Edgar Degas fa le
figurine
Pierre-Auguste
Renoir fa il patinato non-mi-piace
Claude Monet fa
dei fumetti
Edouard Manet fa
statuette cortigiane
Paul Cézanne fa
paesaggi immobili
Paul Gaughin fa il
taciturno scontroso
Il doganiere
Rousseau fa il calligrafo ingenuo
Alfred Sisley
fa... no, semplicemente si diverte
Camille Pissarro
fa cagare gradevolmente
Vincent van Gogh
fa il Museo d’Orsay
Questa
volta non cercò di sottrarsi all’arbitrio tirannico della rappresentazione. Si
consegnò interamente al quadro, accogliendolo non solo come il prototipo dell’arte,
dell’arte vera, mostruosamente sublime, ma come la prodigiosa testimonianza
dell’origine, del principio, dell’arché di tutte le abiezioni. Quindi lasciò
che l’impeto dello spaesamento sbriciolasse le sue già lesionate coordinate
familiari del qui-e-ora, e che il tremito incontrollato agli angoli delle
labbra si trasformasse in un’angoscia indecifrabile, mentre con le pupille
dilatate dallo stupore del fanciullo che ha appena ricevuto senza motivo uno
schiaffo, risalì dalla voragine illimitata aperta sotto le gambe della prima
bambina al viso insieme altero e remissivo della seconda, nel quale lesse, come
su una pagina offerta al fuoco insaziabile d’un flagello cosmico, l’inarrestabile
dolore del mondo. Era un dolore orgoglioso e consapevole, il dolore della
trasparente purezza che s’apre all’opacità della colpa, e sa che la condanna
rappresenta non già un ingiusto castigo, bensì il premio della virtù, la
suprema giustizia che l’essere ricerca e riserva a se stesso. Allora comprese
non solo la ferocia sanguinaria dell’aguzzino, ma anche il supplizio dell’innocente
che s’offriva deliberatamente al carnefice, e si chiese per chi Van Gogh avesse
parteggiato dipingendo il quadro.
Prese
a concentrarsi sul contrasto, che non era la semplicistica contrapposizione di
bene e di male, d’Ormuzd e d’Ahriman insulsamente vecchia quanto il mondo, ma
il conturbante sdoppiamento d’un insieme chiamato, a seconda dei casi, anima,
essere, spirito, ego. La postura complice dell’ostaggio non soltanto tradiva l’accettazione
della sottomissione, ma stimolava e in un certo senso giustificava il suo
assoggettamento al dispotico volere dell’Altro. No, non imploravano salvezza
quelle labbra sottili, quelle gote piene, quella carnagione rosea e liscia,
quanto piuttosto la condivisione completa della tragica assolutezza della
condizione umana, affidata a una situazione ordinaria.
La
terza volta aveva cercato di tacitare il possente richiamo interiore con la
scusa dell’attesa snervante cui avrebbe dovuto sottoporsi prima che giungesse
il proprio turno e la cassiera gli staccasse con un blando sorriso il
biglietto, ma sapeva fin troppo bene che la giustificazione non avrebbe retto
perché il richiamo era più forte dei fragili pretesti avanzati per evitare l’agguato
del dipinto.
La
fila sghemba dei visitatori che si muoveva sinuosa come un serpente e più lenta
d’una lumaca riprodusse la sua ansia zigzagante tra viscere e cervello, nelle
cui spire si sentiva imprigionato, irrimediabilmente. E l’impatto col quadro
fu, come sempre, devastante. Questa volta pensò che nelle Deux fillettes Van Gogh non aveva voluto esprimere alcun
sentimento, la sua operazione era stata ben più radicale e nichilista, giacché
si trattava della sistematica distruzione del sentimento. E non appena il suo
sguardo riuscì a liberarsi prepotentemente dal perfido incantesimo del viso
della prima bambina, e scese con impaziente sofferenza alla mano scellerata, l’atroce
rivelazione della contiguità azzerante qualsivoglia presupposto di separatezza
gli pulsò limacciosa nel sangue e l’immagine positiva della seconda bambina fu
pervasa da una sorta di corrente pulsionale che la contaminò senza che ciò
venisse ridotto a mero episodio dell’eterna lotta tra gli opposti, bensì gli
rivelò la fattura dell’essere unico esplicitata in endiadi: iniquità e virtù,
malvagità e dolcezza, abiezione e bontà.
L’iniziale
dualismo affidato alla doppiezza d’animo delle fillettes era vanificato
dal contagio della mano che ne illustrava il momento autentico. La sintesi era
dunque ciò che precedeva tesi e antitesi, essa costituiva l’avvio e non la fine
del processo: le bambine, pur sedendo fraternamente una accanto all’altra,
erano altresì consapevoli della loro identità sdoppiata in ruoli, perché non
era tanto la separatezza quanto lo sdoppiamento a consentire all’osservatore di
familiarizzarsi con il torbido, conturbante riflesso d’una verità altra. Ed era
appunto quell’insieme infantile a risultare inquietante, non già una sua parte,
come aveva pensato fino ad allora, credendo ancora possibile un gesto di liberazione
con cui separare l’inseparabile.
All’uscita,
mentre inghiottiva avidamente cucchiaiate d’aria che gli sbloccarono i polmoni
rattrappiti nel respiro spezzato, quasi un rantolo, mantenuto dinanzi al
quadro, si disse resoluto che doveva liberarsi dell’ossessione visionaria che
il dipinto di Van Gogh gli procurava. L’improvviso frastuono del traffico
serotino e il brulicare dei passanti lungo il viale lo riportò alla realtà
rassicurante di corpi e voci ignari di verità inconcepibili affidate a un
dipinto del 1890. E guardando la gioiosa gincana di due bambini che si
rincorrevano vocianti e spensierati sul marciapiede dribblando passanti
distratti e richiami dei genitori, stabilì che l’indomani sarebbe rientrato in
Italia. La sua permanenza a Parigi s’era prolungata più di quanto aveva
inizialmente progettato, ed era giunto il momento di ripartire.
Con
quella determinazione nell’animo salì i quattro piani della scala a chiocciola
che lo conduceva allo studio di rue Monsieur Le Prince. E con quella idea in
testa si cucinò l’abbondante cena di commiato, dando fondo al contenuto
commestibile del frigorifero assieme a quello alcolico della bottiglia di Côte
du Rhône acquistata la mattina. La sonnolenza dovuta ai bicchieri di troppo
lo colse che aveva appena iniziato la lettura di Rayuela di Julio
Cortázar, scovato la settimana scorsa in uno scaffale d’angolo della libreria
spagnola sottocasa, e benché non fossero ancora le undici di sera, decise d’infilarsi
il pigiama e di mettersi a letto.
Un
gemito prolungato come un’insistente nenia infantile lo risvegliò di
soprassalto. Spalancò gli occhi nell’oscurità frattalica della stanza e con
terrore scorse il biancore spettrale d’una mano che lo fissava con ostilità
(sì, erano quelli i termini giusti, o almeno i soli che riuscì a trovare per
quella situazione assurda). Era una mano larga e pesante, da contadino, una
mano adunca e spietata, da carnefice, una mano inesorabile, da incubo. Una mano
priva di braccio, di spalla, di faccia contratta, di pupille fiammeggianti, di
ghigni malefici, di gelidi sibili di condanna. Una mano che fulminea gli si
lanciò alla gola come un insetto schifoso acquattato nella fetida pozza del
delirio.
Tentando
inutilmente di divincolarsi dalle grinfie d’un destino ineluttabile, mentre il
rigurgito di suoni spezzati misti a saliva gli gorgogliava in gola, capì che
quella mano ripugnante dotata di vita propria non era, non poteva essere la
mano della prima bambina, ma doveva
essere la mano del pittore, la mano di Vincent Van Gogh, quella stessa mano
assassina che aveva premuto il grilletto del revolver dell’artista, e che
adesso gli stringeva la gola con la forza sovrumana dell’ultima pennellata,
obbedendo all’ingiunzione dalle ragioni imperscrutabili ricevuta dal dipinto. E
nell’agonia del corpo scosso da sussulti sempre più deboli capì che era stata
proprio quella mano dispari a fornire al pittore il modello per la mano
della prima bambina. Allora la mano andò ai suoi occhi, richiudendoli [2].
[1] La prima
parte di questo racconto è stata pubblicata sul numero precedente di Carte Allineate.
[2] Come ben
sa chi l'ha visto, nel quadro di Vincent Van Gogh Les deux fllettes, la
mano della prima bambina non ha la postura descritta in questo racconto, ma
potrebbe averla, se l'osservatore cedesse all'inganno ottico provocato dalle
linee di drappeggio delle maniche delle due bambine.