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INDICE ALFABETICO / INDEX
Le voci elencate qui sotto senza il nome dell'autore sono state scritte da Roberto Bertoni. Foto di Marzia Poerio / Entries listed below without the name of the author were written by Roberto Bertoni. Pictures by Marzia Poerio.
- BOURDIEU, Pierre, IL MESTIERE DI SCIENZIATO. Rilettura, 7-10-09.
- BREVISSIMA NOTA SU MARXISMO E CULTURA. Riflessione, 25-10-09.
- CONA, Cristina, I TRADUTTORI CORSARI. Riflessione, 3-10-09.
- ERCOLANI, Marco, CAOS INESISTENTE [Prima parte]. Testo, 11-10-09.
- FERRARI, Fabio, MOQUETTE VERDE E FIORI FINTI ARANCIONI. Testo con commento di Gian Paolo RAGNOLI, 21-10-09.
- FRISA, Lucetta, UN INEDITO DA SCANSIONI DELL'ATTESA. Testo, 13-10-09.
- HUNTER, Paul, BULLETPROOF MONK. Storie di film di Renato Persòli, 15-10-09.
- JUNG, Carl Gustav e KERÉNYI, Karol, PROLEGOMENI ALLO STUDIO SCIENTIFICO DELLA MITOLOGIA. Rilettura, 29-10-09.
- KUCIAK, Agniezka, ODYSSEUS AND POZNAŃ [Part I]. Testo, 5-10-09.
- PRESTIANNI, Corrado, VERSI IN A RAINY NIGHT. Testo, 23-10-09.
- RAGNOLI, Gian Paolo, CREDEVAMO FOSSE L’ALBA. Testo, 17-10-09.
- RAY, Satyajit, PRATIDWANDI (THE ADVERSARY). Storie di film di Renato Persòli, 31-10-09.
- RECCO PINI, Angelo, DA NOI A VOI. Testo con commento, 27-10-09.
- SCIASCIA, Leonardo, A CIASCUNO IL SUO. Rilettura, 19-10-09.
- ZOJA, Luigi, LA MORTE DEL PROSSIMO. Note di lettura, 9-10-09.
Rivista in rete di scritti sotto le 2.200 parole: recensioni, testi narrativi, poesie, saggi. Invia commenti e contributi a cartallineate@gmail.com. / This on-line journal includes texts below 2,200 words: reviews, narrative texts, poems and essays. Send comments and contributions to cartallineate@gmail.com.
A cura di / Ed. Roberto Bertoni.
Address (place of publication): Italian Dept, Trinity College, Dublin 2, Ireland. Tel. 087 719 8225.
ISSN 2009-7123
31/10/09
Satyajit Ray, PRATIDWANDI (THE ADVERSARY)
1970. Basato sul romanzo omonimo di Sunil Ganguli. Con Krishna Bose, Dhritiman Chatterjee, Kalyan Chowdhury, Indira Devi, Soven Lahiri, Pisu Majumdar, Debraj Roy, Joysree Roy, Sefali
Ambientato a Calcutta, PRATIDWANDI narra le vicende di Siddartha, un giovane bengalese che ha dovuto lasciare la Facoltà di Medicina al secondo anno per problemi economici ed è in cerca di lavoro.
Non ottiene i posti per cui fa domanda all'inizio della pellicola perché alla domanda della commissione, a un colloquio per un lavoro, su quale sia l'evento più importante dell'ultimo decennio, invece dell'attesa risposta (lo sbarco sulla Luna), risponde la guerra del Vietnam e richiesto di elaborare, prendendo le parti dei Vietnamiti, è scartato in quanto comunista; e alla fine del film perché, ridotti i candidati di un altro colloquio per un lavoro in una stanza soffocante e in piedi, si ribella, chiede per i giovani da interrogare un trattamento umano, dà in escandescenze e viene espulso, dovendo infine accettare un posto in provincia, lontano dagli affetti familiari e dalla ragazza di cui si è innamorato, Keya, alla quale però scrive con la speranza che lei lo attenda.
Nel frattempo abbiamo visto i rapporti tesi di Siddartha con il fratello di sinistra e la sorella che accetta compromessi pur di lavorare come segretaria personale di un uomo d'affari; i rapporti col partito comunista; soprattutto la città di Calcutta nella sua ripresa di tipo neorealista, da un lato, con la camera che carrella su volti di strada, attività artigianali, interni poveri, e dall'altro alterna lo spaccato sociale con i sogni del protagonista, resi da un bianco e nero in negativo.
Film di ottima qualità visiva e documentaria, ben interpretato, vicino alle estetiche europee degli anni Quaranta e Cinquanta quanto alle ambientazioni nazionali e con un tono marcato di denuncia.
[Renato Persòli]
Ambientato a Calcutta, PRATIDWANDI narra le vicende di Siddartha, un giovane bengalese che ha dovuto lasciare la Facoltà di Medicina al secondo anno per problemi economici ed è in cerca di lavoro.
Non ottiene i posti per cui fa domanda all'inizio della pellicola perché alla domanda della commissione, a un colloquio per un lavoro, su quale sia l'evento più importante dell'ultimo decennio, invece dell'attesa risposta (lo sbarco sulla Luna), risponde la guerra del Vietnam e richiesto di elaborare, prendendo le parti dei Vietnamiti, è scartato in quanto comunista; e alla fine del film perché, ridotti i candidati di un altro colloquio per un lavoro in una stanza soffocante e in piedi, si ribella, chiede per i giovani da interrogare un trattamento umano, dà in escandescenze e viene espulso, dovendo infine accettare un posto in provincia, lontano dagli affetti familiari e dalla ragazza di cui si è innamorato, Keya, alla quale però scrive con la speranza che lei lo attenda.
Nel frattempo abbiamo visto i rapporti tesi di Siddartha con il fratello di sinistra e la sorella che accetta compromessi pur di lavorare come segretaria personale di un uomo d'affari; i rapporti col partito comunista; soprattutto la città di Calcutta nella sua ripresa di tipo neorealista, da un lato, con la camera che carrella su volti di strada, attività artigianali, interni poveri, e dall'altro alterna lo spaccato sociale con i sogni del protagonista, resi da un bianco e nero in negativo.
Film di ottima qualità visiva e documentaria, ben interpretato, vicino alle estetiche europee degli anni Quaranta e Cinquanta quanto alle ambientazioni nazionali e con un tono marcato di denuncia.
[Renato Persòli]
29/10/09
Carl Gustav Jung e Karol Kerényi, PROLEGOMENI ALLO STUDIO SCIENTIFICO DELLA MITOLOGIA
Ed. originale in lingua tedesca, 1942. Trad. italiana, Torino, Bollati Boringhieri, 2003
Al di là delle riflessioni specifiche su parecchi elementi e dei discorsi più generali di ordine teorico, si indicano qui solo alcuni aspetti che hanno interessato o appaiono utili e attuali.
Per Kerényi, mito significa soprattutto origine e fondazione, un'arché, una resa che non sarebbe possibile in altri linguaggi che quello della mitologia (p. 16-19 e 21). Qui importa la specificità del linguaggio del mito, oltre all’origine delle diramazioni del discorso e del pensiero che dal mito si dipartono
Nel mito, il mondo "parla un linguaggio simbolico", parla "di ciò che in esso è ed ha validità", è "un'immagine offerta dal mondo stesso" (p. 75). In tal senso va oltre l'allegoria (p. cioè "dire l'uno per l'altro"): la realtà del mito è simbolica e "racconta", esprime il mondo "in sogni, in visioni" (p. 76). Il mito ha in verità lo spessore e la concretezza dei sogni, degli enigmi polivalenti su cui gli esseri umani si interrogano, dell’irriducibilità dell’irrazionale a razionalità completa.
Le figurazioni mitiche sono dunque "verità", in cui gli opposti si incontrano.
Per Jung, in sintonia con quanto sopra, ma secondo altri percorsi e in altre direzioni, almeno parzialmente, "nell'individuo gli archetipi si presentano come involontarie manifestazioni di processi inconsci [...]; nel mito invece si tratta di formazioni tradizionali di un'età per lo più incalcolabile" (p. 112). "Lo spirito primitivo non inventa i miri: li vive. I miti sono, originariamente, rivelazioni dell'anima pre-cosciente" e non "allegorie di processi fisici" (p. 113). Vero che il mito viene vissuto prima che espresso come storia e racconto; e riesperito dalla modernità proprio perché rivissuto e modellante rispetto al comportamento individuale e sociale.
"L'azione principale dell'eroe è la vittoria sul mostro dell'oscurità: è il trionfo sperato e atteso della coscienza sull'inconscio. Giorno e luce sono sinonimi della coscienza, notte ed oscurità dell'inconscio" (p. 130). Così in tanti miti come nelle fiabe.
Spesso "il simbolo è l'anticipazione di una futura situazione della coscienza" (p. 132). Invero tale è talora il mito, o il simbolo, o l'immagine onirica che emergono dall’inconscio e predicono, se corretta ne è l'interpretazione, un futuro comportamento, come in un responso oracolare.
[Roberto Bertoni]
Al di là delle riflessioni specifiche su parecchi elementi e dei discorsi più generali di ordine teorico, si indicano qui solo alcuni aspetti che hanno interessato o appaiono utili e attuali.
Per Kerényi, mito significa soprattutto origine e fondazione, un'arché, una resa che non sarebbe possibile in altri linguaggi che quello della mitologia (p. 16-19 e 21). Qui importa la specificità del linguaggio del mito, oltre all’origine delle diramazioni del discorso e del pensiero che dal mito si dipartono
Nel mito, il mondo "parla un linguaggio simbolico", parla "di ciò che in esso è ed ha validità", è "un'immagine offerta dal mondo stesso" (p. 75). In tal senso va oltre l'allegoria (p. cioè "dire l'uno per l'altro"): la realtà del mito è simbolica e "racconta", esprime il mondo "in sogni, in visioni" (p. 76). Il mito ha in verità lo spessore e la concretezza dei sogni, degli enigmi polivalenti su cui gli esseri umani si interrogano, dell’irriducibilità dell’irrazionale a razionalità completa.
Le figurazioni mitiche sono dunque "verità", in cui gli opposti si incontrano.
Per Jung, in sintonia con quanto sopra, ma secondo altri percorsi e in altre direzioni, almeno parzialmente, "nell'individuo gli archetipi si presentano come involontarie manifestazioni di processi inconsci [...]; nel mito invece si tratta di formazioni tradizionali di un'età per lo più incalcolabile" (p. 112). "Lo spirito primitivo non inventa i miri: li vive. I miti sono, originariamente, rivelazioni dell'anima pre-cosciente" e non "allegorie di processi fisici" (p. 113). Vero che il mito viene vissuto prima che espresso come storia e racconto; e riesperito dalla modernità proprio perché rivissuto e modellante rispetto al comportamento individuale e sociale.
"L'azione principale dell'eroe è la vittoria sul mostro dell'oscurità: è il trionfo sperato e atteso della coscienza sull'inconscio. Giorno e luce sono sinonimi della coscienza, notte ed oscurità dell'inconscio" (p. 130). Così in tanti miti come nelle fiabe.
Spesso "il simbolo è l'anticipazione di una futura situazione della coscienza" (p. 132). Invero tale è talora il mito, o il simbolo, o l'immagine onirica che emergono dall’inconscio e predicono, se corretta ne è l'interpretazione, un futuro comportamento, come in un responso oracolare.
[Roberto Bertoni]
27/10/09
Angelo Pini Recco, DA NOI A VOI
LINGUAGGIO PALUDATO A TRATTI QUASI SABBIATO MOBILE
FA MALE PER L'ULTERIORE RICOMPARSA
DELL'INDAFFARATA BOLGIA FLESCIATA
CAMPA DI RENDITA IL PESSIMISMO TEMPERATO
ACCOGLIE L'ETÀ DELLE ILLUSIONI E DEL FANGO
SCIVOLANTE A SUA VOLTA RETORICO
TORNANTE INDIETRO NELLO STAGNO
COME UNO SCORPIONE DI NERO SI SFINA
A CAUSA DI SIMBIOSI FRA DENTI LINGUA
L'ALFABETO NON SI SPORCA
ORA SCISSO PENZOLA PAROLA A TERRA
L'ALTRO SI DISTRUGGE HARAKIRI D'ORGOGLIO FRIGOLANTE
STURBA ASSOCCIANDOSI AL BRANCO
A CAPO L'EMULSIONE RICEVUTA DI CIBO RESPIRO E ALTRO
OGNI ENERGIA DA FUORI CHE IL RUMORE DISCONNETTE SENZA SUONO
PERDONO IL PUNTO D'EQUILIBRIO LE IMPALCATURE
Un flusso neosperimentale di linguaggio anche gergale. "Flesciato": da "flesciare", fare i flash? Esprimere per intermittenze. Sturbare è dato dal Dizionario Etimologico Treccani come "aferesi di dis-turbare" e "vale: mettere impedimenti o inciampi ne' fatti altrui". Viene riscontrato un pessimismo di matrice leopardiana ("l'età delle illusioni" dello ZIBALDONE, il "fango" di A SE STESSO). La condizione esistenziale è di perdita dell'equilibrio, forse indicando ciò che è l'essere umano in questo scorcio del nuovo secolo. Il linguaggio emerge dalla pronuncia ("simbiosi fra denti lingua"), facendosi strada come tale mentre esprime emozioni. Anche l'aspetto visivo, lo stampatello maiuscolo in cui ci è pervenuta questa poesia, segnala urgenza del dire ed enfasi volontaria. O forse questo testo vuol dire tutt'altro? (RB)
FA MALE PER L'ULTERIORE RICOMPARSA
DELL'INDAFFARATA BOLGIA FLESCIATA
CAMPA DI RENDITA IL PESSIMISMO TEMPERATO
ACCOGLIE L'ETÀ DELLE ILLUSIONI E DEL FANGO
SCIVOLANTE A SUA VOLTA RETORICO
TORNANTE INDIETRO NELLO STAGNO
COME UNO SCORPIONE DI NERO SI SFINA
A CAUSA DI SIMBIOSI FRA DENTI LINGUA
L'ALFABETO NON SI SPORCA
ORA SCISSO PENZOLA PAROLA A TERRA
L'ALTRO SI DISTRUGGE HARAKIRI D'ORGOGLIO FRIGOLANTE
STURBA ASSOCCIANDOSI AL BRANCO
A CAPO L'EMULSIONE RICEVUTA DI CIBO RESPIRO E ALTRO
OGNI ENERGIA DA FUORI CHE IL RUMORE DISCONNETTE SENZA SUONO
PERDONO IL PUNTO D'EQUILIBRIO LE IMPALCATURE
Un flusso neosperimentale di linguaggio anche gergale. "Flesciato": da "flesciare", fare i flash? Esprimere per intermittenze. Sturbare è dato dal Dizionario Etimologico Treccani come "aferesi di dis-turbare" e "vale: mettere impedimenti o inciampi ne' fatti altrui". Viene riscontrato un pessimismo di matrice leopardiana ("l'età delle illusioni" dello ZIBALDONE, il "fango" di A SE STESSO). La condizione esistenziale è di perdita dell'equilibrio, forse indicando ciò che è l'essere umano in questo scorcio del nuovo secolo. Il linguaggio emerge dalla pronuncia ("simbiosi fra denti lingua"), facendosi strada come tale mentre esprime emozioni. Anche l'aspetto visivo, lo stampatello maiuscolo in cui ci è pervenuta questa poesia, segnala urgenza del dire ed enfasi volontaria. O forse questo testo vuol dire tutt'altro? (RB)
25/10/09
BREVISSIMA NOTA SU MARXISMO E CULTURA
Il marxismo non può essere liquidato riguardo l’analisi della cultura e degli intellettuali.
È chiaro che le interpretazioni restrittive del ruolo degli intellettuali come agenti del socialismo, punitive del libero pensiero e prescrittive sul tipo di letteratura da utilizzare sia nei contenuti (il mondo operaio e contadino, gli eroi proletari, la celebrazione degli episodi anticapitalisti, l’attacco alla borghesia) sia nella forma (il realismo socialista) vanno respinte, costituiscono un periodo storico finito e rappresentano un’intrusione grave nella specificità del lavoro intellettuale e letterario.
Tuttavia ci sono aspetti del pensiero marxista su questi temi che non si presentano con modalità dogmatiche e sono invece utili a comprendere i problemi e anche a delineare quadri di intervento pratico.
Eccone alcuni, indicati nei capoversi qui sotto.
• La concezione della definizione della società sulla base della struttura economica da cui derivano le sovrastrutture ideologiche. Questo sembra un punto di analisi corretto purché si tenga conto di tutte le mediazioni con cui ciò avviene, nonché del fatto che le sovrastrutture ideologiche, politiche, giuridiche, di comportamento sociale, culturali, una volta esistenti acquisiscono un margine di autonomia anche elevato e possono agire sulla società talora persino in contrasto con la struttura economica.
• L’ideologia è una forma di persuasione che è propria degli individui e dei gruppi sociali. Analizzare le ideologie dei gruppi intellettuali è essenziale per capire come essi si relazionano l’uno all’altro in date epoche e in che maniera si dispongono, soggettivamente e oggettivamente, rispetto al potere costituito.
• L’ideologia è vista marxianamente come una forma di falsa coscienza, come talora è. Fino a che punto celebra valori universali eterni mentre i valori sono al contrario storicizzati e contingenti, legati alla società da cui provengon? Più che l’Ideologia tedesca di Marx, forse soccorre qui l’idea gramsciana di egemonia, di pervasività delle ideologie nella società. Tuttavia esistono valori importanti di umanità connessi non alla posizione degli esseri umani all’interno della società capitalista, ma alla loro essenza di esseri umani, di enti di natura (cfr. Engels): i comandamenti delle religioni, i tabù, ecc.
• La letteratura riflette la società in cui viene prodotta.
• La letteratura può modificare la società modificando le idee e creando coscienza. Tale è una delle funzioni degli intellettuali.
• L’intellettuale svolge una professione, è all’interno della struttura produttiva e al contempo produttore di idee, ha una responsabilità della maniera in cui svolge il suo lavoro e trasmette le idee; allo stesso tempo può riconoscersi non come avulso nelle torri d’avorio, ma come un lavoratore che produce beni immateriali, di frequente, anziché materiali, soprattutto nella società capitalistica contemporanea.
• Prescrivere all’intellettuale quel che deve fare significa limitarne la portata e la libertà, il che è ingiusto, vista anche la tendenza degli intellettuali ad autonomizzarsi. È giusto da un lato che l’intellettuale esprima liberamente le proprie idee, posizioni, vedute letterarie e artistiche. D’altro canto, tuttavia, è anche giusto che un partito si aspetti fedeltà alle idee politiche che esso esprime da parte degli intellettuali iscritti. Può tuttavia solo sperare, non prescrivere, che gli intellettuali stiano dalla sua parte.
[Rooberto Bertoni]
È chiaro che le interpretazioni restrittive del ruolo degli intellettuali come agenti del socialismo, punitive del libero pensiero e prescrittive sul tipo di letteratura da utilizzare sia nei contenuti (il mondo operaio e contadino, gli eroi proletari, la celebrazione degli episodi anticapitalisti, l’attacco alla borghesia) sia nella forma (il realismo socialista) vanno respinte, costituiscono un periodo storico finito e rappresentano un’intrusione grave nella specificità del lavoro intellettuale e letterario.
Tuttavia ci sono aspetti del pensiero marxista su questi temi che non si presentano con modalità dogmatiche e sono invece utili a comprendere i problemi e anche a delineare quadri di intervento pratico.
Eccone alcuni, indicati nei capoversi qui sotto.
• La concezione della definizione della società sulla base della struttura economica da cui derivano le sovrastrutture ideologiche. Questo sembra un punto di analisi corretto purché si tenga conto di tutte le mediazioni con cui ciò avviene, nonché del fatto che le sovrastrutture ideologiche, politiche, giuridiche, di comportamento sociale, culturali, una volta esistenti acquisiscono un margine di autonomia anche elevato e possono agire sulla società talora persino in contrasto con la struttura economica.
• L’ideologia è una forma di persuasione che è propria degli individui e dei gruppi sociali. Analizzare le ideologie dei gruppi intellettuali è essenziale per capire come essi si relazionano l’uno all’altro in date epoche e in che maniera si dispongono, soggettivamente e oggettivamente, rispetto al potere costituito.
• L’ideologia è vista marxianamente come una forma di falsa coscienza, come talora è. Fino a che punto celebra valori universali eterni mentre i valori sono al contrario storicizzati e contingenti, legati alla società da cui provengon? Più che l’Ideologia tedesca di Marx, forse soccorre qui l’idea gramsciana di egemonia, di pervasività delle ideologie nella società. Tuttavia esistono valori importanti di umanità connessi non alla posizione degli esseri umani all’interno della società capitalista, ma alla loro essenza di esseri umani, di enti di natura (cfr. Engels): i comandamenti delle religioni, i tabù, ecc.
• La letteratura riflette la società in cui viene prodotta.
• La letteratura può modificare la società modificando le idee e creando coscienza. Tale è una delle funzioni degli intellettuali.
• L’intellettuale svolge una professione, è all’interno della struttura produttiva e al contempo produttore di idee, ha una responsabilità della maniera in cui svolge il suo lavoro e trasmette le idee; allo stesso tempo può riconoscersi non come avulso nelle torri d’avorio, ma come un lavoratore che produce beni immateriali, di frequente, anziché materiali, soprattutto nella società capitalistica contemporanea.
• Prescrivere all’intellettuale quel che deve fare significa limitarne la portata e la libertà, il che è ingiusto, vista anche la tendenza degli intellettuali ad autonomizzarsi. È giusto da un lato che l’intellettuale esprima liberamente le proprie idee, posizioni, vedute letterarie e artistiche. D’altro canto, tuttavia, è anche giusto che un partito si aspetti fedeltà alle idee politiche che esso esprime da parte degli intellettuali iscritti. Può tuttavia solo sperare, non prescrivere, che gli intellettuali stiano dalla sua parte.
[Rooberto Bertoni]
23/10/09
Corrado Prestianni, VERSI IN A RAINY NIGHT
1.
(SCOPERTE)
Dietro il sipario amici
poi non c'era nulla
pile di maschere e
abiti di scena
da riciclare ancora
chissà mai per quanto
2.
(CORRIDE)
La notte solitaria
è dei banderilleros
che infilzano illusioni
e sogni forsennati
ma pronto per domani
che aspetta i tuoi languori
c'è già qualche torero
ansioso nell'arena
3.
(ANCORA UN AMLETO)
Essere
meglio sarebbe
essere un'anguilla
una radice un chiodo
un'immagine dipinta
sul muro d'una chiesa
essere in ragione
di solo buio e luce
essere al principio
potenza mai svelata
di possibili infiniti
4.
“L'amore ci guida verso bassifondi di gloria” (E.Cioran)
siamo felici al vizio
delle cose e l'amore
mostarda universale
cresce dappertutto
come un'erbaccia vile
e copre ogni sentiero
NOTA
Le poesie di questa pagina, inviate dall'autore, sono state precedentmente pubblicate in DALLA PARTE DEL TORTO.
(SCOPERTE)
Dietro il sipario amici
poi non c'era nulla
pile di maschere e
abiti di scena
da riciclare ancora
chissà mai per quanto
2.
(CORRIDE)
La notte solitaria
è dei banderilleros
che infilzano illusioni
e sogni forsennati
ma pronto per domani
che aspetta i tuoi languori
c'è già qualche torero
ansioso nell'arena
3.
(ANCORA UN AMLETO)
Essere
meglio sarebbe
essere un'anguilla
una radice un chiodo
un'immagine dipinta
sul muro d'una chiesa
essere in ragione
di solo buio e luce
essere al principio
potenza mai svelata
di possibili infiniti
4.
“L'amore ci guida verso bassifondi di gloria” (E.Cioran)
siamo felici al vizio
delle cose e l'amore
mostarda universale
cresce dappertutto
come un'erbaccia vile
e copre ogni sentiero
NOTA
Le poesie di questa pagina, inviate dall'autore, sono state precedentmente pubblicate in DALLA PARTE DEL TORTO.
21/10/09
Fabio Ferrari, MOQUETTE VERDE E FIORI FINTI ARANCIONI
[Neither green nor orange. Foto di Marzia Poerio]
MOQUETTE VERDE E FIORI FINTI ARANCIONI
La moquette verde e i fiori finti arancioni
ovattavano il salotto.
Il colore e i coprisedili della 127
avevano in sé un’anima
il cuore degli anni settanta.
Presto ci saremmo dati da fare per riparare i danni.
E intanto i cani ti mordono i polpacci
E il gusto delle sigarette ti dà la nausea
Presto ci adopereremo nuovamente in cerca
della tranquillità
Itaca è vicina
Le nebbie sono alte. Le nebbie si diradano
Non ti ricordi di com’era, non sai più com’è!
Non ti curi di nient’altro oltre alla vita
Dentro il recinto,
ma tutte le espressioni languide mi gettano
nell’amarezza
Cosa succede se abbiamo cercato per tutto il tempo
Nel posto sbagliato?
E intanto i cani ti mordono i polpacci
E le sigarette ti danno la nausea
Feste e baldorie
era così che doveva andare
era così che avevamo scelto,
Ma piove nel sole!
E tutto quello che ti avevano raccontato
è falso!
COMMENTO DI GIAN PAOLO RAGNOLI
Fabio Ferrari è arrivato alla terza raccolta di poesie, BLUE NOISE (Novara, Interlinea, 2009); ormai che sia un talento autentico é indiscutibile. Il giovane poeta che esordiva nel 2002 con IL DOMATORE DI STELLE ha raffinato la sua poetica in Da quando la tua parte di letto é fredda e ora, con BLUE NOISE, la riafferma, la rinsalda, la sviluppa.
E’ una poesia del quotidiano, che non rinuncia a confrontarsi con la “vita reale”, quella di tutti i giorni, ma che è capace di trascenderla, di trasformare “lo scendere morbido delle tende” o “la manutenzione dei frigoriferi” in gesti che rivelano il dietro, nascosto, delle cose.
Va alla ricerca della vita Fabio e la trova, negli scorci della nostra città, La Spezia, tra i capelli neri di Micol, tra le parole che si arrotolano, si tendono per arrivare a dire quello che si è intravisto dentro il reale.
“Che immenso laboratorio è il mio!
Che studi terribili ho intrapreso!” (da MICOL)
Con la consapevolezza che “…tutto quello che ti avevano raccontato è falso!” (da MOQUETTE VERDE E FIORI FINTI ARANCIONI) e allora c’è da reinventare una mappa per decifrare quello che abbiamo davanti agli occhi e la poesia può nascere, e nasce, anche da un guardrail.
“Scrivere una poesia, quello sì,
quella è una cosa importante.” (da GUARDRAIL)
Da un poeta, e da un uomo, capace di mettersi a nudo così sinceramente (“tengo vivi i sogni” da NON C'È PIÙ ZUCCHERO), possiamo aspettarci ancora grandi cose.
19/10/09
A CIASCUNO IL SUO
[To each his/her own. Foto di Marzia Poerio]
In A CIASCUNO IL SUO (Torino, Einaudi, 1966), come dichiara l’autore, Leonardo Sciascia, la mafia era diventata ancor più pericolosa perché “totalmente politica”. La connivenza tra mafia e politica era presente, come nella realtà, così nel romanzo, in diverse sue articolazioni. Vediamo di seguito le principali.
Nella storia di Sciascia, il farmacista Manno, nel domandarsi per quale ragione abbia ricevuto la lettera che lo minaccia di morte, per prima cosa pensa proprio alla politica. “Non faceva politica”, dunque non era obiettivo di un omicidio di mafia teso a eliminare personalità politiche scomode. “Il suo voto era veramente segreto”: guai a rivelarlo in un paese di 7.500 abitanti dove si sa tutto di tutti e se si parla troppo ci si espone al rischio di ritorsioni violente.
Conscio di un sistema clientelare che concede favori a chi dà voti e li ritira a chi vota per la parte avversa, Manno vota per diversi partiti: ora per la sinistra (PSI), ora per i conservatori (DC). Questo particolare è un’allusione al trasformismo, ovvero l’indifferenza per ideologie politiche determinate e la condivisione di questa o quell’ideologia, anzi il passaggio dall’una all’altra, a seconda dell’opportunità.
Nell’insieme del romanzo c’è sfiducia nei confronti della politica delle forze governative. La trasparenza di chi, dall’opposizione, agisce nell’interesse dei cittadini (come l’onorevole comunista amico di Laurana) è in contrasto con la gestione del potere a vari livelli di illegalità di stampo mafioso esemplificati dal rapporto gerarchico tra l’onorevole Abello, il notabile Rosello e il sicario Raganà, che rappresentano tre diversi elementi del tessuto politico-criminoso legati al partito al governo. Un brano informa che Rosello ha convinto i consiglieri del suo partito a spostarsi “dall’alleanza con i fascisti a quella coi socialisti”: ciò è quanto fece la DC con la formazione del centro-sinistra tra il 1962 e il 1963; e alludere alla DC significa riferirsi al maggiore partito di potere, in definitiva allo stato stesso. Sciascia riteneva la DC responsabile di una politica staccatasi dall’elettorato e dalla partecipazione popolare e che si serviva delle posizioni raggiunte all’interno dello stato per perseguire interessi individuali e di casta.
Va ricordato che Sciascia era abbastanza gramsciano da sapere che il “pessimismo della ragione” si accompagna all’“ottimismo della volontà”. Una ragione pessimista è capace di vedere con lucidità i mali sociali. Sebbene sia scomparsa la positività del Bellodi del GIORNO DELLA CIVETTA (consistente nel suo proponimento, partito dalla Sicilia, di tornare nell’isola per continuare il proprio lavoro senza lasciarsi intimidire dalla sconfitta subita) e sebbene in A CIASCUNO IL SUO Laurana soccomba, l’argomento stesso del secondo romanzo e i riferimenti alla mafia, alla corruzione (come poi nel CONTESTO) e a una cospirazione tesa verso un colpo di stato costituiscono una denuncia di per sé e un implicito appello che l’ottimismo della volontà dell’autore rivolge ai lettori affinché prendano coscienza e assumano una posizione.
Sciascia difendeva la necessità di vigilare sulla democrazia, di cui dispiegava le disfunzioni e le crisi. Non è che sia poi così difficile vedere, più che le rotture, la continuità con il buio politico attuale in Italia.
Su un piano più strutturalmente testuale, la strategia di cooperazione tra autore e lettore è caratteristica del poliziesco sciasciano. L'autore ricostruisce la complessità della realtà, mettendo in rilievo le contorte maniere in cui l’organizzazione criminosa copre la verità e depista chi la cerca. Il lettore segue questi contorcimenti, identificandosi con un personaggio investigatore che, nel labirinto, man mano dipana i fili per uscirne. Il lettore scopre solo poco per volta come stanno realmente le cose.
I movimenti all’interno di un labirinto sono determinati dal caso oltre che da una strategia: bisogna capire come arrivare all’uscita e per farlo si tentano varie possibilità. La strategia testuale di Sciascia, ricercando la verità, semplifica il caos del mondo; al contempo insinua elementi casuali, elementi di azzardo, ovvero, come leggiamo in A CIASCUNO IL SUO, la “gratuità” con cui talora si presentano i delitti. L’inchiesta di Laurana è effettivamente un rischioso gioco di strategia e di azzardo, paragonabile per questi suoi tratti a una partita a carte, una partita con la morte: “Eccolo lì, quest’uomo riflessivo, timido, forse anche non coraggioso, a giuocare la sua pericolosa carta”.
Il gioco sciasciano del labirinto e delle carte ha dunque come sostrato esistenziale il rapporto tra la vita e la morte. La vita appare un gioco tragico interrotto da morti violente intervenute per calcolo di chi le procura e per infrazione delle regole del gioco da parte di chi le subisce.
Tra le riflessioni sulla morte, si veda in particolare quella di Roscio, per il quale “la morte è soltanto una formalità”, ovvero qualcosa da accettare in quanto inevitabile. Del resto, l’arciprete Rosello conferma: “Di sicuro c’è solo Dio. E la morte”.
Se la presenza della morte è riconducibile alla forza del caso (vi si può incorrere giocando una “carta pericolosa”, come fa Laurana, e dunque esponendosi al rischio che il caso ci favorisca o ci ostacoli), la morte ha anche il carattere di inevitabilità e di certezza unica. La morte è il terreno simbolico su cui si scontrano le forze del caso e della necessità.
La coesistenza delle coppie di contrari integrati ordine e caos, caso e strategia, vita e morte, caso e necessità fanno del giallo sciasciano un giallo simbolico e metafisico. È l’autore stesso a sottolineare gli elementi metafisici di trascendenza verso significati più profondi del conflitto tra investigatori e investigati nel genere poliziesco. Tra i modelli in tal senso, si ricorderà Dürrenmatt.
Il presente coincide con un mondo frammentario, nel quale, come leggiamo nel CAVALIERE E LA MORTE, “ormai tutto è possibile, tutto è credibile” e resta al narratore il compito di “mettere assieme, come scegliendo da un mucchio di pietruzze, quelle che meglio s'intonano: a modo dei mosaicisti”. Il concetto di mosaico era stato preannunciato in A CIASCUNO IL SUO. È infatti da un minimo indizio, da una delle tessere (la parola unicuique), che Laurana formula la catena deduttiva che lo porta a ricostruire la maggior parte del mosaico criminoso, completato poi dall’autore con la tessera dell’omicidio del protagonista. L’immagine delle tessere del mosaico come “mucchio di pietruzze”, dunque numerose e alla rinfusa prima di essere incastonate, insinua l’idea che in un mondo fatto di elementi dispersi, e poco significativi se presi uno a uno, il ruolo del narratore è di scelta e di collegamento dei pezzi per formare un quadro d’insieme che dia un senso alla realtà.
Ad altri livelli del testo, la descrizione dei luoghi e i riferimenti socio-politici sono aspetti del realismo, ma la paradossalità dell’esistenza e dei casi successi a Laurana si possono ascrivere a una mediazione tra realismo e sperimentalismo. A CIASCUNO IL SUO resta conciso come tutto Sciascia (contraddicendo l’abbondanza di particolari di Manzoni), ma non è sperimentale come la suddivisione cinematografica per scene non numerate del GIORNO DELLA CIVETTA o le procedure allusive del CONTESTO, che presuppongono una capacità di intuizione dei dettagli mancanti da parte del lettore.
La letterarietà di Sciascia è riposta in questa complessità di dimensioni. I suoi testi si possono leggere a vari livelli: come romanzi di piacevole lettura, come indagini sul potere e come raffinati prodotti letterari. La nitidezza linguistica facilita la comprensione da parte del lettore anche meno esperto, mentre l’allusività intriga il lettore più colto.
[Roberto Bertoni]
17/10/09
Gian Paolo Ragnoli, CREDEVAMO FOSSE L’ALBA
[Can't remember was it dawn or sunset that time.... (Foto di Marzia Poerio)]
A volte torna il tuo fantasma
Ma non c’è nulla di cui preoccuparsi
È soltanto che c’è la luna piena (come allora)
E così me ne sto qui seduto
La testa piena di ricordi
Ad ascoltare una voce che conoscevo
Un paio di anni luce fa
Mentre andavamo dritti al di là del limite
E ricordo i tuoi occhi
Erano più azzurri della copertina di Joni
Blù, non blue, scherzavo
Quando hai fatto irruzione sulla scena
Potevi diventare una leggenda
Il multicolore pied piper che aspettavamo
Se l’avessi davvero voluto
O forse era un mio sogno
Poi, passato l’attimo, incapaci di afferrare il vento
Ti sei perduto, o forse trovato, nella tua vita
E lì sei rimasto
Temporaneamente naufrago approdato infine alla riva
Magari ignaro che per un momento
Sei stato lo specchio in cui ci siamo guardati
Seduti al bar, a bere vini raffinati
Nulla a che vedere con le antiche osterie passate
La neve tra i capelli e la pressione alta
Non nominiamo mai ciò che di più selvaggio è stato
Che so, quella notte a Portovenere quando
Il nostro fiato faceva nuvolette bianche
Che si mescolavano e si fermavano nell’aria
Parlando strettamente per me
Noi avremmo potuto morire là allora
Forever Young, come diceva Quello
E sai che ho scritto, già allora confusamente lo pensavo
Che non avremmo fatto mai nulla di meglio
Ora spesso mi dici
Che non hai nostalgie
Quindi concedimi un’altra parola per questo
Tu che sei così bravo con le parole
E nel tenere le cose nel vago
Perché ho bisogno di un po’ di quella indeterminatezza, ora
Entrambi sappiamo bene cosa la memoria può portare
Malinconia, dolcezza ma soprattutto rimpianto
E la scoperta che tanto è servito a così poco
Non voglio certo dire a noi
Ma a cambiar l’asse a questo mondo malato
Questo è un prezzo che ho già pagato.
Credevamo fosse l’alba, invece era il tramonto.
NOTA DELL'AUTORE
Avevo giurato che non avrei più scritto maliconiche elegie sul sogno perduto degli anni '70: mentivo. Il testo trae la sua origine dal riascolto casuale di DIAMONDS & RUST, una vecchia canzone di Joan Baez dedicata a Bob Dylan, che mi ha dato l'impulso a scrivere qualcosa di simile rivolgendomi a un vecchio e caro amico, Rudi Veo, con cui ho condiviso l'amicizia, le speranze e le inevitabili amarezze, dopo. Diventati dei "vecchi signori" a volte ci troviamo ancora a discutere come se stessimo preparando un'assemblea del "movimento", rimbeccandoci citazioni improbabili, accalorandoci come se la vita "vera" passasse ancora da quelle parti.
15/10/09
Paul Hunter, BULLETPROOF MONK
[The shrine (Foto di Marzia Poerio)]
USA 2003. Titolo italiano IL MONACO. Con Jaime King, Karel Roden, Seann William Scott, Victoria Smurfit, Chow Yun-Fat
Si tratta di un film commerciale d'azione e di fantasia, ascrivibile al genere "arti marziali", protagonista Chow Yun-Fat di cui si ricordano, tra le numerose interpretazioni, quella in LA TIGRE IL DRAGONE, e che vedremo prossimamente in una pellicola sulla vita di Confucio.
C'è sempre qualcosa di esteticamente, adornianamente, degradato, si potrebbe dire, nella produzione massificata. In questo caso certe scene nei sotterranei della metropolitana ricordano vagamente MATRIX, ma forse l'archetipo della lotta contro i membri di una banda rivale è WEST SIDE STORY. L'insistenza è sull'effetto telefilm, sul combattimento di per sé, per la fruizione di consumo che esso provoca, coniugato al contempo a ironie postmoderne. Il male è rappresentato nella sua pervicacia bondiana o alla Indiana Jones, tramite un personaggio nazista negli anni Quaranta e scienziato maligno in un laboratorio aggiornato e tuttora sadicamente disposto verso la tortura e la cattiveria.
Bene. Detto questo, a noi pare sia vero anche il contrario, che è precisamente quanto ci attrae verso questo film. Il degrado parziale estetico accompagna, oltre la recitazione pregevole di Chow Yun-Fat, un riscatto parziale dei contenuti, degli assunti narrativi che delineano una fiaba con buone disposizioni, interessante perché rivolta quasi come una parabola verso la vittoria delle positività, come deve essere in questo tipo di narrazione.
La storia: un monaco tibetano è guardiano di un potere riposto in un manoscritto (nella parola), tale da garantire il controllo sul mondo, protetto pertanto dalla congregazione buddhista e preda invece delle mire di potere del perfido Strucker. Per sessant'anni il monaco sfugge alle ricerche di Strucker finché incontra in modo in apparenza casuale (in realtà, si direbbe, per destino), rispondenti alle profezie e ignari del loro ruolo, i suoi successori, i giovani occidentali Kar e Giada, cui conferirà, invecchiando, la possibilità di mantenere intatta l'età per i successivi sessant'anni assieme al segreto magico e misterico che trasmette loro dopo che i malvagi sono stati sconfitti.
Cosa di più simile alle fiabe del folclore? Già questo ci consola: il riciclaggio della tradizione nel presente. Se le battute del monaco possono sembrare trite, o semplificate, puntano però in direzione della modestia, della conoscenza di sé, dell'uso del potere a favore della positività. La mortificazione positiva dell'io arriva al punto che ha dovuto anche rinunciare al nome il monaco al momento di intraprendere le funzioni di guardiano del potere misterioso, ovvero del controllo delle negatività anche peggiori.
Insomma, a noi è piaciuto, sebbene esitiamo a consigliarne la visione a un pubblico veramente intellettuale...
[Renato Persòli]
13/10/09
Lucetta Frisa, UN INEDITO DA SCANSIONI DELL'ATTESA
[Ticking for waiting (Private Collection). Foto di Marzia Poerio]
Questa è la mia terra e questa non è la mia terra
Io sono là e non sono qui
Mahmud Darwish
Mi hai detto che devo attendere il permesso di soggiorno
in questa squallida sala d’attesa
di fronte a un muro che non si scioglie in mare.
Mi hai detto di attendere qui la cittadinanza
e il passaporto se volessi andarmene.
Non ti ascolterò perché mi attendi tra i vivi
che camminano nel tuo mondo ancora in attesa
di fare molte cose. Ma noi
non attendiamo se non di essere raggiunti
spenti gli slanci dell’ira e del sangue.
Fai finta di non capire ciò che sono e non sono
poi per non turbarti troppo getterai via
i miei silenzi dove ricadono
morte tutte le cose dette e capite.
Non so in quale sogno io sto inventando il mio
se tenace continua a fiorire sul fondo
di questa terra che abbandonai da millenni o fu lei
a lasciarmi da solo appena nato
sull’acqua senza riparo dove mai
nessuno volle raccogliermi.
O sogno da un altro luogo che non ha nome.
Forse sono il tuo assillo sempre più triste
che ti scrive ti scrive
per chiederti un soggiorno illimitato
mentre il muro di fronte sembra stendersi
sciolto sul flutto bianco del tuo foglio
e l’ira slacciata scivolare ai piedi
sbiadire nel mare il sangue e la colpa.
11/10/09
Marco Ercolani, CAOS INESISTENTE [Prima parte]
[Tea ritual, as a fragment of order in a world of chaos (Private Collection). Foto Di Marzia Poerio]
9 - 7 - 28. Ho 46 anni. 3 - 15 - 29. Mi chiamo Cristian Pelloux. 4 - 12 - 51. Ho 46 anni, vivo a Torino da pochi mesi. Volete controllare la mia carta d’identità? Sono di origine rumena. Come vivo? Attore di strada, falsario, collezionista. Di cosa mi sospettate? Perché mi avete chiuso in questa cella? Per le mie casse? Quando è cominciato tutto questo? Sedici anni fa, credo. Ho cominciato a collezionare libri per caso. Prima per colore; poi per argomento; poi per titoli. È stato semplice, naturale. Ho cominciato a tenere un diario, dove descrivevo con attenzione le posizioni in cui li avevo collocati. È importante sapere il punto esatto, i centimetri precisi che dividono l'oggetto dal muro, lo spessore degli scaffali, la densità della polvere. Ogni numero ha un suo mistero, ogni luogo un suo segreto. Non vi siete mai accorti che certe formule matematiche, certe equazioni semplici, certi numeri primi, ritornano come presagi?
Le posizioni. Ad ogni posizione corrisponde un gesto, una traccia. Le tracce che abbiamo lasciato nel mondo. Riunirle, riordinarle, collocarle. È così che la vita diventa un’enciclopedia cifrata, un tronco con gli anelli stratificati e i cerchi bene in vista, con tutti i segni del tempo esposti all'occhio - i secoli, gli anni, i giorni, i minuti. Ricordo alcuni temi: la Geografia, la Grammatica Croata, la Bicicletta, l'Astronomia, gli Scacchi. Perché ricordo proprio questi? Non so. Mi piace viaggiare, adoro gli scrittori slavi, le stelle hanno belle configurazioni, l'aria sferza le guance dei ciclisti, ogni mossa con l'alfiere è un rischio mortale.
Ho collezionato altri generi. Ingegneria, Musica, Genetica, Filosofia, Sonno. Li ho messi in tanti magazzini. Cosa ci ho messo? I miei libri, che diavolo! Non è di quelli che stiamo parlando? Non è per tutti questi volumi che ho stipato a migliaia in decine di case in centinaia di cartoni, saturando tutti gli spazi, che io sono stato denunciato e che voi siete qui, con le vostre sciocche divise, i tristi berretti a visiera sopra le facce pallide, a guardarmi con sospetto? Non vi hanno ordinato, i vostri capi, di sapere come io ho costruito le mie arnie di libri? Non c’entra nessun omicidio. Stilate con esattezza il verbale: Roman è un lavoratore instancabile, un’ape paziente. Con le mie mani costruivo scaffale dopo scaffale. Poi, uno dopo l'altro, infilavo i libri lì dentro, li riunivo, li stipavo, li ammucchiavo anche in sei file, uno dietro l'altro. Che senso di pace, alla fine! Che stupefacente sollievo! All'inizio erano pochi, avevo il tempo di leggerli, potevo ricordare gli argomenti, le trame, i caratteri. Era tutto contenuto nella mia testa, ordinato fra le pareti del cranio. Ma poi crebbero di numero e mi stancai di ricordare cosa significavano. Mi bastava vederli: il desiderio di togliere un volume dalla sua posizione per sfogliarne le pagine era eccessivo. Bisbigliavo 9 - 3 - 11- 4. Nominavo il numero, la fila, lo scaffale, e basta. La cifra è tutto. Sapere significa conoscere, numerare, misurare, dalle rughe di un volto decrepito ai granelli di polvere di un deserto. Se non riuscite a comprendermi, pensate a una mappa. Prendete la vostra vita, ad esempio. Voi lavorate per tutelare la legge. O almeno, così immagino, se siete qui, minacciosi, a guardarmi. Voi arrestate rapinatori, assassini, nomadi. Poi tornate a casa e sfogliate il vostro album di famiglia con tutte le fotografie. Non vi dà un senso di magico sollievo vedervi birichini e innocenti, all'età di sette anni, spavaldi e presuntuosi all'età di vent'anni, sazi e sicuri all’età di ventotto, con la madre che sorride e la fidanzata, orgogliosi e tranquilli con i vostri figli piccoli quando ne avete compiuto trentaquattro? Che soddisfazione! Tutto al suo posto. Tutto fotografato, riconoscibile, preciso, anche se suddiviso in immagini diverse. Se qualcuno vi uccidesse ora, le immagini resterebbero fisse nei fogli degli album, nei punti della vostra mappa. Molto rassicurante.
Ma non per me. Ci sono troppi fattori imprevedibili nelle vite domestiche: le luci sgradevoli, le ombre confuse, i lutti imprevedibili, la polvere della rovina su tutte le cose. Non fa per me. Le mie mappe sono sicure come scrigni, chiuse nelle mie stanze, a Torino. Sono i miei libri. I libri che ho letto e collocato in quegli scaffali. Perché dovrei riconoscere una storia, identificarmi con un personaggio, riassaporare l’incanto delle parole? Non sono mai stato un vero lettore. Io, i libri, li possiedo. Non ho nessuna voglia di viaggiare dentro di loro. Il viaggio sono loro. Avete mai provato a svegliarvi tutti i giorni, sempre chiusi nel vostro corpo, sempre prigionieri della stessa stanza, pensando che domani la vostra esistenza sarebbe stata uguale a quella di oggi? La vita può essere interminabile. E, poiché è interminabile, ho cominciato a collezionare libri. Come compagni, sono compagni ideali: non sporcano, non parlano, se ne stanno fermi dove li hai messi, finché non sei a tu prenderli fra le mani, a sfogliarli, a risvegliarli, a toccarli. Sei tu, che decidi. Direte: non è lo stesso se accendi la televisione, se infili una cassetta nel videoregistratore? Sì, ma le cassette si deteriorano. Un giorno puoi non vederle più. I libri, invece, non basta il tempo di una vita a vederli invecchiare. Vivessi ottant'anni, i caratteri saranno sempre gli stessi, l'inchiostro non sparirà dalla carta: anzi, col tempo, una certa polvere sulle parole, un foglio ingiallito, può causare un piacere sottile…
Cercate di capirmi. Ho collocato i miei volumi nei punti esatti degli scaffali di certe librerie perché è un ottimo sistema per ricordarmi di me. Sapere che un libro è lì, catalogato e timbrato, messo in quella posizione, definito da quel numero, mi fa immaginare che la vita non sia caotica, ma piena di attimi certi, di numeri esatti, di splendide combinazioni. Là, per esempio. Grammatica russa: 1, 27. Cosa è successo nel gennaio del 1927? Mancavano esattamente sei mesi alla nascita di mio padre. Ecco, in questa cifra ci sono i sei mesi che hanno preceduto la sua nascita. Guardo il dorso del libro. Non importa cosa contenga. Immagino, ricostruisco, invento. Vedo una donna incinta. Una casa grande. Mio nonno che bacia mia nonna. Ho davanti ai miei occhi tutta la scena, fissata in un numero.
All'inizio delle mie collezioni, ricordo che sulla prima pagina applicavo il mio timbro, poi disegnavo una bandierina con i colori della nazione a cui apparteneva l'autore. Spesso raccattavo volumi scartati dalle librerie o dispersi nei marciapiedi o gettati nei cassonetti, e li depositavo con cura in quel punto esatto della casa, li ordinavo negli scaffali o li lasciavo imballati ancora nelle casse.
Scusate, ho perso il filo…8 - 6 - 54 - 7. La mia collezione, sì. All'inizio non li amavo affatto, questi rettangoli duri. Leggere, rileggere, capire, ripensare quello che avevo letto: che noia! Poi mi accorsi che i libri avevano una natura diabolica: potevano essere letti e potevano non esserlo. Come mi piacque scoprire la seconda ipotesi! Tutti quei mattoni allineati e chiusi, colorati ma sigillati: sarebbe bastato aprirli per... e io non li aprivo apposta. Gialli, avventure, cronache, scoperte, teorie, western, fumetti, poesie - tutte le storie che potevo immaginare. Poi, se la fantasia mi mozzava il respiro e non mi faceva dormire, potevo mettere fine all'attesa, aprivo il libro, leggevo, e da allora non era più un segreto inesauribile ma un messaggio preciso. Fino al momento meraviglioso in cui lo avrei di nuovo dimenticato e il libro sarebbe tornato ad essere il più inaccessibile dei misteri.
Perché mi guardate con sospetto? Cosa cercate? Pensate che sia un terrorista, una spia? Non ho mai rubato nulla. Potevo guadagnare due soldi come interprete o come attore di strada, ma non avrei potuto mantenermi una casa così grande da collocare tutti i miei libri. Scelsi una soluzione intermedia, insoddisfacente - l'unica possibile. Affittai diversi magazzini e garages, dislocati in punti lontani di Torino, spesso all'estrema periferia della città: due ore dopo che li avevo affittati, grazie a velocissime ditte di trasloco, li avevo già riempiti di volumi. E io, nel mio taccuino, avevo annotato tutti i numeri di tutti i libri: La tabacchiera dell’imperatore, Marjuana, I ghiottoni, Lettera all’onorevole, Manuale delle caldaie a vapore. Sono solo alcuni esempi, ma sarebbero infiniti. Ho tanti taccuini con tutti i numeri: volendo, posso ritrovare questo o quel volume, questo o quel pezzo di vita. Talvolta le combinazioni mi attraggono per il fascino numerico. Spesso le gioco e rigioco. Una volta vinsi al lotto una piccola cifra con cui mi pagai per due mesi l'affitto di un altro magazzino, dove stipai altri libri.
Torino è una città misteriosa ma lo è molto di più da quando io colleziono libri, perché ho disseminato, nei punti strategici della città, intere biblioteche di cui solo io ho la chiave. Solo io, Roman, conosco la mappa della città-libro che ho sempre sognato di possedere. Ho sotto controllo tutte le storie e tutti i saperi. Quelli, almeno, che riguardano me. Io regolo il caos. Con le mie librerie sotterranee, come un generale con i luoghi strategici della battaglia di cui si sa sicuro vincitore, ho creato, molto semplicemente, me stesso. Me stesso, ripeto: un caos inesistente. Niente può eliminare da me quello che so perché sono circondato da quello che so. Io sono quello che so. Ho tutti i numeri e tutti i punti. I libri sono lì: rispondono alle mie domande. Numero 13, fila 8, L'innocenza di Igor: diciannove anni, la musica di Mahler, il 1979. Dico 13, dico 6, ecco I due melograni: un bosco frusciante, i quindici anni, lo schiaffo di una ragazza.
Ma voi non vi accontentate, no, voi chiedete e chiedete ancora, dovete riferire al vostro capo se io sono un pazzo o un criminale, se ho bisogno di una cella in ospedale o in carcere. Magari vi domandate perché non conduca una vita normale; perché non dorma, come tutti, in un letto decente; perché non mangi tre volte al giorno; perché non scopi una donna. Ve lo dico subito: niente di quello che voi pensate indispensabile per la sicurezza di un uomo rende sicuro me. Dormire? Ma se può arrivare la morte a portarti via come un lampo! Mangiare! E se poi finisce che il corpo si piega in due per la colite, che stramazzo a terra tra i dolori? E amare una donna, che mi detesterebbe per il mio morboso collezionismo? Perché? Le azioni normali dell'uomo sono cariche dei più orrendi pericoli. Trovate così pericoloso e inquietante che io collochi un libro in quel punto esatto della stanza, che gli dia un numero e una fila nello scaffale e che, domani, ricordando quei due numeri, possa riuscire ad evocare un momento irripetibile della mia vita?
[1. Continua]
09/10/09
Luigi Zoja, LA MORTE DEL PROSSIMO
[A moment of loneliness by a non-responding statue. Foto di Marzia Poerio]
Luigi Zoja, LA MORTE DEL PROSSIMO, Torino, Einaudi, 2009.
Lo spunto di questo libro è l’idea che nella tarda modernità, dopo la metaforica e nietzschiana “morte di Dio”, nella società laica contemporanea si debba parlare anche di “morte del prossimo” a vari livelli di rapporti di comunicazione caratterizzati ormai non più dalla prossimità con gli altri bensì dalla distanza. Con questo evento “l’uomo cade in una fondamentale solitudine”, in quanto “la lontananza dagli altri causa una privazione che è un vero danno psichico. L’uomo solo incontra la depressione; e, a circolo vizioso, l’uomo depresso è un uomo cui mancano la forza e la spinta per andare incontro al prossimo” (p. 13).
Uno dei meriti del libro è una suddivisione per argomenti catalogati con ordine, accompagnata da esempi tratti dalla vita quotidiana come pure da dati statistici e riferimenti d’altro genere, senza per questo mai scadere nella superficialità, anzi tenendo la riflessione su un tono al contempo di buon livello culturale e leggibile.
Così ci si trova, per esempio, su treni da cui i “passeggeri arcaici sono scomparsi. Oggi chi sale sul treno non ha prossimo nel senso più letterale: sente ancora che gli uomini vivono di affetto, ma sa solo dimostrarlo a qualcuno lontano, gridando nel cellulare e disturbando chi è vicino” (p. 8). Diminuiscono di importanza, accentuando l’alienazione e la solitudine, consuetudini quali il vicinato, mentre si verifica una perdita di valori che conduce non all’“immoralità”, bensì all’“amoralità” (p. 21). Ne nasce anche una sfiducia diffusa negli altri.
Tale quotidianità della lontananza si ripete in quante occasioni della giornata, facilitata da un narcisismo che promuove amore “intransitivo” piuttosto che “transitivo”: la “vergogna del narcisismo - che accomunava gran parte delle culture tradizionali - si è sbriciolata sotto le spallate del mercato, che vende il superfluo solleticando autocompiacimento” (p. 10). Sul piano del lavoro, nelle sue sfere direzionali, si verificano etiche spesso fondate su facciate di comportamento che hanno dietro di sé “mancanza di scrupoli, di responsabilità, di sensi di colpa, tendenza alla menzogna e alla manipolazione, cinismo” (p. 27). Frattanto si accresce la disuguaglianza, il gap tra ricchezza e povertà che allontana le persone e le società.
Da qui un “vuoto” che si tenta di colmare ricorrendo ai sentimenti della solidarietà, ricreati in forme in parte autentiche e in parte mediate dai mass media. Tuttavia, ci sono casi in cui anche questo sentimento è distorto in quanto sottoposto a un effetto autoriflessivo: “la critica alla nuova disumanità del capitalismo post-industriale è divenuta una specializzazione della società capitalista post-industriale” (p. 34).
La lontananza è favorita da alcuni abiti dell’internet con la relativa assuefazione alla rete intesa come presenza individuale ossessiva. A questo proposito Zoja fornisce dati e riflessioni su patologie della dipendenza, tra le quali, caso estremo, suicidi accaduti col computer come “personaggio importante del dramma” (p. 72). Sulla scorta di Castells, Zoja aggrega infine commenti sulla vicinanza creata in altre occasioni dal virtuale quando si trasforma in reale ed è strumento di risocializzazione (p. 125).
[Roberto Bertoni]
07/10/09
Pierre Bourdieu, IL MESTIERE DI SCIENZIATO
Pierre Bourdieu, SCIENCE DE LA SCIENCE ET RÉFLEXIVITÉ. COURS DU COLLÈGE DE FRANCE 200O-2001, traduzione di A. Serra, IL MESTIERE DI SCIENZIATO, Milano, Feltrinelli, 2003
Bourdieu vede nella scienza un "campo" che nei secoli, a partire da Copernico, ha cercato di conquistarsi autonomia dal potere religioso, politico ed economico con strumenti quali la creazione di un gruppo.
Tale autonomia, secondo Bourdieu, si sarebbe indebolita alla fine del ventesimo e all’inizio del ventunesimo secolo perché “i meccanismi sociali che sono andati instaurandosi a mano a mano che la scienza si affermava, come la logica della concorrenza tra pari, rischiano di trovarsi messi al servizio di fini imposti dall’esterno” con “sottomissione agli interessi economici e alle seduzioni mediatiche” (p. 7).
Gli aspetti autonomistici, tuttavia, ancor si rivelano nella “creazione delle condizioni favorevoli alla produzione del sapere e alla riproduzione a lungo termine del gruppo” attraverso la “creazione di associazioni scientifiche e professionali”, il che non può essere visto semplicemente come “professionalizzazione” (p. 67), bensì come una “dualità del mondo scientifico” (p. 68), riposta in “due pratiche […]: una confinata nell’università, l’altra aperta all’industria” (p. 67).
Il campo scientifico è in realtà “un campo di forze dotato di una struttura”, nonché “un campo di lotte per conservare o trasformare questo campo di forze” (p. 48).
Se da un lato, dunque, Bourdieu insiste sull’autonomia scientifica, con l’idea di campo introduce varie contraddizioni coesistenti. C’è, sì, ricerca di autonomia da parte degli scienziati, ma vengono contestate al contempo le concezioni utopistiche dell’autonomia, la “visione ingenuamente idealistica del mondo scientifico come ‘comunità solidale’” (p. 62), l’idea che il pensiero scientifico si sviluppi secondo una propria logica esclusiva, con scambi altruisti tra i ricercatori. Allo stesso tempo viene ritenuta da sfatare anche la visione opposta della scienza come “bellum omnium contra omnes” (pp. 62-63).
Esiste nel campo scientifico ciò che Bourdieu chiama l’“illusio”, ossia “la sottomissione assoluta all’imperativo del disinteresse” (p. 69), anche se questo non sempre si realizza, si direbbe, nella pratica, in quanto ci si trova di fronte a “due specie di capitale scientifico: un capitale di autorità propriamente scientifica e un capitale di potere sul mondo scientifico”, per esempio quello dei “ministeri, dei rettori, dei presidi o degli amministratori scientifici” (p. 75), il che è dovuto alla necessità delle scienze di ricorrere a due tipi di risorse, quelle “propriamente scientifiche” e quelle “finanziarie che occorrono per comprare o costruire gli strumenti […] o per pagare il personale, o le risorse amministrative, come i posti” di lavoro (p. 76).
Il “campo” è proprio composto da queste diverse sfaccettature e dalla maniera in cui in certi periodi storici e in determinate realtà sociali essi si dispongono. I vari “agenti” di cui sopra “si scontrano, all’interno di quel gioco che è il campo, in una lotta per far riconoscere un modo di conoscere (un oggetto e un metodo), contribuendo così a conservare o trasformare il campo di forze” (p. 81).
All’interno delle scienze, Bourdieu pone anche le scienze sociali, la cui particolarità è la “debole autonomia” (p. 108), dovuta al fatto che esse, in particolare la sociologia, sono troppo “scottanti”, hanno “un oggetto che interessa a tutti”, compresi i potenti (pp. 108-09). La sociologia è “esposta all’eteronomia per il fatto che la pressione esterna è in essa particolarmente forte e […] le condizioni interne dell’autonomia sono difficili da realizzare (soprattutto attraverso l’imposizione di un diritto d’ingresso)” (p. 109). Anche i sociologi, in quanto scienziati sociali, sono sottoposti a pressioni: ci sono coloro che scelgono di stare dalla parte del potere, “magari anche soltanto per omissione” (p. 8); oppure contribuire a far emergere verità nel mondo sociale.
Si intrecciano in queste analisi di Bourdieu concezioni di provenienza marxista, strutturale e di altro genere. Si tratta di una sintesi che cerca, qui, come in quella degli intellettuali letterari, di dar conto della complessità, senza cadere né nell’economicismo né nell’idealismo, ma mostrando anche implicitamente quali sono i compiti sociali di modificazione della realtà e difesa delle idee rispetto alle interferenze del potere.
[Roberto Bertoni]
Bourdieu vede nella scienza un "campo" che nei secoli, a partire da Copernico, ha cercato di conquistarsi autonomia dal potere religioso, politico ed economico con strumenti quali la creazione di un gruppo.
Tale autonomia, secondo Bourdieu, si sarebbe indebolita alla fine del ventesimo e all’inizio del ventunesimo secolo perché “i meccanismi sociali che sono andati instaurandosi a mano a mano che la scienza si affermava, come la logica della concorrenza tra pari, rischiano di trovarsi messi al servizio di fini imposti dall’esterno” con “sottomissione agli interessi economici e alle seduzioni mediatiche” (p. 7).
Gli aspetti autonomistici, tuttavia, ancor si rivelano nella “creazione delle condizioni favorevoli alla produzione del sapere e alla riproduzione a lungo termine del gruppo” attraverso la “creazione di associazioni scientifiche e professionali”, il che non può essere visto semplicemente come “professionalizzazione” (p. 67), bensì come una “dualità del mondo scientifico” (p. 68), riposta in “due pratiche […]: una confinata nell’università, l’altra aperta all’industria” (p. 67).
Il campo scientifico è in realtà “un campo di forze dotato di una struttura”, nonché “un campo di lotte per conservare o trasformare questo campo di forze” (p. 48).
Se da un lato, dunque, Bourdieu insiste sull’autonomia scientifica, con l’idea di campo introduce varie contraddizioni coesistenti. C’è, sì, ricerca di autonomia da parte degli scienziati, ma vengono contestate al contempo le concezioni utopistiche dell’autonomia, la “visione ingenuamente idealistica del mondo scientifico come ‘comunità solidale’” (p. 62), l’idea che il pensiero scientifico si sviluppi secondo una propria logica esclusiva, con scambi altruisti tra i ricercatori. Allo stesso tempo viene ritenuta da sfatare anche la visione opposta della scienza come “bellum omnium contra omnes” (pp. 62-63).
Esiste nel campo scientifico ciò che Bourdieu chiama l’“illusio”, ossia “la sottomissione assoluta all’imperativo del disinteresse” (p. 69), anche se questo non sempre si realizza, si direbbe, nella pratica, in quanto ci si trova di fronte a “due specie di capitale scientifico: un capitale di autorità propriamente scientifica e un capitale di potere sul mondo scientifico”, per esempio quello dei “ministeri, dei rettori, dei presidi o degli amministratori scientifici” (p. 75), il che è dovuto alla necessità delle scienze di ricorrere a due tipi di risorse, quelle “propriamente scientifiche” e quelle “finanziarie che occorrono per comprare o costruire gli strumenti […] o per pagare il personale, o le risorse amministrative, come i posti” di lavoro (p. 76).
Il “campo” è proprio composto da queste diverse sfaccettature e dalla maniera in cui in certi periodi storici e in determinate realtà sociali essi si dispongono. I vari “agenti” di cui sopra “si scontrano, all’interno di quel gioco che è il campo, in una lotta per far riconoscere un modo di conoscere (un oggetto e un metodo), contribuendo così a conservare o trasformare il campo di forze” (p. 81).
All’interno delle scienze, Bourdieu pone anche le scienze sociali, la cui particolarità è la “debole autonomia” (p. 108), dovuta al fatto che esse, in particolare la sociologia, sono troppo “scottanti”, hanno “un oggetto che interessa a tutti”, compresi i potenti (pp. 108-09). La sociologia è “esposta all’eteronomia per il fatto che la pressione esterna è in essa particolarmente forte e […] le condizioni interne dell’autonomia sono difficili da realizzare (soprattutto attraverso l’imposizione di un diritto d’ingresso)” (p. 109). Anche i sociologi, in quanto scienziati sociali, sono sottoposti a pressioni: ci sono coloro che scelgono di stare dalla parte del potere, “magari anche soltanto per omissione” (p. 8); oppure contribuire a far emergere verità nel mondo sociale.
Si intrecciano in queste analisi di Bourdieu concezioni di provenienza marxista, strutturale e di altro genere. Si tratta di una sintesi che cerca, qui, come in quella degli intellettuali letterari, di dar conto della complessità, senza cadere né nell’economicismo né nell’idealismo, ma mostrando anche implicitamente quali sono i compiti sociali di modificazione della realtà e difesa delle idee rispetto alle interferenze del potere.
[Roberto Bertoni]
05/10/09
Agniezka Kuciak, ODYSSEUS AND POZNAŃ [Part I]
[Utopia of home. Foto di Marzia Poerio]
I.
As one wise Greek said: “the cheated one is wiser than the one that didn’t let himself be led astray”. The cheated one is wiser as the world is carved from faith, love and divine art. Penelope was the wise one.
Not all realise that the sky is made up of blue eyes which look all very innocent. Angels are in the stained glass, and the sun is the pane of stained glass through which God shines.
Poznań is a lonely island, and the sea, full of monsters, adventures, vessels, wind and longing, spits in its eyes. Through tears, through fans of poetry, Penelope looks into the sea for a long time. The Moon is like Odysseus’s silver arch, but no one reaches out for it.
And so Odysseus sails and sails, back home through the world with the wind of Latin fantasies. Wisdom leads him through the sea, blue-eyed wisdom. He’s been away for so long that even Homer is taking a nap, yellow have gone the epos’s pages, the green gowns of the faithful have faded.
Too many isles, fairies, lotuses, and winged words to return home so soon. Too many islands, fairies, lotus and winged words to choose to live without art.
II.
This was back in the time when the foamy sea flowed around Poznań and burst with a clutter into the suburbs. Even in Gwarna and Farna Streets you could still hear the hum.
Some thought that the hiss came from “those winding columns, which made it so difficult to focus on the prayers in the Fara church”. For “baroque evolved from the snake that so craftily twisted itself around the tree, the paradise tree and the paradise tree was strangled”. “Oh, why don’t we give it up” - one could hear them shout - “and let us return to the Middle Ages”.
In the meantime, the nymphs and sirens swam over to the safe houses. With bags full of bread, briefcases full of knowledge, suddenly music invaded the world, and sober citizens of Poznań were unexpectedly startled. “Monteverdi?” - they hesitated, and in awe threw themselves into that sea of strangeness, that the poet says is more crystal-clear and deeper than a dream.
And rumour had it that Monteverdi snatched people right into the sea. They said all the beautiful things the city had desinit in piscem. They said it was no good singing in the odd choir at the bottom of the silver waves.
And so all the sea is made of lace, all made of dark Penelope’s chests. And the chest holds cloth embroidered with outstanding adventures. This whole story is also there, all the spells and monsters. The Laestrygonians and Lotophagi and the Phaeacians’ island of Scheria. All is there, waiting for their return, locked away with a faithful key.
III.
At the bottom of darkness there’s a Cyclop. He lives in the island, in a cave. Like all such monsters he cannot build a house. This is the source of his frustration.
Poliphemus kept Odysseus hostage. He wanted to devour him at once. He kept thrusting people against the floor till pink brains splashed out.
“Human brain Carpaccio served with a drop of lemon” - kindly noted Odysseus - “goes really well with amontillado. Would Mr Monster like to have some?”
The worst thing about Cyclops is that they eat us raw. No knives, no forks, no spices and no grace. Never have they cast their old eyes on a recipe for a man. The Cyclop does not know it goes like this:
“Soften the man’s ears with music and conversation.
Saturate the man’s eyes with colours and harmonies.
Tie his tongue and exercise his body.
Cure the man’s heart with love, faith and chastity.
Then one can make friends with him”.
The worst thing about these monsters is that they eat us and burp. And they only say: “So what?”
Luckily for this story Poliphemus tried some wine.
Monsters and barbarians, as we know, do not water things down. And a good beverage mixed with thoughts full of curses makes one sleep very heavily.
Out of his sombre gratitude Poliphemus promised to devour him last. However, in the fire Odysseus hardened the pole.
Can Nobody blind the Cyclop in his dreams? To blind the Cyclops in his dreams Nobody Can. (This is what we are all called in the language of monsters).
And so Odysseus escaped from the cave, hanging down from the ram’s belly, before getting unravelled by Penelope. “We’re not meant to live like animals, but to seek chastity and Poznań...”- said the wise heart, sailing through the sea, through tears. It makes one scared to think that he who lost all his allies and was molested by the ram will trigger off the ILIAD, as if the ODYSSEY was not enough.
By the way, one would admit indeed that Poliphemus is an ugly creature.
Seeing her fart made him fall in love with Galatea: the fact that ephemeral nymphs do too, took his breath away. He didn’t even notice that it was of a different class: aromatic, charming, musical, all made of ether and rainbow. Well, the Cyclop’s only eye fails to see that the truth is beautiful, scared of all that escapes far into the myth.
However, let us return home, back to Penelope.
IV.
It was back in the times when Poznań was still full of poetry, dreams and ardent affections. The butterfly of poetry was going round and round the candle, the eye of fairness, the sun of the soul. All had traces of sirens’ wings and claws in the heart's hearts. For days poets looked deep into the eyes, into the daylight - deeper than a dream.
Like salamanders, they lived solely by fire, magic, charm and reverie. Happily sleeping, in the darkness of the Persian night, immersed in the laurel wind. Troubadours set sail for death and for distant love. They aired their souls with gasps, measured time with sonnets. Books caught fire from the souls, the whole world on fire, glowing light. The old flame grew towards the sky, love swept the noble ones high up. It set the sun and stars in motion. It bore a smile over the books.
Whoever looked into their eyes could see the soul - all awash with stars, firmaments, frills of clouds. The heat wasted the soil away, while Clytia turned into the heliotrope. Out of passion, chastity vows were taken in Plato’s church. Amo amabam they said. The world was seen through a light veil of enchantment. Penelope had many a suitor.
Many a one had molested her with a sonnet, a canzone, a ballad, but she always managed to flee before the punch line. Many a suitor wanting her lips only got a cool dressing of Aquitania on their foreheads. Many a suitor desired that heart, but it was still overseas, in windstorms, on distant islands. And still Penelope remained faithful.
[1. To be continued]
Other texts by Agniezka Kuciak were published in “Carte allineate” on 19-9-2007 and 7-10-2007.
03/10/09
Cristina Cona, I TRADUTTORI CORSARI
Negli anni Sessanta sbarca su un’isola bretone Gilles C., traduttore dall’inglese alla ricerca di un luogo congeniale in cui vivere con la sua macchina da scrivere e i suoi quarantasette gatti. Dopo aver passato alcuni anni felici a tradurre autori defunti (e perciò “peuple infiniment patient”: “[ils] ne protestaient jamais. Et, avec des gens installés dans l’éternité, on pouvait prendre tout son temps. Aucun risque de rappels à l’ordre, d’index tapotés nerveusement sur le verre de la montre”), un bel giorno si lascia convincere dalla casa parigina Fayard a produrre la versione francese di ADA OR ARDOR di Vladimir Nabokov, autore vivo e vegeto oltreché da sempre inviso ai traduttori per la sua maniacale pignoleria, ma assiduamente corteggiato dagli editori perché prossimo (almeno così si pensa) a ricevere il premio Nobel.
Tre anni e cinque mesi più tardi non è ancora stata scritta una sola riga: Gilles è stato colpito da una sorta di crampo del traduttore, un torpore che gli fa continuamente rimandare al domani l’inizio del lavoro (cosa peraltro comprensibile, visto l’intreccio non certo lineare e il lessico straordinariamente problematico del romanzo) nonostante i solleciti sempre più pressanti dell’editore. Ormai alle strette, viene salvato da una gentile signora, nipote di Saint-Exupéry, che è solita passare le vacanze nell’isola e che organizza per lui una straordinaria operazione di soccorso: chiama a raccolta tutti i suoi amici villeggianti che vantano una seppur limitata dimestichezza con l’inglese e li convince a sobbarcarsi collettivamente il lavoro di traduzione, facendo loro balenare - provetta giardiniera qual è - futuri omaggi di piante e talee: “des mots contre des fleurs, des jardins contre des livres”. Tutti così abbandonano amori, lavoretti e passatempi per dedicarsi ad Ada, la cui presenza elusiva e sfarfalleggiante sembra impregnare di sé l’isola: non solo quell’estate, ma anche la seguente, quando grazie ad un anziano fotografo e radioamatore argentino (strizzata d’occhio a Borges, definito da Nabokov in una delle sue numerose note al romanzo “a writer with whom the author of LOLITA has been rather comically compared”) riescono ad ottenere, via etere, la collaborazione dei francofoni del mondo intero. E alla fine delle due estati il manoscritto della traduzione, sfuggito per miracolo alla furia degli elementi nel viaggio che lo porta in terraferma, approderà infine sul tavolo dell’editore.
Non tutto è pura invenzione nell’aggraziato romanzo di Erik Orsenna, DEUX ÉTÉS: anzi, a sentire l’autore si tratterebbe di una storia vera e ampiamente autobiografica poiché egli stesso, in quel lontano 1973-1974, ancora studente e alle prese con la stesura del suo primo romanzo, avrebbe fatto parte dell’armata Brancaleone di traduttori improvvisati che hanno salvato Gilles dalle ire di Fayard e di Nabokov. Veri sono senza dubbio i nomi e i luoghi: Gilles, il traduttore, appare con il suo nome completo (Gilles Chahine) sul frontespizio di ADA OU L’ARDEUR; l’isola è facilmente identificabile in Bréhat, al largo di Paimpol, sulla costa nord della Bretagna; e proprio su quest’isola profondamente amata Orsenna ha passato le sue estati di bambino e di adolescente. Uno dei temi del romanzo è per l’appunto la nostalgia di quei tempi passati, così che le vicende restano circonfuse dell’alone vago e luminoso che sembra caratterizzare i ricordi della prima giovinezza (quelli che Nabokov, al termine di ADA, definisce “comparable to […] caravelles, indolently encircled by the white birds of dreams”).
Costante poi è il richiamo al mare, altro grande protagonista del racconto, e alle metafore marinare. Così il parallelo fra traduttori e corsari: “Quel est le travail du corsaire? Quand un bateau étranger lui plaît, il l’arraisonne. Jette l’équipage à la mer et le remplace par des amis. Puis hisse les couleurs nationales au sommet du plus haut mât. Ainsi fait le traducteur. Il capture un livre, en change tout le langage et le baptise français.” E altrove Gilles, lodando i panorami dell’isola, esclama: “Moi dont le travail est celui d’un passeur, quel spectacle plus inspirant que cette ronde éternelle de bateaux d’un point à l’autre de l’archipel?” Il mare, trascurato per ben due estati dai villeggianti tutti presi dal gioco della traduzione, tenterà invano di vendicarsi, nel corso di una burrasca di fine estate, aggredendo il traghetto e impregnando di acqua salmastra “la dame dans les feuilles”, come la chiamano i bambini allarmati.
Mare significa isole, perciò isolamento, vita da anacoreti, distacco dal mondo: è questa la condizione sia di Gilles che di Nabokov, entrambi a loro modo eremiti - condizione che per Orsenna è tutto sommato positiva. Si veda la frase di apertura del libro: “Heureux les enfants élevés dans l’amour d’une île”, che apprendono ben presto “l’imagination, la solitude, la liberté”. E un’isola è anche, per lui, la lingua francese, situata nel bel mezzo di un oceano rappresentato dalle rivali più forti (come l’inglese e lo spagnolo) che minaccia di inghiottirla per sempre, o che tutt’al più le permetterà di vivacchiare come riserva linguistica tutelata dall’Unesco.
Passando a considerazioni più prosaiche (ma per noi, credo, non prive di interesse), come venne accolta da Nabokov questa che, se la storia narrata da Orsenna è vera anche solo per metà, non può non essere stata una traduzione raffazzonata, inaccettabile per un committente così meticoloso e spietato? Già negli anni Trenta Nabokov aveva dichiarato guerra ai cattivi traduttori, da lui definiti “downright deceivers, mild imbeciles and impotent poets” (e non depose mai le armi, scrivendo ad esempio IN ON TRANSLATING EUGENE ONEGIN: “What is translation? On a platter / A poet’s pale and glaring head, / A parrot’s screech, a monkey’s chatter / And desecration of the dead”), il testo di ADA è costellato di frecciate rivolte contro le traduzioni scadenti (la prima frase del romanzo, che ad arte capovolge l’esordio e stravolge il titolo di ANNA KARENINA, è pretesto per attaccare con ironia sferzante “the betrayals to which great texts are subjected by pretentious and ignorant versionists”) e nel corso delle “due estati” lo scrittore, dal grande albergo di Montreux in cui vive (e che Orsenna definisce “paquebot terrestre”, piroscafo issato sulla riva non appena costruito), continua a lanciare poetici strali contro la categoria così disprezzata.
Aprendo oggi ADA OU L’ARDEUR si legge il rassicurante messaggio “traduction revue par l’auteur”. Sappiamo infatti che Nabokov dedicò sei mesi di assiduo lavoro ad un rifacimento completo del testo francese - e morì non molto tempo dopo di una malattia misteriosa. Sorge il sospetto che lo scapigliato dilettantismo e le fantasiose interpretazioni dei villeggianti di Bréhat abbiano scosso in profondità l’irascibile autore, e che il piroscafo ancorato sulle sponde del lago di Ginevra, rifugio di anziani viaggiatori, non abbia resistito all’attacco dei corsari.
Fonti:
Vladimir Nabokov, ADA OR ARDOR, London, Penguin, 2000; THE ART OF TRANSLATION, cfr. NABOKOV.
Sito con testi di e su Nabokov: ZEMBLA .
Erik Orsenna, J’ADORE ÊTRE NÈGRE, PARFOIS: cfr. ORSENNA .
[Cristina Cona]
Tre anni e cinque mesi più tardi non è ancora stata scritta una sola riga: Gilles è stato colpito da una sorta di crampo del traduttore, un torpore che gli fa continuamente rimandare al domani l’inizio del lavoro (cosa peraltro comprensibile, visto l’intreccio non certo lineare e il lessico straordinariamente problematico del romanzo) nonostante i solleciti sempre più pressanti dell’editore. Ormai alle strette, viene salvato da una gentile signora, nipote di Saint-Exupéry, che è solita passare le vacanze nell’isola e che organizza per lui una straordinaria operazione di soccorso: chiama a raccolta tutti i suoi amici villeggianti che vantano una seppur limitata dimestichezza con l’inglese e li convince a sobbarcarsi collettivamente il lavoro di traduzione, facendo loro balenare - provetta giardiniera qual è - futuri omaggi di piante e talee: “des mots contre des fleurs, des jardins contre des livres”. Tutti così abbandonano amori, lavoretti e passatempi per dedicarsi ad Ada, la cui presenza elusiva e sfarfalleggiante sembra impregnare di sé l’isola: non solo quell’estate, ma anche la seguente, quando grazie ad un anziano fotografo e radioamatore argentino (strizzata d’occhio a Borges, definito da Nabokov in una delle sue numerose note al romanzo “a writer with whom the author of LOLITA has been rather comically compared”) riescono ad ottenere, via etere, la collaborazione dei francofoni del mondo intero. E alla fine delle due estati il manoscritto della traduzione, sfuggito per miracolo alla furia degli elementi nel viaggio che lo porta in terraferma, approderà infine sul tavolo dell’editore.
Non tutto è pura invenzione nell’aggraziato romanzo di Erik Orsenna, DEUX ÉTÉS: anzi, a sentire l’autore si tratterebbe di una storia vera e ampiamente autobiografica poiché egli stesso, in quel lontano 1973-1974, ancora studente e alle prese con la stesura del suo primo romanzo, avrebbe fatto parte dell’armata Brancaleone di traduttori improvvisati che hanno salvato Gilles dalle ire di Fayard e di Nabokov. Veri sono senza dubbio i nomi e i luoghi: Gilles, il traduttore, appare con il suo nome completo (Gilles Chahine) sul frontespizio di ADA OU L’ARDEUR; l’isola è facilmente identificabile in Bréhat, al largo di Paimpol, sulla costa nord della Bretagna; e proprio su quest’isola profondamente amata Orsenna ha passato le sue estati di bambino e di adolescente. Uno dei temi del romanzo è per l’appunto la nostalgia di quei tempi passati, così che le vicende restano circonfuse dell’alone vago e luminoso che sembra caratterizzare i ricordi della prima giovinezza (quelli che Nabokov, al termine di ADA, definisce “comparable to […] caravelles, indolently encircled by the white birds of dreams”).
Costante poi è il richiamo al mare, altro grande protagonista del racconto, e alle metafore marinare. Così il parallelo fra traduttori e corsari: “Quel est le travail du corsaire? Quand un bateau étranger lui plaît, il l’arraisonne. Jette l’équipage à la mer et le remplace par des amis. Puis hisse les couleurs nationales au sommet du plus haut mât. Ainsi fait le traducteur. Il capture un livre, en change tout le langage et le baptise français.” E altrove Gilles, lodando i panorami dell’isola, esclama: “Moi dont le travail est celui d’un passeur, quel spectacle plus inspirant que cette ronde éternelle de bateaux d’un point à l’autre de l’archipel?” Il mare, trascurato per ben due estati dai villeggianti tutti presi dal gioco della traduzione, tenterà invano di vendicarsi, nel corso di una burrasca di fine estate, aggredendo il traghetto e impregnando di acqua salmastra “la dame dans les feuilles”, come la chiamano i bambini allarmati.
Mare significa isole, perciò isolamento, vita da anacoreti, distacco dal mondo: è questa la condizione sia di Gilles che di Nabokov, entrambi a loro modo eremiti - condizione che per Orsenna è tutto sommato positiva. Si veda la frase di apertura del libro: “Heureux les enfants élevés dans l’amour d’une île”, che apprendono ben presto “l’imagination, la solitude, la liberté”. E un’isola è anche, per lui, la lingua francese, situata nel bel mezzo di un oceano rappresentato dalle rivali più forti (come l’inglese e lo spagnolo) che minaccia di inghiottirla per sempre, o che tutt’al più le permetterà di vivacchiare come riserva linguistica tutelata dall’Unesco.
Passando a considerazioni più prosaiche (ma per noi, credo, non prive di interesse), come venne accolta da Nabokov questa che, se la storia narrata da Orsenna è vera anche solo per metà, non può non essere stata una traduzione raffazzonata, inaccettabile per un committente così meticoloso e spietato? Già negli anni Trenta Nabokov aveva dichiarato guerra ai cattivi traduttori, da lui definiti “downright deceivers, mild imbeciles and impotent poets” (e non depose mai le armi, scrivendo ad esempio IN ON TRANSLATING EUGENE ONEGIN: “What is translation? On a platter / A poet’s pale and glaring head, / A parrot’s screech, a monkey’s chatter / And desecration of the dead”), il testo di ADA è costellato di frecciate rivolte contro le traduzioni scadenti (la prima frase del romanzo, che ad arte capovolge l’esordio e stravolge il titolo di ANNA KARENINA, è pretesto per attaccare con ironia sferzante “the betrayals to which great texts are subjected by pretentious and ignorant versionists”) e nel corso delle “due estati” lo scrittore, dal grande albergo di Montreux in cui vive (e che Orsenna definisce “paquebot terrestre”, piroscafo issato sulla riva non appena costruito), continua a lanciare poetici strali contro la categoria così disprezzata.
Aprendo oggi ADA OU L’ARDEUR si legge il rassicurante messaggio “traduction revue par l’auteur”. Sappiamo infatti che Nabokov dedicò sei mesi di assiduo lavoro ad un rifacimento completo del testo francese - e morì non molto tempo dopo di una malattia misteriosa. Sorge il sospetto che lo scapigliato dilettantismo e le fantasiose interpretazioni dei villeggianti di Bréhat abbiano scosso in profondità l’irascibile autore, e che il piroscafo ancorato sulle sponde del lago di Ginevra, rifugio di anziani viaggiatori, non abbia resistito all’attacco dei corsari.
Fonti:
Vladimir Nabokov, ADA OR ARDOR, London, Penguin, 2000; THE ART OF TRANSLATION, cfr. NABOKOV.
Sito con testi di e su Nabokov: ZEMBLA .
Erik Orsenna, J’ADORE ÊTRE NÈGRE, PARFOIS: cfr. ORSENNA .
[Cristina Cona]
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