La Settima elegia di Rainer Maria Rilke ci appare quale momento
sintetico degli interrogativi suscitati nelle precedenti Elegien (ricordiamo
che è con la settima che il poeta riprende il lavoro sulle Elegie, il 7
febbraio 1922). Di strutturazione assai complessa, essa è istante titanico,
violento, dolente; eppure mantiene intatta quella fluidità, quella religiosità
quasi rituale che pervade l’opera di Rilke sin dalla stesura del Malte.
In particolare, vi si affronta il problema del destino e della mancanza di
destino con rinnovato vigore rispetto alle produzioni precedenti. Nell’analisi
di questi temi in una prospettiva comparatistica, abbiamo ritenuto opportuno
richiamare l’attenzione su alcuni Canti di Leopardi e la Settima
elegia[1]. Il confronto è tanto più
stimolante poiché, pur non sapendo effettivamente quanto Rilke conoscesse
Leopardi, egli tradusse qualche verso de La sera del dì di festa, nonché
l’Infinito[2], mostrando per il Poeta un
interesse ed un’affinità indicativi di possibili e significative convergenze.
Fulcro dell’elegia è il grido. Tale grido, la scalata verticale
verso il Cielo, nella già esplorata intima consapevolezza della ricaduta verso
la città terrena composta di contraddizioni, di fatiscenze, di disintegrazione,
non è un’invocazione del tutto istintiva, è bensì anche in una certa misura
voluta, provocata e condotta ad una climax che la farà ripiombare inevitabilmente
nella certezza di un vernichtendes Schicksal. È un destino che si situa
oltre il tempo; anzi, esso ingloba il tempo, lo compenetra e lo plasma secondo
leggi che governano l’umano agire e la cui comprensione e riattuazione
rimangono, come sottolineato nel corso del componimento, prerogativa
dell’Angelo: “Angelo, o stupisci, siamo noi questo, / noi, o tu grande,
narralo che fummo da tanto, il mio fiato / non basta alla celebrazione”[3]. È degno di nota che l’incipit sia invece
scandito da tre versi di richiamo alla voce: “Non supplicare più, non
blandire, o voce matura, affranca / la natura dal tuo grido; come un uccello,
sì, grideresti, con / il suo grido puro”[4]. I versi
successivi motivano l’alzarsi in volo dell’uccello, elemento naturale, sospeso
tra cielo e terra e per questo adatto a fungere da intermediario ideale tra i
più complessi Cielo e Terra che sembrano contrastarsi metafisicamente alla fine
del Gedicht. Il canto poetico, il volo, non può assurgere a pienezza
metafisica, non è in grado di trovare quel significato etereo che Rilke ha
ricercato attraverso la parola, relazione tanto efficace quanto sempre
insufficiente tra realtà e assolutezza del pensiero. Questa realizzazione si
osserva qui in forma più compiuta e a suo modo più comprensibile e svincolata
da temi contingenti. Proprio in questo punto si inserisce facilmente la
meditazione sul destino nullificante, motore di una storia che decade. Le
sensazioni cantate sono forti, la successione delle immagini risulta aulica ed
elegiaca insieme, poiché vi è esposta tutta la gamma dell’umano sentire. Un
tocco di sublimazione appare e subito scompare con il riferimento allo sguardo
sulle stelle e all’augurio di morte: “O una volta essere morti e saperle
infinite / tutte le stelle: perché come, come, come dimenticano!”[5]. La purezza della parola poetica, ormai ridotta alla
semplicità di un grido, viene sostituita in questa fase dalle terse forme
naturali, dalla loro profondità, sia fisica, sia analogica, e dal contrasto con
la caducità umana. Crediamo sia questo uno dei luoghi poetici nei quali
l’affinità con Leopardi[6] si fa più viva e chiaramente
percepibile. Ad esempio, ne Il tramonto della luna così leggono i versi
51-62:
Voi, collinette e piagge,
Caduto lo splendor che all’occidente
Inargentava della notte il velo,
Orfane ancor gran tempo
Non resterete; che dall’altra parte
Tosto vedrete il cielo
Imbiancar novamente, e sorger l’alba:
Alla qual poscia seguitando il sole,
E folgorando intorno
Con sue fiamme possenti,
Di lucidi torrenti
Inonderà con voi gli eterei campi.
Il poeta presenta una natura che si rinnova, che sembra eterna e che per
tale motivo assurge ad entità “che sovrasta”: ciò che è eterno non risiede
negli intelletti umani che talvolta si ritengono immortali solo per il proprio
desio di immortalità, né nella natura in sé, bensì nell’infinito perpetuarsi
della successione causale del processo generativo elementale, assai più
durevole dell’uomo. L’unica natura davvero mortale è, dunque, solo quella umana
senziente. Un forte richiamo a tale sorta di mitigatissimo
“panteismo-immanentismo” si può ravvisare in Rilke nei versi già citati, nei
quali la trascendenza delle stelle è presentata facendo ricorso ad una loro
personalizzazione (“perché come, come, come dimenticano!”) e alla loro
relazione con la terra mediante il genitivo (“della terra le stelle”)[7]. Specialmente quest’ultima osservazione trova
ispirazione nell’invocazione personale di Leopardi alle “collinette e piagge”,
elementi terrestri, che non sarebbero rimaste orfane ancora a lungo dopo il
tramonto della luna, ma solo sino al mattino, quando il loro ricongiungimento
con il sole, elemento celeste, si sarebbe provvidenzialmente compiuto. Si
evince così un possibile, affascinante chiasmo
Sterne / Erde
collinette e piagge / sole e luna,
come se, effettivamente, i Cieli e la Terra, qualunque natura si voglia
ad essi associare, formassero un unicum indivisibile pur nella loro
molteplicità e multiformità. È come se le componenti peculiari a entrambi si
fondessero in una sola sostanza ad indicare l’estraneità di un altro,
incollocabile Es: l’Uomo, estraneo perché cosciente della propria fine,
a differenza degli altri inconsapevoli oggetti della natura con i quali pure
condivide la stessa sorte. In Imitazione, Leopardi fa dire alla foglia:
“Vo dove ogni altra cosa, / Dove naturalmente / Va la foglia di rosa, / E la
foglia d’alloro” (vv. 10-13). Variando poeticamente sul testo di Arnault[8], l’autore calca su quel “Dove naturalmente”, esprimendo
così una concezione di destino fortemente legata alla natura e nello stesso
tempo dipendente dalla consapevolezza di dover essere da questa infine
sradicati. Tale visione dell’esistenza umana raggiungerà la sua più compiuta
epitome ne La ginestra. Tuttavia, neppure questo arbusto, arroccato sui
pendii più riarsi e destinato in ultimo a seccare riesce a trasmettere appieno
la dimensione della fatalità umana.
A nostro avviso, la ginestra rimane “tanto / Meno inferma dell’uom” (vv.
314, 315) perché, come interpreta lo Straccali, essa non fa “come l’uomo, che,
non avendo ottenuto dal Fato l’immortalità, se l’è da se stesso attribuita”[9]. Nella propria limitatezza, l’individuo “scambia il
fittizio col reale, il precario con l’eterno e scioccamente monta in superbia,
si fa banditore del primato dell’uomo sulla terra, blatera di un universo
antropocentrico”[10], fatto che rende la condizione
umana non comparabile con qualsivoglia oggetto naturale. È estranea a ciò che
la circonda e da cui pure trae origine perché non accetta il paradosso tra
pensiero e mortalità, tra percezione di crescita o arricchimento spirituali e
finale annientamento. Canta Rilke delle fanciulle: “Non crediate che destino
sia più dello spessor dell’infanzia; / quanto superaste voi spesso l’amato,
respirando, / respirando dopo la corsa beata, senza meta, verso l’aperto”[11]. Nella corsa beata delle fanciulle, nella loro
spensierato correre, avanzare senza meta, sono già presenti i semi della
nullità del proprio destino.
Più d’ogni altro, il discorso sul destino non può prescindere dalla
meditazione sul tempo[12]. La Settima elegia ci
richiama ad un concetto di temporalità per il quale il tempo si lega allo
spazio e si esplicita mediante il movimento e la trasformazione. Similmente, la
Verwandlung interiore è legata ad un movimento di levigatura del nostro Innen:
“La vita / nostra trascorre in trasformazione. E sempre più si riduce / e
scompare l’esterno”[13]; e ancora: “[...] se sopravvive
una cosa, / una cosa una volta pregata, servita, venerata in ginocchio –, / già
si protende, così come è, nell’invisibile”[14]. È qui
indicato un processo di sfogliatura, di disfacimento degli strati superficiali,
dall’esterno verso l’interno, sino a giungere ad un erdachtes Gebild
(‘forma escogitata’) il quale, nel momento in cui viene svelato, già si eclissa
nell’invisibile. Tale processo è necessario, appunto, fatale. Nello scoprirsi
di ciò che è indistruttibile nel perituro è presente la coscienza di una
inconoscibilità di fondo e di una decadenza inevitabile, che mira ad un destino
percepibile ma razionalmente non circonvenibile.
Lo sradicamento delle certezze nella scoperta della verità, presente in
potenza in ogni uomo e vaticinato nei reami più segreti dello spirito, appare
sotto forma di dialogo poetico nei Frammenti, XXXVII, dove il pastore
Alceta racconta di aver visto in sogno la luna cadere e spegnersi e di essere
ancora scosso per la visione. Gli risponde il suo compagno Melisso con un
contrasto tra la caduta delle stelle e quella della luna: “Egli ci ha tante
stelle, / Che picciol danno è cader l’una o l’altra / Di loro, e mille rimaner.
Ma sola / Ha questa luna in ciel, che da nessuno / Cader fu vista mai se non in
sogno” (vv. 24-28). È quasi un presagio, una profezia pronunciata da un
pastore, veicolo, nella sua linearità, sia del timore innato e istintuale per lo
sconvolgimento dell’equilibrio naturale, sia di un fato comune a ognuno e
presentibile indipendentemente dalla riflessione intellettuale.
Nel reame dell’interiorità, del sogno, si consumano il dramma della
ricerca delle essenze, lo sforzo catartico per la scoperta di un senso attuata
mediante la visualizzazione dell’ipotesi più catastrofica, lo sconquassamento
di ogni certezza atto all’intuizione di un “oltre” attentamente celato.
Riconoscendo l’incapacità dell’intelletto di sopportarne la visione, Rilke
celebra il mancato conseguimento dell’assolutezza attraverso la figura
dell’Angelo[15], capace di sublimare in sé questo
spazio e di guardare, in virtù della sua eternità e potenza, oltre i tempi dei
mortali e di perpetuarne il grido. Tale sublimazione equivale ad un Hinweg,
il superamento, il “soffio più audace della vita stessa”[16].
Il grido si fa esistenza stessa ai cui spazi corrispondere con le infinite
possibilità di tali spazi. Senza stabilità terrena, fisica, sensoriale si
correrebbe il rischio di essere sopraffatti e dissolti. È perciò necessaria la
mediazione (quasi mistica per Rilke) tra l’uomo della terra e i cieli ai quali
si può solo tendere nel silenzio; paradossalmente, estinta la quiete, solo
rimane il suo contrario: la parola, l’enunciazione del silenzio stesso.
Abbiamo finora intravisto spiriti e modi di sentire affini in due Autori
il cui slancio poetico sembra atto al superamento degli stati individuali e al
compimento o chiarificazione di una prospettiva comune. Ne L’infinito,
canto che Rilke evidentemente apprezzava e che si sentì di tradurre e, in una
certa misura, reinterpretare, si ritrova il tema della voce e della quiete
quali chiavi dell’umano trascendere [17]. Osserva
Antonio Prete a proposito della voce della natura:
Lo stormire è la lingua della natura che si muta nella lingua della
poesia, cioè nella parola che vuol tenere insieme il silenzio e il suono:
“questa voce” e quell’ “infinito silenzio”, la tristezza della natura priva di
voce – “le morte stagioni” – e il risuonare della natura che è qui presente e
viva, il tempo cancellato e il tempo vivente. La finzione, che prima aveva
convocato nel pensiero gli interminati spazi e i sovrumani silenzi e la
profondissima quiete, è ora raccolta tutta in questa voce, nel suo esserci,
qui, per i sensi: l’esserci di una presenza viva e determinata (e Rilke, nella
sua traduzione, ha reso “e la presente / E viva, e il suon di lei” con “und
diese / daseiende Zeit, die lebendige, tönende”, mostrando, in quella presenza,
la forza del suono e, insieme, la trasvalutazione metafisica)[18].
Dietro il suono, la voce, in definitiva, dietro la parola, si celano le
porte di un’anima la cui possibilità di espressione si rende necessaria per
fissare la totalità nella più ampia misura possibile. La parola è senz’altro
mito indispensabile alla spiegazione fenomenica del mondo, alla sua
rappresentazione immanente rispetto all’indicibilità di ciò che è ulteriore; ma
si fa anche Logos, parola creatrice di materia e vita, di terra e cielo,
non solo strumento, bensì forza fattrice che rompe il cosmico silenzio e dalla
quale si dipana il mondo[19]. Tale forza non può
tuttavia esplicarsi se non ponendo prima il silenzio che l’ha preceduta e,
nell’ascoltarlo, intendere più chiaramente lo squarcio nel buio che sta
all’origine del nostro universo. È in questo gioco di luci e ombre, di virtuosi
conglomerati di termini, relazioni linguistiche e corrispondenze semantiche[20] che Rilke e Leopardi si pongono in posizione di
ascolto, fino alla realizzazione, come già accennato, della forma o immagine (Gestalt/Gebild)
della nostra immanenza. Ne L’infinito, la comparazione tra le cose,
rappresentate dagli oggetti della natura, e l’oggetto del pensiero
(spinozianamente trascendente proprio perché puro pensiero) è attuata mediante
la compenetrazione tra pensante e pensato: non essendovi possibilità di
comprensione, cioè di “circonvenire” il concetto, questo trasborda, non è più cogitatum,
si fa invece contenitore del cogitans, intelletto divenuto superiore nel
quale specchiare la propria finitezza e riconoscere i semi dell’arché
presenti nelle minime unità naturali del cosmo. Come Rilke, ma in modo forse
più ordinato, oseremmo dire, più “piano”, Leopardi traccia un serrato e
comunque limpido disegno di relazioni nel quale l’oltre, sebbene non
definibile, è reale in quanto espresso con la parola, in tutta la sua pienezza
ed incisività.
A questo tema si riallaccia gran parte della riflessione sul senso della
letteratura, specialmente nello Zibaldone: come giustificare le lettere
senza ricercare in esse un valore essenziale? Nella Sehnsucht desiante
che pervade gran parte dell’opera leopardiana non si può fare a meno di
scorgere l’affermazione di un dato universale i cui interrogativi la poesia ha
il compito di indagare e cantare al sommo grado. A questo proposito, il
confronto con Rilke potrebbe estendersi ad altri temi, ad altre linee più o
meno marcate, quali la meditazione sull’arte, sulla morale, sull’ethos. In
questa sede si è cercato, seppur brevemente, di dare una lettura complementare
di due capisaldi concettuali della Weltliteratur: il destino e la
parola. Il binomio ci pare inscindibile, sia perché si è costretti a definire
il primo grazie alla seconda, sia soprattutto perché il divenire, il grido,
slancio perenne nella storia e al di là di essa, non può che attuarsi con una
sintesi, un relazionarsi tra le cose, al cui discursus, al cui scorrere,
anche linguistico, noi tutti apparteniamo[21].
[1] Biancu,
Stefano, La poesia e le cose. Su Leopardi, Milano, Mimesis, 2006.
Broch, Hermann, La morte di Virgilio, Milano, Feltrinelli, 1962.
Giavotto, Anna Lucia, Una città del cielo e della terra, Genova,
Marietti, 1990.
Giavotto, Anna Lucia, Rilke e Leopardi: l’incontro di due grandi
anime nella traduzione tedesca che Rilke fece di due poesie del poeta di
Recanati, in La traduzione come strumento di interazione culturale e
linguistica. Atti del seminario svoltosi a Genova nei giorni 6-7 novembre 2008,
a cura di Luca Busetto, Milano, Qu.A.S.A.R. s.r.l., 2008, pp. 91-100.
Gioanola, Elio, Psicanalisi e interpretazione letteraria, Milano,
Jaca Book, 2005.
Leopardi, Giacomo, I Canti di Giacomo Leopardi, Firenze,
Sansoni, 19193.
Leopardi, Giacomo, Canti, a cura di Giuseppe e Domenico De
Robertis, Milano, Mondadori, 1978.
Mason, Ellsworth , Arnault, Leopardi,
Rossetti: Three Men on a Poem, in «Italica”, XXX, 4, dicembre 1953, pp.
223-226.
Prete, Antonio, Finitudine e infinito, Milano, Feltrinelli, 1998.
Rilke, Rainer Maria, Sämtliche Werke,
[vol. VII], Frankfurt a. M.-Leipzig, Insel-Verlag, 1997.
Rilke, Rainer Maria, Poesie 1907-1926, Torino, Einaudi, 2000.
Russo, Fabio, Prospettiva di un rapporto fra Leopardi e Rilke,
Trieste, Edizioni Umana, 1973.
Russo, Fabio, Due canti di Leopardi tradotti da Rilke, in «Studi
germanici”, n.s., XIV, 2-3, giugno-ottobre 1976, pp. 333-345.
Sirri, Raffaele, La ginestra, ovvero la condanna ad esistere, in Leopardi.
Poeta e pensatore / Dichter und Denker, a cura di Sebastian Neumeister e
Raffaele Sirri, Napoli, Alfredo Guidi Editore, 1997.
Zolla, Élemire, Archetipi,
Venezia, Marsilio, 20055.
[2] I testi
sono riportati in Rainer Maria
Rilke, Sämtliche Werke [vol. VII], Frankfurt a. M.-Leipzig,
Insel-Verlag, 1997, pp. 769-771; per il
testo de L’infinito, cfr. infra, nota 17. Per uno studio più
dettagliato del rapporto tra i due Autori si rimanda a Fabio Russo, Prospettiva
di un rapporto fra Leopardi e Rilke, Trieste, Edizioni Umana, 1973. Cfr.
anche Fabio Russo, Due canti di Leopardi tradotti da Rilke, in «Studi
germanici”, n.s., XIV, 2-3, giugno-ottobre 1976, pp. 333-345, saggio che mette
in evidenza le diversità nell’intuizione poetica dei nostri due Autori, e Anna
Lucia Giavotto, Rilke e Leopardi: l’incontro di due grandi anime nella
traduzione tedesca che Rilke fece di due poesie del poeta di Recanati, in La
traduzione come strumento di interazione culturale e linguistica. Atti del
seminario svoltosi a Genova nei giorni 6-7 novembre 2008, a cura di Luca
Busetto, Milano, Qu.A.S.A.R. s.r.l., 2008, pp. 91-100.
[3] «O staune Engel, denn wir
sinds, / wir, o du Groβer, erzähls, daβ wir solches
vermochten, mein Atem / reicht für die Rühmung nicht aus”, Rainer Maria Rilke, Poesie 1907-1926, a cura
di A. Lavagetto, Torino, Einaudi, 2000, p. 312.
[4] «Werbung nicht mehr, nicht
Werbung, entwachsene Stimme, / sei deines Schreies Natur; zwar schrieest du
rein wie der Vogel”, Ivi, p. 308.
[5] «O einst tot sein und sie wissen unendlich, / alle die Sterne: denn
wie, wie, wie sie vergessen!”, Ivi, p. 310.
[6] Il testo dei Canti è quello dell’edizione a
cura di Giuseppe e Domenico De Robertis, Milano, Mondadori, 1978; si dà solo
l’indicazione dei versi.
[7] «die Sterne der Erde”, Rilke, Poesie, p. 310.
[8] Cfr. Ellsworth Mason, Arnault, Leopardi,
Rossetti: Three Men on a Poem, in «Italica”, XXX, 4, dicembre 1953, pp.
223-226.
[9] I Canti di Giacomo Leopardi,
Firenze, Sansoni, 19193, p. 319, nota 315.
[10] Raffaele Sirri, La ginestra, ovvero la condanna
ad esistere, in Leopardi. Poeta e pensatore / Dichter und Denker, a
cura di Sebastian Neumeister e Raffaele Sirri, Napoli, Alfredo Guidi Editore,
1997, p. 267.
[11] «Glaubt nicht, Schicksal sei
mehr, als das Dichte der Kindheit; / wie überholtet ihr oft den Geliebten,
atmend, / atmend nach seligem Lauf, auf nichts zu, ins Freie”, Rilke,
Poesie, cit., p. 310.
[12] A
proposito della temporalità in relazione al concetto di finito/infinito in
Leopardi, cfr. Elio Gioanola, Psicanalisi e interpretazione letteraria,
Milano, Jaca Book, 2005, pp. 71-87; anche se qui il riferimento è alla
«ricordanza”, è plausibile che anche la perpetuità descritta sopra, quale ciclo
che appare ininterrotto, tenda in termini assoluti all’a-temporalità nella
misura in cui, essendo percepita come sempre contingente, non sembra avere
«passato, né presente, né futuro” e perciò «non dimora nella finitezza della
temporalità e del fenomenico e il suo luogo può essere solo il non-luogo
dell’infinito”, dimensione della sua indistruttibilità di fondo (Ivi, p. 93).
[13] «Unser / Leben geht hin mit Verwandlung. Und immer geringer / schwindet
das Auβen”, Rilke, Poesie, cit., p. 312.
[14] «[…] wo noch
eins übersteht, / ein einst gebetes Ding, ein gedientes, geknietes –, / hält es
sich, so wie es ist, schon ins Unsichtbare hin”, Ibidem.
[15] Cfr.
Anna Lucia Giavotto, Una città del cielo e della terra, Genova,
Marietti, 1990, pp. 251-253.
[17] Riportiamo integralmente la
versione rilkiana: «Immer lieb war mir dieser einsame / Hügel und das Gehölz,
das fast ringsum / ausschlieβt vom fernen Aufruhn der
Himmel / den Blick. Sitzend und schauend bild ich unendliche / Räume jenseits mir
ein und mehr als / menschliches Schweigen und Ruhe vom Grunde der Ruh. / Und
über ein Kleines geht mein Herz ganz ohne / Furcht damit um. Und wenn in dem
Buschwerk / aufrauscht der Wind, so überkommt es mich, daβ ich /
dieses Lautsein vergleiche mit jener endlosen Stillheit. / Und mir fällt das
Ewige ein / und daneben die alten Jahreszeiten und diese / daseiende Zeit, die
lebendige, tönende. Also / sinkt der Gedanke mir weg ins Übermaβ. Unter- / gehen in diesem Meer ist inniger Schiffbruch”, Rilke, Sämtliche Werke, cit., p.
768-769.
[18] Antonio Prete, Finitudine e infinito,
Milano, Feltrinelli, 1998, p. 43; cfr. anche p. 147.
[19] Cfr. ad esempio Élemire Zolla, Archetipi,
Venezia, Marsilio, 20055, pp. 118-138.
[20] Cfr., a
proposito di «termine” e «parola” nell’accezione leopardiana, Stefano Biancu, La
poesia e le cose. Su Leopardi, Milano, Mimesis, 2006, spec. pp.
95-98.
[21]
Stimolante a questo proposito è anche il capitolo finale de La morte di
Virgilio di Hermann Broch (traduzione italiana di Aurelio Ciacchi,
prefazione di Ladislao Mittner, Milano, Feltrinelli, 1962).