["An express in Milan..." (Stazione Centrale 2018). Foto Rb]
Ho
pensato recentemente che se i prestiti linguistici cui fa ricorso la lingua
italiana venissero conteggiati, alla stregua di altri prestiti, nel nostro
debito pubblico, il paese sarebbe già da un pezzo sprofondato nella più nera
bancarotta. Forse sarebbe anche qui il caso di procedere a tagli e manovre
correttive. Non che altri paesi non conoscano il problema, anzi. I francesi ad
esempio, nonostante l’autorevolezza dell’Académie Française, producono a getto
continuo trovate del tipo “c’est très cosy”, “pas vraiment safe”, o il novello
verbo “squatter”, e chi più ne ha più ne metta. Da noi però al delirio si è
arrivati prima degli altri, e su questa strada siamo, mi pare, molto più avanti
degli altri.
Come
è già stato notato da più parti, l’insicurezza e il provincialismo (nonché,
aggiungeremmo, la pigrizia mentale) risultano determinanti nello spingere all’uso
di termini stranieri quando per esprimere un concetto è possibile utilizzare
(e, in molti casi, viene da sempre utilizzata) una parola italiana
perfettamente adeguata. Mi sembra anzi penosamente ovvio che fra il ricorso ai prestiti linguistici superflui
e la conoscenza effettiva della lingua alla quale appartengono esiste un rapporto di inversa proporzionalità. Nel
corso degli anni ho potuto ad esempio constatare come i quotidiani che spesso e
volentieri infiorano la loro prosa di termini “inglesi” (le virgolette mi
sembrano d’obbligo) vantino corrispondenti dall’estero il cui inglese non di
rado lascia un bel po’ a desiderare (stenderei anche un pietoso velo sul loro
italiano, ma è un discorso che mi porterebbe ben al di là dello spazio
disponibile).
Esistono
certo vari tipi di anglicismi (dico “anglicismi” anziché “forestierismi” perché
la maggior parte dei prestiti oggi in uso proviene dalla lingua inglese). Vi
sono gli anglicismi adoperati correttamente e che hanno una ragion d’essere
perché rientrano in un lessico settoriale o professionale connotato
culturalmente ad un punto tale che cercare d’imporre un termine italiano
corrispondente sarebbe, perlomeno a questo punto, una battaglia perduta in
partenza (penso a settori come l’economia o l’informatica) ; vi sono poi
gli anglicismi superflui ma perlomeno “giusti”, nel senso di essere usati nel
loro corretto significato ; vi sono poi, ahimé, i numerosi anglicismi
“sbagliati”, senza contare i numerosi calchi non solo scorretti, ma molto
spesso, anch’essi, più che superflui.
Gli
anglicismi che potremmo definire “giusti ma superflui” sono quelli che (a)
non sono espressioni inventate o frutto di un errore grammaticale e (b)
effettivamente indicano lo stesso concetto in italiano e in inglese. Che poi
sia il caso di usarli è un altro discorso. Un esempio classico è rappresentato
dall’abitudine, ormai radicata in certa stampa italiana, di designare i
senzatetto con il termine homeless.
Nessuno, che io sappia, ha mai spiegato che cos’abbia la parola senzatetto da essere ritenuta
sconveniente e/o incolta e/o inadeguata. Poi abbiamo le news al posto delle notizie, abbiamo i famosi days (Election Day, Gay Pride Day,
addirittura il Crime Day - quello, uno s’immagina,
in cui tutti vanno a rubare: o no?). Senza contare le occasioni di incontro e
di dibattito, che ormai sembra vietato designare in italiano: ogni estate,
negli ultimi anni, abbiamo avuto il Meeting di Rimini, la Magna Carta Summer
School a Frascati e il Workshop Ambrosetti a Cernobbio. E che dire di un
Presidente del Consiglio, concittadino di Dante, che ci ha regalato una legge
sull’occupazione denominata giobbesácchete?
Poi
c’è il famoso stalking (pronunciato
per giunta arricchendo di bella sonorità italica la L e la G: stoLLkinG). I comportamenti cui si fa riferimento sono, purtroppo, sempre
esistiti, e la parola “persecuzione” li aveva finora designati più che
adeguatamente. E non solo in italiano: un bel fado di Amália Rodrigues s’intitola
per l’appunto Perseguiçao.
Chissà se adesso sarà stato ribattezzato Estálquim.
Senza
contare le innumerevoli solutions, i
vari centri benessere definiti oasi del wellness, la zona eating delle cucine, gli acquisti
fatti all’outlet, le illustrazioni
pubblicate courtesy dell’artista…
basta sfogliare un quotidiano (a volte, ahimé, anche un libro) per raccogliere
decine di esempi ogni giorno. Il pettegolezzo è sparito per far posto al gossip, e perfino critici letterari per
i quali la lingua italiana dovrebbe essere… come dire ? qualcosa di più di
un optional parlano, chissà perché,
di plot quando fino a qualche anno fa
avrebbero usato senza remore la parola “trama”.
Il titolo di un recente articolo della Stampa chiede: “Sai parlare con
il tuo hairstylist ?” Forse è il caso di chiamarlo, banalmente,
“parrucchiere”: se capisce quello che dici perché parlate tutti e due italiano,
chissà che non vi riesca di instaurare qualcosa che assomigli ad un dialogo.
Nello
stupidario possiamo inserire anche un capitolo dedicato allo spagnolo: adesso
anche nel centro di Torino non si parla che di movida. Sì, “movida”, e per colmo d’ironia proprio nella città i
cui abitanti sono tradizionalmente accusati di essere dei bogianen…
Solo che ad usare un termine alternativo come “ciucca”, o sbornia che dir si
voglia, ci si farebbe non solo bollare come volgari sprovveduti, ma anche, e
soprattutto, si metterebbe a nudo la vera ragion d’essere di tutto questo
“sofisticato” viavai notturno: non sia mai detto! Il termine
straniero, fra l’altro, serve non di rado anche a questo: utilizzando
termini il cui significato non tutti comprendono, e che quindi restano un po’
nel vago, è possibile far apparire interessanti le esperienze più banali,
oppure designare anodinamente realtà spiacevoli o che si preferisce non
chiamare con il loro nome per non far figura di irriducibili Catoni. Pensiamo, per esempio, a quegli
insulsi imbrattatori di muri, monumenti, sottopassaggi e altri beni pubblici,
del tutto privi di qualsiasi creatività ed originalità (i loro “capolavori” si
ritrovano assolutamente identici in forma e colori da Padova a Parigi, da
Barcellona a Birmingham), che si è ormai soliti definire writers: termine che, in quest’accezione, appartiene all’inglese
dello slang urbano ma che viene
riprodotto tale e quale da cronisti nostrani affetti da una sorta di patetico
giovanilismo e vogliosi di sentirsi al passo con i tempi. Osserviamo tra
parentesi che questi stessi “artisti” vengono definiti,con ben maggiore
realismo, dalla BBC “graffiti vandals”.
Se
però nel caso degli anglicismi “giusti” si può almeno dire che i termini e le
espressioni in questione esistono e vengono usati (più o meno) nel significato
che è loro proprio, quelli sbagliati o sono inventati di sana pianta, tanto che
un anglofono spesso non capirebbe neppure che cosa vogliono dire, o vengono
usati in un’accezione che non è quella della lingua originaria, oppure
costituiscono veri e propri errori grammaticali. Prendiamo l’uso ormai straripante
del “no” seguito dal sostantivo: in certi casi significa opposizione (no
global, no TAV), e qui si potrebbe dire con altrettanta efficacia (nonché,
spesso, esattezza grammaticale) in italiano, “no a”; in altri casi viene usato
a sproposito per dire semplicemente che certe cose o persone non sono gradite (abbiamo
così il perentorio “no perditempo” in certi piccoli annunci) oppure non
rientrano in certe categorie (in una grande libreria di Torino ho notato uno
scaffale di saggistica in inglese recante la dicitura “no fiction”, mentre
chiunque abbia mai frequentato le librerie anglofone - quelle vere - sa che l’espressione
giusta è “non-fiction”). Anni fa sulla Stampa era apparso un annuncio di
ricerca di una babysitter che si concludeva con l’indimenticabile ingiunzione “no
inflessioni dialettiche”. Chiaramente i genitori del bambino erano degli autentici
puristi che non tolleravano alcuna contaminazione linguistica.
Di
solito però ci si limita a combinare grandi pasticci sul piano terminologico.
Che cosa mai indicherà l’insegna “The Mix Shop”? E che cosa significava,
anni fa, quell’altra insegna, “Every Young”, su un negozio di abbigliamento?
Questo lo so, essendoci arrivata con la retrotraduzione: “Tutto Giovane”.
Stesso procedimento per interpretare “History Coffee”: sì, i tapini volevano
dire “Caffé Storico” … E che dire dei vari “sexy scandalo”,“ sexy shop”, “sexy
symbol”? E’ vero che la lingua di un italofono tende ad attorcigliarsi non poco
intorno alla pronuncia, in particolare, di “sex shop”, però anche così non mi
sembra il caso di “make the chickens laugh”.
Un
altro strafalcione, di cui mi sembra si rendano colpevoli soprattutto i negozi
di abbigliamento maschile (specie del genere “all’inglese”), consiste nel fregiarsi
di un appellativo contenente il titolo “Sir” seguito da un cognome. Ora, in
inglese “sir” può essere accompagnato o dal nome e cognome, oppure soltanto dal
nome, ma mai dal solo cognome. Si può dire “Sir Alec Ferguson” o anche, più
familiarmente, “Sir Alec”, ma mai “Sir Ferguson”. E invece… invece i nostri
poliglotti della moda uomo adorano appiccicare sul proprio negozio insegne con
“Sir Wilson”, “Sir Drake”… Fa tanto fine, no?
Ormai
siamo così abituati all’uso costante dell’inglese, vero o fasullo, in
televisione, sulla stampa e su Internet, che spesso e volentieri ci limitiamo a
registrare mentalmente l’esistenza di certe parole senza essere sicuri di ciò
che significano, avendo al massimo un’idea nebulosa del contesto in cui vengono
utilizzate. Ricordo un fatto di cronaca nera di cui si era parlato al telegiornale:
un giovanotto a Milano era stato inseguito fin sotto un portone e lì
accoltellato. La custode del palazzo, intervistata, raccontava di aver
assistito ai fatti e terminava la sua testimonianza con le parole “Per fortuna
il coroner è arrivato subito”. Chi fosse questo “coroner” è lasciato all’immaginazione
di chi ascolta: probabilmente la polizia, o magari l’ambulanza…
E
per fortuna la signora non ha aggiunto: “Sembrava di assistere ad una fiction”.
“Fiction” (pronunciato invariabilmente “fiik-scionn”, se non addirittura
“fiikke-scionn”, o nei casi più gravi “fiikke-scionne”) è un altro termine entrato
in uso con un significato improprio (in inglese significa (1) narrativa, (2)
invenzione, finzione, fantasia - l’opposto cioè di “fact”; si può parlare di “TV fiction”, ma in
quanto categoria di spettacolo, e non per designare un singolo programma) e che
deve essere scaturito in ambito RAI o
Mediaset dalla testa di un annunciatore (scusate, “speaker”: altro vocabolo che
in inglese significa tutt’altra cosa; in Gran Bretagna si dice, a seconda dei
casi, “newsreader”, “announcer” o “presenter”, mentre negli Stati Uniti si utilizza a seconda
dei casi “anchorman”, “anchorwoman”,
a volte “anchorperson”) più fantasioso che informato, al quale premeva di farsi
bello davanti ai suoi capi. O magari di fare più audience… Fino agli anni Ottanta,
per designare questo tipo di spettacolo si era soliti ricorrere a termini
italiani: sceneggiato televisivo, romanzo sceneggiato, originale televisivo.
E
poi c’è il ben noto “footing”: se almeno i prestiti linguistici si facessero direttamente
dalla lingua cui appartiene il termine… ma no. Stavolta abbiamo preso dal
francese un vocabolo “inglese” che i francesi (e non è la prima volta) si sono
creati di fantasia (sulla base del verbo “to foot”, che significa tra l’altro
“camminare”, ma viene usato raramente in questa accezione) ; in inglese si dice “jogging”. Forse il coroner è arrivato
così in fretta, tutto bello e scattante, perché in forma fisica eccezionale da
quando pratica regolarmente il footing.
NOTA
L’articolo
è tratto da due contributi apparsi su comunicarepensieri.blogspot.com il 9
ottobre e 6 novembre 2011.