17/03/09

Marco Ercolani, CINQUE TESTI DA A SCHERMO NERO


[Image on a wall in Brussels. Foto di Marzia Poerio]







1. A FOLATE (François Truffaut parla del suo ultimo film, "Nouvel Observateur", 1978)

In fondo, anche se sono stati girati migliaia di film non si è mai fatto niente. Qualche capolavoro, forse. LA GRANDE ILLUSIONE, ROMA CITTA' APERTA. Ma nei capolavori non si respira bene. Li si ammira come padri, come monumenti.

I film veri sono imperfetti, sono come scherzare, viaggiare, fare all’amore. Come essere adolescenti. L’adolescenza è breve, finisce con la giovinezza. E la giovinezza si trasforma così presto… Ho lavorato spesso con attori ragazzi e bambini. Hanno una purezza straordinaria. Basta andare dietro i loro volti. Quando giro una storia con loro, quando trovo la finzione giusta, sono felice. Anche se il film è tragico, sono felice. Mostro la loro, la mia vita. Faccio all’amore con il loro presente… Scrivere un film è spendere parecchi soldi per mandare una lettera d’amore allo spettatore e parlare solo con lui. Nient’altro. Il cinema le conosce bene le leggi dell’amore: è libero, infedele, illogico, sentimentale. Ogni volta si comincia, si rischia il disastro, si va alla deriva, i vagoni scappano dalle rotaie, si tradisce la realtà per renderla reale, e dopo, quando sei sfinito, quando pensi di avere sbagliato tutto, il film è fatto. Eccolo, il mio ultimo. La camera verde. Chi si può identificare in Jules Davin? Nessuno! È piccolo, brutto, ha il culto dei morti, non parla che di loro. Ma quell’immagine! Tenere accese le candele, vive le fiamme nella cripta. Il cinema è questo prodigio: esseri giovani, accesi nella luce dello schermo, persone che ridono e amano, prive per sempre della facoltà di morire, reali per sempre agli occhi di spettatori presenti, passati e futuri. Ogni film è questa cosa dolce - una passeggiata, uno scherzo. Lo hai fatto, il pubblico lo guarda, e tu non sei più lui, non sei più con lui, gli attori se ne sono andati, i paesaggi sono spenti. Sei in pace, triste, come dopo aver fatto all’amore. Puoi poggiare la bicicletta, fermarti, stare sotto il pino, guardare le donne che passano. Che ridono ancora. Une partie de campagne. Bello quando ti arriva l’aria a folate, quando l’acqua del fiume si increspa. Sei libero per nuovi pensieri, per nuovi giochi. Per il piacere degli occhi.



2. LA TESTA CONTRO I MURI (Intervista al regista Georges Franju, 1983)

Ricorderò sempre quando mi chiedevano: "Ma perché proprio quel titolo? Perché La tête contre les murs? Che volgare!". Io rispondevo: "Il mio cinema lo è. Nello stesso anno in cui dirigevo Les yeux sans visage Jess Franco girava Gritos en la noche. E Jess, lo sapete, è un regista spagnolo di horror di serie Z".

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Sì, le sang des bêtes. Ricordo che, in una sua recensione, un critico italiano lo rinominò Il sangue degli altri. Mi fece piacere. Le bestie che mangiamo tutti i giorni, che ci mettiamo tutti i giorni dentro il sangue e i tessuti del corpo, sono i veri altri che noi cannibalizziamo. Anche oggi c’è chi non riesce a tollerare il sangue dei vitelli sgozzati per come ho avvicinato l’obiettivo senza nessun pudore a quelle carni maciullate.

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Mi hanno detto, a Mannheim, quando vinsi il premio per La prima notte, che ero un regista poetico, fra i migliori della mia generazione. Il bambino si innamora della bambina nel metrò, la sogna, la vede apparire in tutte le stazioni, scendere le scale, fissarlo dalle vetture, sorridere e tacere, come un’ossessione. Gli risposi che accettavo il giudizio, sempre che non mi classificasse tra quei registi lirici che usano il cinema come una protesi della letteratura.

Ho dedicato LA PRIMA NOTTE a tutti quelli che non hanno rinnegato l’infanzia. Io non l’ho mai fatto. È nell’infanzia che nascono le prime paure e le prime visioni. È in quel mondo, quando non si pensa a se stessi, quando siamo pensati, abbracciati, nutriti, chiamati dagli altri, è in quella felice pigrizia e in quella terribile solitudine che nascono le nostre immagini fondamentali, quelle a cui obbediremo per tutta la vita.

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Quando vidi Simone Signoret nel 1971 (stava girando Le chat di Granier-Deferre con Jean Gabin), parlammo a lungo. Mi disse che se ne fotteva dei critici e degli intellettuali. "Ora sono grassa e vecchia", diceva, "e non mi interessa che il mio corpo sia un feticcio della giovinezza. Io sono una donna, non Marlène Dietrich. E mi piace lavorare con Jean, che è grasso e brutto come me. Insieme dimentichiamo Casco d’oro e Porto delle nebbie. Siamo due attori antipatici, due persone che si odiano e vivono in una casa di merda. Lui decide di non parlarmi più, dopo che gli ho ucciso il gatto. Mi scrive dei biglietti. In qualcuno scrive solo Le chat. Quando mi viene un colpo e stramazzo nella cucina e si accorge che muoio, allora si avvicina, mi dice il mio nome. Negli occhi di Jean vecchissimo si rivede l’amore! Il fottutissimo amore per me, vecchia e già morta".

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Michel Simon mi confidava spesso: "I tuoi film mi piacciono. Non li riesco a classificare. Nel loro genere sembrano gialli o horror. Ma sono delle visioni. Vorrei poter girare qualcosa con te. Dopo Boudu salvato dalle acque e Panico non ho più girato un film che fosse adatto alla mia andatura. Mah, speriamo bene!".

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La mia prima immagine? Un muro, una faccia, e poi, con la mdp, ci giro attorno, abbasso le luci, trasformo quella cosa precisa in un’apparizione inspiegabile, che conserva la concretezza della faccia o del muro. Ricordo Humprey Bogart, alla fine del Mistero del falco, che stringe la statua del falcone. Gli chiedono: "Ma di cosa è fatta?". E risponde: "Della materia dei sogni".

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Sì, Charles Aznavour ha esordito come attore nella parte dell’epilettico in LA TETE CONTRE LES MURS. Mi piacciono i matti che possono sbatterti in faccia cose tremende, bestemmiare, distruggere le leggi del mondo con i loro deliri, ma che poi, essendo malati, sono immuni dalla crudele risposta del mondo che sbeffeggiano (a parte gli elettroshock, ma in quanti sopravvivono alle scariche!).

Ho sempre pensato che la malattia, per lo schizofrenico, fosse una finzione necessaria per esprimere certe idee per le quali esistono solo o l’ergastolo o la ghigliottina. Ho letto da qualche parte, di un certo John Perceval e delle sue allucinazioni. Avrei voluto girare un film dove fossero visibili le visioni di quel profeta. Protagonista qualche attore-maschera, come Barrault o Brasseur.

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Ripeto: La testa contro i muri. Non c’è mai una testa contro un muro. Ma i muri sono tanti. È la testa che è sola, e ha bisogno di molti muri. Le note saranno sempre diverse. Lo sa anche la mdp.

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Quanti giornalisti mi hanno detto che i miei film sono melodrammi alla Poe! Hanno ragione. Cosa c’è, di cinematograficamente significativo, in un chirurgo che cerca di cucire facce di ragazze morte per sostituire la faccia sfigurata della figlia? Nulla, direi, se non il cattivo gusto di rifare il mondo, come spesso pretendono i matti. Sfido asceti riservati come Bresson o adolescenti impetuosi come Truffaut a non averlo desiderato almeno una volta.

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Adoro un film, sopra tutti gli altri. È IL BUCO di Jacques Becker. Non per il tema del tradimento, che alla fine manderà a puttane la fuga, ma per il lavoro ostinato dei carcerati che, durante tutto il film, vogliono trasformare la prigione in cui sopravvivono nel luogo desiderato della libertà. Bucano il muro. Non è questo il lavoro di ogni artista?



3. FUNERALE (Ricordi di Louis Bunuel, 1985)

Il meccanismo con cui si crea l’immagine, nel cinema, richiama il lavoro dello spirito durante il sonno. Il buio che invade a poco a poco a poco la sala equivale all’azione di chiudere gli occhi. È allora che comincia sullo schermo l’incursione notturna dell’inconscio; le immagini, come nel sogno, appaiono e scompaiono. Ne Il fascino discreto della borghesia avevo filmato una visione, che poi ho tagliato in fase di montaggio. Si vede un funerale, all’interno di una chiesa spagnola, enorme, opulenta. I partecipanti sono tutti vestiti con giacche e tailleur neri. La cerimonia si svolge in modo solenne. Dopo la benedizione della salma tutti escono fuori dalla chiesa e seguono il corteo. La macchina da presa si avvicina rapida ai singoli volti. Alcune guance svelano tracce di decomposizione. Un occhio è molle, verdastro. Il funerale prosegue. La mdp non smette di braccare alcuni visi, da cui pendono brandelli di pelle o emergono ossa. Le ultime parole, pronunciate dal sacerdote prima dell’interramento, sono sibilate dalla bocca di un teschio. Mi sembrava un ottimo scherzo, giusto per rilassare l’atmosfera. Ma il produttore si è opposto, ritenendo il pubblico incapace di capire il mio humour. Adesso che sono vecchio, l’idea mi sembra addirittura banale e cambierei tutto. Mi lasciassero ripensare e rimontare i miei film, nessuno vedrebbe una sola scena del Bunuel che conoscete.



4. SORDOCIECHI (Intervista a Werner Herzog, 1991)

Sì, ho girato un documentario sui sordociechi. Allora, venni accusato di voyeurismo. Secondo critici e giornalisti, avrei provato un piacere perverso nel rappresentare quei freaks, nell’esporli agli occhi dello spettatore come "creature" da circo. Ma era vero il contrario: io mi sentivo guardato dai loro occhi che non mi vedevano. Mi sono sempre chiesto: chi è il vero mostro? Il furibondo Aguirre nella barca piena di morti, invasa dalle scimmie? L’invasato Fitzcarraldo che fa issare la nave sulle montagne per costruire in Amazzonia il teatro dove canterà Caruso? O Herzog il superbo, che percorre a piedi metà Germania per vedere Lotte Elsner prima che muoia?

Io li conosco, i veri mostri. Sono quelli che ho evitato di conoscere girando questi film disperati. Quelli che fisserebbero con disprezzo l’alienato Bruno S., il timido Kaspar Hauser, il tenero Stroszek. Quelli che ci scivolano accanto nei bar, nei metrò, nelle banche, negli autobus, negli aerei, negli alberghi, nelle chiese. Se li guardi a lungo, perdi il desiderio di leggere libri o girare film o pensare pensieri, perché in loro esiste solo una perfetta compiacenza con il mondo in cui vivono e nel quale morranno, un mondo che non deve mai essere cambiato. C’è un film di John Ford, La pattuglia sperduta, dove i soldati vengono massacrati, del deserto, uno dopo l’altro, da un nemico invisibile. Uno dei pochi film americani dove non ci sono eroi, dove muoiono tutti, e non si vede e non si sente chi uccide e perché.
Anche oggi che detesto scrivere film, oggi che tutto appartiene al passato, mi restano loro, i sordociechi. Loro non sentono e non vedono. Possono toccarsi e raccontarsi storie con le unghie, con le dita, con le braccia, evitando fino all’ultimo l’ingombrante mondo visibile. Infelici, naturalmente, ma per qualcosa che per me, adesso, è una minima felicità, un sollievo dalla vita. La potenza di tacere.



5. FELICITA' (Riflessioni di Abbas Kariostami, 1999)

Ormai è un luogo comune. Mi intervistano come regista di SOTTO GLI ULIVI e mi parlano del piano-sequenza dell’ultima scena. Sembra che con l’immagine dei due innamorati, sempre più lontani nei prati in discesa, abbia incantato mezzo mondo. Ma una cosa la devo dire, oggi che siamo tra amici. Il mio intento era semplice. Io volevo soltanto indicare la differenza tra il parlare di dolori e l’essere felici. Si può parlare di cose tragiche, di povertà o di morte, faccia a faccia, sobbalzando per sentieri sassosi, dentro auto polverose. Così, come capita. La pena si allevia raccontando e raccontando ancora. Ma, quando arriva la gioia, quando due ragazzi si innamorano sul set di un film, io non ho il diritto di spiarli con la macchina. Anche se il loro amore è una finzione del film, fa lo stesso. Io li lascio liberi. Ecco perché non ho mosso la mdp. L’ho voluta ferma mentre loro correvano. Ho registrato il loro andarsene da soli, il loro godersi da soli la felicità, e ho voluto che voi, vedendo quella scena, faceste lo stesso. Un pudore non solo mio, che è diventato anche vostro. La felicità non ha mai testimoni, è segreta. Ho avuto quest’intuizione e avrei voluto che nessuno se ne accorgesse. Ma, ora che questa scena è celebre, il mio dovere è difenderne il vero significato.