia 2018). Foto Rb]


Han Suyin, The Mortal Flower, 1965. New York, G.P. Putnam’s Sons, 1966

Questo secondo volume dell’autobiografia di Han Suyin (pseudonimo di Rosalie Chou, divenuta Elisabeth Comber in seguito al secondo matrimonio) è successivo a The Crippled Tree, anch’esso del 1965, e parla del decennio 1928-1938.

Le vicende personali vengono narrate con partecipazione emotiva, dato che si tratta degli anni adolescenziali, dell’esperienza scolastica e universitaria, del rapporto conflittuale coi genitori ma soprattutto con la madre e del periodo trascorso in Belgio presso il nonno di famiglia altolocata e di amicizie e dei primi amori.

Interessante l’elemento psicologico, presentato nelle sue connotazioni socioculturali, articolate soprattutto attorno al nucleo di un’identità cosmopolita, plurilingue e sul complesso nodo della percezione di sé euroasiatica che la rese al contempo partecipe e in parte isolata dalle due culture fino alla scelta di tornare in Cina nel 1938 per il richiamo della responsabilità nazionale negli anni dell’occupazione cinese e per un senso di maggiore appartenenza asiatica che europea.

Spiccati, come già nel primo volume, gli aspetti politici sebbene l’autrice dichiari varie volte di non avere avuto un’opinione precisa in quegli anni, se non sofferenza per l’occupazione straniera, l’attendismo del Kuomintang intento a reprimere il comunismo invece di combattere l’esercito nipponico almeno fino al fronte unito del 1937, ammirazione per Mao Tsedong e la Lunga Marcia, avversione per le manifestazioni ancora esistenti allora di ingerenza imperialista occidentali sia sul piano economico che su quello politico.

Scorrono, nelle pagine che si susseguono con stile fluido e narrativo, i paesaggi delle stagioni a Pechino, ritratti di giovani appartenenti alla classe media e alta, vite vissute tra la tradizione e il desiderio di modernità.

The Mortal Flower ci dice molto sulla Cina degli anni Trenta e sull’identità femminile di un personaggio narrante deciso a diventare medico piuttosto che a porre ogni sforzo, come allora atteso dalle donne, e non solo in Asia, per conseguire un buon matrimonio e condurre una vita semplice e lineare.



[Roberto Bertoni]

11/12/18

Roberto Bugliani, LA MANO (Parte 2) [1]

La seconda volta che il quadro l’aveva chiamato, ponendo fine a un esaltato intervallo trascorso in febbrili compulsazioni di libri sul pittore fiammingo e trapuntato da improvvisi sussulti ogni volta che s’imbatteva nella riproduzione fotografica delle Deux fillettes, prima di raggiungere con passo ansioso e trattenuto, come nell’estremo tentativo di differire l’incontro, la sala dov’era esposto, aveva tracciato rapidamente sul taccuino una serie di giudizi sommari e improbabili che avrebbero increspato in una smorfia compassionevole le labbra del più scalcinato critico di storia dell’arte. Erano una sorta d’infantile dichiarazione di poetica e insieme l’accettazione totale del quadro, la dedizione al suo significato primigenio, che aveva trasformato in deserto la lussureggiante foresta dei dipinti del Museo:

Edgar Degas fa le figurine
Pierre-Auguste Renoir fa il patinato non-mi-piace
Claude Monet fa dei fumetti
Edouard Manet fa statuette cortigiane
Paul Cézanne fa paesaggi immobili
Paul Gaughin fa il taciturno scontroso
Il doganiere Rousseau fa il calligrafo ingenuo
Alfred Sisley fa... no, semplicemente si diverte
Camille Pissarro fa cagare gradevolmente
Vincent van Gogh fa il Museo d’Orsay

Questa volta non cercò di sottrarsi all’arbitrio tirannico della rappresentazione. Si consegnò interamente al quadro, accogliendolo non solo come il prototipo dell’arte, dell’arte vera, mostruosamente sublime, ma come la prodigiosa testimonianza dell’origine, del principio, dell’arché di tutte le abiezioni. Quindi lasciò che l’impeto dello spaesamento sbriciolasse le sue già lesionate coordinate familiari del qui-e-ora, e che il tremito incontrollato agli angoli delle labbra si trasformasse in un’angoscia indecifrabile, mentre con le pupille dilatate dallo stupore del fanciullo che ha appena ricevuto senza motivo uno schiaffo, risalì dalla voragine illimitata aperta sotto le gambe della prima bambina al viso insieme altero e remissivo della seconda, nel quale lesse, come su una pagina offerta al fuoco insaziabile d’un flagello cosmico, l’inarrestabile dolore del mondo. Era un dolore orgoglioso e consapevole, il dolore della trasparente purezza che s’apre all’opacità della colpa, e sa che la condanna rappresenta non già un ingiusto castigo, bensì il premio della virtù, la suprema giustizia che l’essere ricerca e riserva a se stesso. Allora comprese non solo la ferocia sanguinaria dell’aguzzino, ma anche il supplizio dell’innocente che s’offriva deliberatamente al carnefice, e si chiese per chi Van Gogh avesse parteggiato dipingendo il quadro.

Prese a concentrarsi sul contrasto, che non era la semplicistica contrapposizione di bene e di male, d’Ormuzd e d’Ahriman insulsamente vecchia quanto il mondo, ma il conturbante sdoppiamento d’un insieme chiamato, a seconda dei casi, anima, essere, spirito, ego. La postura complice dell’ostaggio non soltanto tradiva l’accettazione della sottomissione, ma stimolava e in un certo senso giustificava il suo assoggettamento al dispotico volere dell’Altro. No, non imploravano salvezza quelle labbra sottili, quelle gote piene, quella carnagione rosea e liscia, quanto piuttosto la condivisione completa della tragica assolutezza della condizione umana, affidata a una situazione ordinaria.

La terza volta aveva cercato di tacitare il possente richiamo interiore con la scusa dell’attesa snervante cui avrebbe dovuto sottoporsi prima che giungesse il proprio turno e la cassiera gli staccasse con un blando sorriso il biglietto, ma sapeva fin troppo bene che la giustificazione non avrebbe retto perché il richiamo era più forte dei fragili pretesti avanzati per evitare l’agguato del dipinto.

La fila sghemba dei visitatori che si muoveva sinuosa come un serpente e più lenta d’una lumaca riprodusse la sua ansia zigzagante tra viscere e cervello, nelle cui spire si sentiva imprigionato, irrimediabilmente. E l’impatto col quadro fu, come sempre, devastante. Questa volta pensò che nelle Deux fillettes Van Gogh non aveva voluto esprimere alcun sentimento, la sua operazione era stata ben più radicale e nichilista, giacché si trattava della sistematica distruzione del sentimento. E non appena il suo sguardo riuscì a liberarsi prepotentemente dal perfido incantesimo del viso della prima bambina, e scese con impaziente sofferenza alla mano scellerata, l’atroce rivelazione della contiguità azzerante qualsivoglia presupposto di separatezza gli pulsò limacciosa nel sangue e l’immagine positiva della seconda bambina fu pervasa da una sorta di corrente pulsionale che la contaminò senza che ciò venisse ridotto a mero episodio dell’eterna lotta tra gli opposti, bensì gli rivelò la fattura dell’essere unico esplicitata in endiadi: iniquità e virtù, malvagità e dolcezza, abiezione e bontà.

L’iniziale dualismo affidato alla doppiezza d’animo delle fillettes era vanificato dal contagio della mano che ne illustrava il momento autentico. La sintesi era dunque ciò che precedeva tesi e antitesi, essa costituiva l’avvio e non la fine del processo: le bambine, pur sedendo fraternamente una accanto all’altra, erano altresì consapevoli della loro identità sdoppiata in ruoli, perché non era tanto la separatezza quanto lo sdoppiamento a consentire all’osservatore di familiarizzarsi con il torbido, conturbante riflesso d’una verità altra. Ed era appunto quell’insieme infantile a risultare inquietante, non già una sua parte, come aveva pensato fino ad allora, credendo ancora possibile un gesto di liberazione con cui separare l’inseparabile.

All’uscita, mentre inghiottiva avidamente cucchiaiate d’aria che gli sbloccarono i polmoni rattrappiti nel respiro spezzato, quasi un rantolo, mantenuto dinanzi al quadro, si disse resoluto che doveva liberarsi dell’ossessione visionaria che il dipinto di Van Gogh gli procurava. L’improvviso frastuono del traffico serotino e il brulicare dei passanti lungo il viale lo riportò alla realtà rassicurante di corpi e voci ignari di verità inconcepibili affidate a un dipinto del 1890. E guardando la gioiosa gincana di due bambini che si rincorrevano vocianti e spensierati sul marciapiede dribblando passanti distratti e richiami dei genitori, stabilì che l’indomani sarebbe rientrato in Italia. La sua permanenza a Parigi s’era prolungata più di quanto aveva inizialmente progettato, ed era giunto il momento di ripartire.

Con quella determinazione nell’animo salì i quattro piani della scala a chiocciola che lo conduceva allo studio di rue Monsieur Le Prince. E con quella idea in testa si cucinò l’abbondante cena di commiato, dando fondo al contenuto commestibile del frigorifero assieme a quello alcolico della bottiglia di Côte du Rhône acquistata la mattina. La sonnolenza dovuta ai bicchieri di troppo lo colse che aveva appena iniziato la lettura di Rayuela di Julio Cortázar, scovato la settimana scorsa in uno scaffale d’angolo della libreria spagnola sottocasa, e benché non fossero ancora le undici di sera, decise d’infilarsi il pigiama e di mettersi a letto.

Un gemito prolungato come un’insistente nenia infantile lo risvegliò di soprassalto. Spalancò gli occhi nell’oscurità frattalica della stanza e con terrore scorse il biancore spettrale d’una mano che lo fissava con ostilità (sì, erano quelli i termini giusti, o almeno i soli che riuscì a trovare per quella situazione assurda). Era una mano larga e pesante, da contadino, una mano adunca e spietata, da carnefice, una mano inesorabile, da incubo. Una mano priva di braccio, di spalla, di faccia contratta, di pupille fiammeggianti, di ghigni malefici, di gelidi sibili di condanna. Una mano che fulminea gli si lanciò alla gola come un insetto schifoso acquattato nella fetida pozza del delirio.

Tentando inutilmente di divincolarsi dalle grinfie d’un destino ineluttabile, mentre il rigurgito di suoni spezzati misti a saliva gli gorgogliava in gola, capì che quella mano ripugnante dotata di vita propria non era, non poteva essere la mano della prima bambina, ma doveva essere la mano del pittore, la mano di Vincent Van Gogh, quella stessa mano assassina che aveva premuto il grilletto del revolver dell’artista, e che adesso gli stringeva la gola con la forza sovrumana dell’ultima pennellata, obbedendo all’ingiunzione dalle ragioni imperscrutabili ricevuta dal dipinto. E nell’agonia del corpo scosso da sussulti sempre più deboli capì che era stata proprio quella mano dispari a fornire al pittore il modello per la mano della prima bambina. Allora la mano andò ai suoi occhi, richiudendoli [2].
























[1] La prima parte di questo racconto è stata pubblicata sul numero precedente di Carte Allineate.
[2] Come ben sa chi l'ha visto, nel quadro di Vincent Van Gogh Les deux fllettes, la mano della prima bambina non ha la postura descritta in questo racconto, ma potrebbe averla, se l'osservatore cedesse all'inganno ottico provocato dalle linee di drappeggio delle maniche delle due bambine.

09/12/18

Simona Giorgi, ECCEDENZA

["The invisible wind, that day..." (Westport 2015). Foto Rb]


ECCEDENZA


Uno squarcio nello spazio-tempo
apre a dirompenti cavalli
lanciati in battaglia,
pensieri con rombo di zoccoli
e grida di fantini armati,
vettori tangenti
alla linea di universo degli eventi.
La testa è una stanza inferocita

07/12/18

Cristina Cona, IL CORONER È ARRIVATO SUBITO



["An express in Milan..." (Stazione Centrale 2018). Foto Rb]

Ho pensato recentemente che se i prestiti linguistici cui fa ricorso la lingua italiana venissero conteggiati, alla stregua di altri prestiti, nel nostro debito pubblico, il paese sarebbe già da un pezzo sprofondato nella più nera bancarotta. Forse sarebbe anche qui il caso di procedere a tagli e manovre correttive. Non che altri paesi non conoscano il problema, anzi. I francesi ad esempio, nonostante l’autorevolezza dell’Académie Française, producono a getto continuo trovate del tipo “c’est très cosy”, “pas vraiment safe”, o il novello verbo “squatter”, e chi più ne ha più ne metta. Da noi però al delirio si è arrivati prima degli altri, e su questa strada siamo, mi pare, molto più avanti degli altri.

Come è già stato notato da più parti, l’insicurezza e il provincialismo (nonché, aggiungeremmo, la pigrizia mentale) risultano determinanti nello spingere all’uso di termini stranieri quando per esprimere un concetto è possibile utilizzare (e, in molti casi, viene da sempre utilizzata) una parola italiana perfettamente adeguata. Mi sembra anzi penosamente ovvio che fra  il ricorso ai prestiti linguistici superflui e la conoscenza effettiva della lingua alla quale appartengono esiste  un rapporto di inversa proporzionalità. Nel corso degli anni ho potuto ad esempio constatare come i quotidiani che spesso e volentieri infiorano la loro prosa di termini “inglesi” (le virgolette mi sembrano d’obbligo) vantino corrispondenti dall’estero il cui inglese non di rado lascia un bel po’ a desiderare (stenderei anche un pietoso velo sul loro italiano, ma è un discorso che mi porterebbe ben al di là dello spazio disponibile).

Esistono certo vari tipi di anglicismi (dico “anglicismi” anziché “forestierismi” perché la maggior parte dei prestiti oggi in uso proviene dalla lingua inglese). Vi sono gli anglicismi adoperati correttamente e che hanno una ragion d’essere perché rientrano in un lessico settoriale o professionale connotato culturalmente ad un punto tale che cercare d’imporre un termine italiano corrispondente sarebbe, perlomeno a questo punto, una battaglia perduta in partenza (penso a settori come l’economia o l’informatica) ; vi sono poi gli anglicismi superflui ma perlomeno “giusti”, nel senso di essere usati nel loro corretto significato ; vi sono poi, ahimé, i numerosi anglicismi  “sbagliati”, senza contare i numerosi calchi non solo scorretti, ma molto spesso, anch’essi, più che superflui.

Gli anglicismi che potremmo definire “giusti ma superflui” sono quelli che (a) non sono espressioni inventate o frutto di un errore grammaticale e (b) effettivamente indicano lo stesso concetto in italiano e in inglese. Che poi sia il caso di usarli è un altro discorso. Un esempio classico è rappresentato dall’abitudine, ormai radicata in certa stampa italiana, di designare i senzatetto con il termine homeless. Nessuno, che io sappia, ha mai spiegato che cos’abbia la parola senzatetto da essere ritenuta sconveniente e/o incolta e/o inadeguata. Poi abbiamo le news al posto delle notizie, abbiamo i famosi days (Election Day, Gay Pride Day, addirittura il Crime Day  - quello, uno s’immagina, in cui tutti vanno a rubare: o no?). Senza contare le occasioni di incontro e di dibattito, che ormai sembra vietato designare in italiano: ogni estate, negli ultimi anni, abbiamo avuto il Meeting di Rimini, la Magna Carta Summer School a Frascati e il Workshop Ambrosetti a Cernobbio. E che dire di un Presidente del Consiglio, concittadino di Dante, che ci ha regalato una legge sull’occupazione denominata giobbesácchete?

Poi c’è il famoso stalking (pronunciato per giunta arricchendo di bella sonorità italica la L e la G: stoLLkinG). I comportamenti cui si fa riferimento sono, purtroppo, sempre esistiti, e la parola “persecuzione” li aveva finora designati più che adeguatamente. E non solo in italiano: un bel fado di Amália Rodrigues s’intitola per l’appunto Perseguiçao. Chissà se adesso sarà stato ribattezzato Estálquim.

Senza contare le innumerevoli solutions, i vari centri benessere definiti  oasi del wellness, la zona eating delle cucine, gli acquisti fatti all’outlet, le illustrazioni pubblicate courtesy dell’artista… basta sfogliare un quotidiano (a volte, ahimé, anche un libro) per raccogliere decine di esempi ogni giorno. Il pettegolezzo è sparito per far posto al gossip, e perfino critici letterari per i quali la lingua italiana dovrebbe essere… come dire ? qualcosa di più di un optional parlano, chissà perché, di plot quando fino a qualche anno fa avrebbero usato senza remore la parola “trama”.  Il titolo di un recente articolo della Stampa chiede: “Sai parlare con il tuo hairstylist ?” Forse è il caso di chiamarlo, banalmente, “parrucchiere”: se capisce quello che dici perché parlate tutti e due italiano, chissà che non vi riesca di instaurare qualcosa che assomigli ad un dialogo.

Nello stupidario possiamo inserire anche un capitolo dedicato allo spagnolo: adesso anche nel centro di Torino non si parla che di movida. Sì, “movida”, e per colmo d’ironia proprio nella città i cui abitanti sono tradizionalmente accusati di essere dei bogianen… Solo che ad usare un termine alternativo come “ciucca”, o sbornia che dir si voglia, ci si farebbe non solo bollare come volgari sprovveduti, ma anche, e soprattutto, si metterebbe a nudo la vera ragion d’essere di tutto questo “sofisticato” viavai notturno: non sia mai detto! Il termine straniero, fra l’altro, serve non di rado anche a questo: utilizzando termini il cui significato non tutti comprendono, e che quindi restano un po’ nel vago, è possibile far apparire interessanti le esperienze più banali, oppure designare anodinamente realtà spiacevoli o che si preferisce non chiamare con il loro nome per non far figura di irriducibili Catoni. Pensiamo, per esempio, a quegli insulsi imbrattatori di muri, monumenti, sottopassaggi e altri beni pubblici, del tutto privi di qualsiasi creatività ed originalità (i loro “capolavori” si ritrovano assolutamente identici in forma e colori da Padova a Parigi, da Barcellona a Birmingham), che si è ormai soliti definire writers: termine che, in quest’accezione, appartiene all’inglese dello slang urbano ma che viene riprodotto tale e quale da cronisti nostrani affetti da una sorta di patetico giovanilismo e vogliosi di sentirsi al passo con i tempi. Osserviamo tra parentesi che questi stessi  “artisti” vengono definiti,con ben maggiore realismo, dalla BBC  “graffiti vandals”.

Se però nel caso degli anglicismi “giusti” si può almeno dire che i termini e le espressioni in questione esistono e vengono usati (più o meno) nel significato che è loro proprio, quelli sbagliati o sono inventati di sana pianta, tanto che un anglofono spesso non capirebbe neppure che cosa vogliono dire, o vengono usati in un’accezione che non è quella della lingua originaria, oppure costituiscono veri e propri errori grammaticali. Prendiamo l’uso ormai straripante del “no” seguito dal sostantivo: in certi casi significa opposizione (no global, no TAV), e qui si potrebbe dire con altrettanta efficacia (nonché, spesso, esattezza grammaticale) in italiano, “no a”; in altri casi viene usato a sproposito per dire semplicemente che certe cose o persone non sono gradite (abbiamo così il perentorio “no perditempo” in certi piccoli annunci) oppure non rientrano in certe categorie (in una grande libreria di Torino ho notato uno scaffale di saggistica in inglese recante la dicitura “no fiction”, mentre chiunque abbia mai frequentato le librerie anglofone - quelle vere - sa che l’espressione giusta è “non-fiction”). Anni fa sulla Stampa era apparso un annuncio di ricerca di una babysitter che si concludeva con l’indimenticabile ingiunzione “no inflessioni dialettiche”. Chiaramente i genitori del bambino erano degli autentici puristi che non tolleravano alcuna contaminazione linguistica.

Di solito però ci si limita a combinare grandi pasticci sul piano terminologico. Che cosa mai indicherà l’insegna “The Mix Shop”? E che cosa significava, anni fa, quell’altra insegna, “Every Young”, su un negozio di abbigliamento? Questo lo so, essendoci arrivata con la retrotraduzione: “Tutto Giovane”. Stesso procedimento per interpretare “History Coffee”: sì, i tapini volevano dire “Caffé Storico” … E che dire dei vari “sexy scandalo”,“ sexy shop”, “sexy symbol”? E’ vero che la lingua di un italofono tende ad attorcigliarsi non poco intorno alla pronuncia, in particolare, di “sex shop”, però anche così non mi sembra il caso di “make the chickens laugh”.

Un altro strafalcione, di cui mi sembra si rendano colpevoli soprattutto i negozi di abbigliamento maschile (specie del genere “all’inglese”), consiste nel fregiarsi di un appellativo contenente il titolo “Sir” seguito da un cognome. Ora, in inglese “sir” può essere accompagnato o dal nome e cognome, oppure soltanto dal nome, ma mai dal solo cognome. Si può dire “Sir Alec Ferguson” o anche, più familiarmente, “Sir Alec”, ma mai “Sir Ferguson”. E invece… invece i nostri poliglotti della moda uomo adorano appiccicare sul proprio negozio insegne con “Sir Wilson”, “Sir Drake”… Fa tanto fine, no?

Ormai siamo così abituati all’uso costante dell’inglese, vero o fasullo, in televisione, sulla stampa e su Internet, che spesso e volentieri ci limitiamo a registrare mentalmente l’esistenza di certe parole senza essere sicuri di ciò che significano, avendo al massimo un’idea nebulosa del contesto in cui vengono utilizzate. Ricordo un fatto di cronaca nera di cui si era parlato al telegiornale: un giovanotto a Milano era stato inseguito fin sotto un portone e lì accoltellato. La custode del palazzo, intervistata, raccontava di aver assistito ai fatti e terminava la sua testimonianza con le parole “Per fortuna il coroner è arrivato subito”. Chi fosse questo “coroner” è lasciato all’immaginazione di chi ascolta: probabilmente la polizia, o magari l’ambulanza…

E per fortuna la signora non ha aggiunto: “Sembrava di assistere ad una fiction”. “Fiction” (pronunciato invariabilmente “fiik-scionn”, se non addirittura “fiikke-scionn”, o nei casi più gravi “fiikke-scionne”) è un altro termine entrato in uso con un significato improprio (in inglese significa (1) narrativa, (2) invenzione, finzione, fantasia - l’opposto cioè di  “fact”; si può parlare di “TV fiction”, ma in quanto categoria di spettacolo, e non per designare un singolo programma) e che deve essere scaturito in ambito RAI  o Mediaset dalla testa di un annunciatore (scusate, “speaker”: altro vocabolo che in inglese significa tutt’altra cosa; in Gran Bretagna si dice, a seconda dei casi, “newsreader”, “announcer” o “presenter”,  mentre negli Stati Uniti si utilizza a seconda dei casi anchorman”, “anchorwoman”, a volte “anchorperson”) più fantasioso che informato, al quale premeva di farsi bello davanti ai suoi capi. O magari di fare più audience… Fino agli anni Ottanta, per designare questo tipo di spettacolo si era soliti ricorrere a termini italiani: sceneggiato televisivo, romanzo sceneggiato, originale televisivo.

E poi c’è il ben noto “footing”: se almeno i prestiti linguistici si facessero direttamente dalla lingua cui appartiene il termine… ma no. Stavolta abbiamo preso dal francese un vocabolo “inglese” che i francesi (e non è la prima volta) si sono creati di fantasia (sulla base del verbo “to foot”, che significa tra l’altro “camminare”, ma viene usato raramente in questa accezione) ; in inglese si dice “jogging”. Forse il coroner è arrivato così in fretta, tutto bello e scattante, perché in forma fisica eccezionale da quando pratica regolarmente il footing.


NOTA

L’articolo è tratto da due contributi apparsi su comunicarepensieri.blogspot.com il 9 ottobre e 6 novembre 2011.