31/08/19

CARTE ALLINEATE. Seconda serie, numero 75, luglio-agosto 2019/ Second series, issue 75, July-August 2019

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INDICE ALFABETICO / INDEX

Le voci elencate qui sotto senza il nome dell’autore sono state scritte, e le foto sono state scattate, da Roberto Bertoni.

IN COSTRUZIONE

- ANAND, Dibyesh, GEOPOLITICAL EXOTICA: TIBET IN WESTERN IMAGINATION. Note di lettura, 11-7-2019.
- ATWOOD, Margaret, THE BLIND ASSASSIN. Note di lettura, 27-7-2019.
- BRAH, Avtar, DIASPORA, BORDER AND TRANSNATIONAL IDENTITIES. Note di lettura, 19-7-2019.
- CHIANG, Ted, STORY OF YOUR LIFE AND OTHERS. Note di lettura, 7-8-2019.
- GRINBERG, Miguel, MARIO SOFFICI. Storie di immagini, 5-7-2019.
- KNOTT, Kim, and McLOUGHLIN, Sean, DIASPORAS. Note di lettura, 25-7-2019.
- MASI, Maurizio, LA TRINITA'. Testo, 13-7-2019.
- MATUTE, Ana Maria, ARANMANOTH. Note di lettura, 21-7-2019.
- MORIN, Edgar, L’HUMANITÉ DE L’HUMANITÉ: L’IDENTITÉ HUMAINE. Note di lettura, 9-7-2019.
- TURCO, Simone, DESTINO E PAROLA IN LEOPARDI E RILKE. POSSIBILI CONVERGENZE TRA CANTI E LA SETTIMA ELEGIA. Riflessione, 17-7-2019.

07/08/19

Ted Chiang, STORY OF YOUR LIFE AND OTHERS

Londra, MacMillan (Picador), 2002. (Edizione Kindle)


Avevamo già citato un racconto di questa raccolta, “Story of your life”, quello che dà il titolo al volume e ha ispirato l’ottimo film di fantascienza Arrival

Anche gli altri racconti del volume non deludono. Presentano riferimenti scientifici o culturali d’altro tipo ed elaborazioni fantastiche.  I nostri preferiti qui sotto.

In “Tower of Babylon” si immagina una produzione della torre in altezza, come nella tradizione, che coincide con la forma della Terra e ne costituisce il segreto, forse rappresentandone anche l’inutilità.

“Understand” si basa sull’ipotesi di un ormone che moltiplica le capacità intellettive, ma quando a svilupparsi in questa direzione sono due esseri umani anziché uno, uno dei due è  destinato a essere sconfitto e soccombere.

“Division by zero” intercala massime di matematici, soprattutto sull’improbabilità dell’apparente esattezza di questa disciplina a restituire il reale appropriatamente, con le vicende personali della docente imbattutasi in un teorema insolubile e prossima al divorzio.

Oltre a lasciare soluzioni aperte e a esprimere paradossi, Chiang si apre verso il fantastico oltre  che la fantascienza e scrive in un inglese fluido e letterario senza essere affetttato.


[Roberto Bertoni]



27/07/19

Margaret Atwood, THE BLIND ASSASSIN

Toronto, McClelland and Stewart, 2000

Questo romanzo al contempo realista e sperimentale disseziona le miserie umane e sociali delle classi agiate canadesi degli anni Trenta, soprattutto, e dei decenni successivi, mentre si dipana una macchinazione narrativa fatta di occultamenti fino alla rivelazione finale della vera storia dei protagonisti, attuata anche tramite un romanzo nel romanzo.

Per l’intreccio, piuttosto denso e complicato, si potrà vedere The Blind Assassin Summary. Diciamo solo qui, brevemente, che l’anziana Iris scrive nella contemporaneità la storia tragica della sua famiglia: la perdita della fabbrica e della prosperità economica da parte del padre dopo la morte della madre, il suo conseguente matrimonio di convenienza al ricco Richard Griffen, un amore segreto per il rivoluzionario Alex che il romanzo nel romanzo attribuisce alla sorella Laura, morta  suicida. Si scopre gradualmente che Richard aveva violato Laura e il romanzo diventato un successo editoriale ne rivela le cattive azioni, spingendolo alla rovina economica e al suicidio.

Oltre alla descrizione ben eseguita dei rapporti psicologici nella narrazione principale di cornice, il metaromanzo, ambientato su un pianeta alieno in una società antica efferata in cui un produttore di tappeti sfrutta il lavoro infantile e costringe i bambini lavoranti, quando non sono più in grado di attendere al telaio per cecità dovuta al lavoro, a diventare assassini. Se lo sfruttamento fa da controparte fantastica e brutalizzante alla società ipocrita della narrazione principale, che persegue simili obiettivi di arricchimento a spese del lavoro salariato con comportamenti improntati ad apparente civiltà, gli assassini infantili e la cecità sono forse metafore della costrizione cui Richard sottopone Laura, chiudendola in una casa di cura e procurandole un aborto per soffocare lo scandalo del tradimento.

Tra le analisi di questo romanzo vincitore di vari premi importanti, si veda in particolare il capitolo 9 del volume a cura di Sharon Rose Wilson, Margaret Atwood’s Textual Assassinations (Ohio University Press, 2003).


[Roberto Bertoni]

25/07/19

Kim Knott and Seán McLoughlin, DIASPORAS


Subtitle: Concepts, Intersections, Identities. London and New York, Zed Books, 2010

This useful volume, subdivided into short chapters written by several different contributors, defines the intersecting areas of migration, diaspora, transnationalism cosmopolitanism and other concepts, and provides a number of field examples. Indicated below are only some ideas among the numerous stimuli included in the book.

Martin Baumann ascribes the meaning of diaspora, understood chiefly as exile, to Jewish history: “the term was coined to form an integral part of a pattern constituted by the fourfold course of sin and disobedience, scattering and diaspora, repentance, and finally return and gathering” (p. 21).

Baumann also observes that, whereas today exile is rather associated to a forced condition and homelessness, the term diaspora has become more general since the 1960s when it “was employed to denote a national, cultural, or religious group living in a foreign land”, and it has broadened its semantic area even further since the 1990s (p. 22).

When we discuss exile, we normally understand a temporary situation, whereas in modern migrations a variety of attitudes to permanence and integration in the host culture, as well as yearning for the native culture, have to be considered.

A diasporic configuration includes “nostalgia for remigration” which is a recurrent affect in modern times among migrants. As Femte Stock details, “what is remembered is a prior home. This recollection, however, evolves in constant dialogue with new memories of other places and changing circumstances” (p. 19).

The concept of home is indeed complex and variable. As Shelley Mallett puts it, “home is variously described as conflated with or related to house, family, haven, self, gender, and journeying” (p. 27).

This is connected to transnationalism. As Peggy Levitt observes: “more and more, we live in a world in which people embrace multiple identities and turn to a variety of institutions around the globe to claim them” (p. 39).

On an interconnected level, Robin Cohen adopts the term “creolization”: “the idea of creolization […] centres on the cross-fertilization between different cultures as they interact” (p. 71).

Among the numerous case studies listed in this volume, two are particularly interesting to the present writer. Jeffrey Lesser examines the case of belonging and alienation of Japanese people who migrated to Brasil a century ago, and notices that even recent generations are still not fully integrated there, nor are they totally at ease if they remigrate to Japan. Dibyesh Anand writes about the case of Tibetans living in the Indian diaspora, which was successful to create a strong sense of identity.


[Roberto Bertoni]

21/07/19

Ana María Matute, ARANMANOTH


["That secluded garden, leading perhaps to a fantastic location..." (Madrid 2016). Foto Rb]


Ana Maria Matute, Aranmanoth. Madrid, editorial Espasa Calpe, 2000

Romanzo di formazione, fiaba, denuncia dei pregiudizi sociali che mettono in pericolo l’innocenza, questo libro di Matute ripercorre temi ricorrenti nellopera dell'autrice.

Ambientato in un Medioevo realista per i rapporti di vassallaggio, e fantastico per la presenza di fate e altri esseri semimagici, Aranmanoth pare rivolto a una fascia prevalente di lettori nelle prima adolescenza.

L’intreccio si orienta, nella prima parte, sul personaggio di Orso, la sua educazione repressiva da parte paterna, l’amore con una fata che ne modifica stile di vita e percezioni del reale.  

Quando Orso diviene proprietario del feudo alla morte del padre, la fata gli invia Aranmanoth, il figlio che hanno concepito, quando il fanciullo compie nove anni. Il bambino si rivela sensibile al fantastico e capace di ascoltare le magie di natura. Aranmanoth e Orso sviluppano una relazione di buona qualità tra padre e figlio, fino a quanto il Conte feudatario obbliga Orso a sposare una bambina, Windamanoth, con cui consumerà il matrimonio al raggiungimento dell’età adulta. Il giorno in cui Orso deve partire per la guerra per un lungo periodo, affida la bambina al figlio. Aranmanoth e Windamanoth sviluppano un'amicizia innocente, fraterna, che si acuisce nella loro prima adolescenza, ingenerando pettegolezzi malevoli e sospetti di amore carnale, che spingeranno infine in Conte a inscenare l’omicidio della ragazza da parte di Aranmanoth e a condannarlo a morte per conseguenza. Orso conclude i suoi giorni da eremita dopo questi avvenimenti che subisce senza approvarli.

Oltre l’innocenza e le convenzioni, come sopra delineato, c’è nel romanzo un  contrasto tra Nord e Sud, due entità semimitiche. Windamanoth proviene dal Sud, ma quando va a cercarlo in un viaggio geografico non lo trova. Una delle sorelle le spiega che il Sud non esiste in quanto territorio reale; si tratta dunque di una dimensione idealizzata, coincidente in parte con la memoria dell’infanzia, e in parte con valori di allegria, estroversione, agio, che la ragazza non prova nell’alienazione del Nord.

[Roberto Bertoni]

19/07/19

Avtar Brah, DIASPORA, BORDER AND TRANSNATIONAL IDENTITIES

Chapter 8 of A. Brah, Cartographies of Diasporas, London and New York, Routledge, 1998, pp. 178-210

L’autrice elabora idee complesse, ma non si sottrae a un’esemplificazione basata in parte sulla propria identità doppia, sud asiatica e ugandese, mediata infine dalla cittadinanza inglese quando la sua famiglia, ai tempi di Amin, venne, come altri indiani e sud asiatici in generale, costretta a lasciare il paese in cui erano emigrati.

Il capitolo sulla diaspora, il confine e le identità transnazionali  mette in luce come il concetto di diaspora sia oggi legato a quello di “migrante, immigrante, espatriato, rifugiato, lavoratore ospite ed esilio”  (p. 186).

In questo contesto, l’idea di “home”, che qui rendiamo in italiaano come “luogo natio”, suddivisa tra avere un luogo natio e sentirsi a proprio agio in un luogo di residenza, si combina con quella di “dispersione”: da un lato si riscontra un desiderio di appartenenza a un luogo natio, dall’altro una critica delle origini fisse a favore di identità peregrinanti (pp. 192-193), o plurilocalizzate territorialmente, culturalmente e psicologicamente (p. 197).

Se la diaspora indica da un lato lo sradicamento, comprende dall’altro la speranza di un ricominciamento (p. 193).

Infine, è sempre tipico della diaspora il rapporto tra globale e locale (p. 195).


[Roberto Bertoni]

17/07/19

Simone Turco, DESTINO E PAROLA IN LEOPARDI E RILKE. POSSIBILI CONVERGENZE TRA CANTI E LA SETTIMA ELEGIA


La Settima elegia di Rainer Maria Rilke ci appare quale momento sintetico degli interrogativi suscitati nelle precedenti Elegien (ricordiamo che è con la settima che il poeta riprende il lavoro sulle Elegie, il 7 febbraio 1922). Di strutturazione assai complessa, essa è istante titanico, violento, dolente; eppure mantiene intatta quella fluidità, quella religiosità quasi rituale che pervade l’opera di Rilke sin dalla stesura del Malte. In particolare, vi si affronta il problema del destino e della mancanza di destino con rinnovato vigore rispetto alle produzioni precedenti. Nell’analisi di questi temi in una prospettiva comparatistica, abbiamo ritenuto opportuno richiamare l’attenzione su alcuni Canti di Leopardi e la Settima elegia[1]. Il confronto è tanto più stimolante poiché, pur non sapendo effettivamente quanto Rilke conoscesse Leopardi, egli tradusse qualche verso de La sera del dì di festa, nonché l’Infinito[2], mostrando per il Poeta un interesse ed un’affinità indicativi di possibili e significative convergenze.

Fulcro dell’elegia è il grido. Tale grido, la scalata verticale verso il Cielo, nella già esplorata intima consapevolezza della ricaduta verso la città terrena composta di contraddizioni, di fatiscenze, di disintegrazione, non è un’invocazione del tutto istintiva, è bensì anche in una certa misura voluta, provocata e condotta ad una climax che la farà ripiombare inevitabilmente nella certezza di un vernichtendes Schicksal. È un destino che si situa oltre il tempo; anzi, esso ingloba il tempo, lo compenetra e lo plasma secondo leggi che governano l’umano agire e la cui comprensione e riattuazione rimangono, come sottolineato nel corso del componimento, prerogativa dell’Angelo: “Angelo, o stupisci, siamo noi questo, / noi, o tu grande, narralo che fummo da tanto, il mio fiato / non basta alla celebrazione”[3]. È degno di nota che l’incipit sia invece scandito da tre versi di richiamo alla voce: “Non supplicare più, non blandire, o voce matura, affranca / la natura dal tuo grido; come un uccello, sì, grideresti, con / il suo grido puro”[4]. I versi successivi motivano l’alzarsi in volo dell’uccello, elemento naturale, sospeso tra cielo e terra e per questo adatto a fungere da intermediario ideale tra i più complessi Cielo e Terra che sembrano contrastarsi metafisicamente alla fine del Gedicht. Il canto poetico, il volo, non può assurgere a pienezza metafisica, non è in grado di trovare quel significato etereo che Rilke ha ricercato attraverso la parola, relazione tanto efficace quanto sempre insufficiente tra realtà e assolutezza del pensiero. Questa realizzazione si osserva qui in forma più compiuta e a suo modo più comprensibile e svincolata da temi contingenti. Proprio in questo punto si inserisce facilmente la meditazione sul destino nullificante, motore di una storia che decade. Le sensazioni cantate sono forti, la successione delle immagini risulta aulica ed elegiaca insieme, poiché vi è esposta tutta la gamma dell’umano sentire. Un tocco di sublimazione appare e subito scompare con il riferimento allo sguardo sulle stelle e all’augurio di morte: “O una volta essere morti e saperle infinite / tutte le stelle: perché come, come, come dimenticano!”[5]. La purezza della parola poetica, ormai ridotta alla semplicità di un grido, viene sostituita in questa fase dalle terse forme naturali, dalla loro profondità, sia fisica, sia analogica, e dal contrasto con la caducità umana. Crediamo sia questo uno dei luoghi poetici nei quali l’affinità con Leopardi[6] si fa più viva e chiaramente percepibile. Ad esempio, ne Il tramonto della luna così leggono i versi 51-62:

Voi, collinette e piagge,
Caduto lo splendor che all’occidente
Inargentava della notte il velo,
Orfane ancor gran tempo
Non resterete; che dall’altra parte
Tosto vedrete il cielo
Imbiancar novamente, e sorger l’alba:
Alla qual poscia seguitando il sole,
E folgorando intorno
Con sue fiamme possenti,
Di lucidi torrenti
Inonderà con voi gli eterei campi.

Il poeta presenta una natura che si rinnova, che sembra eterna e che per tale motivo assurge ad entità “che sovrasta”: ciò che è eterno non risiede negli intelletti umani che talvolta si ritengono immortali solo per il proprio desio di immortalità, né nella natura in sé, bensì nell’infinito perpetuarsi della successione causale del processo generativo elementale, assai più durevole dell’uomo. L’unica natura davvero mortale è, dunque, solo quella umana senziente. Un forte richiamo a tale sorta di mitigatissimo “panteismo-immanentismo” si può ravvisare in Rilke nei versi già citati, nei quali la trascendenza delle stelle è presentata facendo ricorso ad una loro personalizzazione (“perché come, come, come dimenticano!”) e alla loro relazione con la terra mediante il genitivo (“della terra le stelle”)[7]. Specialmente quest’ultima osservazione trova ispirazione nell’invocazione personale di Leopardi alle “collinette e piagge”, elementi terrestri, che non sarebbero rimaste orfane ancora a lungo dopo il tramonto della luna, ma solo sino al mattino, quando il loro ricongiungimento con il sole, elemento celeste, si sarebbe provvidenzialmente compiuto. Si evince così un possibile, affascinante chiasmo

Sterne / Erde 
collinette e piagge / sole e luna,

come se, effettivamente, i Cieli e la Terra, qualunque natura si voglia ad essi associare, formassero un unicum indivisibile pur nella loro molteplicità e multiformità. È come se le componenti peculiari a entrambi si fondessero in una sola sostanza ad indicare l’estraneità di un altro, incollocabile Es: l’Uomo, estraneo perché cosciente della propria fine, a differenza degli altri inconsapevoli oggetti della natura con i quali pure condivide la stessa sorte. In Imitazione, Leopardi fa dire alla foglia: “Vo dove ogni altra cosa, / Dove naturalmente / Va la foglia di rosa, / E la foglia d’alloro” (vv. 10-13). Variando poeticamente sul testo di Arnault[8], l’autore calca su quel “Dove naturalmente”, esprimendo così una concezione di destino fortemente legata alla natura e nello stesso tempo dipendente dalla consapevolezza di dover essere da questa infine sradicati. Tale visione dell’esistenza umana raggiungerà la sua più compiuta epitome ne La ginestra. Tuttavia, neppure questo arbusto, arroccato sui pendii più riarsi e destinato in ultimo a seccare riesce a trasmettere appieno la dimensione della fatalità umana.

A nostro avviso, la ginestra rimane “tanto / Meno inferma dell’uom” (vv. 314, 315) perché, come interpreta lo Straccali, essa non fa “come l’uomo, che, non avendo ottenuto dal Fato l’immortalità, se l’è da se stesso attribuita”[9]. Nella propria limitatezza, l’individuo “scambia il fittizio col reale, il precario con l’eterno e scioccamente monta in superbia, si fa banditore del primato dell’uomo sulla terra, blatera di un universo antropocentrico”[10], fatto che rende la condizione umana non comparabile con qualsivoglia oggetto naturale. È estranea a ciò che la circonda e da cui pure trae origine perché non accetta il paradosso tra pensiero e mortalità, tra percezione di crescita o arricchimento spirituali e finale annientamento. Canta Rilke delle fanciulle: “Non crediate che destino sia più dello spessor dell’infanzia; / quanto superaste voi spesso l’amato, respirando, / respirando dopo la corsa beata, senza meta, verso l’aperto”[11]. Nella corsa beata delle fanciulle, nella loro spensierato correre, avanzare senza  meta, sono già presenti i semi della nullità del proprio destino.

Più d’ogni altro, il discorso sul destino non può prescindere dalla meditazione sul tempo[12]. La Settima elegia ci richiama ad un concetto di temporalità per il quale il tempo si lega allo spazio e si esplicita mediante il movimento e la trasformazione. Similmente, la Verwandlung interiore è legata ad un movimento di levigatura del nostro Innen: “La vita / nostra trascorre in trasformazione. E sempre più si riduce / e scompare l’esterno”[13]; e ancora: “[...] se sopravvive una cosa, / una cosa una volta pregata, servita, venerata in ginocchio –, / già si protende, così come è, nell’invisibile”[14]. È qui indicato un processo di sfogliatura, di disfacimento degli strati superficiali, dall’esterno verso l’interno, sino a giungere ad un erdachtes Gebild (‘forma escogitata’) il quale, nel momento in cui viene svelato, già si eclissa nell’invisibile. Tale processo è necessario, appunto, fatale. Nello scoprirsi di ciò che è indistruttibile nel perituro è presente la coscienza di una inconoscibilità di fondo e di una decadenza inevitabile, che mira ad un destino percepibile ma razionalmente non circonvenibile.

Lo sradicamento delle certezze nella scoperta della verità, presente in potenza in ogni uomo e vaticinato nei reami più segreti dello spirito, appare sotto forma di dialogo poetico nei Frammenti, XXXVII, dove il pastore Alceta racconta di aver visto in sogno la luna cadere e spegnersi e di essere ancora scosso per la visione. Gli risponde il suo compagno Melisso con un contrasto tra la caduta delle stelle e quella della luna: “Egli ci ha tante stelle, / Che picciol danno è cader l’una o l’altra / Di loro, e mille rimaner. Ma sola / Ha questa luna in ciel, che da nessuno / Cader fu vista mai se non in sogno” (vv. 24-28). È quasi un presagio, una profezia pronunciata da un pastore, veicolo, nella sua linearità, sia del timore innato e istintuale per lo sconvolgimento dell’equilibrio naturale, sia di un fato comune a ognuno e presentibile indipendentemente dalla riflessione intellettuale.

Nel reame dell’interiorità, del sogno, si consumano il dramma della ricerca delle essenze, lo sforzo catartico per la scoperta di un senso attuata mediante la visualizzazione dell’ipotesi più catastrofica, lo sconquassamento di ogni certezza atto all’intuizione di un “oltre” attentamente celato. Riconoscendo l’incapacità dell’intelletto di sopportarne la visione, Rilke celebra il mancato conseguimento dell’assolutezza attraverso la figura dell’Angelo[15], capace di sublimare in sé questo spazio e di guardare, in virtù della sua eternità e potenza, oltre i tempi dei mortali e di perpetuarne il grido. Tale sublimazione equivale ad un Hinweg, il superamento, il “soffio più audace della vita stessa”[16]. Il grido si fa esistenza stessa ai cui spazi corrispondere con le infinite possibilità di tali spazi. Senza stabilità terrena, fisica, sensoriale si correrebbe il rischio di essere sopraffatti e dissolti. È perciò necessaria la mediazione (quasi mistica per Rilke) tra l’uomo della terra e i cieli ai quali si può solo tendere nel silenzio; paradossalmente, estinta la quiete, solo rimane il suo contrario: la parola, l’enunciazione del silenzio stesso.

Abbiamo finora intravisto spiriti e modi di sentire affini in due Autori il cui slancio poetico sembra atto al superamento degli stati individuali e al compimento o chiarificazione di una prospettiva comune. Ne L’infinito, canto che Rilke evidentemente apprezzava e che si sentì di tradurre e, in una certa misura, reinterpretare, si ritrova il tema della voce e della quiete quali chiavi dell’umano trascendere [17]. Osserva Antonio Prete a proposito della voce della natura:

Lo stormire è la lingua della natura che si muta nella lingua della poesia, cioè nella parola che vuol tenere insieme il silenzio e il suono: “questa voce” e quell’ “infinito silenzio”, la tristezza della natura priva di voce – “le morte stagioni” – e il risuonare della natura che è qui presente e viva, il tempo cancellato e il tempo vivente. La finzione, che prima aveva convocato nel pensiero gli interminati spazi e i sovrumani silenzi e la profondissima quiete, è ora raccolta tutta in questa voce, nel suo esserci, qui, per i sensi: l’esserci di una presenza viva e determinata (e Rilke, nella sua traduzione, ha reso “e la presente / E viva, e il suon di lei” con “und diese / daseiende Zeit, die lebendige, tönende”, mostrando, in quella presenza, la forza del suono e, insieme, la trasvalutazione metafisica)[18].

Dietro il suono, la voce, in definitiva, dietro la parola, si celano le porte di un’anima la cui possibilità di espressione si rende necessaria per fissare la totalità nella più ampia misura possibile. La parola è senz’altro mito indispensabile alla spiegazione fenomenica del mondo, alla sua rappresentazione immanente rispetto all’indicibilità di ciò che è ulteriore; ma si fa anche Logos, parola creatrice di materia e vita, di terra e cielo, non solo strumento, bensì forza fattrice che rompe il cosmico silenzio e dalla quale si dipana il mondo[19]. Tale forza non può tuttavia esplicarsi se non ponendo prima il silenzio che l’ha preceduta e, nell’ascoltarlo, intendere più chiaramente lo squarcio nel buio che sta all’origine del nostro universo. È in questo gioco di luci e ombre, di virtuosi conglomerati di termini, relazioni linguistiche e corrispondenze semantiche[20] che Rilke e Leopardi si pongono in posizione di ascolto, fino alla realizzazione, come già accennato, della forma o immagine (Gestalt/Gebild) della nostra immanenza. Ne L’infinito, la comparazione tra le cose, rappresentate dagli oggetti della natura, e l’oggetto del pensiero (spinozianamente trascendente proprio perché puro pensiero) è attuata mediante la compenetrazione tra pensante e pensato: non essendovi possibilità di comprensione, cioè di “circonvenire” il concetto, questo trasborda, non è più cogitatum, si fa invece contenitore del cogitans, intelletto divenuto superiore nel quale specchiare la propria finitezza e riconoscere i semi dell’arché presenti nelle minime unità naturali del cosmo. Come Rilke, ma in modo forse più ordinato, oseremmo dire, più “piano”, Leopardi traccia un serrato e comunque limpido disegno di relazioni nel quale l’oltre, sebbene non definibile, è reale in quanto espresso con la parola, in tutta la sua pienezza ed incisività.

A questo tema si riallaccia gran parte della riflessione sul senso della letteratura, specialmente nello Zibaldone: come giustificare le lettere senza ricercare in esse un valore essenziale? Nella Sehnsucht desiante che pervade gran parte dell’opera leopardiana non si può fare a meno di scorgere l’affermazione di un dato universale i cui interrogativi la poesia ha il compito di indagare e cantare al sommo grado. A questo proposito, il confronto con Rilke potrebbe estendersi ad altri temi, ad altre linee più o meno marcate, quali la meditazione sull’arte, sulla morale, sull’ethos. In questa sede si è cercato, seppur brevemente, di dare una lettura complementare di due capisaldi concettuali della Weltliteratur: il destino e la parola. Il binomio ci pare inscindibile, sia perché si è costretti a definire il primo grazie alla seconda, sia soprattutto perché il divenire, il grido, slancio perenne nella storia e al di là di essa, non può che attuarsi con una sintesi, un relazionarsi tra le cose, al cui discursus, al cui scorrere, anche linguistico, noi tutti apparteniamo[21].






[1] Biancu, Stefano, La poesia e le cose. Su Leopardi, Milano, Mimesis, 2006.
Broch, Hermann, La morte di Virgilio, Milano, Feltrinelli, 1962.
Giavotto, Anna Lucia, Una città del cielo e della terra, Genova, Marietti, 1990.
Giavotto, Anna Lucia, Rilke e Leopardi: l’incontro di due grandi anime nella traduzione tedesca che Rilke fece di due poesie del poeta di Recanati, in La traduzione come strumento di interazione culturale e linguistica. Atti del seminario svoltosi a Genova nei giorni 6-7 novembre 2008, a cura di Luca Busetto, Milano, Qu.A.S.A.R. s.r.l., 2008, pp. 91-100.
Gioanola, Elio, Psicanalisi e interpretazione letteraria, Milano, Jaca Book, 2005.
Leopardi, Giacomo, I Canti di Giacomo Leopardi, Firenze, Sansoni, 19193.
Leopardi, Giacomo, Canti, a cura di Giuseppe e Domenico De Robertis, Milano, Mondadori, 1978.
Mason, Ellsworth , Arnault, Leopardi, Rossetti: Three Men on a Poem, in «Italica”, XXX, 4, dicembre 1953, pp. 223-226.
Prete, Antonio, Finitudine e infinito, Milano, Feltrinelli, 1998.
Rilke, Rainer Maria, Sämtliche Werke, [vol. VII], Frankfurt a. M.-Leipzig, Insel-Verlag, 1997.
Rilke, Rainer Maria, Poesie 1907-1926, Torino, Einaudi, 2000.
Russo, Fabio, Prospettiva di un rapporto fra Leopardi e Rilke, Trieste, Edizioni Umana, 1973.
Russo, Fabio, Due canti di Leopardi tradotti da Rilke, in «Studi germanici”, n.s., XIV, 2-3, giugno-ottobre 1976, pp. 333-345.
Sirri, Raffaele, La ginestra, ovvero la condanna ad esistere, in Leopardi. Poeta e pensatore / Dichter und Denker, a cura di Sebastian Neumeister e Raffaele Sirri, Napoli, Alfredo Guidi Editore, 1997.
Zolla, Élemire, Archetipi, Venezia, Marsilio, 20055.
[2] I testi sono riportati in Rainer Maria Rilke, Sämtliche Werke [vol. VII], Frankfurt a. M.-Leipzig, Insel-Verlag, 1997, pp. 769-771; per il testo de L’infinito, cfr. infra, nota 17. Per uno studio più dettagliato del rapporto tra i due Autori si rimanda a Fabio Russo, Prospettiva di un rapporto fra Leopardi e Rilke, Trieste, Edizioni Umana, 1973. Cfr. anche Fabio Russo, Due canti di Leopardi tradotti da Rilke, in «Studi germanici”, n.s., XIV, 2-3, giugno-ottobre 1976, pp. 333-345, saggio che mette in evidenza le diversità nell’intuizione poetica dei nostri due Autori, e Anna Lucia Giavotto, Rilke e Leopardi: l’incontro di due grandi anime nella traduzione tedesca che Rilke fece di due poesie del poeta di Recanati, in La traduzione come strumento di interazione culturale e linguistica. Atti del seminario svoltosi a Genova nei giorni 6-7 novembre 2008, a cura di Luca Busetto, Milano, Qu.A.S.A.R. s.r.l., 2008, pp. 91-100.
[3] «O staune Engel, denn wir sinds, / wir, o du Groβer, erzähls, daβ wir solches vermochten, mein Atem / reicht für die Rühmung nicht aus”, Rainer Maria Rilke, Poesie 1907-1926, a cura di A. Lavagetto, Torino, Einaudi, 2000, p. 312.
[4] «Werbung nicht mehr, nicht Werbung, entwachsene Stimme, / sei deines Schreies Natur; zwar schrieest du rein wie der  Vogel”, Ivi, p. 308.
[5] «O einst tot sein und sie wissen unendlich, / alle die Sterne: denn wie, wie, wie sie vergessen!”, Ivi, p. 310.
[6] Il testo dei Canti è quello dell’edizione a cura di Giuseppe e Domenico De Robertis, Milano, Mondadori, 1978; si dà solo l’indicazione dei versi.
[7] «die Sterne der Erde”, Rilke, Poesie, p. 310.
[8] Cfr. Ellsworth Mason, Arnault, Leopardi, Rossetti: Three Men on a Poem, in «Italica”, XXX, 4, dicembre 1953, pp. 223-226.
[9] I Canti di Giacomo Leopardi, Firenze, Sansoni, 19193, p. 319, nota 315.
[10] Raffaele Sirri, La ginestra, ovvero la condanna ad esistere, in Leopardi. Poeta e pensatore / Dichter und Denker, a cura di Sebastian Neumeister e Raffaele Sirri, Napoli, Alfredo Guidi Editore, 1997, p. 267.
[11] «Glaubt nicht, Schicksal sei mehr, als das Dichte der Kindheit; / wie überholtet ihr oft den Geliebten, atmend, / atmend nach seligem Lauf, auf nichts zu, ins Freie”, Rilke, Poesie, cit., p. 310.
[12] A proposito della temporalità in relazione al concetto di finito/infinito in Leopardi, cfr. Elio Gioanola, Psicanalisi e interpretazione letteraria, Milano, Jaca Book, 2005, pp. 71-87; anche se qui il riferimento è alla «ricordanza”, è plausibile che anche la perpetuità descritta sopra, quale ciclo che appare ininterrotto, tenda in termini assoluti all’a-temporalità nella misura in cui, essendo percepita come sempre contingente, non sembra avere «passato, né presente, né futuro” e perciò «non dimora nella finitezza della temporalità e del fenomenico e il suo luogo può essere solo il non-luogo dell’infinito”, dimensione della sua indistruttibilità di fondo (Ivi, p. 93).  
[13] «Unser / Leben geht hin mit Verwandlung. Und immer geringer / schwindet das Auβen”, Rilke, Poesie, cit., p. 312.
[14] «[…] wo noch eins übersteht, / ein einst gebetes Ding, ein gedientes, geknietes –, / hält es sich, so wie es ist, schon ins Unsichtbare hin”, Ibidem.
[15] Cfr. Anna Lucia Giavotto, Una città del cielo e della terra, Genova, Marietti, 1990, pp. 251-253.
[16] Ibidem.
[17] Riportiamo integralmente la versione rilkiana: «Immer lieb war mir dieser einsame / Hügel und das Gehölz, das fast ringsum / ausschlieβt vom fernen Aufruhn der Himmel / den Blick. Sitzend und schauend bild ich unendliche / Räume jenseits mir ein und mehr als / menschliches Schweigen und Ruhe vom Grunde der Ruh. / Und über ein Kleines geht mein Herz ganz ohne / Furcht damit um. Und wenn in dem Buschwerk / aufrauscht der Wind, so überkommt es mich, daβ ich / dieses Lautsein vergleiche mit jener endlosen Stillheit. / Und mir fällt das Ewige ein / und daneben die alten Jahreszeiten und diese / daseiende Zeit, die lebendige, tönende. Also / sinkt der Gedanke mir weg ins Übermaβ. Unter- / gehen in diesem Meer ist inniger Schiffbruch”, Rilke, Sämtliche Werke, cit., p. 768-769.
[18] Antonio Prete, Finitudine e infinito, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 43; cfr. anche p. 147.
[19] Cfr. ad esempio Élemire Zolla, Archetipi, Venezia, Marsilio, 20055, pp. 118-138.
[20] Cfr., a proposito di «termine” e «parola” nell’accezione leopardiana, Stefano Biancu, La poesia e le cose. Su Leopardi, Milano, Mimesis, 2006, spec. pp. 95-98.  
[21] Stimolante a questo proposito è anche il capitolo finale de La morte di Virgilio di Hermann Broch (traduzione italiana di Aurelio Ciacchi, prefazione di Ladislao Mittner, Milano, Feltrinelli, 1962).

13/07/19

Maurizio Masi, LA TRINITÀ

“Pensi alla Santissima Trinità, sempre tranquilla, sempre remuneratrice…”

Così le parole di don Alvarez, domenicano di Alcantara, nella caliente ed introversa  terra di Spagna, rimasero nella testa di Alessandro, dopo l’ammissione dei suoi peccati, una delle sue frequenti confessioni che forse assomigliavano più ad una richiesta di iuto che ad una professione di penitenza. Vagavano morbide, a tratti confortanti, come nuvole, ora conturbanti, rievocando suggestioni e ricordi del nostro viaggiatore spericolato negli animi altrui. “Sempre tranquilla, sempre remuneratrice...”: non capiva bene il significato dell’aggettivo remuneratrice, e, soprattutto, cosa doveva remunerare la Santissima Trinità? Immaginava che fosse il prezzo di una fede capace di resistere ad intemperie, a bufere invernali, fredde, esigenti come la lama della verità, e asciutte, straordinariamente gelate. Non era solo mentre, da via degli Avelli, tornava verso la fermata del bus che lo avrebbe ricondotto sui passi di casa. Così quella mattina aveva deciso che l’avrebbe risolta per sé, per il credito della sua coscienza, in mezzo a tante procelle - ecco un’altra parola che lo aveva sempre affascinato - come recitava la lapide votiva di un tabernacolo posta dai Torrigiani in ringraziamento alla Vergine per la riuscita fuga verso Firenze attraverso le campagne durante l’ultima guerra. Mentre passeggiava tra i turisti, vedeva sopra di sé, come sospesa sulla testa, l’immagine della Trinità di Masaccio nella chiesa di Santa Maria Novella. Sullo sfondo di un interno stretto, quasi uno studiolo del principe, ben definito, col soffitto a volte, l’istanza di un Padre, pietoso, ma non disperato, sosteneva il peso del braccio orizzontale della Croce. Sopra una fluente chioma bianca, piena di riccioli, un po’ cotonati, una colomba sovrastava la pienezza dello Spirito Santo, il grande Conoscitore-Consolatore. Il rosso ed il blu, i colori del sangue e del cielo, quando è sereno, quando la primavera sprizza negli alberi e nei fiori e consola quasi tutti delle sue novità. La folla minuscola degli astanti, molto in basso, osservava la scena. Sì, proprio in basso, pensava Alessandro, dal momento in cui anche lui, come tanti si era fatto adoratore di un Mistero che, in fondo, è quello della vita e della morte, del silenzio e della bellezza. Poi il bus, accalorato delle belle e piene ore di Maggio, passò sbuffando in alto fumo nero, irradiando il kerosene che, a saperlo guardare, si volatilizzava più leggero dell’aria, rapido, come un omino di fumo che pulisce la cappa del cammino con una scopa di saggina.

        

11/07/19

Dibyesh Anand, GEOPOLITICAL EXOTICA: TIBET IN WESTERN IMAGINATION

[Tekchen Cholin Tibetan temple (Singapore 2016). Foto Rb]

Dibyesh Anand, Tibet in Western Imagination. Minneapolis e Londra, Minnesota University Press, 2007

L’autore di questo volume rivendica una posizione autonoma dall’egemonia occidentale per le relazioni internazionali, basata sul contenuto principale della sua analisi, inerente all’esotizzazione del Tibet. Esamina la poetica (ovvero come è rappresentato il Tibet) e la politica (ossia gli effetti pratici delle rappresentazioni nel discorso identitario tibetano).

L’Occidente ha trattato la rappresentazione del Tibet, soprattutto nell’Ottocento e nel primo Novecento, ma in diversi casi ancora in tempi recenti, in modo coloniale e postcoloniale che ha considerato l’altro da sé tramite “practices of essentializing and stereotyping” (p. xviii).

Al livello delle poetiche della rappresentazione, fino agli inizi del ventesimo secolo, il Tibet “was seen as an absence on the map” (p. 36): colpiva l’immaginazione occidentale il suo isolamento, son oscillazioni tra “extremely pejorative (‘feudal hell’)” e “unmitigately idealistic (‘Shangri-la’)” (p. 38). I testi analizzati comprendono Lost Horizons di Hilton; l’antiutopico resoconto di Younghusband; i cenni di Kipling al lamaismo; i testi di David-Neel. Sia in positivo che in negativo, Anand pare ritenere che si tratti di una sovrapposizione di valori occidentali alla cultura tibetana. Nota come la spiritualità e la religione siano motivo spesso prevalenti. Assegna un posto ambiguo al libro di Harrer Seven Years in Tibet, del 1956, seguito dal film di Annaud del 1996, che “played a crucial role in highlighting Tibet in the Western popular imagination” (p. 64), evidenziandone l’esistenza concreta e insistendo sulla coincidenza identitaria con la figura del Dalai Lama.

L’interazione col pubblico globale del governo in esilio tibetano ha creato modalità identitarie, da parte dei tibetani, basate sulle rappresentazioni e gli approcci occidentali, soprattutto rilanciando la cultura tradizionale, il pacifismo, la forzosa modernizzazione portata avanti dalla Cina e, appunto, la figura del Dalai Lama come cemento ideologico.

[Roberto Bertoni]