03/10/09

Cristina Cona, I TRADUTTORI CORSARI

Negli anni Sessanta sbarca su un’isola bretone Gilles C., traduttore dall’inglese alla ricerca di un luogo congeniale in cui vivere con la sua macchina da scrivere e i suoi quarantasette gatti. Dopo aver passato alcuni anni felici a tradurre autori defunti (e perciò “peuple infiniment patient”: “[ils] ne protestaient jamais. Et, avec des gens installés dans l’éternité, on pouvait prendre tout son temps. Aucun risque de rappels à l’ordre, d’index tapotés nerveusement sur le verre de la montre”), un bel giorno si lascia convincere dalla casa parigina Fayard a produrre la versione francese di ADA OR ARDOR di Vladimir Nabokov, autore vivo e vegeto oltreché da sempre inviso ai traduttori per la sua maniacale pignoleria, ma assiduamente corteggiato dagli editori perché prossimo (almeno così si pensa) a ricevere il premio Nobel.

Tre anni e cinque mesi più tardi non è ancora stata scritta una sola riga: Gilles è stato colpito da una sorta di crampo del traduttore, un torpore che gli fa continuamente rimandare al domani l’inizio del lavoro (cosa peraltro comprensibile, visto l’intreccio non certo lineare e il lessico straordinariamente problematico del romanzo) nonostante i solleciti sempre più pressanti dell’editore. Ormai alle strette, viene salvato da una gentile signora, nipote di Saint-Exupéry, che è solita passare le vacanze nell’isola e che organizza per lui una straordinaria operazione di soccorso: chiama a raccolta tutti i suoi amici villeggianti che vantano una seppur limitata dimestichezza con l’inglese e li convince a sobbarcarsi collettivamente il lavoro di traduzione, facendo loro balenare - provetta giardiniera qual è - futuri omaggi di piante e talee: “des mots contre des fleurs, des jardins contre des livres”. Tutti così abbandonano amori, lavoretti e passatempi per dedicarsi ad Ada, la cui presenza elusiva e sfarfalleggiante sembra impregnare di sé l’isola: non solo quell’estate, ma anche la seguente, quando grazie ad un anziano fotografo e radioamatore argentino (strizzata d’occhio a Borges, definito da Nabokov in una delle sue numerose note al romanzo “a writer with whom the author of LOLITA has been rather comically compared”) riescono ad ottenere, via etere, la collaborazione dei francofoni del mondo intero. E alla fine delle due estati il manoscritto della traduzione, sfuggito per miracolo alla furia degli elementi nel viaggio che lo porta in terraferma, approderà infine sul tavolo dell’editore.

Non tutto è pura invenzione nell’aggraziato romanzo di Erik Orsenna, DEUX ÉTÉS: anzi, a sentire l’autore si tratterebbe di una storia vera e ampiamente autobiografica poiché egli stesso, in quel lontano 1973-1974, ancora studente e alle prese con la stesura del suo primo romanzo, avrebbe fatto parte dell’armata Brancaleone di traduttori improvvisati che hanno salvato Gilles dalle ire di Fayard e di Nabokov. Veri sono senza dubbio i nomi e i luoghi: Gilles, il traduttore, appare con il suo nome completo (Gilles Chahine) sul frontespizio di ADA OU L’ARDEUR; l’isola è facilmente identificabile in Bréhat, al largo di Paimpol, sulla costa nord della Bretagna; e proprio su quest’isola profondamente amata Orsenna ha passato le sue estati di bambino e di adolescente. Uno dei temi del romanzo è per l’appunto la nostalgia di quei tempi passati, così che le vicende restano circonfuse dell’alone vago e luminoso che sembra caratterizzare i ricordi della prima giovinezza (quelli che Nabokov, al termine di ADA, definisce “comparable to […] caravelles, indolently encircled by the white birds of dreams”).

Costante poi è il richiamo al mare, altro grande protagonista del racconto, e alle metafore marinare. Così il parallelo fra traduttori e corsari: “Quel est le travail du corsaire? Quand un bateau étranger lui plaît, il l’arraisonne. Jette l’équipage à la mer et le remplace par des amis. Puis hisse les couleurs nationales au sommet du plus haut mât. Ainsi fait le traducteur. Il capture un livre, en change tout le langage et le baptise français.” E altrove Gilles, lodando i panorami dell’isola, esclama: “Moi dont le travail est celui d’un passeur, quel spectacle plus inspirant que cette ronde éternelle de bateaux d’un point à l’autre de l’archipel?” Il mare, trascurato per ben due estati dai villeggianti tutti presi dal gioco della traduzione, tenterà invano di vendicarsi, nel corso di una burrasca di fine estate, aggredendo il traghetto e impregnando di acqua salmastra “la dame dans les feuilles”, come la chiamano i bambini allarmati.

Mare significa isole, perciò isolamento, vita da anacoreti, distacco dal mondo: è questa la condizione sia di Gilles che di Nabokov, entrambi a loro modo eremiti - condizione che per Orsenna è tutto sommato positiva. Si veda la frase di apertura del libro: “Heureux les enfants élevés dans l’amour d’une île”, che apprendono ben presto “l’imagination, la solitude, la liberté”. E un’isola è anche, per lui, la lingua francese, situata nel bel mezzo di un oceano rappresentato dalle rivali più forti (come l’inglese e lo spagnolo) che minaccia di inghiottirla per sempre, o che tutt’al più le permetterà di vivacchiare come riserva linguistica tutelata dall’Unesco.

Passando a considerazioni più prosaiche (ma per noi, credo, non prive di interesse), come venne accolta da Nabokov questa che, se la storia narrata da Orsenna è vera anche solo per metà, non può non essere stata una traduzione raffazzonata, inaccettabile per un committente così meticoloso e spietato? Già negli anni Trenta Nabokov aveva dichiarato guerra ai cattivi traduttori, da lui definiti “downright deceivers, mild imbeciles and impotent poets” (e non depose mai le armi, scrivendo ad esempio IN ON TRANSLATING EUGENE ONEGIN: “What is translation? On a platter / A poet’s pale and glaring head, / A parrot’s screech, a monkey’s chatter / And desecration of the dead”), il testo di ADA è costellato di frecciate rivolte contro le traduzioni scadenti (la prima frase del romanzo, che ad arte capovolge l’esordio e stravolge il titolo di ANNA KARENINA, è pretesto per attaccare con ironia sferzante “the betrayals to which great texts are subjected by pretentious and ignorant versionists”) e nel corso delle “due estati” lo scrittore, dal grande albergo di Montreux in cui vive (e che Orsenna definisce “paquebot terrestre”, piroscafo issato sulla riva non appena costruito), continua a lanciare poetici strali contro la categoria così disprezzata.

Aprendo oggi ADA OU L’ARDEUR si legge il rassicurante messaggio “traduction revue par l’auteur”. Sappiamo infatti che Nabokov dedicò sei mesi di assiduo lavoro ad un rifacimento completo del testo francese - e morì non molto tempo dopo di una malattia misteriosa. Sorge il sospetto che lo scapigliato dilettantismo e le fantasiose interpretazioni dei villeggianti di Bréhat abbiano scosso in profondità l’irascibile autore, e che il piroscafo ancorato sulle sponde del lago di Ginevra, rifugio di anziani viaggiatori, non abbia resistito all’attacco dei corsari.


Fonti:

Vladimir Nabokov, ADA OR ARDOR, London, Penguin, 2000; THE ART OF TRANSLATION, cfr. NABOKOV.

Sito con testi di e su Nabokov: ZEMBLA .

Erik Orsenna, J’ADORE ÊTRE NÈGRE, PARFOIS: cfr. ORSENNA .


[Cristina Cona]