03/07/09

IL CAPPOTTO DI BECKETT E LA TERRA-LUNA DI CALVINO VISTI ATTRAVERSO DUE RITRATTI DI TULLIO PERICOLI


[Balanced in the air as the authors mentioned in this article (Piccadilly, 2009). Foto di Marzia Poerio]


Guardando due immagini di Tullio Pericoli, una di Samuel Beckett col cappotto, la sciarpa e lo sguardo fisso verso l'osservatore, indagandolo come se gli chiedesse conto di qualcosa, il viso segnato, le mani in tasca, il volto austero, eppure una lieve ombra d'ironia sulle labbra; e un'altra di Itallo Calvino, la fronte scoperta con l'attaccattura alta dei capelli, le mani appoggiate al mento come di chi è assorto, la bocca un po' perplessa, gli occhi rivolti tra il fuori e il proprio volto, appoggiato come a una finestra con i gomiti a un pianeta che potrebbe essere la Terra sorgente dalla Luna [1], si osservano allo stesso tempo la somiglianza con gli individui rappresentati, l'interpretazione che queste immagini forniscono della scrittura di questi autori (già implicita nei particolari qui scelti per descriverli) e quanto si sovrappone di forse non voluto dall'esecutore e di dovuto invece ai meccanismi di ricezione con cui si fruiscono quadri, disegni, forse anche le visioni altrui.

Nei due testi visivi di Pericoli, gli autori raffigurati stanno in silenzio (quanti ritrattisti dipingono i propri soggetti come dotati di parola?). Il silenzio è uno degli elementi centrali della poetica sia di Beckett che di Calvino. Confinante col nulla quello di Beckett, un leopardiano spinto all'estremo, i cui personaggi vivono perennemente sotto il vulcano, si avventurano nel deserto e cercano, avvolti nella disperazione, di riderci sopra (non è, in parte, questo ciò che dice WAITING FOR GODOT?). Le sue situazioni paradossali disegnano il nostro silenzio interiore e la difficoltà dei rapporti comunicativi con gli altri e col mondo (in Watt, ad esempio). Il silenzio dei personaggi di Calvino è quello di chi teme di dire troppo per non coinvolgersi col caos del mondo in modo viscerale; ed esprime quel caos proprio indicando di volerlo scansare, appoggiandosi pertanto al pianeta Terra dove ancorare una scrittura esplicita delle superfici, scavando frattanto nella fantasia, visitando sogni da riferire ma conferendo contestualmente a essi un carattere semiotico per esorcizzarne il viscerale, fattanto uncinandoli al concreto con espedienti realistici inseriti nel fantastico (come in COSMICOMICHE); i suoi silenzi, a leggere tra le righe, conducono verso il lato in ombra, l'opacità, l'angoscia (si veda soprattutto il racconto DALL'OPACO). Tutto questo sta nel retro del ritratto di Pericoli, il cui Calvino è in fondo impenetrabile.

Calvino varia i propri temi di opera in opera. Beckett torna ossessivamente su motivi ricorrenti. I suoi personaggi esprimono di continuo la ripetitività della loro situazione iniziale, proseguono verso un non finito termine di partita, per dare appuntamento ai lettori alla prossima opera che resterà anch'essa, in un certo senso, non finita perché la situazione la porterà a ripetere un'ennesima volta le problematiche ansiose e inquiete delle precedenti. Il non finito, pur se di impostazione diversa, è uno degli elementi calviniani, forse derivato in parte anche dalla lettura delle opere di Beckett: in Se una notte d'inverno un viaggiatore il gioco è proprio con le attese, dato che non si concludono i dieci incipit che costituiscono la storia di cornice e dei modelli di narrazioni di varia natura espressi in quei brani. Entrambi gli scrittori, in Pericoli, sembrano in attesa, in un continuum spaziotemporale non finito: Beckett come se stesse per muovere un altro passo e non riuscisse a portarlo avanti; Calvino come se aspettasse che dal deserto lunare sotto i suoi occhi emerga un viaggiatore...

Con le mani in tasca, il Beckett dell'immagine di Pericoli sembra arrivare a un appuntamento, come se fosse stato chiamato e avesse accettato di venire: allora non era lui ad aspettare noi con i suoi personaggi che attendono, ma noi ad aspettare che riemergesse e ci desse delle spiegazioni? Affiora come un personaggio dantesco dall'INFERNO (che è una presenza costante nelle sue opere): gli occhi un po' spiritati e un po' tristi, forse anche timidi, come se fosse stato convocato da Pericoli a dar conto del perché delle rughe cosi segnate sul suo volto, della malinconia che dietro il cinismo caratterizza le sue situazioni soprattutto teatrali.

Attese indefinite quelle dei personaggi di Beckett, retrocessioni verso un passato irrecuperabile, sensazioni di un futuro di accettazione, o per lo meno tale che sarà paradossalmente possibile proseguire anche se tutto indica che ogni seguito vitale è impedito: "I can't go on, I will go on", si legge alla fine della TRILOGIA; e proprio in questo nodo consiste il coraggio esistenziale. Tanta chiara disperazione contrasta con l'incedere stranamente esitante di Beckett in Pericoli, forse a indicare la distanza tra biografia personale e biografia letteraria di quest'autore irlandese incisivo nelle opere quanto compito nella realtà.

Calvino e Beckett hanno un gusto per l'assurdo e per l'iterazione, come Calvino sembrerebbe ammettere citando Beckett tra i modelli di COSMICOMICHE. Beckett, per Calvino, rappresenta "un'esperienza del mondo dopo la fine del mondo"; una scrittura in cui il tragico "si mescola all'ironico"; scrive infine: "io credo che Beckett [...] possa essere apprezzato in senso anticatastrofico: ridendo, facendo sberleffi al pianto, non esorcizza, forse?" [2] Così anche Pericoli con questi ritratti tanto drammaticamente veri quanto tratteggiati con un'ironia partecipe, non distaccata?



NOTA

[1] Le immagini qui commentate sono disponibili su Google immagini, a BECKETT e CALVINO.

[2] Le citazioni sono tratte da I. Calvino, SAGGI 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano Mondadori, 1995, rispettivamente dal vol. II (pp. 1680 e 1686) e dal vol. I (p. 169).


[Roberto Bertoni]