11/12/18

Roberto Bugliani, LA MANO (Parte 2) [1]

La seconda volta che il quadro l’aveva chiamato, ponendo fine a un esaltato intervallo trascorso in febbrili compulsazioni di libri sul pittore fiammingo e trapuntato da improvvisi sussulti ogni volta che s’imbatteva nella riproduzione fotografica delle Deux fillettes, prima di raggiungere con passo ansioso e trattenuto, come nell’estremo tentativo di differire l’incontro, la sala dov’era esposto, aveva tracciato rapidamente sul taccuino una serie di giudizi sommari e improbabili che avrebbero increspato in una smorfia compassionevole le labbra del più scalcinato critico di storia dell’arte. Erano una sorta d’infantile dichiarazione di poetica e insieme l’accettazione totale del quadro, la dedizione al suo significato primigenio, che aveva trasformato in deserto la lussureggiante foresta dei dipinti del Museo:

Edgar Degas fa le figurine
Pierre-Auguste Renoir fa il patinato non-mi-piace
Claude Monet fa dei fumetti
Edouard Manet fa statuette cortigiane
Paul Cézanne fa paesaggi immobili
Paul Gaughin fa il taciturno scontroso
Il doganiere Rousseau fa il calligrafo ingenuo
Alfred Sisley fa... no, semplicemente si diverte
Camille Pissarro fa cagare gradevolmente
Vincent van Gogh fa il Museo d’Orsay

Questa volta non cercò di sottrarsi all’arbitrio tirannico della rappresentazione. Si consegnò interamente al quadro, accogliendolo non solo come il prototipo dell’arte, dell’arte vera, mostruosamente sublime, ma come la prodigiosa testimonianza dell’origine, del principio, dell’arché di tutte le abiezioni. Quindi lasciò che l’impeto dello spaesamento sbriciolasse le sue già lesionate coordinate familiari del qui-e-ora, e che il tremito incontrollato agli angoli delle labbra si trasformasse in un’angoscia indecifrabile, mentre con le pupille dilatate dallo stupore del fanciullo che ha appena ricevuto senza motivo uno schiaffo, risalì dalla voragine illimitata aperta sotto le gambe della prima bambina al viso insieme altero e remissivo della seconda, nel quale lesse, come su una pagina offerta al fuoco insaziabile d’un flagello cosmico, l’inarrestabile dolore del mondo. Era un dolore orgoglioso e consapevole, il dolore della trasparente purezza che s’apre all’opacità della colpa, e sa che la condanna rappresenta non già un ingiusto castigo, bensì il premio della virtù, la suprema giustizia che l’essere ricerca e riserva a se stesso. Allora comprese non solo la ferocia sanguinaria dell’aguzzino, ma anche il supplizio dell’innocente che s’offriva deliberatamente al carnefice, e si chiese per chi Van Gogh avesse parteggiato dipingendo il quadro.

Prese a concentrarsi sul contrasto, che non era la semplicistica contrapposizione di bene e di male, d’Ormuzd e d’Ahriman insulsamente vecchia quanto il mondo, ma il conturbante sdoppiamento d’un insieme chiamato, a seconda dei casi, anima, essere, spirito, ego. La postura complice dell’ostaggio non soltanto tradiva l’accettazione della sottomissione, ma stimolava e in un certo senso giustificava il suo assoggettamento al dispotico volere dell’Altro. No, non imploravano salvezza quelle labbra sottili, quelle gote piene, quella carnagione rosea e liscia, quanto piuttosto la condivisione completa della tragica assolutezza della condizione umana, affidata a una situazione ordinaria.

La terza volta aveva cercato di tacitare il possente richiamo interiore con la scusa dell’attesa snervante cui avrebbe dovuto sottoporsi prima che giungesse il proprio turno e la cassiera gli staccasse con un blando sorriso il biglietto, ma sapeva fin troppo bene che la giustificazione non avrebbe retto perché il richiamo era più forte dei fragili pretesti avanzati per evitare l’agguato del dipinto.

La fila sghemba dei visitatori che si muoveva sinuosa come un serpente e più lenta d’una lumaca riprodusse la sua ansia zigzagante tra viscere e cervello, nelle cui spire si sentiva imprigionato, irrimediabilmente. E l’impatto col quadro fu, come sempre, devastante. Questa volta pensò che nelle Deux fillettes Van Gogh non aveva voluto esprimere alcun sentimento, la sua operazione era stata ben più radicale e nichilista, giacché si trattava della sistematica distruzione del sentimento. E non appena il suo sguardo riuscì a liberarsi prepotentemente dal perfido incantesimo del viso della prima bambina, e scese con impaziente sofferenza alla mano scellerata, l’atroce rivelazione della contiguità azzerante qualsivoglia presupposto di separatezza gli pulsò limacciosa nel sangue e l’immagine positiva della seconda bambina fu pervasa da una sorta di corrente pulsionale che la contaminò senza che ciò venisse ridotto a mero episodio dell’eterna lotta tra gli opposti, bensì gli rivelò la fattura dell’essere unico esplicitata in endiadi: iniquità e virtù, malvagità e dolcezza, abiezione e bontà.

L’iniziale dualismo affidato alla doppiezza d’animo delle fillettes era vanificato dal contagio della mano che ne illustrava il momento autentico. La sintesi era dunque ciò che precedeva tesi e antitesi, essa costituiva l’avvio e non la fine del processo: le bambine, pur sedendo fraternamente una accanto all’altra, erano altresì consapevoli della loro identità sdoppiata in ruoli, perché non era tanto la separatezza quanto lo sdoppiamento a consentire all’osservatore di familiarizzarsi con il torbido, conturbante riflesso d’una verità altra. Ed era appunto quell’insieme infantile a risultare inquietante, non già una sua parte, come aveva pensato fino ad allora, credendo ancora possibile un gesto di liberazione con cui separare l’inseparabile.

All’uscita, mentre inghiottiva avidamente cucchiaiate d’aria che gli sbloccarono i polmoni rattrappiti nel respiro spezzato, quasi un rantolo, mantenuto dinanzi al quadro, si disse resoluto che doveva liberarsi dell’ossessione visionaria che il dipinto di Van Gogh gli procurava. L’improvviso frastuono del traffico serotino e il brulicare dei passanti lungo il viale lo riportò alla realtà rassicurante di corpi e voci ignari di verità inconcepibili affidate a un dipinto del 1890. E guardando la gioiosa gincana di due bambini che si rincorrevano vocianti e spensierati sul marciapiede dribblando passanti distratti e richiami dei genitori, stabilì che l’indomani sarebbe rientrato in Italia. La sua permanenza a Parigi s’era prolungata più di quanto aveva inizialmente progettato, ed era giunto il momento di ripartire.

Con quella determinazione nell’animo salì i quattro piani della scala a chiocciola che lo conduceva allo studio di rue Monsieur Le Prince. E con quella idea in testa si cucinò l’abbondante cena di commiato, dando fondo al contenuto commestibile del frigorifero assieme a quello alcolico della bottiglia di Côte du Rhône acquistata la mattina. La sonnolenza dovuta ai bicchieri di troppo lo colse che aveva appena iniziato la lettura di Rayuela di Julio Cortázar, scovato la settimana scorsa in uno scaffale d’angolo della libreria spagnola sottocasa, e benché non fossero ancora le undici di sera, decise d’infilarsi il pigiama e di mettersi a letto.

Un gemito prolungato come un’insistente nenia infantile lo risvegliò di soprassalto. Spalancò gli occhi nell’oscurità frattalica della stanza e con terrore scorse il biancore spettrale d’una mano che lo fissava con ostilità (sì, erano quelli i termini giusti, o almeno i soli che riuscì a trovare per quella situazione assurda). Era una mano larga e pesante, da contadino, una mano adunca e spietata, da carnefice, una mano inesorabile, da incubo. Una mano priva di braccio, di spalla, di faccia contratta, di pupille fiammeggianti, di ghigni malefici, di gelidi sibili di condanna. Una mano che fulminea gli si lanciò alla gola come un insetto schifoso acquattato nella fetida pozza del delirio.

Tentando inutilmente di divincolarsi dalle grinfie d’un destino ineluttabile, mentre il rigurgito di suoni spezzati misti a saliva gli gorgogliava in gola, capì che quella mano ripugnante dotata di vita propria non era, non poteva essere la mano della prima bambina, ma doveva essere la mano del pittore, la mano di Vincent Van Gogh, quella stessa mano assassina che aveva premuto il grilletto del revolver dell’artista, e che adesso gli stringeva la gola con la forza sovrumana dell’ultima pennellata, obbedendo all’ingiunzione dalle ragioni imperscrutabili ricevuta dal dipinto. E nell’agonia del corpo scosso da sussulti sempre più deboli capì che era stata proprio quella mano dispari a fornire al pittore il modello per la mano della prima bambina. Allora la mano andò ai suoi occhi, richiudendoli [2].
























[1] La prima parte di questo racconto è stata pubblicata sul numero precedente di Carte Allineate.
[2] Come ben sa chi l'ha visto, nel quadro di Vincent Van Gogh Les deux fllettes, la mano della prima bambina non ha la postura descritta in questo racconto, ma potrebbe averla, se l'osservatore cedesse all'inganno ottico provocato dalle linee di drappeggio delle maniche delle due bambine.