27/07/09

CARTE ALLINEATE. Numero 31, Luglio 2009 / Issue 31, July 2009

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INDICE ALFABETICO / INDEX

Le voci elencate qui sotto senza il nome dell'autore sono state scritte da Roberto Bertoni. Foto di Marzia Poerio / Entries listed below without the name of the author were written by Roberto Bertoni. Pictures by Marzia Poerio.

- BUGLIANI, Roberto, TRE POESIE. Testo, 21-7-09.
- CONA, Cristina, IL ROMPICAPO IRLANDESE: ULISSE IN CINA. Riflessione, 9-7-09.
- ERCOLANI, Marco, SCRIVERE SOGNI. Testo, 19-7-09.
- FRISA, Lucetta, RITORNO ALLA SPIAGGIA. Note di lettura di Sergio Spadaro, 15-7-09.
- GRANJEAN, Bernard, LA REINE NÉPALAISE. Note di lettura, 17-7-09.
- GUILLOT, Ana, LA ORILLA FAMILIAR. Note di lettura, 25-7-09.
- KAIGE, Chen, THE PROMISE. Storie di film di Renato Persòli, 7-7-09.
- LYNCH, Brian, ALTHOUGH (SE PURE). Testo e traduzione, 13-7-09.
- PERICOLI, Tullio, BECKETT E CALVINO. Note su immagini e letture, 3-7-09.
- PIZZI, Marina, TESTI 1-5 DA IL SONNO DELLA RUGGINE (2009). Testi e intervista, 11-7-09.
- POLITO, Paola, ISOLA E FIUME. Note di lettura, 5-7-09.
- WHITE BROOM FLOWER. Fotografia e versi di Marzia Poerio, con commento, 1-7-09.
- ZALLER, Robert, ISOLE (traduzioni di Anthony MOLINO). Testo con traduzione, 25-7-09.

25/07/09

Robert Zaller, ISOLE


[The island of Palmaria seen from La Serra. Foto di Marzia Poerio]

1.

THE ISLANDS APPEAR

In the evening the islands appear
faint blue incisions on the parchment of night
coming each day to live their hour
between the red sun's fall and the evening star.
Sea and sky are perfect,
the dying sun marries them.
Pure volume, lucid height.
Yet without islands there is no solace.
Born under the plunge of the sun, their frailty,
like ours, dies with the light.
Their single flaw makes distance real.
They are the riddle that solves the night.


APPAIONO LE ISOLE

Di sera appaiono le isole
incisioni di un lieve azzurro sul papiro della notte
che vivono ogni giorno la loro ora
tra Venere e la caduta del sole infuocato.
Perfetto il mare, perfetto il cielo
mentre il sole morente li sposa.
Volume puro, lucido slancio.
Eppure, senza isole non vi è riposo.
Nate sotto il tuffo del sole, la loro fragilità,
come la nostra, muore con la luce.
Il loro solo torto rende vera ogni distanza.
Sono loro l'enigma che schiude la notte.


2.

BEFORE ISLANDS

The fret of motion
stirs the world
to being.
The gull's eye,
that never sleeps,
is its centerless center.
It sees hunger,
feigns a mouth.
Hunger is aloft,
an eye, a beak,
raging at the sea.

All this was before islands,
before the first cliff
that shouldered up
and snagged the sky.


PRIMA DELLE ISOLE

L'inquietudine del moto
scuote il mondo
verso l’essere.
L'occhio del gabbiano
che mai s'addormenta
ne è il centro senza centro.
Vede la fame,
finge una bocca.
La fame aleggia,
un occhio, un becco,
furibondi col mare.

Tutto questo era prima delle isole,
prima della stessa scogliera
che si prese sulle spalle il cielo
e se ne impadroni'.


3.

AFTERNOON OF THE ISLANDS

It's the hour of erasure
when blue flows into blue
the sun strikes us dumb
the horizon wavers
the birds disappear.
Nothing survives
the crush of being
but there an island rises
gray cape on a matador's point
another and another
like constellations coming out at night.
The light won't win today
nor the dark
as long as the islands
cast javelins at the sky.


POMERIGGIO SULLE ISOLE

È l'ora in cui tutto si cancella
quando l'azzurro confluisce in altro azzurro
il sole ci rende muti
l'orizzonte oscilla
svaniscono gli uccelli.
Niente sopravvive
al crollo dell'essere
ma oltre sorge un'isola
punta della mantella grigia del matador
e poi un'altra, e ancora un'altra
come costellazioni che spuntano di notte.
Oggi non vincerà la luce
e nemmeno il buio
fin quando le isole
lanceranno giavellotti contro il cielo.


4.

KEROS

Gulls describe a cliff
weaving it back and forth
with the strong thread
of a sail

A surf of hills
makes its lunge
against a wilder blue

They say a goatherd
lives on Keros, or a monk.
I like to think
he is the harpist who plays
the mad music of the wind.


KEROS

I gabbiani tracciano la scogliera
avanti e indietro la tessono
col filo forte
di una vela

Una mareggiata di colline
si avventa
contro l'azzurro selvaggio

Dicono che un pastore di capre
viva su Keros, o forse un monaco.
A me piace pensare
che sia il suonatore di arpa
che mette in musica
la follia del vento.


5.

THE REHEARSAL

Dawn. The first cast of silver
on the bare blue shield
the islands rough-shouldering
themselves into the sky
the first gull hunting the wave
the sun's angry eye
setting watchfires on the sea.
Gold hastens to the rock.
It is all one chord of light
struck from the silent gong,
rehearsing another day.


INCIPIT

Alba. La prima cascata di argento
sullo spoglio scudo azzurro
le isole che sgomitano
per un posto nel cielo
il primo gabbiano a caccia dell'onda
l'occhio irato del sole
che appicca incendi sparsi sul mare.
La roccia in fretta s'indora.
Tutto è un solo accordo
di luce, muto incipit
delle prove di un altro giorno.


[Traduzioni di Anthony Molino]



ROBERT ZALLER - poeta, traduttore, e critico letterario – è autore di quattro libri di poesia, di cui ISLANDS (ISOLE), Boston, Somersett Hall, 2006, da cui sono tratte le poesie qui pubblicate (dale pp. 13, 14, 21, 27 e 28 del volume).

Zaller è il più recente professore di storia alla Drexel University di Filadelfia (U.S.A.), nonché membro della Royal Historical Society, ha tradotto in inglese - assieme alla moglie, la scrittrice greca Lili Bita - le poesie scelte di Nikiforos Vrettakos.


ANTHONY MOLINO è psicoanalista e pluri-premiato traduttore di letteratura italiana negli Stati Uniti. Ha tradotto in inglese sei libri di poesia - di Valerio Magrelli, Lucio Mariani e Antonio Porta –, nonché commedie di Manlio Santanelli (USCITA DI EMERGENZA) e Eduardo De Filippo (NATALE IN CASA CUPIELLO). Vive e lavora in Italia.

23/07/09

Ana Guillot, LA ORILLA FAMILIAR

Buenos Aires, Botella al Mar, 2008


Questo libro di poesia LA ORILLA FAMILIAR (che nella seconda parte comprende la traduzione dei testi in lingua catalana, di Pere Bessó, LA RIBA FAMILIAR) Ana Guillot dedica ai suoi cari defunti.

Un libro incentrato sul tema “cimiteriale”, intenso e compatto nella sua interezza.

75 testi numerati si susseguono con impeto e trasporto, in spontaneo gesto interiore.

Un sentimento affiora di legame inscindibile, rapporto d”amore, risentimento per l”ingiustizia di ogni fine dell”essere, rifiuto della condizione di perdita irreparabile.

Ana Guillot usa un linguaggio forte, perentorio, parole definitive, spinte come uno schiaffo. Con mezzi asciutti e scabri, tecnica moderna. Musicalità nuova.

Interessante da recitare.

°

Poesia d”impatto linguistico alternativo.

In questo modo, accanto alla musica, all”arte figurativa, anche la poesia di oggi intende esprimersi “a nuovo”. Gli interventi poetici agiscono fuori norma: pari alla musica “atonale”, anche la poesia marca il suo passaggio di suono lungo strade diverse da quelle tradizionali.

Fuori di sintassi, avanza di getto il discorso, frutto di assimilazioni di pensiero, di ricerche, insegue scelte di natura eccentrica, accostamenti di voce e significato imprevisti, viaggia a metafora, con riferimenti molteplici di passo, salti di immagine, strappi di senso.

Poesia che funziona, che viene recepita per sensazione immediata, se tenuta alle redini dell” espressione “necessaria”.

Poesia di stile “personale”, molteplice quindi, varia secondo il soggetto, giusta per “addetti ai lavori” che possono apprezzarla.

La logica strutturale al suo interno si rende intricata, contrastante, seguendo la linea di un proprio “correlativo-oggettivo”. I termini insoliti dell”esperienza scrittoria formano le note alternanti di stacco e di privilegio, di allontanamento decisivo dal canto comune privato di mistero. Ne fanno una creazione non imitabile, non ripetibile - e neppure chiaramente definibile per tema, nel suo complesso.

Il lettore-auditore l”interpreta in libertà, ne apprezza il ritmo e lo trattiene, “ad orecchio”: nel suo intimo ne fa ciò che vuole.

I tempi sono maturi per questo treno a velocità di pensiero supersonico.

E così aumentano i poeti seguaci di questo esempio. Ne risulta quasi una setta a raggio globale, di adepti sparsi per tutto il mondo.

Questo tipo di poesia non è di facile accezione, è ovvio. Anzi, giocano proprio su questo “esserci e non esserci” dell”enigma i versi che avviano a una chiusura non soluta.

Certamente è voce che non può essere trasmessa dai “media”, via radio, per esempio. Ha bisogno di maggiore densità d”ascolto, di raccoglimento mentale, di concentrazione di lettura - più di quanto non sia possibile alla normale immediatezza di recezione della parola per via orale.

Poiché tutto si basa su un concentrato di “percezione”, ciò che sta al di là del detto deve essere “captato”.

Il fruitore si addestra a contribuire attivamente alla finalità dell”opera. Se vuole penetrarne i segreti.

°

E tuttavia in questo caso di Ana Guillot, la poesia si adegua a chi ascolta: voce “parlata” oltre che scritta, protesa ad un auditorio, può permettersi di spingere una effettiva azione teatrale. Il corpo poetico può essere, per così dire, “cantato”, ogni poesia recitata con effetto. Solamente pronunciando a fiato le parole, così come sono state “lanciate” sulla pagina. Con l”alito che ha dato loro vita.

E si raggiunge l”interlocutore per via misteriosa.

°

Come ci sono i patiti della musica “atonale” e della “rumoristica” in attività espressiva, così crescono i fautori delle nuove tecniche di “laboratorio linguistico”. I quali valutano la parola, ne assaggiano la qualità, la pesano, ne fruiscono con gusto e rigore, scommettono sul difficile.

E così nascono i piccoli capolavori: alternativi a quanto di poetico si possa oggi scrivere ancora con successo entro una logica più tradizionale di abilità scrittoria, che dica semplicemente “pane al pane, vino al vino”.


[Giuliana Lucchini]

21/07/09

Roberto Bugliani, TRE POESIE

1.

L’OPZIONE

Il poster
d’un clown bislacco alla parete
era il tuo doppio
fidato e silente con la lacrima
aggrappata al ciglio che rifiutava
di scivolare giù per l’abbrivo della guancia
mal rasata preferendo
la penombra truffaldina degli occhi
all’ingloriosa agonia sulla stoffa
della giacca o tra le fessure
impietose del parquet.


2.

QUELLO

quello? meglio perderlo, quello, che trovarlo
ti assicuro, sì, proprio lui, il gaglioffo
di mano lesta e sigaretta alla bocca
(spenta, la cicca, come il suo cuore),
che passeggia lungo il molo con sussiego e bastone
nemmeno fosse il re d’Inghilterra, cosa
ci puoi vedere di buono in quella faccia
affilata di dandy che ghigno e tracotanza
fanno tosta? Pensaci, pensaci bene prima di
affidargli, alla canaglia, fiducia e rispetto,
ché io ti consiglio, di più: t’esorto
a frugare attento sotto il mantello bislacco
fino alla gobba, e più giù, all’animo d’albagia,
al bilioso ruminare, ai cerini consumati
che serba nel taschino del panciotto
come spiccioli d’umana malvagità.
Riflettici, dunque, finché ancora sei in tempo
protetto dall’incessante parlottio della risacca e
dal trafelato andare di nuvole nel cielo,
altrimenti, ti avverto, subirai inerme l’assedio
del suo passo da ladro, delle sue fandonie da ierofante
incapsulate nell’adipe del tempo
avido nel chiedere, ma d’intese avaro.


3.

GIÀ ULISSE...

Già Ulisse, al finisterre, si rese conto
- la bruna montagna, il turbo (Inf. XXVI), con
l’acqua alla gola, la prora all’ingiù -,
illividito, della finitezza del mondo.

Seguitando seguiranno altri a misurare
il globo, imponendo dominio e saccheggio,
le conseguenze del caso, mentre su vapori arguta
la laica semenza si lancia ai quattro venti.

Forse il mondo ha arcani sotto
- discesa alle Madri, senza più responsi –
ma da sotto, a schiere, emergono automi
(come in Metropolis) della Grande Macchina.

Ferocia dei soprusi – oltranza degli oltraggi
- l’amer savoir nell’amer soleil si doppia,
l’occaso del moderno affrescando la coppia -:
nel prima-dopo il dopo-prima s’incastra.

Identità e bussola mutate alla bisogna,
ritagliano scampoli
di territori le nuove
vie della seta: sulla carta ruggono (da rúggere) leones

coi nomi più consoni al tempo.
Infedeltà dei luoghi: alterità-macerie.
Suggono i pozzi la geometria del profitto.
Passa per corridoi biologici la posta in gioco.

Avvolte da fumo nero le membra
straziate. L’agguato è stato micidiale.
Due autobombe all’unisono hanno fatto scempio.
Lamiere contorte e grida, sangue dappertutto.

Stenta la dama imperiale a imbastire
il suo ordito d’antico dominio.
Nel recto alterato il verso s’infratta,
accoglie il foglio l’inutile pietà.



Le poesie qui sopra sono tratte da DI QUAND’ERO POETA – E NON LO SAPEVO, Novi Ligure, Puntoacapo, 2009.

Testi precedenti di Roberto Bugliani sono apparsi su “Carte allineate” in data 13-2-2007 e 26-3-2007

19/07/09

Marco Ercolani, SCRIVERE SOGNI

Da LES REVES ET LES MOYENS DE LES DIRIGER del marchese Hervey de Saint-Denis, pubblicato anonimo nel 1867


Dal sedicesimo album, 1213esima notte

Salgo in cima alla torre, guardo il cielo, poi mi getto nel vuoto, verso il prato piccolo come un punto. Un attimo prima di sfracellarmi, mi sveglio. Prendo un foglio e dipingo con attenzione la traiettoria del mio corpo, così come lo ricordo: segno un punto, nella parabola della caduta, poco prima dell'impatto col suolo. Quando mi riaddormento e sogno la torre per la seconda volta, mi getto nel vuoto ma precipito con maggiore lentezza; a pochi centimetri dal suolo, non cado più ma resto sospeso nell'aria, e mi risveglio. Prendo lo stesso foglio e segno un nuovo punto nella traiettoria della caduta, questa volta più in alto. Riprendo sonno. Ancora la torre, ancora il volo. Ma questa volta resto nell'aria, guardo gli uccelli e la luce del sole, non so più cosa significhi cadere.


Dal sedicesimo album, 1214esima notte

Sogno un uomo molto vecchio; è rannicchiato da anni sopra un ponte di corda, la testa curva sul petto, le spalle appoggiate alla ringhiera di giunchi. Gli portano frutta fresca e acqua, che assaggia appena. Notte dopo notte, resta immobile. A chi lo invita a raggiungere l'una o l'altra riva, risponde scuotendo il capo. Si lascia scavalcare e deridere dai mercanti che traversano il ponte ogni giorno con i loro tessuti. Ma resiste. Apre la bocca, come se volesse parlare. Però continua a tacere. Quando mi risveglio, recito per venti minuti gli ultimi ventiquattro versi del XXVI canto dell'Inferno. Poi mi addormento e riprendo a sognare: il vecchio é là, annidato nel ponte; resta muto per sei sogni consecutivi: poi, al settimo, comincia a parlare. Un mercante di tappeti cade nel vuoto, assordato dal rombo di una cascata. Il vecchio si alza in piedi e varca il ponte con lentezza.


Dal diciottesimo album, 1421esima notte

Sogno di vedermi riflesso in uno specchio magico. Ma, per qualche mistero del destino, la mia immagine invecchia con paurosa rapidità. Al risveglio decido di fischiettare un motivo di Couperin, Le Rossignol, e di concentrarmi sull'immagine che invecchia. Mi riaddormento e, quando il sogno ricompare, mentre risuona la melodia per clavicembalo, la metamorfosi del mio corpo nello specchio si fa impercettibilmente più lenta. Così accade nei sogni successivi. Il motivo è sempre più forte e la musica, potenziata da mille clavicembali, rallenta il mio invecchiamento. La progressione è così coerente che, sei notti dopo, lo specchio mi rimanda la mia immagine esatta, di quarantenne tranquillo, il viso sbarbato, i capelli neri, la bocca sottile, il corpo chiuso in una rossa vestaglia di seta.


Dal diciottesimo album, 1442esima notte

All'improvviso è tutto buio e non vedo né me stesso né le cose che mi circondano. Quella notte, quando mi sveglio, faccio un esperimento: ordino al mio servo di mettere tende spesse alla finestra e mi rannicchio sotto le coperte fino a coprire la testa. Quando mi addormento, sogno che il mio corpo diventa sempre più scuro, si confonde al buio della notte, si fa addirittura invisibile. Molte notti dopo, alcuni sconosciuti, con grida ripetute, non so se nella realtà o nel sogno, agitano la lanterna, accanto all'acqua di un lago che non conosco, dove suppongono sia annegato il corpo dello scomparso marchese Hervey de Saint-Denis. Vengo visto, salvato, riconosciuto. Vivo ancora, pronto ad altri sogni.


Dal diciannovesimo album, 1634esima notte

Un uomo entra nella locanda e si siede ad un tavolo. Qui intreccia delle fibre di canapa mescolandole con foglie di gelso. Io lo osservo in silenzio. Fra le sue dita nasce un rotolo opaco di carta. Dal fondo della locanda vengono risa di scherno. Una voce si distingue fra le altre - "Perché non torni a casa, idiota?". Mi sveglio, seccato da quelle risate. Concentro la mia attenzione sul rotolo di carta che ho visto in sogno e lo immagino fitto di numeri ermetici, di cifre allusive. Quando mi riaddormento, rivedo l'uomo: lo insultano, lo allontanano a spinte dalla taverna. Lui vacilla ma non cade; poi si ferma sulla soglia, si volta in silenzio e srotola lunghi fogli bianchi, di un biancore abbacinante. Alcune lettere balenano come soli. Folgorati, tutti indietreggiano. La taverna è riempita da una luce che si trasforma in sibilo. Il pavimento si apre e le pareti franano in pochi secondi. Tavoli e uomini spariscono. L'uomo si allontana. Non resta nulla dietro di lui. Solo un bosco buio, con il rotolo di canapa e di gelso abbandonato fra i rami secchi.


Dal ventesimo album, 1816esima notte

Legato a un palo di legno, i piedi conficcati sugli sterpi neri, un eretico di quarant'anni guarda il cielo con occhi dilatati. Mani febbrili danno fuoco agli sterpi; le fiamme crepitano sulle gambe del condanna¬to. I suoi occhi scrutano con terrore l'orizzonte. Il fuoco sale su, fino al bacino, fino al torace. La fronte si aggronda. Il sudore comincia a colare sulla bocca. Stupiti dalla sua resistenza, i carnefici lo guardano con stupore. Io mi sveglio di scatto, rifiutando il suo dolore. Ci deve essere un modo perché lui non soffra. Un'idea mi traversa la mente. Accendo tutte le candele della mia stanza, illumino a giorno muri e porte. Quando mi riaddormento, un attimo dopo, l'eretico, semicarbonizzato dal fuoco, il viso luminoso e intatto, guarda serenamente i suoi torturatori. Io, arso dalle fiamme che bruciano il suo corpo, urlo di dolore.


Dal ventesimo album, 1818esima notte

Delle barche approdano, mentre dal mare sale la foschia. Si forma dalle onde immobili, si avvicina alla costa. I pini che sporgono dalle rocce sono i primi a sparire. La nebbia ingoia gli scogli. Le case si dissolvono senza che la scomparsa sia rivelata da boati o fragori. Nulla di udibile: il vicolo, coperto dalla nebbia, sparisce. Una figura cammina, un pescatore; tende il braccio, tasta davanti a sé, poi viene inghiottito. Il silenzio è assoluto. Alcuni alberi appaiono tagliati a metà da aloni densi. Certe porte sono completa¬mente invisibili, come se non fossero mai esistite. Poche persone resistono dentro la nebbia con lanterne e torce, sperando che il chiarore possa dissolvere i banchi di fumo. Dal mare arriva il rumore di un'onda. Altri avanzano con passi cauti, esplorando il buio a mani tese. Poi i passi spariscono, troncati di colpo. I corpi dileguano senza avere il tempo di urlare. Il terrazzo della mia casa diventa indistinto. La ringhiera svanisce. Mattoni, calze, fiori, vasi, affondano nel biancore. La nebbia appanna il vetro, si adagia fra muro e letto, armadio e lampada, ingoia pettine e specchio. Dove le cose esistevano si aprono buchi. Il corridoio scompare, i libri sbiancano. La casa si spalanca come una grotta, i muri si riducono a schegge. Unico punto solido il pezzo di corri¬doio dove vago, fra due stanze che non ci sono più. Chiuso fra due abissi, immobile, la nebbia mi erode le guance. Sento i sintomi della scomparsa - una strana leggerezza intorno alla bocca, nelle narici, negli occhi, le orecchie sfuggono via...

Mi sveglio. Mi tocco il viso, le braccia, mi accerto di esistere. Allarmato, prendo il foglio, lo stendo sul tavolo e traccio una linea precisa al centro. Quando mi riaddormento, la nebbia è sparita e la linea dell'orizzonte divide una lontana regione coperta di fumo dal paese abitato dove gli uomini riprendono a vedersi.


Dal ventesimo album, 1863esima notte

Un ponte colmo di carri, nel giorno dell'esodo. Il cielo trabocca di nuvole nere. Caricati dal legno dei mobili, schiacciati dalla massa degli abiti, sfondati dal peso dei materassi, i carri oscillano; ripe¬tutamente frustati, i cavalli si fermano. Uno scricchiolìo sale dall'arcata di legno. Alla fine, le zampe piegate, si accasciano, l'arcata s'incurva e un secondo dopo si spezza di schianto: il ponte intero crolla con un boato; carri, coperte, uomini, scompaiono nell'acqua in meno di un secondo. Mi sveglio con orrore. Penso che la tragedia sia evitabile, che il sogno possa mutare. Tutto può essere sognato di nuovo e salvato dal destino del sogno. Traccio con attenzione, nel foglio pronto sul tavolo, un ponte intatto. Mi addormento. Rivedo le arcate, i cavalli, il passaggio dei carri. Sotto un cielo ancora nuvoloso, il ponte manda scricchiolii sinistri, ma gli animali non stramazzano, non sono frustati, guidano i carri che, lentissimamente, riescono a passare dall'altra parte.


Dal ventesimo album, 1865esima notte

Sulle cime dei castagni, nell'aria nera, grappoli di corpi trovano rifugio alla massa del fiume. L'acqua straripa, trascinando a valle tronchi e detriti. Uccelli assordati dal fragore non osano volare dalle vette degli alberi, beccano i superstiti rannicchiati nel fogliame. I cani mordo¬no l'erba per non essere travolti; ma la corrente li inghiotte e riemergono dai vortici pochi metri più in là, le schie¬ne a pelo dell'acqua. Trovo, camminando, un tronco cavo. Mi rifugio lì dentro, non annego per miracolo. Sento la pioggia scrosciare per oltre due ore. Poi, all'improvviso, cessa di cadere. Alzo la testa, cammino nel bosco. Nel bosco vedo una casa. Nella casa c'è una porta socchiusa, vegliata da un corpo accovacciato, luccicante come una fiamma. È il corpo di una vecchia. La vecchia mi porge la lampada con impazienza, come se mi avesse atteso da troppo tempo. Poi sparisce correndo. Io reggo la lampada, solo. In una casa completamente ignota salgo una scala stretta, illumino il profilo di una sguattera inginoc¬chiata che in silenzio lava i gradini del corridoio, come una sonnambula. In fondo alla stanza, davanti ai vetri lucenti della finestra, una sedia vuota, ancora calda; della cenere sparsa sul pavimento; un tavolo con un foglio bianco, fradicio d'acqua, una parola interrotta, sgorbiata a metà, semileggibile.

Mi sveglio in preda all'orrore. Perché non ho visto nessuno? Perché non ho letto nulla? Sul mio foglio asciutto scrivo, con pazienza, la lettera di un uomo sopravvissuto al diluvio. Quando mi riaddormento, rivedo la pioggia, la fuga, la casa. Ma, quando la vecchia mi lascia in fondo alla scala e io raggiungo la stanza, davanti alla finestra c'è una schiena curva, una testa reclina, una mano che sporge dalla camicia bagnata e stringe la penna e scrive sulla carta, parola per parola, il racconto del sopravvissuto.


Dal ventunesimo album, 1941esima notte

La casa è sconosciuta. Vago da una stanza all'altra. Nel corridoio mi aspetta un ragazzo; ha la gamba sinistra sollevata, come se si fosse addormentato mentre correva. Sulle labbra gli è rimasto il sorriso della corsa. Una mano invisibile muove la lampada e inquadra l'uniforme strappata, il foro nerastro, i bottoni impolverati; il ragazzo fa un passo in avanti, le mani premute sul petto; la ferita si riapre e gocce di sangue macchiano le dita contratte. Cade adagio, bocconi. Io mi sveglio allarmato, impotente. Penso a lungo una parola. Sàlvati. La ripeto sette volte. Quando mi riaddormento, sono nel giardino della casa. Sento un canto di uccelli; percepisco una nota più aspra, che riporta in vita il grido di una specie estinta da secoli. Una statua di Perseo mostra il torso non mutilato. Il soldato che ho visto ferito a morte parla tranquillamente con un ufficiale più anziano di lui, che potrebbe essere il suo futuro assassino. Io mi avvicino a lui, interrompo la conversazione, gli bisbiglio qualcosa all'orecchio. Il giovane trasale e si allontana.


Dal ventunesimo album, 1946esima notte

È un monolite nero. Nel monolite si apre all'improvviso una fessura di luce e io penetro in quella fessura. Per diverso tempo percorro viuzze tortuose e labirintiche, poi arrivo al centro del monolite. Lì noto uno spazio molto piccolo, con un letto e una lampada: rannicchiato fra le coperte vedo me, il marchese di Saint Denis, dormire serenamente. Rifaccio lo stesso sogno a intervalli di poche ore. A ogni sogno la fessura di luce è più ampia, le vie per raggiungere il centro della roccia meno complesse, il corpo che raggiungo alla fine alla fine sempre più chiaro.

Quando mi sveglio sento alcune voci. "Potrà resistere?"."Credo di no"."Povero marchese!". Capisco che parlano della mia morte. Mi riaddormento, entro nel monolite e tocco la spalla del dormiente. Hervey de Saint Denis spegne la lampada e si alza in piedi; poi, lentamente, lascia la stanza nella roccia attraverso una via segreta, che non avevo notato negli altri sogni. Si avvia fuori, verso un luogo che non conosce. Io lo vedo sparire nel buio. Vorrei seguirlo ma non riesco a muovermi.

Con riluttanza e fatica, mi risveglio. Nel mio letto vuoto non c'è più nessun marchese di Saint-Denis. La casa è piena di preghiere, di candele, di riti, come se vegliassero un cadavere. Il corpo deve essere già stato trasportato nel salone vicino. Richiudo gli occhi per sempre, deluso dalla mia fine banale, e mi ritrovo a fianco di me stesso. Camminiamo a lungo, in regioni non conosciute. Camminiamo ancora, continuando a tacere, senza risvegliarci più.

17/07/09

Bernard Grandjean, LA REINE NÉPALAISE


[Statue of Buddha in Bangkok. Foto di Marzia Poerio]


Bernard Grandjean, LA REINE NÉPALAISE, Parigi e Pondicherry, 2009

Bernard Grandjean è autore di romanzi ambientati nell’Himalaia e soprattutto in Tibet [1]. In LA REINE NÉPALAISE, il sostrato storico è il periodo dell’imperatore Songtsen Gampo (VII secolo), uno degli unificatori del Tibet e diffusore del buddismo che finì col prevalere sulla religione Bön preesistente, coadiuvato in questo anche dalla consorte cinese Wencheng, mentre di un’altra delle mogli, la nepalese Bhrikuti, non c’è conferma storica assoluta, sebbene entrambe entrino nel campo della spiritualità in quanto bodhisattva e rappresentanti di Tara.

Da un lato, dunque, si ha un romanzo storico, sostanziato da riferimenti puntuali alle abitudini e alle conquiste del tempo. Dall’altro, si instaura il fantastico, orientato da un riuso, in sede di riscrittura, della demone Brag-Srin mo, qui intesa come garante dell’integrità della corona e della territorialità del Tibet in rapporto col Bön. Il microcosmo e il macrocosmo si integrano in questa figura demoniaca e terribile in quanto la sua presenza all’interno del corpo dell’imperatore, secondo un patto rinnovato di padre in figlio, nella storia di Grandjean, corrisponde, nei vari punti, alla sua presenza su tutto il territorio tibetano. Per sconfiggerla, Bhrikuti costruirà templi buddhisti nelle zone geografiche corrispondenti agli organi vitali della demone, con la conseguenza che si indebolirà la vita di Songtsen Gampo; e alla sua morte, per volontà dello stesso imperatore, la demone verrà accolta dal corpo di Bhrikuti, che avrà il compito di controllarne il potere magico.

Si ha qui la traccia della trasformazione degli spiriti malefici dello sciamaesimo in entità benefiche del Buddhismo, o, come in questo caso, del loro essere tenuti in guardia, ma tali da scatenarsi di nuovo in periodi di abbassamento della vigilanza e della religiosità, come accade appunto nel romanzo, in cui Srin mo riopera nella modernità, ove il male viene identificato dall’autore con la perdita dell’indipendenza e della coerenza culturale del Tibet.

In aggiunta a questi aspetti antropologici e folclorici, si ha la costruzione di un romanzo fantastico di stampo, si direbbe, vittoriano, ovvero, come in Stoker, caratterizzato da tentativi di venire a capo di una forza malefica attraverso un’azione corale.

Sul piano dei procedimenti narrativi, è un romanzo in prima persona e corre secondo la categoria di genere che Todorov definirebbe “meraviglioso spiegato”.

Come nella favolistica e non di rado nel fantastico ottocentesco, ci sono una cornice e un intreccio centrale. La storia di cornice è quella di un archeologo che negli anni Trenta scopre un manoscritto in una grotta tibetana, lo traduce e noi leggiamo la traduzione, anch’essa narrata in prima persona, in tredici giornate, da Bhrikuti. In questa narrazione-diario si determinano tra l’altro non solo gli episodi salienti dell’intreccio fantastico, ma anche la descrizione della differenza tra la prosperità di allora del regno nepalese e la barbarie di quello tibetano, gli intrighi, le guerre, gli amori e le amicizie, una vita di corte orientale dettagliata e concisa. Alla fine del manoscritto, il narratore-archeologo risulta essere una reincarnazione di un personaggio chiave della narrazione interna, Anou, che dopo la morte di Songtsen spinge Bhrikuti, esiliata in solitudine da un primo ministro invidioso, a scrivere la propria vita senza mentire: sarà proprio questa verità totale a purificare Bhrikuti e a neutralizzare così Srin mo, mentre l’ex imperatrice del Tibet confessa a se stessa l’amore per Anou. L’archeologo opera in modo tale da arrivare ai giorni nostri in cui la lotta contro il male che nasce da Srin mo continua.

Gli aspetti metaletterari sono affidati al diario di Bhrikuti, che come il Calvino della TRILOGIA, si interroga sul senso della scrittura. All’inizio di ogni giornata di cronaca della propria vita, questo personaggio afferma qualcosa di vitale sull’atto di scrivere, sia esso la difficoltà di recuperare la memoria, il rapporto tra letteratura e moralità, il senso della verità in termini sia di autenticazione narrativa che di etica budddhista.

Spiace all’estensore di questa nota essersi accorto di questo scrittore, nato nel 1946, con tanto ritardo.

[1] Un elenco delle opere è a Grandjean, Volumi pubblicati.

[Roberto Bertoni]

15/07/09

Lucetta Frisa, RITORNO ALLA SPIAGGIA


[Beach pebbles. Foto di Marzia Poerio]

Lucetta Frisa, RITORNO ALLA SPIAGGIA, Milano, La Vita Felice, 2009

In RITORNO ALLA SPIAGGIA Lucetta Frisa ci dà un nuovo capitolo dei suoi trasognamenti interiori, un’ulteriore discesa nei territori psichici dell’inconscio, con testi che vanno dal 2001 al 2007. Il volume si apre con un’approfondita nota critica di Gabriela Fantato, che giustamente mette in luce come la “spiaggia” della poetessa genovese sia “luogo ancestrale dell’immaginario […]: è il confine, la soglia tra terra e mare, dove il mare è Acqua dell’origine […], universo iniziale, dove ci fu la ‘prima volta’, dove si sono strutturati il sentire e vedere il mondo”.

Questa ricerca dei primordi ancestrali si caratterizza, nei testi della raccolta, come tipica e archetipica identificazione nel femminile materno-filiale. Già nel primo testo della raccolta, GIOIA PICCOLA, la Frisa, rammemorando le mani della madre intenta ai lavori dell’uncinetto, può dire: “Da lì mi è nato il male di cercare / l’inizio di ogni cosa” (p. 13). Così più avanti (UN’ISOLA, p. 34), quasi a svolgere e riannodare la sua stessa esistenza come una tessitura da Parca, è detto: “Devo […] arrotolare / il lunghissimo filo che mi ha portato fin qui / in una veloce matassa”. E anche quando la madre carnale morirà (6 LUGLIO), la sua costante presenza fusionale in lei è così espressa: “Fuori di te / nel mio corpo continui a vivere / […] qualcosa / hai lasciato in me se scrivo / di questo sperdimento” (pp. 23-24). D’altra parte, in SENZA VOCE, sarà la stessa madre a parlare con le parole della figlia. Perché “l’una e l’altra - madre e figlia –”saranno sempre un tutt’uno biologico e ultrabiologico, “a specchiarci nella nostra luce grande” (p. 18).

Carl Gustav Jung, in PSICOLOGIA DELLA FIGURA DI CORE, ci ha descritto i significati mitologico-simbolici di quest’indissolubile, ombelicale, nesso madre-figlia. Nel rapporto Demetra-Kore (quale paradigmaticamente veniva rappresentato nei Misteri Eleusini), Jung si sofferma infatti sul paradosso secondo cui “ogni donna contiene in sé la propria madre e la propria figlia” e che “da madre si vive prima, da figlia poi”: come commenterà Kàroly Kerényi, in tale binomio c’è l’esperienza viva di quella realtà psichica costituita dall’infinità della vita organica superindividuale. Il paradosso junghiano non fa che affermare “l’apocatàstasi (ristabilimento) della vita ancestrale, un prolungamento nelle generazioni a venire attraverso il ponte del singolo individuo presente, e quindi un sapere che ha per contenuto l’essere nella morte”.

La Frisa d’altra parte ci aveva già abituati, nel precedente volume di versi, SE FOSSIMO IMMORTALI (2006), a queste forme di esperienza sapienziale e mistica, ad avere per madre “l’acqua” e per padre “il sasso”, essendo l’affectio, Eros, a tenere legata ogni cosa. La sua non è conoscenza riflessa dall’intelletto, ma epìgnosis, “reminiscenza” memoriale e primordiale. Già allora affermava: “Noi non abbiamo imparato nulla / che la placenta già non sapesse”. Così ora, in RITORNO ALLA SPIAGGIA, la sua immaginazione può regredire fino a vedersi ancora racchiusa nel liquido amniotico fetale: “Dicono che il bambino nuoti felice / nel grembo e rida e pianga / […] Sotto le palpebre / stringo i colori visti la prima volta quando fluttuavo / […] E lì che si vuole tornare / protetti e smemorati / i pugni stretti / sulle cose perse” (pp. 43-44). Ed è ovvio infine che gli aspetti notturni, legati allo scavo anamnestico nel profondo, abbiano la preferenza rispetto a quelli diurni, della vita conscia e di relazione: “Chiudo le palpebre per entrare / in me improvvisamente notturna” (p. 41), “Nella retina vedo e non vedo / sono tra giorno e notte / l’inquieta lente / di una materia ignota” (p. 49).

Tutto ciò comporta delle precise conseguenze in ordine alla forma nella quale la Frisa organizza i suoi reperti. Spesso infatti il suo dettato lirico scorre a ruota libera, sicché ne risente il lato dell’organizzazione controllata del verso. Si prenda esemplarmente GIOIA PICCOLA, dove non solo si perde ogni “misura” versale, ma persino le parole si amalgamano a un certo punto in vera prosa (p. 17), a fare groppo non ancora sciolto in essenziale e icastica immagine. Certo, il modo di formare della Frisa non è quello quintessenziale - a esempio - di un Gottfried Benn, a cui bastava rintracciare “una parola”, “Ein Wort”, “nel vuoto spazio che attornia Mondo e Io”. Troppo spesso nella Frisa l’attenzione e la cura rivolta all’Io allontana la rappresentazione del Mondo, tranne quella che residua nei dettagli utili al proprio trasognamento. Eppure, anche in questo libretto, si può poi leggere un testo mirabile come PORTA ROSA - quello che noi preferiamo in assoluto - dove il verso, anche se calato in misure lunghe, ha poi la compostezza che viene a chi ha oltrepassato un’altra “soglia”, quella dell’unico arco a tutto sesto della grecità e che perciò, da Elea, raggiunge il metron, la misura, della civiltà classica.

[Sergio Spadaro]

13/07/09

Brian Lynch, ALTHOUGH (SE PURE)


[It was a day for music and an embrace (Brussels, 2009). Foto di Marzia Poerio]


ALTHOUGH

Although
It may be that today
Is not forever
In heaven
Or on earth
And what we thought
Will pass away
The memory of love
A man should have
As bread has leaven
The full surrender of
The will
A woman knows at birth
Was never mine
And yet we have
Their children still


SE PURE

Se pure
oggi forse
non sarà per sempre
in cielo
o in terra
e quel che credevamo
la memoria dell’amore
che un uomo dovrebbe possedere
come il pane è lievitato
la resa senza condizioni
del volere
che una donna conosce dalla nascita
non mi è mai appartenuta
eppure ne possediamo
tuttora prole


[Traduzione di Roberto Bertoni]

11/07/09

Marina Pizzi. TESTI 1-5 DA IL SONNO DELLA RUGGINE (2009)

1.

la giacca della rupe l’ho messa
accanto alla culla. così si capirà
che non è nascita essere bambini
i ragazzini con le caviglie esangui
le lunghe nuche senza fidanza.
in palio non c’è niente se non vedetta
di vendetta guardarci dritti negli occhi.
un compagno di asilo è stato ammesso
a fischiettare con le rondini. questo il
buono che si staglia tutto fecondo e dotto.
una minaccia di pioggia fa da tara
all’abaco che non conta che sfila
il pallottoliere dentro il pozzo.


2.

in merito alla girandola furbetta
resta la nube imbrattata di sangue.
qui le sanguisughe sono condominiali
i panni stesi non nascondono amori.
i dondolii di cuori reciproci
gemellano i cipressi ben futuri
al prossimo adesso, adesso.
qui sfinito il mosto senza nettare
condanna la fuga fradicia di muschio.
devo restare per un diverbio netto
con le ciliegie spinose sotto la rena
e fingono languori le formiche
operaie. tu in gola al nome
mi chiami febbre tanto per
innamorarmi. ma è tardissimo
il movimento di ancorare i gabbiani.


3.

così cominciò l’estate della frutta
bacanti scrosci di pioggia
rovinarono le polpe.
in autunno arrivò la sciabola del vento
il triste evento di ridacchiare pazzi
una resistenza di teatro di platea.
nessuna voglia di pianto ma la furia
dell’ennesimo giorno la pessima marea
sul sudario del certo. e mi convinse
la viandanza di non tornare
sulla resina del dubbio. andai balorda
dove precipitano i sassi e la pepita
d’oro e con un calcio non la volli.
veggente a tavola vidi le marette
di famigliole morte. tutto un esito
di tagliola e niente più.


4.

resta un nugolo di spaesamenti
il segno, più, croce infissa
dentro l’iride più colorita.
il tempo ruota la ruota dell’infelice
lince cieca. la nuca fa già da cella
alla bellezza dell’esule. le scarpe
sono in palio all’atleta più veloce.
non c’è accetta che possa svergognare
la luce. qui ti sopporti perche sei
un anello in via di ruggini e cipressi.
pensa a piangere di te la norma
dell’addio. la resina votiva che
non ti darà niente e nessuno.
sorridi pazzo e forse sarai salvo
dalle liane della giungla velenose.


5.

in meno di una deriva ho fatto conto
di morire. in mare un abisso che bestemmia
le piscine. le sciabole erette non fanno
paura ai canali. le bollette della luce
non hanno dato illuminazioni. nei cimiteri
monumentali le erbacce fanno brecciame
di vita. in tutto il colonnato dell’entrata
ci sono bambini che giocano a nascondino.
in ogni gingillo di ricordo
la mensola si ritira a dire
vattene da solo che ti verrò appresso.


6.

qui da me innumeri compagni
che tramandano le dacie di poeti
per panchine di endecasillabi dove lo strazio
un’ecumene di sabbia e di polvere.
le giurie di passeri pungenti
inventano le genti compassionevoli
di una briciola soltanto.
invece non basta una ciotola stracolma
a partorire una statua veritiera
una bella femmina come sul dirsi
senza mai darsi a verità conclusa.



DOMANDE ALL’AUTRICE


Il tuo tessuto lessicale è molto denso e associativo. Che rapporto c'è nella tua poetica tra musicalità e significato?

un rapporto molto stretto. spesso la musicalità suggerisce il significato, nuovo, inedito. il significante si fa genesi del significato. ua sordina che mi entra in mente consistente e tenace, un ritornello ossessivo.


In che modo la tua tematica presuppone uno scandaglio di tipo psicoanalitico?

i versi sono la mia psicoanalisi. mi riaffiorano la vita, la denunciano, la placano, la contaminano con attacchi sferzanti. una terapia vitale e vitalistica, un farmaco con il veleno e l’antidoto insieme. mi curo verbalmente per non scoppiare di crepacuore.


La poesia, a tuo parere, è metafora del mondo?

tutta l’arte è metafora del mondo, cruda realtà rappresentata e rappresentabile. il mondo si fa piccolo e immenso contemporaneamente. il rischio di perdere il gusto della vita si fa particolare, sibillino. la meraviglia del segno genera eclissi e aurore, nerezza e lucore.


La poesia, secondo te, è allegoria dei destini individuali?

sì, ha rapito tutta la mia vita e, alle volte, me ne sento addirittura tradita.


Quali sono i tuoi autori preferiti?

Celan, Cioran, i poeti di ricerca linguistica, i marginali, gli sconfitti, i suicidi, i diaristi, i mistici.


[L'intervista è a cura di Roberto Bertoni. Il minuscolo dopo il punto fermo, nelle risposte, per preferenza dell'autrice]

09/07/09

Cristina Cona, IL ROMPICAPO IRLANDESE: ULISSE IN CINA


[Chinese florist in Joyce's city. Foto di Marzia Poerio]


Date le caratteristiche dell'ULISSE di James Joyce, che si distingue per la presenza di numerosi giochi di parole, esercizi di stile e invenzioni lessicali, nonché riferimenti alla realtà storica e sociale irlandese (spesso, anzi, specificamente dublinese) dei primi del Novecento, non è difficile immaginare che tutti i traduttori si siano scontrati con difficoltà talvolta insormontabili: se ciò è vero per le versioni nelle lingue europee, figurarsi quali problemi deve aver posto la traduzione cinese.

E non soltanto dal punto di vista linguistico: se ULISSE ha tardato tanto ad uscire in Cina, parte della spiegazione risiede nell’antipatia ideologica nutrita per lungo tempo dalle autorità del paese verso un’opera che si trovava agli antipodi rispetto ai canoni del realismo socialista: se, com’è ovvio, negli anni della rivoluzione culturale era impensabile tradurre un’opera letteraria straniera, anche successivamente non si presentava facile proporre un libro così scomodo, pessimista e ispirato a valori considerati decadenti e borghesi. Per questo motivo alla vigilia della pubblicazione, nel 1994, i traduttori, l’ex giornalista, docente universitario e scrittore Xiao Qian e sua moglie Wen Jieruo, si premurarono di mettere le mani in avanti pubblicando sulla stampa cinese una serie di articoli in cui descrivevano il processo svoltosi negli Stati Uniti nel 1933 che si era concluso con l’assoluzione dall’accusa di oscenità. Il messaggio era chiaro: la Cina non poteva permettersi di apparire più arretrata di quanto lo fossero state le autorità americane sessant’anni prima.

E il pubblico cinese dimostrò di saperlo recepire. ULISSE venne pubblicato in 85.000 copie, subito vendute tanto da rendere necessarie a brevissimo termine una seconda e terza ristampa: una cifra di tutto rispetto, se si considera che il prezzo del volume era l’equivalente della paga settimanale di un insegnante. Per i due traduttori, memori nonché vittime della repressione dei decenni precedenti (Xiao aveva tentato il suicidio nel 1957, quando le autorità, saccheggiatagli la casa e fatto un rogo di tutti i suoi quadri, lo avevano costretto a troncare l’amicizia con lo scrittore inglese E.M. Forster e a distruggere tutte le lettere inviategli da quest’ultimo; nel corso della rivoluzione culturale entrambi i coniugi erano stati inviati ai lavori forzati in una comune agricola e la madre di Wen si era suicidata), si trattava di un successo importante anche in termini di apertura al mondo esterno.

Non che Xian Qian fosse così entusiasta agli inizi del lavoro: quando era stato avvicinato da un editore cinese con la proposta della traduzione aveva anzi esitato parecchio ed era stato convinto ad accettare dalle esortazioni della moglie, molto più propensa di lui a cimentarsi con un’impresa così impegnativa. La lunghezza e la complessità dell’opera resero indispensabile a questa coppia ormai anziana (lui quasi ottantenne) una routine ferrea consistente nell’alzarsi ogni mattina alle cinque e lavorare quindici ore al giorno, riunciando a qualsiasi distrazione. In effetti una descrizione anche sommaria delle difficoltà terminologiche incontrate lascia comprendere l’enormità del compito e la tenacia con la quale i due traduttori sono riusciti a venirne a capo.

Oltre infatti alle difficoltà che il testo pone se tradotto nelle lingue che con l’inglese hanno in comune, perlomeno, l’alfabeto latino e la fonetica, nel caso del cinese si presentano problemi specifici: le basi ideogrammatiche e non alfabetiche, la particolarità di essere una lingua tonale (toni diversi non solo corrispondono, come nelle nostre lingue, ad enfasi diverse, ma cambiano anche il significato delle parole) e di possedere un numero di possibili combinazioni fonetiche molto inferiore all’inglese. Tutti questi elementi rendono estremamente arduo tradurre i complessi giochi di parole (spesso oscuri anche per gli anglofoni) di cui ULISSE è così ricco, senza contare che la trascrizione dei nomi propri stranieri viene effettuata più spesso in base a criteri ideogrammatici che foneticamente, sillaba per sillaba.

Xiao e Wen consultarono un numero enorme di fonti: versioni annotate di ULISSE, vari specialisti di lingue estere, la chiesa cattolica cinese, un’altra traduzione in corso ad opera di uno studioso taiwanese, e specialmente l’ambasciata irlandese di Pechino, che chiarì per loro il significato di numerosi ibernicismi (come "blarney") e fornì riferimenti sotto forma di libri, carte di Dublino e una videocassetta della versione cinematografica del romanzo.

Per rendere la complessità stilistica del testo i due traduttori si servirono di numerosi accorgimenti, come la trasposizione dei vari registri utilizzati da Joyce in quello che può considerarsi l’equivalente cinese. Così i monologhi interiori di Molly, Stephen e Leopold Bloom, tre personaggi di livello culturale e intellettuale assai diverso, vennero riprodotti in tre stili diversi: rispettivamente, la parlata proletaria di Pechino, il cinese classico e una lingua mista di classico e moderno che risale all’inizio del Novecento. In quanto ai nomi propri di Stephen Dedalus e Leopold Bloom, venne usata una translitterazione di sette sillabe (fonetica nel caso del primo: "Si di fen. Di da le si"), sebbene i nomi cinesi di norma ne abbiano soltanto tre. Questo numero insolitamente elevato di sillabe, unito ad altri espedienti come lo spazio fra nome e cognome, serviva ad indicare al lettore cinese che i caratteri utilizzati non dovevano essere letti come aventi ciascuno un significato a sè stante (la traduzione letterale in inglese di "Si di fen. Di da le si" sarebbe "This-be of a fruit-fragrant. Enlighten-extend-coerce-this"), bensì come formanti un unico nome proprio: un po’ come quando, nei fumetti, certe emozioni come l’indignazione o lo stupore vengono rappresentate da un succedersi di asterischi ed altri segni di punteggiatura ognuno dei quali, preso isolatamente, non significa nulla.

Quando i traduttori non sapevano più a che santo votarsi ricorrevano alle note a pie’ di pagina: il loro Ulisse ne contiene 5991, il numero più elevato mai pubblicato in un testo cinese. Troppe per Xian, ma sua moglie si era impuntata, ritenendole assolutamente indispensabili specialmente per rendere gli intricati giochi di parole joyciani, come ad esempio la battuta di Stephen : "If others have their will, Ann hath a way". Il calembour, che si impernia sul nome della moglie di ("Will") Shakespeare, Ann Hathaway, fu reso dapprima con una traduzione piuttosto letterale per essere poi spiegato più dettagliatamente in nota ; lo stesso procedimento venne seguito per il ben più complicato doppio palindromo "Madam, I’m Adam. And Able was I ere I saw Elba", che vede riunite allusioni alla Genesi, a Napoleone e all’impotenza sessuale.

Xian era convinto che, una volta raggiunta la tarda età, si dovesse fare qualcosa di monumentale, e un’opera come la traduzione di Ulisse in cinese corrisponde certo a questa definizione. A sua volta la ricompensa per il lavoro fatto è costituita da un altro monumento: nel marzo 2003 Wen Jieruo, ormai vedova, ha assistito all’inaugurazione di una statua di bronzo del marito in un mausoleo nei pressi di Shanghai.


NOTA

Fonti:

- Cait Murphy, ULYSSES IN CINESE, www.theatlantic.com/issues/95sep/ulyss.htm

- David Blake-Knox, BLOOMING BRILLIANT, "Sunday Independent", 13-6-2004


L’articolo, riprodotto col consenso dell’autrice, è apparso in precedenza sulla rivista ”Inter@lia”.

07/07/09

Chen Kaige, THE PROMISE


[Dragon gate in Soho. Foto di Marzia Poerio]


Chen Kaige, THE PROMISE. 2005. Con Cecilia Cheung, Jang Dong-gun, Hiroyuki Sanada, Nicholas Tse, Liu Yue

Diretti da Chen Kaige avevamo visto film straordinari: YELLOW EARTH (1984), FAREWELL MY CONCUBINE (1993), THE EMPEROR AND THE ASSASSIN (1999), ammirando la capacità di visione storica, di penetrazione psicologica e di uso del colore e della tradizione in funzione estetica oltre che allegorica del presente. La solitudine e la tristezza, ma anche la concretezza del paesaggio e la durezza della vita contadina in YELLOW EARTH; la difficoltà della sopravvivenza, l'amore e l'amicizia accanto alla rivisitazione dell'opera cinese e alle trasformazioni determinate dall'evoluzione del costume e della società per decenni in FAREWELL MY CONCUBINE; l'intreccio tra decisioni individuali ed eventi collettivi sovrastanti, tra intrighi di corte e dominio sulle masse, tra melodramma e documento in THE EMPEROR AND THE ASSASSIN (che vinse, interpretato tra gli altri dalla grande Gong Li, un premio a Cannes). In queste pellicole, i sentimenti agiscono a riprova che il cinema si appella tanto alla mente quanto all'emotività, ovunque; e ci pare che la sua riuscita sia tanto dovuta all'impatto che sa avere su queste due sfere dell'esperienza umana.

THE PROMISE è una fiaba, in quanto lo straordinario vi ha campo, con uno dei protagonisti che corre più veloce di una mandria di bufali, per esempio; e una dea determina, con le proprie apparizioni, i destini dell'eroina Qingcheng e del suo entourage.

Il romanzo da cui è tratto con modifiche LO SCHIAVO KUNLUN, ambientato nell'VIII secolo, appartiene, leggiamo, al genere wǔxiá [1], cioè alla narrativa epica di arti marziali e ambientazione antica con eroi necessitati a riparare i torti, come il protagonista in questo film, che uccide un re contrariamente agli intendimenti del suo padrone perché lo scopre intento a gettare dalle mura la giovane Qingcheng; e protegge questa ragazza mettendo a repentaglio la propria vita con abnegazione.

L'intreccio è denso di colpi di scena e cambiamenti; ma essenzialmente narra la storia di Qingcheng che, bambina, per fame e sopravvivenza in un panorama di devastazione e di guerra, dopo aver lottato con un coetaneo, Wuhuan, per un paio di stivali di un soldato deceduto, vinta ma poi liberata dai gioghi cui era stata legata, si appropria di un pasticcino tradendo la fiducia di Wuhuan che, da allora in poi incrudelisce proprio perché incapace di fidarsi degli altri. La dea Manchen propone a Qincheng un destino di ricchezza e liberazione dai bisogni se accetterà che tutti i suoi innamorati facciano una fine cruenta. Il patto è siglato e così sarà. Frattanto il protagonista principale, Kunlun, diviene il servo di Guangming, un generale con ambizioni vaste; vince per lui Quenching pur essendone innamorato e resta nell'ombra pur difendendola ogni volta che lei si trova in pericolo, sempre fingendo che le gesta compiute le abbia invece messe in atto Guangming che ingigantisce così nella stima della ragazza. Attirato nella capitale da Wuhuan con un tranello, Guangming viene arrestato. Lupo delle Nevi, un appartenente alla stesso popolo di Kunlun, rivela tramite una visione a Kunlun che Wuhuan era stato lo sterminatore della loro gente. Lupo delle Nevi si era salvato diventando lo schiavo di Wuhuan, ma si redimerà aiutando Kunlun a vincere il nemico. Nella scena finale ciascuno dei personaggi principali coinvolti in questa trama complicata potrebbe uccidere gli altri, ma c'è un lieto fine, in parte dovuto a un mantello magico che protegge dalla morte, ma se viene tolto distrugge la vita. Infine è concessa a Qincheng la possibilità di riparare al proprio destino, date le circostanze eccezionali in cui si è svolta la parte finale dell'intreccio, compiendo di nuovo la scelta iniziale del destino, ma ora in direzione opposta a quella di partenza.

Ci è sembrato difficile non lasciarsi intrigare da questa storia sull'altruismo, la modestia, la fedeltà, l'agio conquistato a prezzi di danni arrecati ai simili, la guerra, il soprannaturale, l'amore.

Tra le tecniche utilizzate, a parte quelle ormai proprie del cinema spettacolare e di genere fantasy di accelerazione dei movimenti e moltiplicazione delle presenze sceniche tramite illusioni dettate dal computer, ci ha colpito l'uso del colore intenso, da opera forse, o da cartone animato, che sottolinea così il fantastico.


NOTE

[1]

THE PROMISE.


[Renato Persòli]

05/07/09

Paola Polito, ISOLA E FIUME


[Sea on the island. Foto di Marzia Poerio]


1.

CONGEDO DA UN’ISOLA

M’attacco a questo pezzo di terra
non mia che ancora mi resta
o per un poco mi trattiene
nel suo incantesimo d’isola
Mimo la vita altrui e il gusto
assaporo di un’appartenenza
come un esperto istrione
alla milionesima recita
Come se tutti
dovessi rincontrare
giorno dopo giorno
per sempre

Non conto le ore che mancano
alla prossima rottura degli ormeggi
quando navigherò di nuovo al largo
e solo me stessa sarò in me stessa
Là non avranno senso né corso
comportamenti fin qui appresi
sarà zavorra il ricordo
da amministrare durante la tempesta
Partire: parola imprecisa
pietosamente prona all’apparenza
Piuttosto: sgombrare lo scenario
dalle rappresentazioni di sé

Anche stando qui, amici,
navigavo in mare aperto
in un tempo parallelo


2.

IDILLIO FLUVIALE

Immobile sasso tra i sassi,
giace la cagna bianca su un fianco -
assorta nel suo sonno acquatico
tra un groviglio di spazzature
e i gorghi torbidi della corrente.
Albe e crepuscoli su lei nulla
più possono, né le sassate dei bimbi
che vederla vorrebbero salpare
verso il Danubio e il mare
alla testa d’una flotta di bottiglie.
Ma ostinata volta la schiena alle case,
alla viuzza sterrata, alle vigne,
non riconosce richiami d’uomo -
né più distingue l’odore di chi
quel cappio verde di refe
le mise intorno al collo.

Passa un camion con l’acqua
della “Fonte dei miracoli”.
Se pure qualche goccia potesse,
Ofelia del branco dei randagi,
riportarti qui a riva al tuo tormento
il tuo posto occupato troveresti
dai tre nuovi nati della Nera.
Io che non t’ho mai vista
se non come immobile memento
tra i flutti d’un fiume anch’esso offeso,
ciuffo di pelo senza volto,
voglio pensarti bella e fiera,
madre di tutti i cuccioli della terra.
Questo solo pensiero
per te posso.

03/07/09

IL CAPPOTTO DI BECKETT E LA TERRA-LUNA DI CALVINO VISTI ATTRAVERSO DUE RITRATTI DI TULLIO PERICOLI


[Balanced in the air as the authors mentioned in this article (Piccadilly, 2009). Foto di Marzia Poerio]


Guardando due immagini di Tullio Pericoli, una di Samuel Beckett col cappotto, la sciarpa e lo sguardo fisso verso l'osservatore, indagandolo come se gli chiedesse conto di qualcosa, il viso segnato, le mani in tasca, il volto austero, eppure una lieve ombra d'ironia sulle labbra; e un'altra di Itallo Calvino, la fronte scoperta con l'attaccattura alta dei capelli, le mani appoggiate al mento come di chi è assorto, la bocca un po' perplessa, gli occhi rivolti tra il fuori e il proprio volto, appoggiato come a una finestra con i gomiti a un pianeta che potrebbe essere la Terra sorgente dalla Luna [1], si osservano allo stesso tempo la somiglianza con gli individui rappresentati, l'interpretazione che queste immagini forniscono della scrittura di questi autori (già implicita nei particolari qui scelti per descriverli) e quanto si sovrappone di forse non voluto dall'esecutore e di dovuto invece ai meccanismi di ricezione con cui si fruiscono quadri, disegni, forse anche le visioni altrui.

Nei due testi visivi di Pericoli, gli autori raffigurati stanno in silenzio (quanti ritrattisti dipingono i propri soggetti come dotati di parola?). Il silenzio è uno degli elementi centrali della poetica sia di Beckett che di Calvino. Confinante col nulla quello di Beckett, un leopardiano spinto all'estremo, i cui personaggi vivono perennemente sotto il vulcano, si avventurano nel deserto e cercano, avvolti nella disperazione, di riderci sopra (non è, in parte, questo ciò che dice WAITING FOR GODOT?). Le sue situazioni paradossali disegnano il nostro silenzio interiore e la difficoltà dei rapporti comunicativi con gli altri e col mondo (in Watt, ad esempio). Il silenzio dei personaggi di Calvino è quello di chi teme di dire troppo per non coinvolgersi col caos del mondo in modo viscerale; ed esprime quel caos proprio indicando di volerlo scansare, appoggiandosi pertanto al pianeta Terra dove ancorare una scrittura esplicita delle superfici, scavando frattanto nella fantasia, visitando sogni da riferire ma conferendo contestualmente a essi un carattere semiotico per esorcizzarne il viscerale, fattanto uncinandoli al concreto con espedienti realistici inseriti nel fantastico (come in COSMICOMICHE); i suoi silenzi, a leggere tra le righe, conducono verso il lato in ombra, l'opacità, l'angoscia (si veda soprattutto il racconto DALL'OPACO). Tutto questo sta nel retro del ritratto di Pericoli, il cui Calvino è in fondo impenetrabile.

Calvino varia i propri temi di opera in opera. Beckett torna ossessivamente su motivi ricorrenti. I suoi personaggi esprimono di continuo la ripetitività della loro situazione iniziale, proseguono verso un non finito termine di partita, per dare appuntamento ai lettori alla prossima opera che resterà anch'essa, in un certo senso, non finita perché la situazione la porterà a ripetere un'ennesima volta le problematiche ansiose e inquiete delle precedenti. Il non finito, pur se di impostazione diversa, è uno degli elementi calviniani, forse derivato in parte anche dalla lettura delle opere di Beckett: in Se una notte d'inverno un viaggiatore il gioco è proprio con le attese, dato che non si concludono i dieci incipit che costituiscono la storia di cornice e dei modelli di narrazioni di varia natura espressi in quei brani. Entrambi gli scrittori, in Pericoli, sembrano in attesa, in un continuum spaziotemporale non finito: Beckett come se stesse per muovere un altro passo e non riuscisse a portarlo avanti; Calvino come se aspettasse che dal deserto lunare sotto i suoi occhi emerga un viaggiatore...

Con le mani in tasca, il Beckett dell'immagine di Pericoli sembra arrivare a un appuntamento, come se fosse stato chiamato e avesse accettato di venire: allora non era lui ad aspettare noi con i suoi personaggi che attendono, ma noi ad aspettare che riemergesse e ci desse delle spiegazioni? Affiora come un personaggio dantesco dall'INFERNO (che è una presenza costante nelle sue opere): gli occhi un po' spiritati e un po' tristi, forse anche timidi, come se fosse stato convocato da Pericoli a dar conto del perché delle rughe cosi segnate sul suo volto, della malinconia che dietro il cinismo caratterizza le sue situazioni soprattutto teatrali.

Attese indefinite quelle dei personaggi di Beckett, retrocessioni verso un passato irrecuperabile, sensazioni di un futuro di accettazione, o per lo meno tale che sarà paradossalmente possibile proseguire anche se tutto indica che ogni seguito vitale è impedito: "I can't go on, I will go on", si legge alla fine della TRILOGIA; e proprio in questo nodo consiste il coraggio esistenziale. Tanta chiara disperazione contrasta con l'incedere stranamente esitante di Beckett in Pericoli, forse a indicare la distanza tra biografia personale e biografia letteraria di quest'autore irlandese incisivo nelle opere quanto compito nella realtà.

Calvino e Beckett hanno un gusto per l'assurdo e per l'iterazione, come Calvino sembrerebbe ammettere citando Beckett tra i modelli di COSMICOMICHE. Beckett, per Calvino, rappresenta "un'esperienza del mondo dopo la fine del mondo"; una scrittura in cui il tragico "si mescola all'ironico"; scrive infine: "io credo che Beckett [...] possa essere apprezzato in senso anticatastrofico: ridendo, facendo sberleffi al pianto, non esorcizza, forse?" [2] Così anche Pericoli con questi ritratti tanto drammaticamente veri quanto tratteggiati con un'ironia partecipe, non distaccata?



NOTA

[1] Le immagini qui commentate sono disponibili su Google immagini, a BECKETT e CALVINO.

[2] Le citazioni sono tratte da I. Calvino, SAGGI 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano Mondadori, 1995, rispettivamente dal vol. II (pp. 1680 e 1686) e dal vol. I (p. 169).


[Roberto Bertoni]