19/07/09

Marco Ercolani, SCRIVERE SOGNI

Da LES REVES ET LES MOYENS DE LES DIRIGER del marchese Hervey de Saint-Denis, pubblicato anonimo nel 1867


Dal sedicesimo album, 1213esima notte

Salgo in cima alla torre, guardo il cielo, poi mi getto nel vuoto, verso il prato piccolo come un punto. Un attimo prima di sfracellarmi, mi sveglio. Prendo un foglio e dipingo con attenzione la traiettoria del mio corpo, così come lo ricordo: segno un punto, nella parabola della caduta, poco prima dell'impatto col suolo. Quando mi riaddormento e sogno la torre per la seconda volta, mi getto nel vuoto ma precipito con maggiore lentezza; a pochi centimetri dal suolo, non cado più ma resto sospeso nell'aria, e mi risveglio. Prendo lo stesso foglio e segno un nuovo punto nella traiettoria della caduta, questa volta più in alto. Riprendo sonno. Ancora la torre, ancora il volo. Ma questa volta resto nell'aria, guardo gli uccelli e la luce del sole, non so più cosa significhi cadere.


Dal sedicesimo album, 1214esima notte

Sogno un uomo molto vecchio; è rannicchiato da anni sopra un ponte di corda, la testa curva sul petto, le spalle appoggiate alla ringhiera di giunchi. Gli portano frutta fresca e acqua, che assaggia appena. Notte dopo notte, resta immobile. A chi lo invita a raggiungere l'una o l'altra riva, risponde scuotendo il capo. Si lascia scavalcare e deridere dai mercanti che traversano il ponte ogni giorno con i loro tessuti. Ma resiste. Apre la bocca, come se volesse parlare. Però continua a tacere. Quando mi risveglio, recito per venti minuti gli ultimi ventiquattro versi del XXVI canto dell'Inferno. Poi mi addormento e riprendo a sognare: il vecchio é là, annidato nel ponte; resta muto per sei sogni consecutivi: poi, al settimo, comincia a parlare. Un mercante di tappeti cade nel vuoto, assordato dal rombo di una cascata. Il vecchio si alza in piedi e varca il ponte con lentezza.


Dal diciottesimo album, 1421esima notte

Sogno di vedermi riflesso in uno specchio magico. Ma, per qualche mistero del destino, la mia immagine invecchia con paurosa rapidità. Al risveglio decido di fischiettare un motivo di Couperin, Le Rossignol, e di concentrarmi sull'immagine che invecchia. Mi riaddormento e, quando il sogno ricompare, mentre risuona la melodia per clavicembalo, la metamorfosi del mio corpo nello specchio si fa impercettibilmente più lenta. Così accade nei sogni successivi. Il motivo è sempre più forte e la musica, potenziata da mille clavicembali, rallenta il mio invecchiamento. La progressione è così coerente che, sei notti dopo, lo specchio mi rimanda la mia immagine esatta, di quarantenne tranquillo, il viso sbarbato, i capelli neri, la bocca sottile, il corpo chiuso in una rossa vestaglia di seta.


Dal diciottesimo album, 1442esima notte

All'improvviso è tutto buio e non vedo né me stesso né le cose che mi circondano. Quella notte, quando mi sveglio, faccio un esperimento: ordino al mio servo di mettere tende spesse alla finestra e mi rannicchio sotto le coperte fino a coprire la testa. Quando mi addormento, sogno che il mio corpo diventa sempre più scuro, si confonde al buio della notte, si fa addirittura invisibile. Molte notti dopo, alcuni sconosciuti, con grida ripetute, non so se nella realtà o nel sogno, agitano la lanterna, accanto all'acqua di un lago che non conosco, dove suppongono sia annegato il corpo dello scomparso marchese Hervey de Saint-Denis. Vengo visto, salvato, riconosciuto. Vivo ancora, pronto ad altri sogni.


Dal diciannovesimo album, 1634esima notte

Un uomo entra nella locanda e si siede ad un tavolo. Qui intreccia delle fibre di canapa mescolandole con foglie di gelso. Io lo osservo in silenzio. Fra le sue dita nasce un rotolo opaco di carta. Dal fondo della locanda vengono risa di scherno. Una voce si distingue fra le altre - "Perché non torni a casa, idiota?". Mi sveglio, seccato da quelle risate. Concentro la mia attenzione sul rotolo di carta che ho visto in sogno e lo immagino fitto di numeri ermetici, di cifre allusive. Quando mi riaddormento, rivedo l'uomo: lo insultano, lo allontanano a spinte dalla taverna. Lui vacilla ma non cade; poi si ferma sulla soglia, si volta in silenzio e srotola lunghi fogli bianchi, di un biancore abbacinante. Alcune lettere balenano come soli. Folgorati, tutti indietreggiano. La taverna è riempita da una luce che si trasforma in sibilo. Il pavimento si apre e le pareti franano in pochi secondi. Tavoli e uomini spariscono. L'uomo si allontana. Non resta nulla dietro di lui. Solo un bosco buio, con il rotolo di canapa e di gelso abbandonato fra i rami secchi.


Dal ventesimo album, 1816esima notte

Legato a un palo di legno, i piedi conficcati sugli sterpi neri, un eretico di quarant'anni guarda il cielo con occhi dilatati. Mani febbrili danno fuoco agli sterpi; le fiamme crepitano sulle gambe del condanna¬to. I suoi occhi scrutano con terrore l'orizzonte. Il fuoco sale su, fino al bacino, fino al torace. La fronte si aggronda. Il sudore comincia a colare sulla bocca. Stupiti dalla sua resistenza, i carnefici lo guardano con stupore. Io mi sveglio di scatto, rifiutando il suo dolore. Ci deve essere un modo perché lui non soffra. Un'idea mi traversa la mente. Accendo tutte le candele della mia stanza, illumino a giorno muri e porte. Quando mi riaddormento, un attimo dopo, l'eretico, semicarbonizzato dal fuoco, il viso luminoso e intatto, guarda serenamente i suoi torturatori. Io, arso dalle fiamme che bruciano il suo corpo, urlo di dolore.


Dal ventesimo album, 1818esima notte

Delle barche approdano, mentre dal mare sale la foschia. Si forma dalle onde immobili, si avvicina alla costa. I pini che sporgono dalle rocce sono i primi a sparire. La nebbia ingoia gli scogli. Le case si dissolvono senza che la scomparsa sia rivelata da boati o fragori. Nulla di udibile: il vicolo, coperto dalla nebbia, sparisce. Una figura cammina, un pescatore; tende il braccio, tasta davanti a sé, poi viene inghiottito. Il silenzio è assoluto. Alcuni alberi appaiono tagliati a metà da aloni densi. Certe porte sono completa¬mente invisibili, come se non fossero mai esistite. Poche persone resistono dentro la nebbia con lanterne e torce, sperando che il chiarore possa dissolvere i banchi di fumo. Dal mare arriva il rumore di un'onda. Altri avanzano con passi cauti, esplorando il buio a mani tese. Poi i passi spariscono, troncati di colpo. I corpi dileguano senza avere il tempo di urlare. Il terrazzo della mia casa diventa indistinto. La ringhiera svanisce. Mattoni, calze, fiori, vasi, affondano nel biancore. La nebbia appanna il vetro, si adagia fra muro e letto, armadio e lampada, ingoia pettine e specchio. Dove le cose esistevano si aprono buchi. Il corridoio scompare, i libri sbiancano. La casa si spalanca come una grotta, i muri si riducono a schegge. Unico punto solido il pezzo di corri¬doio dove vago, fra due stanze che non ci sono più. Chiuso fra due abissi, immobile, la nebbia mi erode le guance. Sento i sintomi della scomparsa - una strana leggerezza intorno alla bocca, nelle narici, negli occhi, le orecchie sfuggono via...

Mi sveglio. Mi tocco il viso, le braccia, mi accerto di esistere. Allarmato, prendo il foglio, lo stendo sul tavolo e traccio una linea precisa al centro. Quando mi riaddormento, la nebbia è sparita e la linea dell'orizzonte divide una lontana regione coperta di fumo dal paese abitato dove gli uomini riprendono a vedersi.


Dal ventesimo album, 1863esima notte

Un ponte colmo di carri, nel giorno dell'esodo. Il cielo trabocca di nuvole nere. Caricati dal legno dei mobili, schiacciati dalla massa degli abiti, sfondati dal peso dei materassi, i carri oscillano; ripe¬tutamente frustati, i cavalli si fermano. Uno scricchiolìo sale dall'arcata di legno. Alla fine, le zampe piegate, si accasciano, l'arcata s'incurva e un secondo dopo si spezza di schianto: il ponte intero crolla con un boato; carri, coperte, uomini, scompaiono nell'acqua in meno di un secondo. Mi sveglio con orrore. Penso che la tragedia sia evitabile, che il sogno possa mutare. Tutto può essere sognato di nuovo e salvato dal destino del sogno. Traccio con attenzione, nel foglio pronto sul tavolo, un ponte intatto. Mi addormento. Rivedo le arcate, i cavalli, il passaggio dei carri. Sotto un cielo ancora nuvoloso, il ponte manda scricchiolii sinistri, ma gli animali non stramazzano, non sono frustati, guidano i carri che, lentissimamente, riescono a passare dall'altra parte.


Dal ventesimo album, 1865esima notte

Sulle cime dei castagni, nell'aria nera, grappoli di corpi trovano rifugio alla massa del fiume. L'acqua straripa, trascinando a valle tronchi e detriti. Uccelli assordati dal fragore non osano volare dalle vette degli alberi, beccano i superstiti rannicchiati nel fogliame. I cani mordo¬no l'erba per non essere travolti; ma la corrente li inghiotte e riemergono dai vortici pochi metri più in là, le schie¬ne a pelo dell'acqua. Trovo, camminando, un tronco cavo. Mi rifugio lì dentro, non annego per miracolo. Sento la pioggia scrosciare per oltre due ore. Poi, all'improvviso, cessa di cadere. Alzo la testa, cammino nel bosco. Nel bosco vedo una casa. Nella casa c'è una porta socchiusa, vegliata da un corpo accovacciato, luccicante come una fiamma. È il corpo di una vecchia. La vecchia mi porge la lampada con impazienza, come se mi avesse atteso da troppo tempo. Poi sparisce correndo. Io reggo la lampada, solo. In una casa completamente ignota salgo una scala stretta, illumino il profilo di una sguattera inginoc¬chiata che in silenzio lava i gradini del corridoio, come una sonnambula. In fondo alla stanza, davanti ai vetri lucenti della finestra, una sedia vuota, ancora calda; della cenere sparsa sul pavimento; un tavolo con un foglio bianco, fradicio d'acqua, una parola interrotta, sgorbiata a metà, semileggibile.

Mi sveglio in preda all'orrore. Perché non ho visto nessuno? Perché non ho letto nulla? Sul mio foglio asciutto scrivo, con pazienza, la lettera di un uomo sopravvissuto al diluvio. Quando mi riaddormento, rivedo la pioggia, la fuga, la casa. Ma, quando la vecchia mi lascia in fondo alla scala e io raggiungo la stanza, davanti alla finestra c'è una schiena curva, una testa reclina, una mano che sporge dalla camicia bagnata e stringe la penna e scrive sulla carta, parola per parola, il racconto del sopravvissuto.


Dal ventunesimo album, 1941esima notte

La casa è sconosciuta. Vago da una stanza all'altra. Nel corridoio mi aspetta un ragazzo; ha la gamba sinistra sollevata, come se si fosse addormentato mentre correva. Sulle labbra gli è rimasto il sorriso della corsa. Una mano invisibile muove la lampada e inquadra l'uniforme strappata, il foro nerastro, i bottoni impolverati; il ragazzo fa un passo in avanti, le mani premute sul petto; la ferita si riapre e gocce di sangue macchiano le dita contratte. Cade adagio, bocconi. Io mi sveglio allarmato, impotente. Penso a lungo una parola. Sàlvati. La ripeto sette volte. Quando mi riaddormento, sono nel giardino della casa. Sento un canto di uccelli; percepisco una nota più aspra, che riporta in vita il grido di una specie estinta da secoli. Una statua di Perseo mostra il torso non mutilato. Il soldato che ho visto ferito a morte parla tranquillamente con un ufficiale più anziano di lui, che potrebbe essere il suo futuro assassino. Io mi avvicino a lui, interrompo la conversazione, gli bisbiglio qualcosa all'orecchio. Il giovane trasale e si allontana.


Dal ventunesimo album, 1946esima notte

È un monolite nero. Nel monolite si apre all'improvviso una fessura di luce e io penetro in quella fessura. Per diverso tempo percorro viuzze tortuose e labirintiche, poi arrivo al centro del monolite. Lì noto uno spazio molto piccolo, con un letto e una lampada: rannicchiato fra le coperte vedo me, il marchese di Saint Denis, dormire serenamente. Rifaccio lo stesso sogno a intervalli di poche ore. A ogni sogno la fessura di luce è più ampia, le vie per raggiungere il centro della roccia meno complesse, il corpo che raggiungo alla fine alla fine sempre più chiaro.

Quando mi sveglio sento alcune voci. "Potrà resistere?"."Credo di no"."Povero marchese!". Capisco che parlano della mia morte. Mi riaddormento, entro nel monolite e tocco la spalla del dormiente. Hervey de Saint Denis spegne la lampada e si alza in piedi; poi, lentamente, lascia la stanza nella roccia attraverso una via segreta, che non avevo notato negli altri sogni. Si avvia fuori, verso un luogo che non conosce. Io lo vedo sparire nel buio. Vorrei seguirlo ma non riesco a muovermi.

Con riluttanza e fatica, mi risveglio. Nel mio letto vuoto non c'è più nessun marchese di Saint-Denis. La casa è piena di preghiere, di candele, di riti, come se vegliassero un cadavere. Il corpo deve essere già stato trasportato nel salone vicino. Richiudo gli occhi per sempre, deluso dalla mia fine banale, e mi ritrovo a fianco di me stesso. Camminiamo a lungo, in regioni non conosciute. Camminiamo ancora, continuando a tacere, senza risvegliarci più.