17/07/19

Simone Turco, DESTINO E PAROLA IN LEOPARDI E RILKE. POSSIBILI CONVERGENZE TRA CANTI E LA SETTIMA ELEGIA


La Settima elegia di Rainer Maria Rilke ci appare quale momento sintetico degli interrogativi suscitati nelle precedenti Elegien (ricordiamo che è con la settima che il poeta riprende il lavoro sulle Elegie, il 7 febbraio 1922). Di strutturazione assai complessa, essa è istante titanico, violento, dolente; eppure mantiene intatta quella fluidità, quella religiosità quasi rituale che pervade l’opera di Rilke sin dalla stesura del Malte. In particolare, vi si affronta il problema del destino e della mancanza di destino con rinnovato vigore rispetto alle produzioni precedenti. Nell’analisi di questi temi in una prospettiva comparatistica, abbiamo ritenuto opportuno richiamare l’attenzione su alcuni Canti di Leopardi e la Settima elegia[1]. Il confronto è tanto più stimolante poiché, pur non sapendo effettivamente quanto Rilke conoscesse Leopardi, egli tradusse qualche verso de La sera del dì di festa, nonché l’Infinito[2], mostrando per il Poeta un interesse ed un’affinità indicativi di possibili e significative convergenze.

Fulcro dell’elegia è il grido. Tale grido, la scalata verticale verso il Cielo, nella già esplorata intima consapevolezza della ricaduta verso la città terrena composta di contraddizioni, di fatiscenze, di disintegrazione, non è un’invocazione del tutto istintiva, è bensì anche in una certa misura voluta, provocata e condotta ad una climax che la farà ripiombare inevitabilmente nella certezza di un vernichtendes Schicksal. È un destino che si situa oltre il tempo; anzi, esso ingloba il tempo, lo compenetra e lo plasma secondo leggi che governano l’umano agire e la cui comprensione e riattuazione rimangono, come sottolineato nel corso del componimento, prerogativa dell’Angelo: “Angelo, o stupisci, siamo noi questo, / noi, o tu grande, narralo che fummo da tanto, il mio fiato / non basta alla celebrazione”[3]. È degno di nota che l’incipit sia invece scandito da tre versi di richiamo alla voce: “Non supplicare più, non blandire, o voce matura, affranca / la natura dal tuo grido; come un uccello, sì, grideresti, con / il suo grido puro”[4]. I versi successivi motivano l’alzarsi in volo dell’uccello, elemento naturale, sospeso tra cielo e terra e per questo adatto a fungere da intermediario ideale tra i più complessi Cielo e Terra che sembrano contrastarsi metafisicamente alla fine del Gedicht. Il canto poetico, il volo, non può assurgere a pienezza metafisica, non è in grado di trovare quel significato etereo che Rilke ha ricercato attraverso la parola, relazione tanto efficace quanto sempre insufficiente tra realtà e assolutezza del pensiero. Questa realizzazione si osserva qui in forma più compiuta e a suo modo più comprensibile e svincolata da temi contingenti. Proprio in questo punto si inserisce facilmente la meditazione sul destino nullificante, motore di una storia che decade. Le sensazioni cantate sono forti, la successione delle immagini risulta aulica ed elegiaca insieme, poiché vi è esposta tutta la gamma dell’umano sentire. Un tocco di sublimazione appare e subito scompare con il riferimento allo sguardo sulle stelle e all’augurio di morte: “O una volta essere morti e saperle infinite / tutte le stelle: perché come, come, come dimenticano!”[5]. La purezza della parola poetica, ormai ridotta alla semplicità di un grido, viene sostituita in questa fase dalle terse forme naturali, dalla loro profondità, sia fisica, sia analogica, e dal contrasto con la caducità umana. Crediamo sia questo uno dei luoghi poetici nei quali l’affinità con Leopardi[6] si fa più viva e chiaramente percepibile. Ad esempio, ne Il tramonto della luna così leggono i versi 51-62:

Voi, collinette e piagge,
Caduto lo splendor che all’occidente
Inargentava della notte il velo,
Orfane ancor gran tempo
Non resterete; che dall’altra parte
Tosto vedrete il cielo
Imbiancar novamente, e sorger l’alba:
Alla qual poscia seguitando il sole,
E folgorando intorno
Con sue fiamme possenti,
Di lucidi torrenti
Inonderà con voi gli eterei campi.

Il poeta presenta una natura che si rinnova, che sembra eterna e che per tale motivo assurge ad entità “che sovrasta”: ciò che è eterno non risiede negli intelletti umani che talvolta si ritengono immortali solo per il proprio desio di immortalità, né nella natura in sé, bensì nell’infinito perpetuarsi della successione causale del processo generativo elementale, assai più durevole dell’uomo. L’unica natura davvero mortale è, dunque, solo quella umana senziente. Un forte richiamo a tale sorta di mitigatissimo “panteismo-immanentismo” si può ravvisare in Rilke nei versi già citati, nei quali la trascendenza delle stelle è presentata facendo ricorso ad una loro personalizzazione (“perché come, come, come dimenticano!”) e alla loro relazione con la terra mediante il genitivo (“della terra le stelle”)[7]. Specialmente quest’ultima osservazione trova ispirazione nell’invocazione personale di Leopardi alle “collinette e piagge”, elementi terrestri, che non sarebbero rimaste orfane ancora a lungo dopo il tramonto della luna, ma solo sino al mattino, quando il loro ricongiungimento con il sole, elemento celeste, si sarebbe provvidenzialmente compiuto. Si evince così un possibile, affascinante chiasmo

Sterne / Erde 
collinette e piagge / sole e luna,

come se, effettivamente, i Cieli e la Terra, qualunque natura si voglia ad essi associare, formassero un unicum indivisibile pur nella loro molteplicità e multiformità. È come se le componenti peculiari a entrambi si fondessero in una sola sostanza ad indicare l’estraneità di un altro, incollocabile Es: l’Uomo, estraneo perché cosciente della propria fine, a differenza degli altri inconsapevoli oggetti della natura con i quali pure condivide la stessa sorte. In Imitazione, Leopardi fa dire alla foglia: “Vo dove ogni altra cosa, / Dove naturalmente / Va la foglia di rosa, / E la foglia d’alloro” (vv. 10-13). Variando poeticamente sul testo di Arnault[8], l’autore calca su quel “Dove naturalmente”, esprimendo così una concezione di destino fortemente legata alla natura e nello stesso tempo dipendente dalla consapevolezza di dover essere da questa infine sradicati. Tale visione dell’esistenza umana raggiungerà la sua più compiuta epitome ne La ginestra. Tuttavia, neppure questo arbusto, arroccato sui pendii più riarsi e destinato in ultimo a seccare riesce a trasmettere appieno la dimensione della fatalità umana.

A nostro avviso, la ginestra rimane “tanto / Meno inferma dell’uom” (vv. 314, 315) perché, come interpreta lo Straccali, essa non fa “come l’uomo, che, non avendo ottenuto dal Fato l’immortalità, se l’è da se stesso attribuita”[9]. Nella propria limitatezza, l’individuo “scambia il fittizio col reale, il precario con l’eterno e scioccamente monta in superbia, si fa banditore del primato dell’uomo sulla terra, blatera di un universo antropocentrico”[10], fatto che rende la condizione umana non comparabile con qualsivoglia oggetto naturale. È estranea a ciò che la circonda e da cui pure trae origine perché non accetta il paradosso tra pensiero e mortalità, tra percezione di crescita o arricchimento spirituali e finale annientamento. Canta Rilke delle fanciulle: “Non crediate che destino sia più dello spessor dell’infanzia; / quanto superaste voi spesso l’amato, respirando, / respirando dopo la corsa beata, senza meta, verso l’aperto”[11]. Nella corsa beata delle fanciulle, nella loro spensierato correre, avanzare senza  meta, sono già presenti i semi della nullità del proprio destino.

Più d’ogni altro, il discorso sul destino non può prescindere dalla meditazione sul tempo[12]. La Settima elegia ci richiama ad un concetto di temporalità per il quale il tempo si lega allo spazio e si esplicita mediante il movimento e la trasformazione. Similmente, la Verwandlung interiore è legata ad un movimento di levigatura del nostro Innen: “La vita / nostra trascorre in trasformazione. E sempre più si riduce / e scompare l’esterno”[13]; e ancora: “[...] se sopravvive una cosa, / una cosa una volta pregata, servita, venerata in ginocchio –, / già si protende, così come è, nell’invisibile”[14]. È qui indicato un processo di sfogliatura, di disfacimento degli strati superficiali, dall’esterno verso l’interno, sino a giungere ad un erdachtes Gebild (‘forma escogitata’) il quale, nel momento in cui viene svelato, già si eclissa nell’invisibile. Tale processo è necessario, appunto, fatale. Nello scoprirsi di ciò che è indistruttibile nel perituro è presente la coscienza di una inconoscibilità di fondo e di una decadenza inevitabile, che mira ad un destino percepibile ma razionalmente non circonvenibile.

Lo sradicamento delle certezze nella scoperta della verità, presente in potenza in ogni uomo e vaticinato nei reami più segreti dello spirito, appare sotto forma di dialogo poetico nei Frammenti, XXXVII, dove il pastore Alceta racconta di aver visto in sogno la luna cadere e spegnersi e di essere ancora scosso per la visione. Gli risponde il suo compagno Melisso con un contrasto tra la caduta delle stelle e quella della luna: “Egli ci ha tante stelle, / Che picciol danno è cader l’una o l’altra / Di loro, e mille rimaner. Ma sola / Ha questa luna in ciel, che da nessuno / Cader fu vista mai se non in sogno” (vv. 24-28). È quasi un presagio, una profezia pronunciata da un pastore, veicolo, nella sua linearità, sia del timore innato e istintuale per lo sconvolgimento dell’equilibrio naturale, sia di un fato comune a ognuno e presentibile indipendentemente dalla riflessione intellettuale.

Nel reame dell’interiorità, del sogno, si consumano il dramma della ricerca delle essenze, lo sforzo catartico per la scoperta di un senso attuata mediante la visualizzazione dell’ipotesi più catastrofica, lo sconquassamento di ogni certezza atto all’intuizione di un “oltre” attentamente celato. Riconoscendo l’incapacità dell’intelletto di sopportarne la visione, Rilke celebra il mancato conseguimento dell’assolutezza attraverso la figura dell’Angelo[15], capace di sublimare in sé questo spazio e di guardare, in virtù della sua eternità e potenza, oltre i tempi dei mortali e di perpetuarne il grido. Tale sublimazione equivale ad un Hinweg, il superamento, il “soffio più audace della vita stessa”[16]. Il grido si fa esistenza stessa ai cui spazi corrispondere con le infinite possibilità di tali spazi. Senza stabilità terrena, fisica, sensoriale si correrebbe il rischio di essere sopraffatti e dissolti. È perciò necessaria la mediazione (quasi mistica per Rilke) tra l’uomo della terra e i cieli ai quali si può solo tendere nel silenzio; paradossalmente, estinta la quiete, solo rimane il suo contrario: la parola, l’enunciazione del silenzio stesso.

Abbiamo finora intravisto spiriti e modi di sentire affini in due Autori il cui slancio poetico sembra atto al superamento degli stati individuali e al compimento o chiarificazione di una prospettiva comune. Ne L’infinito, canto che Rilke evidentemente apprezzava e che si sentì di tradurre e, in una certa misura, reinterpretare, si ritrova il tema della voce e della quiete quali chiavi dell’umano trascendere [17]. Osserva Antonio Prete a proposito della voce della natura:

Lo stormire è la lingua della natura che si muta nella lingua della poesia, cioè nella parola che vuol tenere insieme il silenzio e il suono: “questa voce” e quell’ “infinito silenzio”, la tristezza della natura priva di voce – “le morte stagioni” – e il risuonare della natura che è qui presente e viva, il tempo cancellato e il tempo vivente. La finzione, che prima aveva convocato nel pensiero gli interminati spazi e i sovrumani silenzi e la profondissima quiete, è ora raccolta tutta in questa voce, nel suo esserci, qui, per i sensi: l’esserci di una presenza viva e determinata (e Rilke, nella sua traduzione, ha reso “e la presente / E viva, e il suon di lei” con “und diese / daseiende Zeit, die lebendige, tönende”, mostrando, in quella presenza, la forza del suono e, insieme, la trasvalutazione metafisica)[18].

Dietro il suono, la voce, in definitiva, dietro la parola, si celano le porte di un’anima la cui possibilità di espressione si rende necessaria per fissare la totalità nella più ampia misura possibile. La parola è senz’altro mito indispensabile alla spiegazione fenomenica del mondo, alla sua rappresentazione immanente rispetto all’indicibilità di ciò che è ulteriore; ma si fa anche Logos, parola creatrice di materia e vita, di terra e cielo, non solo strumento, bensì forza fattrice che rompe il cosmico silenzio e dalla quale si dipana il mondo[19]. Tale forza non può tuttavia esplicarsi se non ponendo prima il silenzio che l’ha preceduta e, nell’ascoltarlo, intendere più chiaramente lo squarcio nel buio che sta all’origine del nostro universo. È in questo gioco di luci e ombre, di virtuosi conglomerati di termini, relazioni linguistiche e corrispondenze semantiche[20] che Rilke e Leopardi si pongono in posizione di ascolto, fino alla realizzazione, come già accennato, della forma o immagine (Gestalt/Gebild) della nostra immanenza. Ne L’infinito, la comparazione tra le cose, rappresentate dagli oggetti della natura, e l’oggetto del pensiero (spinozianamente trascendente proprio perché puro pensiero) è attuata mediante la compenetrazione tra pensante e pensato: non essendovi possibilità di comprensione, cioè di “circonvenire” il concetto, questo trasborda, non è più cogitatum, si fa invece contenitore del cogitans, intelletto divenuto superiore nel quale specchiare la propria finitezza e riconoscere i semi dell’arché presenti nelle minime unità naturali del cosmo. Come Rilke, ma in modo forse più ordinato, oseremmo dire, più “piano”, Leopardi traccia un serrato e comunque limpido disegno di relazioni nel quale l’oltre, sebbene non definibile, è reale in quanto espresso con la parola, in tutta la sua pienezza ed incisività.

A questo tema si riallaccia gran parte della riflessione sul senso della letteratura, specialmente nello Zibaldone: come giustificare le lettere senza ricercare in esse un valore essenziale? Nella Sehnsucht desiante che pervade gran parte dell’opera leopardiana non si può fare a meno di scorgere l’affermazione di un dato universale i cui interrogativi la poesia ha il compito di indagare e cantare al sommo grado. A questo proposito, il confronto con Rilke potrebbe estendersi ad altri temi, ad altre linee più o meno marcate, quali la meditazione sull’arte, sulla morale, sull’ethos. In questa sede si è cercato, seppur brevemente, di dare una lettura complementare di due capisaldi concettuali della Weltliteratur: il destino e la parola. Il binomio ci pare inscindibile, sia perché si è costretti a definire il primo grazie alla seconda, sia soprattutto perché il divenire, il grido, slancio perenne nella storia e al di là di essa, non può che attuarsi con una sintesi, un relazionarsi tra le cose, al cui discursus, al cui scorrere, anche linguistico, noi tutti apparteniamo[21].






[1] Biancu, Stefano, La poesia e le cose. Su Leopardi, Milano, Mimesis, 2006.
Broch, Hermann, La morte di Virgilio, Milano, Feltrinelli, 1962.
Giavotto, Anna Lucia, Una città del cielo e della terra, Genova, Marietti, 1990.
Giavotto, Anna Lucia, Rilke e Leopardi: l’incontro di due grandi anime nella traduzione tedesca che Rilke fece di due poesie del poeta di Recanati, in La traduzione come strumento di interazione culturale e linguistica. Atti del seminario svoltosi a Genova nei giorni 6-7 novembre 2008, a cura di Luca Busetto, Milano, Qu.A.S.A.R. s.r.l., 2008, pp. 91-100.
Gioanola, Elio, Psicanalisi e interpretazione letteraria, Milano, Jaca Book, 2005.
Leopardi, Giacomo, I Canti di Giacomo Leopardi, Firenze, Sansoni, 19193.
Leopardi, Giacomo, Canti, a cura di Giuseppe e Domenico De Robertis, Milano, Mondadori, 1978.
Mason, Ellsworth , Arnault, Leopardi, Rossetti: Three Men on a Poem, in «Italica”, XXX, 4, dicembre 1953, pp. 223-226.
Prete, Antonio, Finitudine e infinito, Milano, Feltrinelli, 1998.
Rilke, Rainer Maria, Sämtliche Werke, [vol. VII], Frankfurt a. M.-Leipzig, Insel-Verlag, 1997.
Rilke, Rainer Maria, Poesie 1907-1926, Torino, Einaudi, 2000.
Russo, Fabio, Prospettiva di un rapporto fra Leopardi e Rilke, Trieste, Edizioni Umana, 1973.
Russo, Fabio, Due canti di Leopardi tradotti da Rilke, in «Studi germanici”, n.s., XIV, 2-3, giugno-ottobre 1976, pp. 333-345.
Sirri, Raffaele, La ginestra, ovvero la condanna ad esistere, in Leopardi. Poeta e pensatore / Dichter und Denker, a cura di Sebastian Neumeister e Raffaele Sirri, Napoli, Alfredo Guidi Editore, 1997.
Zolla, Élemire, Archetipi, Venezia, Marsilio, 20055.
[2] I testi sono riportati in Rainer Maria Rilke, Sämtliche Werke [vol. VII], Frankfurt a. M.-Leipzig, Insel-Verlag, 1997, pp. 769-771; per il testo de L’infinito, cfr. infra, nota 17. Per uno studio più dettagliato del rapporto tra i due Autori si rimanda a Fabio Russo, Prospettiva di un rapporto fra Leopardi e Rilke, Trieste, Edizioni Umana, 1973. Cfr. anche Fabio Russo, Due canti di Leopardi tradotti da Rilke, in «Studi germanici”, n.s., XIV, 2-3, giugno-ottobre 1976, pp. 333-345, saggio che mette in evidenza le diversità nell’intuizione poetica dei nostri due Autori, e Anna Lucia Giavotto, Rilke e Leopardi: l’incontro di due grandi anime nella traduzione tedesca che Rilke fece di due poesie del poeta di Recanati, in La traduzione come strumento di interazione culturale e linguistica. Atti del seminario svoltosi a Genova nei giorni 6-7 novembre 2008, a cura di Luca Busetto, Milano, Qu.A.S.A.R. s.r.l., 2008, pp. 91-100.
[3] «O staune Engel, denn wir sinds, / wir, o du Groβer, erzähls, daβ wir solches vermochten, mein Atem / reicht für die Rühmung nicht aus”, Rainer Maria Rilke, Poesie 1907-1926, a cura di A. Lavagetto, Torino, Einaudi, 2000, p. 312.
[4] «Werbung nicht mehr, nicht Werbung, entwachsene Stimme, / sei deines Schreies Natur; zwar schrieest du rein wie der  Vogel”, Ivi, p. 308.
[5] «O einst tot sein und sie wissen unendlich, / alle die Sterne: denn wie, wie, wie sie vergessen!”, Ivi, p. 310.
[6] Il testo dei Canti è quello dell’edizione a cura di Giuseppe e Domenico De Robertis, Milano, Mondadori, 1978; si dà solo l’indicazione dei versi.
[7] «die Sterne der Erde”, Rilke, Poesie, p. 310.
[8] Cfr. Ellsworth Mason, Arnault, Leopardi, Rossetti: Three Men on a Poem, in «Italica”, XXX, 4, dicembre 1953, pp. 223-226.
[9] I Canti di Giacomo Leopardi, Firenze, Sansoni, 19193, p. 319, nota 315.
[10] Raffaele Sirri, La ginestra, ovvero la condanna ad esistere, in Leopardi. Poeta e pensatore / Dichter und Denker, a cura di Sebastian Neumeister e Raffaele Sirri, Napoli, Alfredo Guidi Editore, 1997, p. 267.
[11] «Glaubt nicht, Schicksal sei mehr, als das Dichte der Kindheit; / wie überholtet ihr oft den Geliebten, atmend, / atmend nach seligem Lauf, auf nichts zu, ins Freie”, Rilke, Poesie, cit., p. 310.
[12] A proposito della temporalità in relazione al concetto di finito/infinito in Leopardi, cfr. Elio Gioanola, Psicanalisi e interpretazione letteraria, Milano, Jaca Book, 2005, pp. 71-87; anche se qui il riferimento è alla «ricordanza”, è plausibile che anche la perpetuità descritta sopra, quale ciclo che appare ininterrotto, tenda in termini assoluti all’a-temporalità nella misura in cui, essendo percepita come sempre contingente, non sembra avere «passato, né presente, né futuro” e perciò «non dimora nella finitezza della temporalità e del fenomenico e il suo luogo può essere solo il non-luogo dell’infinito”, dimensione della sua indistruttibilità di fondo (Ivi, p. 93).  
[13] «Unser / Leben geht hin mit Verwandlung. Und immer geringer / schwindet das Auβen”, Rilke, Poesie, cit., p. 312.
[14] «[…] wo noch eins übersteht, / ein einst gebetes Ding, ein gedientes, geknietes –, / hält es sich, so wie es ist, schon ins Unsichtbare hin”, Ibidem.
[15] Cfr. Anna Lucia Giavotto, Una città del cielo e della terra, Genova, Marietti, 1990, pp. 251-253.
[16] Ibidem.
[17] Riportiamo integralmente la versione rilkiana: «Immer lieb war mir dieser einsame / Hügel und das Gehölz, das fast ringsum / ausschlieβt vom fernen Aufruhn der Himmel / den Blick. Sitzend und schauend bild ich unendliche / Räume jenseits mir ein und mehr als / menschliches Schweigen und Ruhe vom Grunde der Ruh. / Und über ein Kleines geht mein Herz ganz ohne / Furcht damit um. Und wenn in dem Buschwerk / aufrauscht der Wind, so überkommt es mich, daβ ich / dieses Lautsein vergleiche mit jener endlosen Stillheit. / Und mir fällt das Ewige ein / und daneben die alten Jahreszeiten und diese / daseiende Zeit, die lebendige, tönende. Also / sinkt der Gedanke mir weg ins Übermaβ. Unter- / gehen in diesem Meer ist inniger Schiffbruch”, Rilke, Sämtliche Werke, cit., p. 768-769.
[18] Antonio Prete, Finitudine e infinito, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 43; cfr. anche p. 147.
[19] Cfr. ad esempio Élemire Zolla, Archetipi, Venezia, Marsilio, 20055, pp. 118-138.
[20] Cfr., a proposito di «termine” e «parola” nell’accezione leopardiana, Stefano Biancu, La poesia e le cose. Su Leopardi, Milano, Mimesis, 2006, spec. pp. 95-98.  
[21] Stimolante a questo proposito è anche il capitolo finale de La morte di Virgilio di Hermann Broch (traduzione italiana di Aurelio Ciacchi, prefazione di Ladislao Mittner, Milano, Feltrinelli, 1962).