31/03/09

CARTE ALLINEATE. Numero 27, Marzo 2009 / Issue 27, March 2009

Per gli articoli del mese, vai a "marzo 2009" in ARCHIVIO BLOG, o consulta l'INDICE ALFABETICO qui sotto. Per gli arretrati vai a ARCHIVIO BLOG e a "Di cosa si parla su 'Carte allineate': Indici". Cerca nomi e titoli specifici con il SEARCH BLOG / Find the entries in the current month at "marzo 2009" in ARCHIVIO BLOG or in the INDEX below. Find past issues in ARCHIVIO BLOG and in 'Di cosa si parla su Carte allineate: Indici'. Look for specific names and titles by using the SEARCH BLOG.

INDICE ALFABETICO / INDEX

Le voci elencate qui sotto senza il nome dell'autore sono state scritte da Roberto Bertoni. Foto di Marzia Poerio / Entries listed below without the name of the author were written by Roberto Bertoni. Pictures by Marzia Poerio.

- ARRIGO, Nino, L’ESTETICA DEL MITO: DAL MODERNISMO AL POSTMODERNO. Riflessione, 23-3-09.
- CONA, Cristina, PROFONDA SFIDUCIA E PIÙ PROFONDA FEDE. FENOGLIO, L’INGLESE, LA TRADUZIONE. Riflessione, 5-3-09.
- DE BONI, Nicoletta, LA MISURA DEL TEMPO. Testo, 7-3-09.
- DEDOLA, Rossana, PERVERSIONI E RIGORI: LUCA RICCI. Note di lettura, 9-3-09.
- ERCOLANI, Marco, CINQUE TESTI DA A SCHERMO NERO. Testo, 17-3-09.
- FRISA, Lucetta, TRE INEDITI DA BASSO CONTINUO. Testo, 11-3-09.
- MACCIÒ, Francesco, PILGRIMAGE. Testo, 19-3-09.
-MAUGHAM, Somerset, UNA INGLESE A FIRENZE. Rilettura, 29-3-09.
- MISTRY, Robinson, A FINE BALANCE. Rilettura, 15-3-09.
- PIZZI, Marina, "SI MISURI LA NEBBIA" E ALTRI INEDITI. Testo, 27-3-09.
- RAGNOLI, Gian Paolo, BLACK ANGEL. Storie di musiche, 13-3-09.
- RIBAS, Lluis e MONTOBBIO, Santiago, ELS COLORS DEL BLANC. Mostra recensita da Piera MATTEI, 1-3-09.
- SBEO, Caio Cosimo, IL PATTO SEGRETO (FANTAGENESI DI UN RACCONTO FANTASTICO). Testo, 3-3-09.
- YOUNG, Augustus, POLITICAL SURGERY IN REGGIO CALABRIA (FROM TALES FROM THE SIXTIES). Testo, 21-3-09.
- XI, Xu, UNWALLED CITY. Note di lettura, 25-3-09.

29/03/09

W. Somerset Maugham, UNA INGLESE A FIRENZE


[Not from Florence, but it could be... (From the walls of La Serra). Foto di Marzia Poerio]


Titolo originale UP AT THE VILLA (1941). Traduzione di J. Giannini, Milano, Longanesi, 1966

L’inglese Mary Panton, trentenne vedova, reduce da un matrimonio sfortunato con un uomo inaffidabile di cui si era innamorata, in via di ricostruzione del proprio io dopo questa esperienza, attraente, con un patrimonio non ingente ma tale da assicurarle l’indipendenza, va a stare per un periodo di tempo nella villa toscana di amici altolocati nei pressi di Firenze. Le propone di sposarlo Sir Edgar Swift, rappresentante del corpo diplomatico inglese in India, più anziano di lei di più di venti anni, visto dalla giovane come rassicurante, in grado di proteggerla, per cui lei decide di accettare sebbene si prenda tre giorni per comunicare la sua decisione mentre Edgar è via per lavoro. Giorni decisivi, nel corso dei quali Rowley Flint, ricco sfaccendato e dongiovanni, cerca di sedurla e le propone a sua volta di sposarlo: per scherzo, pensa lei, almeno all’inizio. Tornando a casa da una cena al ristorante, un musicante che aveva suonato per quella serata e abitava nei pressi della villa, profugo austriaco antinazista, impietosisce Mary, che per questo, contrariamente alla sua impostazione tradizionalista, accetta di consumare alcune ore d’amore con lui, spiegandogli poi di averlo fatto per renderlo felice, per pietà, da cui la reazione scomposta del ragazzo che, già emotivamente provato da altre esperienze, si suicida a casa di lei con un revolver lasciatole per ogni evenienza da Edgar. La aiuta in questo frangente Rowley, rivelandosi più deciso e comprensivo di quanto sarebbe sembrato a prima vista. I due nascondono il cadavere del suicida in un bosco, dove sarà assai improbabile che venga trovato. Mary combatte contro la tendenza a dire tutto alla polizia perché ciò comprometterebbe la sua rispettabilità, ma per onestà, in vista del matrimonio, racconta la propria storia a Edgar, il quale, per rigidezza morale, pur restando impegnato a sposarla, decide di dimettersi dal corpo diplomatico: una moglie che ha infranto le leggi, qualora ciò venisse scoperto, cozzerebbe contro i principi di servitore della Corona. Mary dunque gli rivela di non amarlo e di non volerlo sposare. Accetterà alla fine la richiesta di matrimonio di Rowley, che si era innamorato sul serio e le è più simile; progettano di andare a vivere in una proprietà di lui in Kenya.

Contrariamente all'impressione di quasi appendice che potrebbe forse dare la sequenza degli eventi come è stata riassunta sopra, si tratta di un romanzo breve ben costruito e letterariamente raffinato. Contiene tanto ammirazione per la dignità e la rigidezza da “vero gentleman”, come lo definisce Mary, di Egdar, che appare il rappresentante di vecchie virtù in declino, di cui tuttavia la voce autoriale in questa storia pare suggerire necessaria la sopravvivenza destinandola a mantenere la coesione sociale all’interno della compagine politica britannica; e per la flessibilità accompagnata da rinuncia a manifestare giudizi troppo forti su chi ha momenti di debolezza, rappresentata da Rowley, decadente rispetto alla propria classe sociale, ma in grado di manifestare una qualità umana di comprensione. La rispettabilità alto-borghese, tuttavia, resta in piedi, sebbene si spendano note di simpatia per il giovane diseredato e si rappresentino con rispetto i domestici italiani di Mary, di origine contadina.

Sull’orlo della fine dell’impero britannico, è una storia narrata in modo in parte teatrale con dialoghi efficaci e in parte con andamento propriamente narrativo, schivo di dettagli superflui. È un racconto che procede spedito e avvince.


[Roberto Bertoni]

27/03/09

Marina Pizzi, "SI MISURI LA NEBBIA" E ALTRI INEDITI


[Two of the Muses? (From the walls of Brussels). Foto di Marzia Poerio]


TESTI 83-86 DA L'INCHINO DEL PREDONE (2008)


83.

si misuri la nebbia con le fiocine dell’urlo
ma il cordame dell’aria non ha perimetri
né fanciulli da tiro per giocare
con le ciurme di muri.
le serre condensano le gocce
nell’unico segnale di fratellanza
tra le cose del soffio e la vicinanza
con l’eremo del fato.


84.

i giunti cerimoniali della notte
scarpe di pozzanghere
spogliarsi il viso.

nella colonia penale del polso
l’appiglio della pietà
nella teca dello sguardo.

tu ramingo battistero di lutto
m’imponi la gola della stirpe
pena lapidaria peso a scantinato.


85.

il museo del dio franco
rende subito felici
nei valichi curvi di metamorfosi
ossesso il piede che non sa lo stop.
a lungo le grandezze della gioia
narrano specchi di risacca
imprimono vestali all’aria in foga.
qui dove il dovere è ebete fogliaccio
si aggira l’avere di farsi penitenza
così come il dolore è quieto alla maniglia.


86.

arbusti del mio addio
starmi accanto busto d’essere
internauta lo zero del mio spazio
azzerato soldato senza salma.
qui patente il rosso sul grigio
tonalità del male giglio reso.
eppure un foglio patrigno di ciliegio
occlude il paradiso sa di rapa
appassita sotto un rantolo a cottimo
più dolore più e più cottimo
il meno sotto l’ascia.
le furbastre farfallone dell’atrio
balenano comandi per esecuzioni.



Marina Pizzi è nata a Roma, dove vive, il 5-5-1955. Ha pubblicato i libri di versi: IL GIORNALE DELL'ESULE (Milano, Crocetti, 1986), GLI ANGIOLI PATRIOTI (Milano, Crocetti, 1988), ACQUERUGIOLE (Milano, Crocetti, 1990), "Darsene il respiro" (Milano, Fondazione Corrente, 1993), LA DEVOZIONE DI STARE (Verona, Anterem, 1994), LE ARSURE (Faloppio, CO, Lieto Colle, 2004), L'ACCIUGA DELLA SERA I FUOCHI DELLA TARA (Lecce, Luca Pensa, 2006), DALLO STESSO ALTROVE (Roma, La camera verde, 2008).

25/03/09

Xu Xi, UNWALLED CITY


[Waiting for the boat in Hong Kong. Foto di Marzia Poerio]


Xu Xi, UNWALLED CITY. Hong Kong, Chameleon, 2001

In CHINESE WALLS, un romanzo di Xu Xi pubblicato nel 1994, la narratrice in prima persona era Ai Lin, che da Hong Kong si trasferiva negli Stati Uniti e sposava Vince (Vincent Da Luca, un italo-americano), divorziandone poi per risposarsi col fratello dell’ex marito. Questi personaggi ricompaiono in UNWALLED CITY, Ai Lin in sottordine e Vince come uno dei protagonisti, risposatosi con un’americana dalla quale si sta separando: per questo si trova a Hong Kong, città in cui svolge un lavoro ben retribuito di fotografo, che lo mette in contatto con esponenti della società altolocata, tra i quali i co-protagonisti Andanna Lee You Fun, una giovane modella e cantante di Hong Kong proveniente da una famiglia ricca e tradizionale contro le cui norme si ribella; Gail Szeto, di famiglia in parte cinese e in parte europea, manager di una multinazionale; Colleen Leyland, un’occidentale appassionata di lingua e cultura cinese, moglie di un rappresentante della famiglia Szeto.

Le vicende sentimentali di questi personaggi vengono perseguite dalla narrazione condotta questa volta in terza persona, con un interesse umano per il loro perdersi e ritrovarsi esistenzialmente e cercare motivazioni alla propria esistenza. Così Coleen, che dopo le infedeltà coniugali, tra cui una storia passionale con Vince, sembra approfondire il proprio spessore umano e rafforzare la devozione verso il marito; Vince e Gail che non riescono a trovare una possibilità di relazione amorosa, ma instaurano legami di amicizia; Andana che si separa dal fidanzato per condurre una vita più autonoma. La sessualità, al contempo, viene espressa in forme che mantengono il sostrato psicologico mentre si appropriano delle forme fisiche, con appropriazioni di identità tanto maschili che femminili.

La realtà della città è un flusso di avvenimenti che collegano tutto con tutti, come in una provincia espansa nonostante l’internazionalismo delle relazioni tra esponenti di culture e nazionalità diverse e spesso frammiste le une alle altre, tra la lingua inglese e quella cantonese, in tradizioni che combinano la Cina delle strutture familiari estese all’individualismo europeo e statunitense.

Il discorso indiretto libero e l’assunzione del punto di vista di ciascuno dei quattro personaggi principali da parte della narratrice conferiscono spessore a questo romanzo in cui la vita procede dentro il quotidiano, tra riti di ipocrisie e di amicizie, tra contrasti e riappacificazioni, tra drammi interiori che, vissuti senza essere espressi apertamente all’esterno, s’infiammano nell’interiorità degli interpreti.

Ognuno dei quattro protagonisti ha vissuto in almeno due paesi; è cosciente, se non di varie lingue, per lo meno di diverse consuetudini e culture; si muove tra autenticità e costruzione di un’identità secondaria di maschera; attraversa momenti di crisi prolungati. Viene così rappresentata un’inquietudine che oltre a essere specificamente legata al luogo in cui si svolgono le vicende, è anche contemporanea e globalizzata, riguarda la vita di ogni lettore in una fase di tarda modernità.

L’ancoraggio storico è tuttavia ben presente, dato che le vicende narrate si svolgono tra il 1993 e il 1997, sottolineando spesso nel testo che si tratta degli anni del passaggio dall’amministrazione di vecchio tipo di Hong Kong a quella cinese, fenomeni che, come altri fatti di cronaca e politica locale citati nel testo, sembrano influenzare profondamente la vita dei personaggi, ma restare al contempo nello sfondo, colti come essi sono nelle vicissitudini del privato.

Siamo noi, lettori, guidati dall’autrice, a dover compilare i passaggi mancanti per arrivare, con un itineriario mentale, dalla città murata che Xu Xi delineava nel 1994 a quella priva di mura del 2001.


[Roberto Bertoni]

23/03/09

Nino Arrigo, L’ESTETICA DEL MITO: DAL MODERNISMO AL POSTMODERNO


[Constant Montald, LA FONTAINE DE L'INSPIRATION (Royal Museum of Fine Arts, Brussels). Foto di Marzia Poerio]


Nel 1923, recensendo l’ULYSSES di Joyce, in un articolo intitolato ULYSSES, ORDER, MYTH, Eliot sosteneva che “il metodo mitico è semplicemente un modo di controllare, ordinare e dare forma e significato all’immenso panorama di futilità e di anarchia che è la storia contemporanea” [1].

L’intento di trascendere la Storia e il conseguente bisogno di ordine e perfezione, da affermare sul caos del presente, erano già stati espressi dal poeta ne LA TERRA DESOLATA:

“[...] benché sia una dimostrazione del caos, LA TERRA DESOLATA tratta in realtà del bisogno d’ordine. Esso utilizza il paradigma della fertilità come struttura di una visione trascendente [...] l’ordine estetico delle parole raggiunto dal poema intende ergersi come richiamo al potere della Parola onnicomprensiva" [2].

La posizione di Eliot sembrerebbe scadere nel dogmatismo. Lo stesso autore non cercherà affatto di nascondere questo atteggiamento, dichiarandosi piuttosto: “classico in letteratura, monarchico in politica, e anglo-cattolico in religione” [3].

Nella visione austera di Eliot, dunque, il mito diventerebbe mera forma, la Parola che contiene (e controlla) tutte le parole, il “significante” da cui scaturiscono tutti i possibili “significati”. Ma, coincidendo con la tradizione codificata, tra le cui braccia cercherebbe e troverebbe riparo, il mito annullerebbe la ricerca e l’immaginazione, esorcizzando, attraverso il ricorso al dogma, la “conoscenza della metamorfosi” [4]. L’estetica eliotiana sembra pertanto ignorare “la dialettica tra l’immaginazione e la realtà” [5], appellandosi “alla tradizione classica o almeno a una sua versione austera, piuttosto che romantica” [6]. Laddove, infatti, il Romanticismo accoglieva “la protesta dell’individuo”, il “modernismo” [7] - di cui lo scrittore inglese è uno degli illustri rappresentanti - predica invece la “spersonalizzazione”.

Ma avere una tradizione, come sostiene Cesare Pavese, “è meno che nulla, è soltanto cercandola che si può viverla” [8].

Ora, se possiamo cogliere una diversa concezione del mito nel passaggio dal “modernismo” al “postmoderno”, potrebbe essere la seguente: laddove nel modernismo il mito si interessa delle “radici” - e nessun altro esempio potrebbe essere più calzante, in proposito, della poetica eliotiana - nel postmoderno si interessa degli “itinerari” [9].

A questo punto occorre, però, una precisazione. Non è nostra intenzione aderire ad una visione lineare ed evolutiva della storia. Siamo pertanto consapevoli, usando le etichette di “modernismo” e “postmoderno”, di incappare in delle riduzioni, che tuttavia, allo scopo di chiarire ed esemplificare al meglio i nostri concetti, non potranno che risultarci utili. A tal proposito, non possiamo che condividere in pieno le seguenti dichiarazioni di Remo Ceserani:

“Ogni proposta di periodizzazione storica è un fatto interpretativo nostro [...] le etichette che noi usiamo, come per esempio quella di modernità e postmodernità, hanno un’esistenza solo nella nostra mente, sono utili strumenti per capire e mettere ordine fra le nostre ricostruzioni e tuttavia non hanno una loro esistenza sostanziale e necessaria nelle cose e nella realtà: sono interpretazioni più o meno convincenti, ma anche inevitabili semplificazioni di situazioni molto complesse. E le realtà complesse, per loro intrinseca natura, hanno la proprietà di contenere elementi fra loro contraddittori, tendenze contrastanti, novità e persistenze, forze innovative e conservatrici. Le realtà storiche non obbediscono a leggi deterministiche che uniformano a sé ogni singolo aspetto della vita materiale, di quella delle coscienze, di quella dell’immaginazione” [10].

Ma, dopo questa (utile) digressione, non ci resta che ritornare al nostro tentativo di definire (ri-definire) il mito.

Una visione del mito inteso come ricerca, possibilità permanente, quale sembra profilarsi nel postmoderno, potrebbe appartenere anche a Cesare Pavese. Per lo scrittore piemontese il mito è “un’interiore immagine estatica, embrionale, gravida di sviluppi possibili, che è all’origine di qualunque creazione poetica” [11], ma “la poesia è altra cosa. In essa si sa d’inventare, ciò che non accade nel concepire mitico [...] La vita di ogni artista e di ogni uomo è come quella dei popoli un incessante sforzo per ridurre a chiarezza i suoi miti” [12]. E ancora:

“Un mito è sempre simbolico; per questo non ha mai un significato univoco, allegorico, ma vive di una vita incapsulata che, a seconda del terreno e dell’umore che l’avvolge, può esplodere in molteplici fioriture. Esso è un evento unico, assoluto; un concentrato di potenza vitale da altre sfere che non la nostra quotidiana, e come tale versa un’aura di miracolo in tutto ciò che lo presuppone e gli somiglia” [13].

Quello che risulta interessante in questo passo, oltre la corrispondenza tra mito e simbolo contrapposti all’allegoria, è che il mito, pur essendo un “evento unico, assoluto”, è capace di “molteplici fioriture”. Dunque la sua dimensione non sembra certo quella della stasi e della fissità dogmatica eliotiana. Il mito, nello scrittore langarolo, non coinciderebbe, dunque, con la tradizione (“avere una tradizione è meno che nulla”), bensì con la ricerca (“è soltanto cercandola che si può viverla”).

La visione estetica dello scrittore piemontese sembrerebbe dunque avvicinarsi a quella eliotiana: entrambi approdano alla tradizione classica, anche Pavese è un classicista, “rustico”, se vogliamo sposare l’etichetta di Elio Gioanola [14], ma pur sempre classicista. Ma laddove Eliot si preoccupa essenzialmente delle “radici”, Pavese si preoccupa degli “itinerari”.

Nella visione dello scrittore piemontese mistificazione e demistificazione, mito e logos sarebbero complementari e compresenti nella mitopoiesi. Il logos è la voce del mito, la sua “lingua” (allegoria) e il mito è la facoltà di parlare (la “Parola omnicoprensiva” di Eliot), il “Linguaggio” (simbolo).

Potremmo accostare questa dialettica a quella saussuriana tra langue e parole, significante e significato.

A questa punto, dunque, non sarebbe più azzardato definire “utopistica” la visione pavesiana del mito, e “conservatrice” quella eliotiana.

Entrambe affonderebbero le loro radici nel Romanticismo e da esso si divaricherebbero ma, laddove la prima sembra proiettata verso la postmodernità, più propensa a considerare il mito in una dimensione laica, secolare e ironica, la seconda (quella eliotiana) è piuttosto ancorata a quella visione tragica, austera e trascendentalista tipica del “modernismo”.

La visione per così dire “utopistica” del mito, sembra essere condivisa da Paul Ricoeur. Anche per il filosofo, infatti, il mito apparterrebbe alla dimensione della possibilità. Al suo interno sarebbe attiva la dialettica tra “ideologia” (logos-modernità) e “utopia” (mito-postmodernità), ma laddove l’ideologia “ha la funzione di preservare, di conservare”, l’utopia è invece “sempre uno squarcio su un luogo inesistente” [15], la forza riformatrice. L’ideologia coinciderebbe dunque con la “tradizione”, la società organizzata sulla cultura e sul codice, il logos che da voce alla forza fantastica del mito. L’utopia con la forza perturbatrice del mito, che riattiva la tradizione impedendo che si irrigidisca, si sclerotizzi, diventi dogma.

UMORISMO VS IRONIA

Alla visione “tragica” di Eliot, Lawrence Coupe oppone, piuttosto, una “visione comica” del mito, riscontrabile già nell’ULYSSES joiciano (recensito, per l’appunto, da Eliot) ma, ancor più chiaramente, nell’ultimo romanzo del grande scrittore, FINNEGANS WAKE (1939): “A differenza della visione di Eliot, quella di Joyce è democraticamente indecorosa e buffa [...] FINNEGANS WAKE è una 'gaia pantomima' [...] Esso è fortemente ciclico, totalmente comico, e 'disgrega' il discorso abituale” [16].

Ma se “l’ironia è ancora atteggiamento interno a una contrapposizione di tipo dialettico-storico” [17], iscrivibile nell’orizzonte della metafisica e quindi, proprio in tal senso, categoria della “modernità” (fatta salva la nozione di “ironia romantica”, che sembrerebbe racchiudere tutta la carica paradossale e disgregatrice dell’umorismo), a risultare più utile per esplicitare la “visione comica” del mito potrebbe essere, qui, la categoria (postmoderna) di umorismo. L’umorismo, che grazie all’azione del paradosso “appare come destituzione della profondità, disposizione degli eventi alla superficie, dispiegamento del linguaggio lungo tale limite” [18], sarebbe, pertanto, un’arte “della superficie, contro la vecchia ironia, arte della profondità o delle altezze” [19]. L’umorismo ha un senso perchè ne ha due, il suo potere paradossale riesce, infatti, a trasformare la tragedia in commedia, insomma - come aveva ben visto il genio di Pirandello - è “un’erma bifronte, che da un lato piange e dall’altro ride” [20]. Secondo Deleuze “il paradosso è il rovesciamento simultaneo del buon senso e del senso comune” [21]. Laddove “i caratteri sistematici del buon senso sono dunque l’affermazione di una sola direzione; la determinazione di tale direzione come procedente dal più differenziato al meno differenziato, dal singolare al regolare, dal notevole all’ordinario; l’orientamento secondo tale determinazione della lancetta del tempo, dal passato al futuro” - il paradosso, invece, “come passione scopre che non si possono separare le due direzioni, che non si può instaurare un senso unico” [22]. In virtù della sua viscosità, dunque, la sua logica è la logica del mito, di quella “conoscenza della metamorfosi” che, sin dalla Grecia classica, si fa beffa del principio d’identità e non contraddizione. E la logica della metamorfosi è la logica del senso, “perchè è proprio del senso non avere direzione, non avere ‘buon senso’, ma sempre le due direzioni e i due sensi a un tempo” [23]. La finalità del mito sarebbe, dunque, quella di attuare una “riduzione della coscienza” [24], riportando alla luce quella verità inconscia del “senso”, preclusa dalla “barra” della rimozione. All’azione profonda delle “radici”, alle rigide gerarchie della “tradizione” (nell’accezione di Eliot), la forza paradossale, disgregatrice e umoristica del mito oppone l’azione superficiale della rete, quella che Deleuze e Guattari chiamano rizoma. “Il rizoma è fatto in modo che ogni strada può connettersi con ogni altra. Non ha centro, non ha periferia, non ha uscita, perchè è potenzialmente infinito” [25], è lo spazio della possibilità, degli itinerari. Lo spazio del mito.

Una visione, questa, che il “pensiero sistemico” estende oggi a tutti i sistemi viventi. Fritjof Capra ci ricorda che, “poichè a ogni livello i sistemi viventi sono reti, dobbiamo visualizzare la trama della vita come sistemi viventi (reti) che interagiscono in una struttura a rete con altri sistemi (reti) [...] In altre parole, la trama della vita è fatta di reti all’interno di reti. A ogni scala di ingrandimento, in osservazioni più ravvicinate, i nodi della rete si rivelano come reti più piccole [...] In natura non c’è alcun 'sopra' o 'sotto', e non esistono gerarchie. Ci sono solo reti dentro altre reti” [26].

Il mito - ci ricorda Morin - “è metamorfico come l’evoluzione biologica, il che significa che quest’ultima somiglia terribilmente al mito” [27]. E, dato il ruolo fondamentale che l’evoluzione gioca nella vita, potremmo affermare, dunque, che il mito è metamorfico come la vita [28].


NOTE

[1] Cfr. T.S. Eliot, ULYSSES, ORDER AND MYTH, “The Dial”, LXXV, 1923, pp. 480-83, in R. Ceserani, IL MATERIALE E L’IMMAGINARIO, Torino, Loescher, 1989, pp. 741-44.
[2] L. Coupe, IL MITO. TEORIA E STORIA, Roma, Donzelli, 1997, pp. 18-19. Ma la TERRA DESOLATA è un’opera profondamente ambigua e ambivalente, un’“opera aperta”, a tal punto da consentire (anche al di là delle intenzioni del suo autore) una lettura opposta a quella di Coupe.
[3] Cfr. T.S. Eliot, OPERE 1904-1939, trad. it., Milano, Bompiani, 1992, p. XXVIII.
[4] Cfr. R. Calasso, IL TERRORE DELLE FAVOLE, in I QUARANTANOVE GRADINI, Milano, Adelphi,1991.
[5] L. Coupe, cit., p. 24.
[6] Ibidem.
[7] Come nota puntualmente Ceserani: “la difficoltà a usare un termine come ‘modernismo’ e a preferire semmai ‘modernità’ o ‘il moderno’ deriva dal fatto che ‘modernismo’ ha avuto una sua ampia diffusione nella chiesa cattolica, applicato al movimento riformatore di fine Ottocento e primo Novecento promosso da Maurice Blondel, Alfred Loysi, George Tyrrel ed Ernesto Bonaiuti e sfociato nella condanna di Pio X con l’enciclica PASCENDI del 1907. Fra i più pronti a superare ogni remora e a introdurre anche in italiano il termine ‘modernismo’ sono stati gli anglisti” (R. Ceserani, RACCONTARE IL POSTMODERNO, Torino, Bollati Boringhieri, 1997, p. 17).
[8] C. Pavese, IL BALENIERE LETTERATO, in SAGGI LETTERARI, Torino, Einaudi, 1968, p. 84.
[9] Cfr. L. Coupe, cit., p. 60.
[10] R. Ceserani, RACCONTARE IL POSTMODERNO, cit., p. 104.
[11] Cfr. C. Pavese, IL MITO, in SAGGI LETTERARI, cit., p. 315.
[12] C. Pavese, DEL MITO, DEL SIMBOLO E D’ALTRO, in SAGGI LETTERARI, cit., p. 274.
[13] Ibidem, p. 273.
[14] Cfr. E. Gioanola, CESARE PAVESE. LA REALTÀ, L’ALTROVE, IL SILENZIO, Milano, Jaca Book, 2003.
[15] Cfr. P. Ricoeur, CONFERENZE SU IDEOLOGIA E UTOPIA (1986), trad. it., Milano, Jaca Book, 1994 (citato da L. Coupe, p. 70).
[16] L. Coupe, cit., pp. 27-28.
[17] POSTMODERNO E LETTERATURA. PERCORSI E VISIONI DELLA CRITICA IN AMERICA, a cura di P. Carravetta e P. Spedicato, Milano, Bompiani 1984, p. 31.
[18] G. Deleuze, LOGICA DEL SENSO (1969), trad. it., Milano, Feltrinelli, 2005, p. 16.
[19] Ibidem.
[20] L. Pirandello, L’UMORISMO (1908), Roma, Newton Compton, 1993.
[21] G. Deleuze, cit., p. 75.
[22] Ibidem, p. 74.
[23] Ibidem.
[24] Cfr. P. Ricoeur, IL CONFLITTO DELLE INTERPRETAZIONI, Milano, Jaca Book, 1977.
[25] U. Eco, POSTILLE A IL NOME DELLA ROSA, “Alfabeta”, 49, 1983, poi in appendice a IL NOME DELLA ROSA, Milano, Bompiani, 1987, p. 525.
[26] F. Capra, LA RETE DELLA VITA (1996), trad. it., Milano, Rizzoli, 2001, pp. 44-45.
[27] E. Morin, IL METODO 3. LA CONOSCENZA DELLA CONOSCENZA (1986), trad. it., Milano, Cortina, 2007, p. 189.
[28] Nonostante l’opinione dei sempre più numerosi “neo-oscurantisti” contemporanei che negano l’evoluzione, proprio in nome di una conoscenza che riabiliti il mito. Ricordiamo, inoltre, che un recente progetto di riforma della scuola italiana ha financo proposto l’eliminazione della teoria dell’evoluzione dai programmi scolastici.

21/03/09

Augustus Young, POLITICAL SURGERY IN REGGIO CALABRIA (FROM TALES FROM THE SIXTIES)

When I was a research student in the London Whitechapel hospital in the late nineteen sixties, the nails of both my forefingers were mangled while I was calibrating the snap power of people’s jaws. My subjects were patients in the local mental asylum. Their bite reflexes were not conditioned, something I felt I ought to approve of, being a believer in William Godwin, the anarchist.

The crunch sent my mind spinning back to Godwin’s distinction between governments and society. The Powers that Be lock us up in institutions to save us from yourselves. Society, on the other hand, if left alone, brings out the best in people. We release ourselves to promote happiness. The thought momentarily numbed the pain. But it did not mitigate the damage. I held my two fingers up to the light. The “terrible bite of necessity” (Montaigne), I decided, came from a hunger for which the Powers that Be were to blame. I resisted the temptation to bite back.

Next day I thought I had better save my hands from further damage. Jewish sweatshops in the high street were the best place to buy metal thimbles. I visited several, fascinated by the old world smells of wools, linen and silks, the brocaded upholstery and the threaded gold serpentine motif on the yarmulkes of the tailors, men of courtesy, who wore what seemed to me more like religious habits rather than overalls, and traded in little things worth only a few bob with the same ceremony as though I was buying the king elephant in the Procession of the Temple of the Tooth in Kandy.

Although you only need one thimble to protect the fingernails, I became a collector, and still have a box of silver thimbles with pointillist bubbles on the exterior and the smoothness of the Orient inside (checking them just now, I realise I have remembered this wrongly. The outside is peppered with little bibbles. Bumps would get in the way of the needle).

A few weeks after the “terrible bit of necessity”, I was backpacking in Southern Italy, my nails festered and the fingertips began to throb. In Reggio Calabria I bought a cutthroat razor and in my hotel room, sedated with whiskey, I cut the cuticles to drain the pus until the blood flowed. I remember the immediate relief of pain, and the blood on the carpet. The antibiotics I injected upset my stomach, and I could only keep down plain pasta for a week. Not the worst place in the world for it. I still live with the consequences of my amateur surgery. The nail of my left forefinger splits when I’m run down. The nail on the right is a perfect hypocrite.

19/03/09

Francesco Macciò, PILGRIMAGE


[Irish landscape: Sugarloaf. Foto di Marzia Poerio]


per Ilaria

La vita della bellezza è nella vita della poesia che si erge tra le macerie a difesa della bellezza e della vita


COME IN UN RACCONTO

Così amorosamente prova a dire
qualcosa che c’era prima,
quel dischiudersi in un gesto
come in un racconto che precede
un’intenzione da qualche parte
distratta... e così dolorosamente
non dire in un silenzio agguerrito
di una stagione inavvertita
e in un rifluire stanco questo
insonne prendersi di mira.



*****



TRACCIA

La leggerezza di un passaggio
che porta parole d’acqua
nel fragore di questa terra,
gli stessi volti silenziosi
che scivolano liquefatti,
ora che nel quadrante
scomposto della memoria
di tante voci discordanti
si complicano le presenze –
come nuvole che si dissolvono
riformandosi, ininterrottamente.



*****



C’ È UN PAESE

C’è un paese a nord di Vichy
di tavole imbandite e servitori
in costume che dicono ogni sera
che è tutto già prenotato,
ma non si vedono clienti
né cavalieri in quel luogo vuoto
e incarcerato. Nessuno per strada
solo la luce sempre rossa
di un semaforo e una voce
contraffatta sempre uguale
che dice a chi ha fretta di partire
e di fermarsi proprio come
non si fosse mai fermato
a chi vuole restare...
E poi gli uccelli, a centinaia
quegli uccelli neri, nubi dense
tra le braccia di un castagno
o forse di un guerriero possente
e disarmato, che rischiara
all’imbrunire una fontana
disseccata e una panchina
all’ingresso di un parcheggio.



*****



PAESAGGIO

Questi blocchi di roccia scarlatta
che i primi scampati agli Angli
e ai Sassoni chiamarono Ploumanac’h
come se dentro vi fosse l’aurora
e l’incanto perenne del mare
sono quanto rimane di un passaggio,
di una diaspora senza ritorno.
Sono, se anche noi non siamo,
terra e fuoco che non si consuma,
la parola che insiste
sempre sullo stesso oggetto
e lo racchiude esatta
in una consistenza che non dura.



*****



LOCRONAN

Non tutto si costruisce così
a lasse concatenate nello sguardo
come fosse possibile racchiudere
in esso una cornice di giardini
fioriti, di botteghe e case
antichizzate attorno a una piazza.
A scrutare meglio, restano
sulla scena il medioevo rifatto
di un suonatore di ghironda
addossato a un muro, un fondale
di campi abbandonati e alcuni
turisti orientali in primo piano,
appostàti proprio qui davanti
alla finestra della nostra stanza.



*****



SU UNA SPIAGGIA BRETONE

I granelli di sabbia a osservarli
attraverso lo zoom della telecamera
sembravano minuscoli tralicci
minerali, smisurate molecole
cristallizzate da custodire
in un barattolo di vetro.
Erano arrivati a Quiberon
da qualche sconosciuta terra atlantica.
Scorrevano lenti
nella clessidra della tua mano,
al primo assalto del vento
come bighe alate presero il volo.



*****



IRELAND

Abbiamo sorvolato il mare
d’Irlanda a quattromila metri
sfiorando sulle pagine di un baedeker
il nome di terre sconosciute,
avvolte dalle acque e dalle nebbie.
Poi a bassa quota lungo le anse
del fiume Shannon siamo scesi
assorti in quelle lande oscure.
Abbiamo navigato montagne,
distese corrugate di verde
fino a Glendalough di rocce sante
tra due laghi, fino a Inishmore
livida e deserta, ad altre isole
furiose masticate dall’Atlantico,
fino ai gabbiani giganti di Ireland’s
Eye, l’abbandonata-scogli muschiosi...



*****



DUBLIN

Nell’ultimo più veloce giro
di campo quel ragazzo solo
sfinito già oltre la mèta
quando al Trinity inseguivi
un frisbee in virata
tra i rami densi di un castagno
o il sibilo vuoto di un’acqua
un poco più lontana...
Lenta la Liffey a piccole vele
sotto l’arco di un ponte sospeso
quella sera, nel transitare
inerte dei bastimenti.



*****



PASSEGGIATA

Restava soltanto il nome di un luogo
e di chi doveva guidarci
a sud di Dublino, la Dart,
la sua ultima corsa per il ritorno
e un punto di incontro assordante
vicino alla stazione tra stelle
filanti sull’Esplanade e collanine
di nocciole colorate e sontuosi
cavalli bianchi ancorati a una giostra.
Sulla spiaggia di Bray,
quella domenica, la sabbia
era ruvida di ossa arcaiche
come pezzi di conchiglie
maciullate dal mare.



*****



COLLINSTOWN AIRPORT

Un’istantanea di noi due così
vicini in una sala di attesa
o forse sono altri due all’aeroporto
sfuocati in una stessa sorte,
se tutto si trasforma
nella dismisura di un ricordo.
Quel giorno in controluce
a strati profondi nella memoria,
quella partenza che si compie
nella durezza mite di un ritorno.



NOTA

I testi prendono spunto da due viaggi che ho fatto, il primo in ordine di tempo in Irlanda e il secondo in Bretagna.

Ploumanac’h, Locronan e Quiberon sono nomi di luoghi bretoni. Glendalough è il nome di un antico insediamento monastico in Irlanda; Inishmore e Ireland’s Eye sono rispettivamente i nomi della maggiore delle isole Aran e di un isolotto disabitato, non lontano da Dublino. Il Trinity è, naturalmente, il Trinity College di Dublino; la Liffey è il nome del fiume che attraversa la città. È chiamata Dart la metropolitana di Dublino, Esplanade la passeggiata a mare di Bray.

17/03/09

Marco Ercolani, CINQUE TESTI DA A SCHERMO NERO


[Image on a wall in Brussels. Foto di Marzia Poerio]







1. A FOLATE (François Truffaut parla del suo ultimo film, "Nouvel Observateur", 1978)

In fondo, anche se sono stati girati migliaia di film non si è mai fatto niente. Qualche capolavoro, forse. LA GRANDE ILLUSIONE, ROMA CITTA' APERTA. Ma nei capolavori non si respira bene. Li si ammira come padri, come monumenti.

I film veri sono imperfetti, sono come scherzare, viaggiare, fare all’amore. Come essere adolescenti. L’adolescenza è breve, finisce con la giovinezza. E la giovinezza si trasforma così presto… Ho lavorato spesso con attori ragazzi e bambini. Hanno una purezza straordinaria. Basta andare dietro i loro volti. Quando giro una storia con loro, quando trovo la finzione giusta, sono felice. Anche se il film è tragico, sono felice. Mostro la loro, la mia vita. Faccio all’amore con il loro presente… Scrivere un film è spendere parecchi soldi per mandare una lettera d’amore allo spettatore e parlare solo con lui. Nient’altro. Il cinema le conosce bene le leggi dell’amore: è libero, infedele, illogico, sentimentale. Ogni volta si comincia, si rischia il disastro, si va alla deriva, i vagoni scappano dalle rotaie, si tradisce la realtà per renderla reale, e dopo, quando sei sfinito, quando pensi di avere sbagliato tutto, il film è fatto. Eccolo, il mio ultimo. La camera verde. Chi si può identificare in Jules Davin? Nessuno! È piccolo, brutto, ha il culto dei morti, non parla che di loro. Ma quell’immagine! Tenere accese le candele, vive le fiamme nella cripta. Il cinema è questo prodigio: esseri giovani, accesi nella luce dello schermo, persone che ridono e amano, prive per sempre della facoltà di morire, reali per sempre agli occhi di spettatori presenti, passati e futuri. Ogni film è questa cosa dolce - una passeggiata, uno scherzo. Lo hai fatto, il pubblico lo guarda, e tu non sei più lui, non sei più con lui, gli attori se ne sono andati, i paesaggi sono spenti. Sei in pace, triste, come dopo aver fatto all’amore. Puoi poggiare la bicicletta, fermarti, stare sotto il pino, guardare le donne che passano. Che ridono ancora. Une partie de campagne. Bello quando ti arriva l’aria a folate, quando l’acqua del fiume si increspa. Sei libero per nuovi pensieri, per nuovi giochi. Per il piacere degli occhi.



2. LA TESTA CONTRO I MURI (Intervista al regista Georges Franju, 1983)

Ricorderò sempre quando mi chiedevano: "Ma perché proprio quel titolo? Perché La tête contre les murs? Che volgare!". Io rispondevo: "Il mio cinema lo è. Nello stesso anno in cui dirigevo Les yeux sans visage Jess Franco girava Gritos en la noche. E Jess, lo sapete, è un regista spagnolo di horror di serie Z".

[…]

Sì, le sang des bêtes. Ricordo che, in una sua recensione, un critico italiano lo rinominò Il sangue degli altri. Mi fece piacere. Le bestie che mangiamo tutti i giorni, che ci mettiamo tutti i giorni dentro il sangue e i tessuti del corpo, sono i veri altri che noi cannibalizziamo. Anche oggi c’è chi non riesce a tollerare il sangue dei vitelli sgozzati per come ho avvicinato l’obiettivo senza nessun pudore a quelle carni maciullate.

[…]

Mi hanno detto, a Mannheim, quando vinsi il premio per La prima notte, che ero un regista poetico, fra i migliori della mia generazione. Il bambino si innamora della bambina nel metrò, la sogna, la vede apparire in tutte le stazioni, scendere le scale, fissarlo dalle vetture, sorridere e tacere, come un’ossessione. Gli risposi che accettavo il giudizio, sempre che non mi classificasse tra quei registi lirici che usano il cinema come una protesi della letteratura.

Ho dedicato LA PRIMA NOTTE a tutti quelli che non hanno rinnegato l’infanzia. Io non l’ho mai fatto. È nell’infanzia che nascono le prime paure e le prime visioni. È in quel mondo, quando non si pensa a se stessi, quando siamo pensati, abbracciati, nutriti, chiamati dagli altri, è in quella felice pigrizia e in quella terribile solitudine che nascono le nostre immagini fondamentali, quelle a cui obbediremo per tutta la vita.

[…]

Quando vidi Simone Signoret nel 1971 (stava girando Le chat di Granier-Deferre con Jean Gabin), parlammo a lungo. Mi disse che se ne fotteva dei critici e degli intellettuali. "Ora sono grassa e vecchia", diceva, "e non mi interessa che il mio corpo sia un feticcio della giovinezza. Io sono una donna, non Marlène Dietrich. E mi piace lavorare con Jean, che è grasso e brutto come me. Insieme dimentichiamo Casco d’oro e Porto delle nebbie. Siamo due attori antipatici, due persone che si odiano e vivono in una casa di merda. Lui decide di non parlarmi più, dopo che gli ho ucciso il gatto. Mi scrive dei biglietti. In qualcuno scrive solo Le chat. Quando mi viene un colpo e stramazzo nella cucina e si accorge che muoio, allora si avvicina, mi dice il mio nome. Negli occhi di Jean vecchissimo si rivede l’amore! Il fottutissimo amore per me, vecchia e già morta".

[…]

Michel Simon mi confidava spesso: "I tuoi film mi piacciono. Non li riesco a classificare. Nel loro genere sembrano gialli o horror. Ma sono delle visioni. Vorrei poter girare qualcosa con te. Dopo Boudu salvato dalle acque e Panico non ho più girato un film che fosse adatto alla mia andatura. Mah, speriamo bene!".

[…]

La mia prima immagine? Un muro, una faccia, e poi, con la mdp, ci giro attorno, abbasso le luci, trasformo quella cosa precisa in un’apparizione inspiegabile, che conserva la concretezza della faccia o del muro. Ricordo Humprey Bogart, alla fine del Mistero del falco, che stringe la statua del falcone. Gli chiedono: "Ma di cosa è fatta?". E risponde: "Della materia dei sogni".

[…]

Sì, Charles Aznavour ha esordito come attore nella parte dell’epilettico in LA TETE CONTRE LES MURS. Mi piacciono i matti che possono sbatterti in faccia cose tremende, bestemmiare, distruggere le leggi del mondo con i loro deliri, ma che poi, essendo malati, sono immuni dalla crudele risposta del mondo che sbeffeggiano (a parte gli elettroshock, ma in quanti sopravvivono alle scariche!).

Ho sempre pensato che la malattia, per lo schizofrenico, fosse una finzione necessaria per esprimere certe idee per le quali esistono solo o l’ergastolo o la ghigliottina. Ho letto da qualche parte, di un certo John Perceval e delle sue allucinazioni. Avrei voluto girare un film dove fossero visibili le visioni di quel profeta. Protagonista qualche attore-maschera, come Barrault o Brasseur.

[…]

Ripeto: La testa contro i muri. Non c’è mai una testa contro un muro. Ma i muri sono tanti. È la testa che è sola, e ha bisogno di molti muri. Le note saranno sempre diverse. Lo sa anche la mdp.

[…]

Quanti giornalisti mi hanno detto che i miei film sono melodrammi alla Poe! Hanno ragione. Cosa c’è, di cinematograficamente significativo, in un chirurgo che cerca di cucire facce di ragazze morte per sostituire la faccia sfigurata della figlia? Nulla, direi, se non il cattivo gusto di rifare il mondo, come spesso pretendono i matti. Sfido asceti riservati come Bresson o adolescenti impetuosi come Truffaut a non averlo desiderato almeno una volta.

[…]

Adoro un film, sopra tutti gli altri. È IL BUCO di Jacques Becker. Non per il tema del tradimento, che alla fine manderà a puttane la fuga, ma per il lavoro ostinato dei carcerati che, durante tutto il film, vogliono trasformare la prigione in cui sopravvivono nel luogo desiderato della libertà. Bucano il muro. Non è questo il lavoro di ogni artista?



3. FUNERALE (Ricordi di Louis Bunuel, 1985)

Il meccanismo con cui si crea l’immagine, nel cinema, richiama il lavoro dello spirito durante il sonno. Il buio che invade a poco a poco a poco la sala equivale all’azione di chiudere gli occhi. È allora che comincia sullo schermo l’incursione notturna dell’inconscio; le immagini, come nel sogno, appaiono e scompaiono. Ne Il fascino discreto della borghesia avevo filmato una visione, che poi ho tagliato in fase di montaggio. Si vede un funerale, all’interno di una chiesa spagnola, enorme, opulenta. I partecipanti sono tutti vestiti con giacche e tailleur neri. La cerimonia si svolge in modo solenne. Dopo la benedizione della salma tutti escono fuori dalla chiesa e seguono il corteo. La macchina da presa si avvicina rapida ai singoli volti. Alcune guance svelano tracce di decomposizione. Un occhio è molle, verdastro. Il funerale prosegue. La mdp non smette di braccare alcuni visi, da cui pendono brandelli di pelle o emergono ossa. Le ultime parole, pronunciate dal sacerdote prima dell’interramento, sono sibilate dalla bocca di un teschio. Mi sembrava un ottimo scherzo, giusto per rilassare l’atmosfera. Ma il produttore si è opposto, ritenendo il pubblico incapace di capire il mio humour. Adesso che sono vecchio, l’idea mi sembra addirittura banale e cambierei tutto. Mi lasciassero ripensare e rimontare i miei film, nessuno vedrebbe una sola scena del Bunuel che conoscete.



4. SORDOCIECHI (Intervista a Werner Herzog, 1991)

Sì, ho girato un documentario sui sordociechi. Allora, venni accusato di voyeurismo. Secondo critici e giornalisti, avrei provato un piacere perverso nel rappresentare quei freaks, nell’esporli agli occhi dello spettatore come "creature" da circo. Ma era vero il contrario: io mi sentivo guardato dai loro occhi che non mi vedevano. Mi sono sempre chiesto: chi è il vero mostro? Il furibondo Aguirre nella barca piena di morti, invasa dalle scimmie? L’invasato Fitzcarraldo che fa issare la nave sulle montagne per costruire in Amazzonia il teatro dove canterà Caruso? O Herzog il superbo, che percorre a piedi metà Germania per vedere Lotte Elsner prima che muoia?

Io li conosco, i veri mostri. Sono quelli che ho evitato di conoscere girando questi film disperati. Quelli che fisserebbero con disprezzo l’alienato Bruno S., il timido Kaspar Hauser, il tenero Stroszek. Quelli che ci scivolano accanto nei bar, nei metrò, nelle banche, negli autobus, negli aerei, negli alberghi, nelle chiese. Se li guardi a lungo, perdi il desiderio di leggere libri o girare film o pensare pensieri, perché in loro esiste solo una perfetta compiacenza con il mondo in cui vivono e nel quale morranno, un mondo che non deve mai essere cambiato. C’è un film di John Ford, La pattuglia sperduta, dove i soldati vengono massacrati, del deserto, uno dopo l’altro, da un nemico invisibile. Uno dei pochi film americani dove non ci sono eroi, dove muoiono tutti, e non si vede e non si sente chi uccide e perché.
Anche oggi che detesto scrivere film, oggi che tutto appartiene al passato, mi restano loro, i sordociechi. Loro non sentono e non vedono. Possono toccarsi e raccontarsi storie con le unghie, con le dita, con le braccia, evitando fino all’ultimo l’ingombrante mondo visibile. Infelici, naturalmente, ma per qualcosa che per me, adesso, è una minima felicità, un sollievo dalla vita. La potenza di tacere.



5. FELICITA' (Riflessioni di Abbas Kariostami, 1999)

Ormai è un luogo comune. Mi intervistano come regista di SOTTO GLI ULIVI e mi parlano del piano-sequenza dell’ultima scena. Sembra che con l’immagine dei due innamorati, sempre più lontani nei prati in discesa, abbia incantato mezzo mondo. Ma una cosa la devo dire, oggi che siamo tra amici. Il mio intento era semplice. Io volevo soltanto indicare la differenza tra il parlare di dolori e l’essere felici. Si può parlare di cose tragiche, di povertà o di morte, faccia a faccia, sobbalzando per sentieri sassosi, dentro auto polverose. Così, come capita. La pena si allevia raccontando e raccontando ancora. Ma, quando arriva la gioia, quando due ragazzi si innamorano sul set di un film, io non ho il diritto di spiarli con la macchina. Anche se il loro amore è una finzione del film, fa lo stesso. Io li lascio liberi. Ecco perché non ho mosso la mdp. L’ho voluta ferma mentre loro correvano. Ho registrato il loro andarsene da soli, il loro godersi da soli la felicità, e ho voluto che voi, vedendo quella scena, faceste lo stesso. Un pudore non solo mio, che è diventato anche vostro. La felicità non ha mai testimoni, è segreta. Ho avuto quest’intuizione e avrei voluto che nessuno se ne accorgesse. Ma, ora che questa scena è celebre, il mio dovere è difenderne il vero significato.

15/03/09

Robinson Mistry, A FINE BALANCE


[The shop-window. (From the walls of Brussels). Foto di Marzia Poerio]


Robinson Mistry, A FINE BALANCE. Londra, Faber, 1995

A FINE BALANCE è un affresco di vita (introdotto da una citazione tratta da Balzac) degli strati sociali diseredati dell'India del dopoguerra, cui viene fatto riferimento tramite flashbacks mentre si narrano le storie intrecciate di vari personaggi, e soprattutto dell'ultimo periodo del governo di Indira Ghandi (the "Emergency"), nella seconda metà degli anni Settanta, delineato con toni critici pronunciati come un'era contraria alla democrazia, con denuncia della corruzione della polizia, derisione delle istituzioni giudiziarie e descrizione delle condizioni di povertà di larga parte della popolazione del subcontinente.

Tanto netta presa di posizione è data in una certa misura tramite la narrazione in terza persona, ma prevalentemente per mezzo di dialoghi e delle esperienze vissute dai protagonisti, tra i quali i principali sono Dina Dalal, Ishvar e Omprakash Darji, Maneck Kohlah. Appartenenti a caste diverse, si ritrovano tuttavia insieme, con rapporti interpersonali inizialmente difficili, ma sempre più di prossimità, nella casa di Dina, una Parsi non più benestante che mette in piedi una sartoria domestica per sbarcare il lunario, dando impiego, con merce da consegnare a una multinazionale, a Ishvar e Omprakash, appartenenti alla casta Chamaar e sfidanti della professione tradizionale di ciabattini della medesima, da cui si sono emancipati in quanto sarti.

La china di questi personaggi è in discesa. Ishvar e Omprakash muovono verso un impoverimento sempre più accentuato: soffrono le persecuzioni dei potenti nel paese di origine e, mutilati per vendetta, saranno costretti a mendicare in una corte dei miracoli non lontana dal crimine organizzato. La disperazione esistenziale porterà Maneck (studente pensionante a casa di Dina) a emigrare dapprima in Dubai, infine, al ritorno a Mumbai otto anni dopo, al suicidio. Dina sarà costretta a rinunciare alla propria indipendenza per tornare a vivere a casa del fratello che non ne ha compreso le motivazioni, piegandosi dunque.

Nonostante la tragicità degli avvenimenti narrati, il romanzo è scritto con fluidità che alleggerisce il peso dei contenuti; i dialoghi hanno brio e ironia; le situazioni dimostrano attenzione al paradossale; il destino è uno dei protagonisti; la concretezza terrena non demorde rispetto alla quotidianità dominante; la malafede viene esibita; tra gli argomenti affrontati ci sono anche le lotte interreligiose, le elezioni manipolate, la speculazione edilizia, le differenze di costumi e di geografie delle regioni dell'India.

Si tratta di un libro fortemente impegnato; di scorrevole lettura e di notevole impatto emotivo; che si appella al contempo alla ragione del fruitore del testo, affinché questi prenda coscienza e sia trasformato dall'esperienza della lettura.


[Roberto Bertoni]

13/03/09

Gian Paolo Ragnoli, BLACK ANGEL


[Figure. (From the walls of Dublin). Foto di Marzia Poerio]


Francia del sud, anni ‘70

Lo so, lo so, qualsiasi idiota potrebbe dire c’ero anch’io, le backing vocals sono basse nel mix e non si distinguono chiaramente. Non ho mai capito se fosse stata una scelta stilistica di Keith e di Jimmy Miller o fosse capitato per caso, registrando nelle cantine di casa di Keith invece che in uno di quegli studi pazzeschi che gli Stones si sarebbero potuti permettere.

Ma era un periodo strano, questo esilio francese, e il fatto che fossero quasi sempre quasi tutti strafatti contribuiva a dare alle cose un tocco surreale, a farti pensare che c’era un’accorta regia mentre invece le cose succedevano come al solito, come pare a loro, e noi stavamo lì a ricamarci sopra qualche disegno superiore, il tuo karma è negativo, amico, no , guarda, è solo che tu sei troppo fuori anche solo per capire l’espressione karma negativo, insomma dialoghi così, come un Corman girato a doppia velocità.

Comunque c’ero anch’io, secondo voi il testo su Angela Davis chi l’ha scritto?
Me ne stavo a Villefranche, guardavo il sole tramontare, bevevo Cote du Rhone, aspettavo l’estate come se questo significasse che stavo facendo qualcosa di sensato.
D’altra parte non mi capita quasi mai…



APPENDICE


NOTIZIA SU SWEET BLACK ANGEL(
(FROM KENO'S ROLLING STONES WEB SITE. ROLLING STONES LYRICS)

Mick Jagger wrote this song in support of Angela Davis, back when she was facing murder charges, using a text by Ted Malvern, a Nomansland poet friend of Gram Parsons who, in the Spring of '71, was living in the South of France, near the Keith's mansion where the Stones recorded the most of Exile on Main Street. The song was recorded in one night, from midnight to six, the night between 20 and 21 March, 1971, the first day of Spring. The song was later released on Exile On Main Street in 1972.
Lead Vocal & Harmonica: Mick Jagger Backing Vocals: Keith Richards, Gram Parsons, Ted Malvern Guitars: Keith Richards & Mick Taylor Bass: Bill Wyman Drums: Charlie Watts Marimbas: Richard "Didymus" Washington Percussion: Jimmy Miller


SWEET BLACK ANGEL (M. Jagger/K. Richards).

TRADUZIONE:

Ho appeso al muro un angelo nero
E' bella come un'attrice ma non è una star
E' una prigioniera politica
E' una sorella in catene
Perchè ha lottato per la libertà di tutti
I porci hanno tentato di piegarla
Ma non ci sono riusciti
Lei è un angelo nero
Non una schiava dei padroni
Sta contando i minuti
Sta contando i giorni
Aspetta di uscire per continuare la lotta
Liberiamo tutti i prigionieri del sistema
Liberiamo l'angelo nero
...


TESTIMONIANZA:

Questo testo lo scrissi di getto, per una rivista che usciva allora, "The Red Mole", la dirigeva Tariq Alì e la pagava Vanessa Redgrave. Un po' troppo trotzkista per i miei gusti, ma che "You can't always get what you want" l'avevo già imparato. Angela, Angela Davis si chiamava l'angelo nero, era davvero bella come una star, ma era una professoressa, insegnava all'Ucla e, non so come mai, era amica di Lebowski. Siamo usciti insieme qualche volta, la guardavano tutti ma anche starla a sentire non era male. Era stata assistente di Marcuse, sapeva un sacco di cose, era marxista, femminista, incazzata ma sapeva anche essere divertente. Le piaceva Jim, naturalmente, ma in quel periodo lui era troppo sballato anche solo per metterla fuoco correttamente sulla retina. Insomma, per farla breve c'era un'amica e una compagna in galera e si era creato un movimento di solidarietà intorno al suo caso, per cercare di tirarla fuori. Volevano appiopparle l'omicidio di un giudice, i porci.
Qualche tempo dopo ero nel sud della Francia, ad ammazzare il tempo a colpi di bottiglie di Cote du Rhone, quando a Villefranche incrociai in un caffè, La Fiancée du Pirate, Gram Parsons, che conoscevo dai tempi del giro folk, insieme a un tipo sconvolto che si presentò con impeccabile stile inglese, molto piacere, Keith Richards.

Keith aveva affittato una villa vicino a Villefranche e lì gli Stones stavano registrando il nuovo album, lontani dai guai londinesi, dal fisco, dagli arresti per droga, dal fantasma di Brian. Le cantine della villa erano state attrezzate a studio, c'erano Jimmy Miller, Andy e Glyn Johns, girava Robert Frank insieme a Dominique Tarlé, un fotografo francese che aveva fatto amicizia con gli Stones, e scattavano foto a tutti, Ian Stewart, Nicky Hopkins e un sacco di altri tizi erano pronti a suonare, in caso di bisogno. In realtà poi il vero "produttore" era Keith, anche se sempre strafatto quando era l'ora di suonare acquistava una lucidità sorprendente. Mick era spesso a Parigi, da Bianca, erano sposati da poco e lui sembrava più interessato alla sua vita privata che al disco da fare, ma alla fine arrivava in tempo per registrare la voce, un drink, un tiro e di nuovo via.
Una sera Keith suonava vecchi pezzi country con Gram, eravamo in giardino, stava cantando SEND MEBACK HOME di Merle Haggard. Mi unii al coro, cantammo un po' di vecchie cose, sapevano anche The Union Maid, Keith mi disse di aver sentito il Collettivo, una volta, bella voce quello col banjo, disse, ma mi sembra un po' strano. Detto da Keith Richards...

Arrivò anche Mick, appena tornato, come seguendo l'invito di Haggard. Tirò fuori una bottiglia di Chateau Latour, un sacchetto di Acapulco Gold (il ragazzo sapeva vivere, va detto), poi di colpo mi fissò e disse: ma non sei tu quello che ha scritto il testo su Angela Davis? Sì Mick, sono proprio io. Mick e Keith sembravano due a cui non fregasse assolutamente nulla del mondo esterno, ma ero già abbastanza vecchio da averne conosciuti altri che indossavano questa maschera di indifferenza come una corazza per difendersi dal dolore, dalle delusioni, dai tradimenti. Venne fuori che leggevano RED MOLE, ogni tanto la finanziavano, conoscevano Tariq e la sua banda di trotzkisti internazionalisti. Mi venne una delle rare buone idee della mia vita, dissi a Mick: "Hey, perchè non ci fai una canzone da quel testo? Avere gli Stones dalla nostra parte avrebbe un certo peso, non so se mi spiego". Avevo fumato troppo, cominciavo a sentirmi la testa pesante. Mick rispose: "chi lo sa, Ted, potrebbe anche darsi..." La notte dopo, a mezzanotte circa, Mick tirò fuori l'armonica e disse agli altri musicisti, gli Stones più Jimmy Miller e un altro percussionista, Didymus: "Bene, stasera facciamo un pezzo nuovo, da un'idea di Ted, l'amico di Gram. Voi due potete cantare, se sapete le parole", disse rivolto a noi, ridacchiando assieme a Keith.

Poi partì il pezzo. Se l'erano già studiata, era quasi perfetta. Alla seconda take entrammo nel coro anche io e Gram, la canzone avrebbe potuto non finire mai, era un momento di gioia condivisa, fuori dallo spazio e dal tempo.

La seconda take poi fu pubblicata su EXILE quindi lì ci sono anch'io, ma soprattutto di lì a poco Angela fu scarcerata.

La rividi anni dopo, ad un corteo contro una delle tante guerre americane. Le raccontai la storia di BLACK ANGEL, lei mi guardò e disse: "Ted, solo un anarchico piccolo borghese come te può pensare che mi abbiano liberato i Rolling Stones". Guardando la faccia da idiota che stavo facendo scoppiò a ridere e aggiunse: "Sei proprio scemo, Ted. Ti pare che direi sul serio una frase simile? Dai, andiamo a farci una birra, paghi tu, tanto sei amico degli Stones, sarai anche tu pieno di soldi..."

Dopo molti anni mi tornò in mente questa storia e la scrissi per una rivista diretta da un amico irlandese, "The Wild Rover". Pensavo fosse finita lì, ma pochi giorni dopo ricevetti una lettera da Villefranche, scritta da Madcap, un amico dei vecchi tempi.

Villefranche-sur-Mer (Alpes-Maritimes), le 3 juillet 2008

Mon vieux,

ça c'est vraiment bizarre! J'ai reçu ton message pendant que je
prenais mon pastis exactement au café de la Fiancée du Pirate de Villefranche: ça c'est un signe du destin incroyable.

Je suis de passage ici, en train de me déplacer vers l'Atlantique: j'ai un rendez-vous demain à La Rochelle avec un étrange type qui m'a promis des trucs très intéressants pour ma recherche sur le période vendéen de Simenon (je suis payé par l'Université de Liège, ça va sans dire).

J'ai passé tout la soirée de hier à parler du bon vieux temps avec Jannot, le patron du café, qui m'a montré quelque photo que lui avait donné Dominique à ce temps-là.

Dans la première série on voit Keith avec une incroyable chemise hawaiienne et Anita ravissante dans sa robe blanche au centre d'un bordel de camionettes, de caisses et de cartons: peut-être que c'etait le jour de l'arrivée du RS Mobile Unit chez Keith.
Dans la deuxième série on voit l'intérieur du café et ç'est facile de reconnaître Gram avec toi et une jolie femme qui rit avec vous (c'etait Tina Aumont, peut-être?).
Le lieu n'est pas trop changé, l'enseigne de la bière Pelforth est toujours là. Derrière le zinc, à coté de l'affiche de Manuel Amoros en maillot bleu, il y a un
exemplaire de Exile couvert de signatures (on peut lire très clairement: Ted, Charlie, Nicky...).

Merde, ça fait du mal aussi de se plonger dans le passé.

Bon, de toute façon ton message m'a fait vraiment plaisir. J'attends avec impatience ton nouveau livre à mon adresse bourguignon (6 rue Bocquillot, 89200 Avallon).

Nathalie t'embrasse bien fort. Le carton de chablis est toujours sur la rampe de lancement...

Hasta siempre,

Madcap

11/03/09

Lucetta Frisa, TRE INEDITI DA BASSO CONTINUO


[Laura Ford, Pesci uccelli]


1.

SHEHERAZADE (RIMSKI-KORSAKOFF)

su questo divano d’occidente
conversiamo la notte di poesia
non andare al lavoro domani
non lasciarmi qui sola
a scansarmi dal mondo e dal tempo
è solo una pausa lo so
per riprendere il filo dei suoni
dopo cena domani anche se
il violino ci prende in giro
ed ora per noi la dolcezza
ha venature d’ironia.
Siamo due acchiappavento
che si guardano fisso negli occhi
a sostenere
la gravità delle parole la terra
della nostra ostinazione
ma battendo i mobili
con le mani squillando
chiavi e campanelli
i toni diversi dei metalli
battendo i piedi sul pavimento
cambiando scarpe
scambiando carezze
spogliandoci
ecco il mondo degli uccelli
dentro la stanza e si canterà
si volerà
fino a…


2.

PUT THIS FIRE OUT (TONY CHILDS)

la casa è ancora intera
anche se quando esco dimentico dove sto andando
il cellulare l’appuntamento l’orologio li odio tutti
ma i muri stanno fermi
mi legano come cellule di un vaso.
Come bruciarlo?
Ho paura dei fiammiferi e delle candele impazzite.

Help me please to stop
This fear in motion
These circles turn me
Someone help me put this fire out
Yes they hurt me
Yes they turn me
Someone help me put this fire out.

La morte della casa per fuoco è innaturale:
che sprofondi
si unisca alla terra come sua creatura
un fiore marcio un’ala rotta
diventi quello che è già stata.

Innocence is lost on the small
Mama said early, early on
But what was visibile to me in my dreams
Is that the pain was all
I could ever see.

Mi commossi quando
la casa della strega si mise a bruciare.
Hansel e Gretel fuggivano via adulti.
Ma la strega chi era ? E la casa
c’era stata o no?


3.

ABÎME DES OISEAUX (OLIVIER MESSIAEN)

dalle prigioni
si guardano volare gli uccelli :
dentro di noi una stanza
sigillata al buio
non si apre.
In una parte della mente
altre leggi o nessuna,
altre terre senza acqua e ossigeno
fra nebulose.
È l’abisso degli uccelli?
Stanotte
nel cielo caldo
i punti delle stelle
sembrano mosche intorpidite
o uccelli in posa a luccicare
in un’altra gabbia.
Si suona nel lager ma nessuno vola
e quaggiù un velo di rete
ci allontana dall’orrore e noi
noi si aprirà le dita
per segnare l’ombra delle ali
nelle fosse del silenzio
perché gli uccelli la vedano.

09/03/09

Rossana Dedola, PERVERSIONI E RIGORI: LUCA RICCI

Luca Ricci, IL PIEDE NEL LETTO, Milano, Alacràn, 2005; L’AMORE E ALTRE FORME DI ODIO, Torino, Einaudi, 2006; LA PERSECUZIONE DEL RIGORISTA, Torino, Einaudi, 2008


Le due raccolte di brevi ma densissimi racconti di Luca Ricci pongono al centro la vita di coppia colta dal punto di vista di un protagonista maschile senza nome che in alcuni testi interviene in prima persona, in altri si nasconde dietro un anonimo Lui. Con drammatica essenzialità, nello spazio di poche pagine, viene dimostrato il fallimento della famiglia, del rapporto di coppia e addirittura del “sentirsi a casa”, una condizione che invece vorrebbe essere assunta come “normale”, se non addirittura come “ideale”.

C’È, ECCOME, il primo racconto de IL PIEDE NEL LETTO, si apre con l’attesa da parte della coppia “perfetta” dell’uomo dei servizi territoriali che ne deve valutare la capacità di adottare un bambino. Dietro la facciata di perfezione e felicità un indizio fa però avvertire sin da subito i toni stridenti che si celano dietro la musica armoniosa con cui il protagonista descrive il proprio rapporto con la moglie. La “punta di iceberg”, richiamata per indicare su quali sentimenti si basi il loro rapporto, mette in evidenza la presenza appena occultata di un sentimento altamente distruttivo. Un elemento di disturbo rivela anche il verbo usato per dimostare l’amore che dalla casa “trasuda”. In realtà, come apprendiamo nel giro di poche pagine, a “trasudare” nella casa è l’odore di sesso consumato in ossessiva promiscuità dai due coniugi per difendere un’idea altrettanto ossessiva di castità che si sono imposti per impedire al loro sentimento di spegnersi nello squallore della ripetizione quotidiana. È dunque una fuga dal rapporto di coppia compiuta proprio per salvare il rapporto di coppia, una fuga da casa paradossalmente intrapresa in casa propria.

Alcuni racconti della prima raccolta sono confluiti nel secondo libro, come quello che prende il titolo da un’espressione infantile usata per un dolce la cui bontà costringe il protagonista a una penosa competizione con l’ingordigia infantile:

“Allora presi il vassoio di paste sul mobile dei liquori e glielo misi davati. Due alla crema, due alla cioccolata, due alla nocciola, due cannoli e due meringhe.
- Quale preferisci di queste?
Le venne una smorfia, ma avrebbe voluto sorridere.
- Le cacche di Dio”.

Adulterio, promiscuità sessuale, infedeltà, tradimento, perversioni spinte sino all’incesto, incapacità di elaborare il lutto permettono una fuga che dovrebbe servire a rimandare la catastrofe e a interrompere, ma solo provvisoriamente, la monotonia della vita familiare. Il teatro messo in gioco è quello dei falsi sentimenti che nascono dai ruoli di marito, di padre in cui basta una perdita momentanea del controllo da parte della personalità che fa da facciata per far affiorare la parte peggiore di sé.

Le case sono teatro ma anche protagoniste dei drammi quotidiani che avvelenano l’esistenza dei loro abitanti; c’è quella con le moquetes troppo spesse in cui gli annoiati abitanti si lasciano affondare trascinati da un incontrollabile impulso orgiastico sotto gli occhi di una bambina, oppure quella con l’orribile carta da parati viola degli anziani genitori del protagonista che si ostinano a sembrare e sentirsi giovani. C’è l’appartamento senza la verandina che a causa di questa differenza crea una frattura insanabile nei rapporti con il vicinato.

Ma quello raccontato da Ricci non è un quotidiano a una sola dimensione: proprio una straordinaria capacità di mostrare da vicino la patologia della vita quotidiana, fa sì che dalla piattezza dei falsi sentimenti si precipiti di colpo in emozioni che portano i protagonisti a sprofondare nel tempo. Può trattarsi di frasi dette o sentite trent’anni prima che ritornano con tutta la loro straziante attualità a dimostrare che i rancori non vengono cancellati e le ferite non si rimarginano. Bruciante è la frase che in IL CASSONETTO riaffiora tra i due coniugi dopo tanti anni che stanno insieme, ma che un aborto voluto dal marito e subìto dalla moglie molto tempo prima ha separato sin da allora.

Oppure si tratta di imprevisti o fissazioni che mostrano all’improvviso il baratro sul quale la sicurezza della vita quotidiana è stata costruita. Si pensi a SUL BORDO, in cui veterinario e padrone del gatto osservano attoniti la gattina appena sterilizzata e ancora sotto l’effetto dell’anestesia che potrebbe cadere dal terrazzo, oppure il racconto MURALES in cui le scrostature che segnano il dipinto sulla parete della camera da letto sembrano indicare i problemi irrisolti della vita di coppia: “E poi c’era quel maledetto murales: la pancia della donna era venuta via, si era screpolata tutta. Un grande spazio bianco simboleggiava la macabra assenza del bambino” (p. 57).

Con LA PERSECUZIONE DEL RIGORISTA, Luca Ricci mette di nuovo il lettore a confronto con un personaggio inchiodato a un’idea fissa. Si tratta di un prete che, forse per punizione, è stato mandato dal vescovo in un paesino dell’Appennino. Sin dall’epigrafe l’attenzione del romanzo sembra indirizzarsi immediatamente sul tema della fede e del credo religioso con il riferimento all’incredulità di San Tommaso. “Non crederò”, dice Tommaso nel Vangelo di Giovanni, “se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi, se non metto la mano nel suo costato”. Tale dichiarazione di incredulità (“Io non ci credo”) è compiuta anche nel finale del romanzo dal protagonista che, ormai non più giovane, ha raggiunto un grado elevato nella gerarchia ecclesiastica, come mostra il crocifisso d’oro massiccio che si sistema sul lussuoso abito talare.

Ma qual è il “credo” che il maturo prelato mette in dubbio? Non crede che il contadino calciatore incontrato tanto tempo prima nel paesino in cui era stato mandato non abbia mai fallito un calcio di rigore. La persecuzione da parte del prelato nei suoi confronti si prefigge come scopo quello di costringere il rigorista a sbagliare almeno un tiro in porta dal dischetto.

Sembra trattarsi di una perversione al ribasso, come al ribasso appare il mondo provinciale nel quale il prete si trova a vivere. Attraverso uno stretto pertugio siamo introdotti in un mondo ristretto tra le sue poche case e i suoi pochi abitanti privi di nomi, come è privo di nome il protagonista. E come lui anch’essi appaiono fissati a dei ruoli: il farmacista, l’allenatore, il casellante.

Se il clima è vischioso, il paesaggio sembra finto. Il cielo appare come una cappa di piombo, un brutto tendaggio con le frange sfilacciate dalla pioggia chiude quel piccolo mondo in un orizzonte molto limitato; la notte sembra acciaccata dai lividi: “La notte diventa violacea, poi bluastra. La luna a poco a poco stinge, diventa un fossile, un’aureola invisibile”. Oltre che chiuso in limiti molto ristretti quel mondo appare addirittura come fossilizzato.

Appena arrivato, il giovane prete cerca di aprirsi un varco nella monotonia quotidiana con un gioco che potrebbe sembrare innocuo, ma per realizzarlo non esita a mettere in atto una serie di azioni di una gravità inaudita. Ben presto, il lettore si rende conto che l’incredulità del prete non riguarda solo l’infallibilità del rigorista, ma la stessa la fede, una fede che non ha mai avuto, come non crede in nessun ideale, pur ponendosi per gli altri come rappresentante della fede e come esempio di vita. Il suo non credere è costantemente e pericolosamente ostentato attraverso una continua dimostrazione di fede, una fede senza fede cui si accompagnano pensieri di odio, di noia, di sfrenata ambizione, di odio del sesso, e nello stesso tempo di accettazione palese e complice della pedofilia del “decreprito pretucolo” che si trova a servire.

Il lettore non coglie però solo i suoi peggiori pensieri segreti, ma lo segue in un susseguirsi di azioni malvage che provocano il male. Il prete si macchia delle peggiori colpe mentre predica il bene, fa finta di pregare per un Dio in cui non crede, sembra prendersi a cuore i problemi di un ritardato e compie insomma quei doveri pastorali di cui deve farsi carico un prete costretto a vivere per qualche mese nella provincia più profonda. Pur di portare a termine il proprio disegno persecutorio, il prete non esita infatti a rendersi colpevole di un delitto: l’uccisione del chierichetto vittima di un abuso sessuale a opera del prete più vecchio. L’omicidio compiuto a sangue freddo sarà seguito da una serie di altre gravissime azioni: è infatti lui a causare un suicidio, quello di un commissario in pensione che ha scoperto chi è l’autore del delitto, ma che sceglie il silenzio in cambio di un favore da parte del prete. Il prete inoltre istiga una donna a mettere in atto una seduzione mai portata a termine nei confronti del contadino calciatore in modo da confonderlo con un desiderio sessuale continuamente frustrato e renderlo così insicuro da fargli sbagliare un tiro. Non esita poi a indurre la stessa donna all’aborto quando si ritrova incinta di un altro. Infine mette in atto una trappola che coinvolge l’intera comunità rendendola complice di un’opera di corruzione con cui riesce a contagiarla.

Breve ma densissimo e molto largo questo romanzo di Luca Ricci, come sono larghi i racconti che raramente superano le quattro pagine, dove basta uno spiraglio per farci precipitare nel vuoto di una vita in cui l’anormalità, l’anomalia, la perversione servono proprio difendere la “falsa” normalità della propria vita familiare.

Qui siamo a confronto con una falsa vocazione, con un falso ministero, con un falso ministro di Dio che predica il bene mentre compie il male e che è destinato a far carriera e a raggiungere gli alti ranghi della Chiesa.

Viene in mente il personaggio più inquietante inventato da Leonardo Sciascia negli anni Settanta, don Gaetano di TODO MODO, il prete manager che crede fermamente che tutti sono colpevoli e che quindi non c’è alcun colpevole. E come don Gaetano che non esita a uccidere viene fermato nella catena delle causalità, così anche qui il prete non riesce ad attuare completamente il suo piano. Il contadino che non sbaglia un rigore dimostra infatti che c’è una forza che non cede alla bassezza.

Un altro calciatore, cui Giovanni Orelli aveva dedicato IL SOGNO DI WALACEK, aveva dimostrato come un vero gioco si possa opporre a un gioco perverso. La sua elevazione nel colpo di testa che segna il goal contro la nazionale di calcio nazista è visto da Orelli come la levitazione del santo. Il contadino che non sbaglia un rigore dimostra che esiste una grazia, una sacralità, una serietà che non cede all’impudico perpetuo schignazzo di chi non crede più in nulla. La bellezza dei suoi imbattibili tiri in porta afferma contro il gioco perverso del suo antagonista l’esistenza di una vocazione autentica.

07/03/09

Nicoletta De Boni, LA MISURA DEL TEMPO


[Detail from LA BARQUE DE L'IDEAL, 1907, by Constant Montald (Royal Museum of Fine Arts, Brussels). Foto di Marzia Poerio]


Con un colore che non sia il nero
è bene che ognuno disegni la propria sagoma.
Calcolarci oggi in larghezza e lunghezza
sul lenzuolo bianco
nelle prime ore rosate
di questa sera di primavera,
poi dentro la silenziosa macchia di luce
del nostro risveglio.
Tra le foglie gonfie d’acqua della veranda.
Poiché più tardi perderemo ogni traccia
e misura di noi
in gocce di rugiada
di un fresco mattino di fine estate
e nulla saremo se non trasparenze
una muta parola
lungo respiro.
Poiché non ci occuperemo delle pieghe del cotone,
né del meridiano del luogo nel buio della notte,
non avremo clessidre
quando con mani tese e sudate
proteggeremo gli occhi dal sole
e dalla nostra storia
e da queste bizzarre forme di un passato
scrupolosamente dipinto oltre la porta di casa.



Nicoletta De Boni è nata a Feltre, in provincia di Belluno. Vive a Barcellona, dove lavora come traduttrice, insegnante d’italiano e consulente editoriale.

05/03/09

Cristina Cona, PROFONDA SFIDUCIA E PIÙ PROFONDA FEDE. FENOGLIO, L’INGLESE, LA TRADUZIONE

Il QUADERNO DI TRADUZIONI è una raccolta di poesie inglesi e americane tradotte da Beppe Fenoglio e pubblicate da Einaudi nel 2000: un'iniziativa che ha permesso al pubblico di scoprire il grande scrittore piemontese sotto un nuovo aspetto, non solo interessante di per sé, ma anche fondamentale nella genesi della sua opera letteraria.

Nato nel 1922 ad Alba e prematuramente scomparso nel 1963, Fenoglio è noto per i suoi romanzi e racconti di vita partigiana (prese parte alla Resistenza nelle Langhe in una formazione badogliana in cui fungeva tra l'altro da ufficiale di coordinamento con le missioni alleate) e per le altre opere narrative ispirate al mondo contadino. A renderlo unico in quanto scrittore è però il rapporto molto particolare, che non ha paralleli nella letteratura italiana, con la lingua inglese e il mondo anglosassone: rapporto che risale ai tempi del liceo, quando il giovane Fenoglio, che come molti fra i suoi coetanei più sensibili avverte un acuto disagio psicologico di fronte alla volgarità e mediocrità dell'Italia fascista, scopre un mondo geograficamente lontano (e del resto da lui mai visitato, neanche nel dopoguerra) ma sentito come fonte alternativa di valori morali, spirituali, estetici (in PRIMAVERA DI BELLEZZA descriverà la propria anglofilia come "espressione del mio desiderio, della mia esigenza di un'Italia diversa, migliore"). Ad affascinarlo sono personaggi come Cromwell (uno dei suoi protagonisti si chiamerà Milton, come l'autore del PARADISO PERDUTO, ed egli sogna di essere un soldato dell'esercito puritano "con la Bibbia nello zaino e il fucile a tracolla") e autori come Shakespeare, Donne, Marlowe, Coleridge, T.S. Eliot.

Quest'identificazione con la cultura anglofona porterà Fenoglio ad utilizzare l'inglese in un certo senso come prima lingua letteraria, quella di cui si servirà come canovaccio ("linguaggio mentale", lo definisce Calvino; lingua "mediatrice dell'atto creativo", la Corti) dal quale ricavare successivamente il testo in italiano. La sua prima opera, PRIMAVERA DI BELLEZZA, viene ad esempio scritta inizialmente in inglese; non solo: secondo la testimonianza di Claudio Gorlier, le ampie parti tutte in inglese del suo capolavoro postumo, IIL PARTIGIANO JOHNNY, non avrebbero costituito soltanto una prima stesura da rendere successivamente in italiano, ma una formula definitiva, "una scelta al tempo stesso istintiva e meditata". Il rapporto dello scrittore con l'inglese è del resto per certi versi affine a quello da lui intrattenuto con il piemontese, anch'esso strumento espressivo immediato e spontaneo che, in testi come LA MALORA, sottende il periodare italiano e, "non limit[andosi] all'introduzione di forme lessicali, [....] investe la struttura stessa del periodo, la sua sintassi non solo logica, ma intima, psicologica" (G. Lagorio).

L'importanza del lavoro di traduzione (cui Fenoglio dedicò molte energie nel corso di tutta la sua esistenza) sta proprio nel suo essere ricerca di una lingua italiana anch'essa "diversa, migliore", una lingua aperta all'innovazione, libera dalle pastoie del "bello stile", dalle ampollosità e dalle pesanti incrostazioni retoriche ereditate dal passato, che gli consenta di sperimentare le soluzioni espressive più consone alle sue esigenze di narratore. Tradurre per lui è dunque un atto creativo, una sorta di tirocinio linguistico: "Tradurre quegli elementi linguistici e formali che più avevano colpito Fenoglio nella lingua originale (.....) lo stimolò alla riscoperta degli stessi elementi nella propria lingua e, quando non esistevano, lo spinse ad inventarli" (M. Pietralunga). Tradurre, come narrare, è anche una dura disciplina, una "esaltante fatica", un lavoro sofferto ed esigente: "Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti. Scrivo with a deep distrust and a deeper faith".

"Ricercatore della parola", "artigiano dello stile", Fenoglio perviene così ad una prosa limpida ed essenziale, rinvigorita da una stupefacente inventività (e, anche, imprevedibilità) lessicale, da una grande libertà (conquistata, come si è visto, a prezzo di un severo apprendimento) nell'esplorazione delle possibilità creative offerte dalla lingua italiana, o in essa importate mediante un paziente lavoro di "estrazione" e affinamento delle risorse cui può attingere l'inglese. È significativo a tale proposito che Fenoglio si senta particolarmente attirato da autori, come Gerard Manley Hopkins e Coleridge, o come i drammaturghi dell'Irish Literary Revival, che non hanno imitato nessuno, hanno dato vita ad uno stile originale e, così facendo, hanno profondamente rinnovato la propria tradizione letteraria. Di Hopkins, ad esempio, Fenoglio ammira lo stile "da splendido isolato, da artista senza maestri e senza allievi", e nella BALLATA DEL VECCHIO MARINAIO di Coleridge, da lui tradotta nel 1955, egli rileva "l'inventività e l'equilibrio del linguaggio. Dimensione popolare [....] significa qui sblocco di un chiuso linguaggio e liquidazione di una retorica sedimentata".

Da questo lavoro, che lungi dall'essere mera traduzione può essere definito una vera e propria comunione spirituale con gli autori da lui amati, Fenoglio trae dunque "l'idea, tutta sua, di una lingua non grammaticalizzata, duttile, scomponibile e ricomponibile, nei suoi elementi costitutivi, con estrema mobilità" (D. Isella). I risultati personalissimi e geniali da lui ottenuti non devono comunque farci dimenticare che la sua ricerca, con le esigenze di rinnovamento anche morale che la sottendono, si inserisce in un filone di rinascita del linguaggio letterario attraverso la traduzione che ha avuto come esponenti di spicco anche Calvino e Pavese. Scrive a questo proposito il critico Mark Pietralunga: "Dedicandosi con passione all'atto del tradurre, Pavese e Fenoglio cercarono di opporsi alla pigrizia mentale che Calvino notava tra i suoi colleghi romanzieri nel loro uso d'un linguaggio quanto mai prevedibile e insipido" e che spingeva Pavese a consigliare ai giovani esordienti di tradurre il più possibile. Le doti che Calvino attribuiva al buon traduttore ("agilità, sicurezza di scelta lessicale, senso dei vari livelli linguistici, intelligenza insomma di stile") sono il fondamento stesso di ogni vocazione letteraria. "Potremmo dire che il minor impegno degli scrittori giovani verso la parola e le più rare vocazioni di traduttore sono facce dello stesso fenomeno". Fenoglio, lo scrittore italiano che sentiva di esprimersi con più agio in inglese, ha lasciato in questo senso un'eredità che ancora oggi non può certo considerarsi esaurita.


Fonti:

C. Gorlier, FENOGLIO: I MAESTRI INGLESI DEL PARTIGIANO JOHNNY, La Stampa, 28-10-2000

G. Lagorio, BEPPE FENOGLIO, Venezia, Marsilio, 1998

M. Pietralunga, Introduzione a: B. Fenoglio, QUADERNO DI TRADUZIONI, Torino, Einaudi, 2000

M. Pietralunga, DUE SCRITTORI PIEMONTESI E L'ARTE DEL TRADURRE, sul sito: tell.fll.purdue.edu/RLA-Archive/1993/ Italian-pdf/Pietralunga,Mark.pdf

E. Saccone, BEPPE FENOGLIO, Einaudi, Torino 1988


L’articolo, riprodotto col consenso dell’autrice, è apparso in precedenza sulla rivista ”Inter@lia”.

03/03/09

Caio Cosimo Sbeo, IL PATTO SEGRETO (FANTAGENESI DI UN RACCONTO FANTASTICO)


[The theatre of fantasy. (From the walls of Brussels). Foto di Marzia Poerio]


Il campanile aveva da poco rintoccato le nove, quando F. s’era alzato dalla tavola di famiglia e, senza una parola, s’era ritirato nella propria camera. La cena non era stata delle più serene: una banalità, il rifiuto di una pietanza, aveva offerto al padre il pretesto per l’ennesima scenata, alla quale F., come al solito, non aveva saputo opporre alcuna difesa. Ora, seduto alla scrivania, si sforzava di distrarsi leggendo. Ma invano: gli occhi scivolavano via dalla pagina e la mente tornava là, in sala da pranzo, a quelle velenose accuse; e le ripeteva, le discuteva, si provava a confutarle, opponendo una quantità di obiezioni ormai del tutto inutili. In fondo a quel vano soliloquio - lo sapeva bene - v’era ad attenderlo un’amara, ineludibile ammissione di impotenza.

Si scosse. Che valeva tormentarsi, macerarsi nel rancore? Doveva reagire, piuttosto; doveva vincere la paura e dimostrare al padre che non era un debole, che era in grado di difendersi; e di contrattaccare. Sapeva di possedere un’arma efficace, la scrittura, che da anni esercitava con impegno forse eccessivo: la scrittura, dunque, avrebbe usato come mezzo per la sua replica! Ripose il libro e si mise a rovistare fra le carte della scrivania. Il diario si trovava sotto l’ultimo numero del “Kunstwart”; F. lo tirò a sé, lo aprì, lesse le poche righe scritte due giorni prima, e voltò risolutamente pagina. Passò in rassegna i generi narrativi che più si addicevano al suo scopo e scelse la forma del racconto breve. Doveva congegnare la finzione in modo tale da lasciar ben riconoscibili, sotto una trama di analogie e metafore, i riferimenti al conflitto col padre. Certo, non era cosa da nulla; ma sentiva che ci sarebbe riuscito. Avrebbe quindi aggiunto il racconto agli altri che già Rowohlt aveva accettato di stampare; poi, una volta pubblicato, gli sarebbe stato facile far girare per casa il libro, e presto o tardi il padre l’avrebbe sicuramente letto… E allora avrebbe capito - oh sì, avrebbe ben inteso ciò che c’era da intendere! E per giunta non avrebbe potuto replicare, poiché dichiararsi destinatario di quelle pagine avrebbe significato ammettere implicitamente tutto ciò che in esse era scritto -!

Presto si convinse che quella era la strada da percorrere; e giurò a sé stesso che l’avrebbe percorsa: fino in fondo! Una colpa ingiusta e un’ingiusta condanna: su questi motivi doveva sorgere il racconto! Già sognava di comporre qualcosa di grande, di immutabile; qualcosa degno di Kleist, di Flaubert, di Dostoevskij...

Il fastidioso biancore della pagina vuota lo precipitò bruscamente nella realtà: come accendere il “fuoco” per un simile racconto? Come raggiungere “l’inferno degli scrittori veri”? Avrebbe giusto dovuto essere Kleist, o Flaubert, o Dostoevskij; e invece si sentiva poco più di un dilettante, autore di pagine effimere - poche prose incompiute che non si stancava mai di emendare -. C’era bisogno di uno spunto adeguato, di un’idea feconda, in grado di sostenere un intreccio valido e, nel contempo, di promuovere l’allusione... ma dove, dove trovare una simile idea?

Forse, a ben pensare, non doveva cercar troppo lontano. Proprio a tavola, ad esempio, mentre il padre lo insultava, aveva avuto l’impressione che sotto la finestra della sala si stesse radunando una moltitudine di individui; li aveva immaginati avvicinarsi ad uno ad uno in silenzio - disporsi spalla a spalla sulla pubblica via fino a riempirla per intero - ...

Che strana fantasia! Quale significato poteva mai celare? Chi erano quelle persone? Solo dei curiosi? Erano convenuti per accusarlo, o per sostenere la sua difesa? Ma allora, perché restavano immobili a guardare? Perché nessuno si faceva avanti? Sarebbe intervenuto qualcuno, se la fantasia avesse avuto seguito?

Provò a svolgere quella fantasia. Serrò gli occhi, si sforzò di muovere la scena con la mente, si concentrò con impegno, fece vari tentativi. Inutili. Tutto si fermava lì, a quella folla muta, enigmatica, pietrificata davanti alla finestra. Dovette desistere; con un gemito, allontanò il quaderno e si rilasciò vinto sulla sedia. Nella penombra della stanza, a tratti rischiarata dai lampi di un temporale, il sordo rintocco della pendola cadenzava l’incessante scrosciare della pioggia. F. volse lo sguardo intorno. Sullo scaffale era posto un calco ingiallito che raffigurava una menade senza testa. A lato del calco, due libri: un ANTICO TESTAMENTO in pelle nera e un’edizione economica del FAUST. Li dispose l’uno accanto all’altro, sulla scrivania. Indugiò le dita sui rilievi miniati dell’ANTICO TESTAMENTO, sui bordi, sul taglio; poi fermò la mano sulla copertina liscia del FAUST. Chiuse gli occhi, e come in trance così parlò al proprio demone: “Sono pronto ad affrontare qualsiasi prova”, disse, “pronto a sopportare qualsiasi sofferenza, a rinunciare ad ogni gioia, ad ogni affetto, ad accettare la malattia più dolorosa, la morte più orribile... Tanto ti offro, e questo ti chiedo: fa’ che stanotte escano dalla mia penna parole che sappiano farsi leggere da ogni uomo; e fa’ che possa vivere per sempre in loro, io che non un istante riesco a vivere in me stesso!”

Con questa atroce ammissione ebbe termine la supplica; ma non il delirio: s’irrigidì, le mani strette al FAUST, come invocando una risposta. Un lampo improvviso rischiarò la stanza; lo seguì un tuono poderoso. In quel segno, F. ravvisò la risposta affermativa del demone invocato. Nella febbre mormorò un debole danke; quindi crollò stremato in un sonno profondo, liberatorio, brevissimo.

Lo destarono i rintocchi del campanile: le dieci. Stropicciò gli occhi, smarrito. Vide l’ANTICO TESTAMENTO a terra: nel cadere, s’era aperto sulle prime pagine. Si chinò per raccoglierlo, ma lo fecero esitare due minuscole stampe, che illustravano il capitolo ventiduesimo della GENESI. Nella prima, Abramo, rivolto al cielo, riceve l’ordine divino che condanna Isacco; nella seconda, Isacco dispone con il padre l’altare per il sacrificio.

Chino sul pavimento, F. fermò gli occhi intorpiditi su questa seconda immagine; vi trattenne pensoso lo sguardo. Per un istante, per un magico istante, vide nel volto di Abramo il volto del padre, nel volto di Isacco il suo proprio volto; e a questa visione si aggiunse la precedente immagine della folla; e a quest’immagine ancora seguì una miriade di vorticose immagini, come in un caleidoscopio in cui le forme, pur sovrapponendosi l’una all’altra, permangano tutte singolarmente percettibili. Rivide gli occhi sottili di Isaak, l’amico attore emigrato a Berlino; rivide il timido sorriso della signorina Bauer, di cui era già segretamente innamorato; rivide Max e il suo buffo gesticolare; rivide Oskar, e Felix e Otto...

Nella sua mente scattò qualcosa. Colto da repentina determinazione si levò alla scrivania, tirò a sé il diario, impugnò risoluto la penna, e cominciò a scrivere: “Era una splendida mattina di primavera…”

E continuò, come in estasi, senza pause, rileggendo raramente, correggendo quasi mai, fino a che il racconto, un buon numero di pagine avanti, non fu terminato. Infine, soddisfatto, sbadigliò e spense la lampada, che ormai non serviva più, perché fuori s’era fatto chiaro: aveva scritto per tutta la notte, otto ore consecutive! Avrebbe ricordato il giorno dopo, in un commento poscritto al racconto: “Non riuscivo quasi a trarre da sotto la scrivania le gambe irrigidite dallo star seduto”; e ancora: “Sforzo spaventevole e gioia veder svolgersi davanti a me la narrazione e procedere come navigando in un mare”; ed infine, con rinnovata enfasi: “Tutto si può osare, per tutti: per le più remote idee è pronto un fuoco nel quale incessantemente muoiono e risorgono...”

F. mai fece menzione - non nel diario, né altrove - del patto con il demone. Forse confuse l’episodio con le sterili fantasie che lo avevano preceduto; forse pensò d’averlo sognato, oppure, semplicemente, se ne dimenticò… Ma non se ne dimenticò il demone, che non mancò di tener fede all’impegno assunto: riservò infatti a F. una vita di dolore, minata anzitempo da un male incurabile, che lo condusse in pochi anni a una morte fra le più strazianti. Per contro, dispose che le pagine da lui scritte in quella vertiginosa nottata potessero sopravvivergli nel tempo, e per sempre durassero nella memoria dell’umanità.

Quelle pagine compongono il racconto che ha titolo DAS URTEIL (LA CONDANNA), scritto nella notte fra domenica 22 e lunedì 23 settembre 1912 in un appartamento della Niklasstrasse di Praga. Il loro autore - o, al demone credendo, il loro estensore - risponde al nome, indelebile, di Franz Kafka.