15/07/09

Lucetta Frisa, RITORNO ALLA SPIAGGIA


[Beach pebbles. Foto di Marzia Poerio]

Lucetta Frisa, RITORNO ALLA SPIAGGIA, Milano, La Vita Felice, 2009

In RITORNO ALLA SPIAGGIA Lucetta Frisa ci dà un nuovo capitolo dei suoi trasognamenti interiori, un’ulteriore discesa nei territori psichici dell’inconscio, con testi che vanno dal 2001 al 2007. Il volume si apre con un’approfondita nota critica di Gabriela Fantato, che giustamente mette in luce come la “spiaggia” della poetessa genovese sia “luogo ancestrale dell’immaginario […]: è il confine, la soglia tra terra e mare, dove il mare è Acqua dell’origine […], universo iniziale, dove ci fu la ‘prima volta’, dove si sono strutturati il sentire e vedere il mondo”.

Questa ricerca dei primordi ancestrali si caratterizza, nei testi della raccolta, come tipica e archetipica identificazione nel femminile materno-filiale. Già nel primo testo della raccolta, GIOIA PICCOLA, la Frisa, rammemorando le mani della madre intenta ai lavori dell’uncinetto, può dire: “Da lì mi è nato il male di cercare / l’inizio di ogni cosa” (p. 13). Così più avanti (UN’ISOLA, p. 34), quasi a svolgere e riannodare la sua stessa esistenza come una tessitura da Parca, è detto: “Devo […] arrotolare / il lunghissimo filo che mi ha portato fin qui / in una veloce matassa”. E anche quando la madre carnale morirà (6 LUGLIO), la sua costante presenza fusionale in lei è così espressa: “Fuori di te / nel mio corpo continui a vivere / […] qualcosa / hai lasciato in me se scrivo / di questo sperdimento” (pp. 23-24). D’altra parte, in SENZA VOCE, sarà la stessa madre a parlare con le parole della figlia. Perché “l’una e l’altra - madre e figlia –”saranno sempre un tutt’uno biologico e ultrabiologico, “a specchiarci nella nostra luce grande” (p. 18).

Carl Gustav Jung, in PSICOLOGIA DELLA FIGURA DI CORE, ci ha descritto i significati mitologico-simbolici di quest’indissolubile, ombelicale, nesso madre-figlia. Nel rapporto Demetra-Kore (quale paradigmaticamente veniva rappresentato nei Misteri Eleusini), Jung si sofferma infatti sul paradosso secondo cui “ogni donna contiene in sé la propria madre e la propria figlia” e che “da madre si vive prima, da figlia poi”: come commenterà Kàroly Kerényi, in tale binomio c’è l’esperienza viva di quella realtà psichica costituita dall’infinità della vita organica superindividuale. Il paradosso junghiano non fa che affermare “l’apocatàstasi (ristabilimento) della vita ancestrale, un prolungamento nelle generazioni a venire attraverso il ponte del singolo individuo presente, e quindi un sapere che ha per contenuto l’essere nella morte”.

La Frisa d’altra parte ci aveva già abituati, nel precedente volume di versi, SE FOSSIMO IMMORTALI (2006), a queste forme di esperienza sapienziale e mistica, ad avere per madre “l’acqua” e per padre “il sasso”, essendo l’affectio, Eros, a tenere legata ogni cosa. La sua non è conoscenza riflessa dall’intelletto, ma epìgnosis, “reminiscenza” memoriale e primordiale. Già allora affermava: “Noi non abbiamo imparato nulla / che la placenta già non sapesse”. Così ora, in RITORNO ALLA SPIAGGIA, la sua immaginazione può regredire fino a vedersi ancora racchiusa nel liquido amniotico fetale: “Dicono che il bambino nuoti felice / nel grembo e rida e pianga / […] Sotto le palpebre / stringo i colori visti la prima volta quando fluttuavo / […] E lì che si vuole tornare / protetti e smemorati / i pugni stretti / sulle cose perse” (pp. 43-44). Ed è ovvio infine che gli aspetti notturni, legati allo scavo anamnestico nel profondo, abbiano la preferenza rispetto a quelli diurni, della vita conscia e di relazione: “Chiudo le palpebre per entrare / in me improvvisamente notturna” (p. 41), “Nella retina vedo e non vedo / sono tra giorno e notte / l’inquieta lente / di una materia ignota” (p. 49).

Tutto ciò comporta delle precise conseguenze in ordine alla forma nella quale la Frisa organizza i suoi reperti. Spesso infatti il suo dettato lirico scorre a ruota libera, sicché ne risente il lato dell’organizzazione controllata del verso. Si prenda esemplarmente GIOIA PICCOLA, dove non solo si perde ogni “misura” versale, ma persino le parole si amalgamano a un certo punto in vera prosa (p. 17), a fare groppo non ancora sciolto in essenziale e icastica immagine. Certo, il modo di formare della Frisa non è quello quintessenziale - a esempio - di un Gottfried Benn, a cui bastava rintracciare “una parola”, “Ein Wort”, “nel vuoto spazio che attornia Mondo e Io”. Troppo spesso nella Frisa l’attenzione e la cura rivolta all’Io allontana la rappresentazione del Mondo, tranne quella che residua nei dettagli utili al proprio trasognamento. Eppure, anche in questo libretto, si può poi leggere un testo mirabile come PORTA ROSA - quello che noi preferiamo in assoluto - dove il verso, anche se calato in misure lunghe, ha poi la compostezza che viene a chi ha oltrepassato un’altra “soglia”, quella dell’unico arco a tutto sesto della grecità e che perciò, da Elea, raggiunge il metron, la misura, della civiltà classica.

[Sergio Spadaro]