Luca Ricci, IL PIEDE NEL LETTO, Milano, Alacràn, 2005; L’AMORE E ALTRE FORME DI ODIO, Torino, Einaudi, 2006; LA PERSECUZIONE DEL RIGORISTA, Torino, Einaudi, 2008
Le due raccolte di brevi ma densissimi racconti di Luca Ricci pongono al centro la vita di coppia colta dal punto di vista di un protagonista maschile senza nome che in alcuni testi interviene in prima persona, in altri si nasconde dietro un anonimo Lui. Con drammatica essenzialità, nello spazio di poche pagine, viene dimostrato il fallimento della famiglia, del rapporto di coppia e addirittura del “sentirsi a casa”, una condizione che invece vorrebbe essere assunta come “normale”, se non addirittura come “ideale”.
C’È, ECCOME, il primo racconto de IL PIEDE NEL LETTO, si apre con l’attesa da parte della coppia “perfetta” dell’uomo dei servizi territoriali che ne deve valutare la capacità di adottare un bambino. Dietro la facciata di perfezione e felicità un indizio fa però avvertire sin da subito i toni stridenti che si celano dietro la musica armoniosa con cui il protagonista descrive il proprio rapporto con la moglie. La “punta di iceberg”, richiamata per indicare su quali sentimenti si basi il loro rapporto, mette in evidenza la presenza appena occultata di un sentimento altamente distruttivo. Un elemento di disturbo rivela anche il verbo usato per dimostare l’amore che dalla casa “trasuda”. In realtà, come apprendiamo nel giro di poche pagine, a “trasudare” nella casa è l’odore di sesso consumato in ossessiva promiscuità dai due coniugi per difendere un’idea altrettanto ossessiva di castità che si sono imposti per impedire al loro sentimento di spegnersi nello squallore della ripetizione quotidiana. È dunque una fuga dal rapporto di coppia compiuta proprio per salvare il rapporto di coppia, una fuga da casa paradossalmente intrapresa in casa propria.
Alcuni racconti della prima raccolta sono confluiti nel secondo libro, come quello che prende il titolo da un’espressione infantile usata per un dolce la cui bontà costringe il protagonista a una penosa competizione con l’ingordigia infantile:
“Allora presi il vassoio di paste sul mobile dei liquori e glielo misi davati. Due alla crema, due alla cioccolata, due alla nocciola, due cannoli e due meringhe.
- Quale preferisci di queste?
Le venne una smorfia, ma avrebbe voluto sorridere.
- Le cacche di Dio”.
Adulterio, promiscuità sessuale, infedeltà, tradimento, perversioni spinte sino all’incesto, incapacità di elaborare il lutto permettono una fuga che dovrebbe servire a rimandare la catastrofe e a interrompere, ma solo provvisoriamente, la monotonia della vita familiare. Il teatro messo in gioco è quello dei falsi sentimenti che nascono dai ruoli di marito, di padre in cui basta una perdita momentanea del controllo da parte della personalità che fa da facciata per far affiorare la parte peggiore di sé.
Le case sono teatro ma anche protagoniste dei drammi quotidiani che avvelenano l’esistenza dei loro abitanti; c’è quella con le moquetes troppo spesse in cui gli annoiati abitanti si lasciano affondare trascinati da un incontrollabile impulso orgiastico sotto gli occhi di una bambina, oppure quella con l’orribile carta da parati viola degli anziani genitori del protagonista che si ostinano a sembrare e sentirsi giovani. C’è l’appartamento senza la verandina che a causa di questa differenza crea una frattura insanabile nei rapporti con il vicinato.
Ma quello raccontato da Ricci non è un quotidiano a una sola dimensione: proprio una straordinaria capacità di mostrare da vicino la patologia della vita quotidiana, fa sì che dalla piattezza dei falsi sentimenti si precipiti di colpo in emozioni che portano i protagonisti a sprofondare nel tempo. Può trattarsi di frasi dette o sentite trent’anni prima che ritornano con tutta la loro straziante attualità a dimostrare che i rancori non vengono cancellati e le ferite non si rimarginano. Bruciante è la frase che in IL CASSONETTO riaffiora tra i due coniugi dopo tanti anni che stanno insieme, ma che un aborto voluto dal marito e subìto dalla moglie molto tempo prima ha separato sin da allora.
Oppure si tratta di imprevisti o fissazioni che mostrano all’improvviso il baratro sul quale la sicurezza della vita quotidiana è stata costruita. Si pensi a SUL BORDO, in cui veterinario e padrone del gatto osservano attoniti la gattina appena sterilizzata e ancora sotto l’effetto dell’anestesia che potrebbe cadere dal terrazzo, oppure il racconto MURALES in cui le scrostature che segnano il dipinto sulla parete della camera da letto sembrano indicare i problemi irrisolti della vita di coppia: “E poi c’era quel maledetto murales: la pancia della donna era venuta via, si era screpolata tutta. Un grande spazio bianco simboleggiava la macabra assenza del bambino” (p. 57).
Con LA PERSECUZIONE DEL RIGORISTA, Luca Ricci mette di nuovo il lettore a confronto con un personaggio inchiodato a un’idea fissa. Si tratta di un prete che, forse per punizione, è stato mandato dal vescovo in un paesino dell’Appennino. Sin dall’epigrafe l’attenzione del romanzo sembra indirizzarsi immediatamente sul tema della fede e del credo religioso con il riferimento all’incredulità di San Tommaso. “Non crederò”, dice Tommaso nel Vangelo di Giovanni, “se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi, se non metto la mano nel suo costato”. Tale dichiarazione di incredulità (“Io non ci credo”) è compiuta anche nel finale del romanzo dal protagonista che, ormai non più giovane, ha raggiunto un grado elevato nella gerarchia ecclesiastica, come mostra il crocifisso d’oro massiccio che si sistema sul lussuoso abito talare.
Ma qual è il “credo” che il maturo prelato mette in dubbio? Non crede che il contadino calciatore incontrato tanto tempo prima nel paesino in cui era stato mandato non abbia mai fallito un calcio di rigore. La persecuzione da parte del prelato nei suoi confronti si prefigge come scopo quello di costringere il rigorista a sbagliare almeno un tiro in porta dal dischetto.
Sembra trattarsi di una perversione al ribasso, come al ribasso appare il mondo provinciale nel quale il prete si trova a vivere. Attraverso uno stretto pertugio siamo introdotti in un mondo ristretto tra le sue poche case e i suoi pochi abitanti privi di nomi, come è privo di nome il protagonista. E come lui anch’essi appaiono fissati a dei ruoli: il farmacista, l’allenatore, il casellante.
Se il clima è vischioso, il paesaggio sembra finto. Il cielo appare come una cappa di piombo, un brutto tendaggio con le frange sfilacciate dalla pioggia chiude quel piccolo mondo in un orizzonte molto limitato; la notte sembra acciaccata dai lividi: “La notte diventa violacea, poi bluastra. La luna a poco a poco stinge, diventa un fossile, un’aureola invisibile”. Oltre che chiuso in limiti molto ristretti quel mondo appare addirittura come fossilizzato.
Appena arrivato, il giovane prete cerca di aprirsi un varco nella monotonia quotidiana con un gioco che potrebbe sembrare innocuo, ma per realizzarlo non esita a mettere in atto una serie di azioni di una gravità inaudita. Ben presto, il lettore si rende conto che l’incredulità del prete non riguarda solo l’infallibilità del rigorista, ma la stessa la fede, una fede che non ha mai avuto, come non crede in nessun ideale, pur ponendosi per gli altri come rappresentante della fede e come esempio di vita. Il suo non credere è costantemente e pericolosamente ostentato attraverso una continua dimostrazione di fede, una fede senza fede cui si accompagnano pensieri di odio, di noia, di sfrenata ambizione, di odio del sesso, e nello stesso tempo di accettazione palese e complice della pedofilia del “decreprito pretucolo” che si trova a servire.
Il lettore non coglie però solo i suoi peggiori pensieri segreti, ma lo segue in un susseguirsi di azioni malvage che provocano il male. Il prete si macchia delle peggiori colpe mentre predica il bene, fa finta di pregare per un Dio in cui non crede, sembra prendersi a cuore i problemi di un ritardato e compie insomma quei doveri pastorali di cui deve farsi carico un prete costretto a vivere per qualche mese nella provincia più profonda. Pur di portare a termine il proprio disegno persecutorio, il prete non esita infatti a rendersi colpevole di un delitto: l’uccisione del chierichetto vittima di un abuso sessuale a opera del prete più vecchio. L’omicidio compiuto a sangue freddo sarà seguito da una serie di altre gravissime azioni: è infatti lui a causare un suicidio, quello di un commissario in pensione che ha scoperto chi è l’autore del delitto, ma che sceglie il silenzio in cambio di un favore da parte del prete. Il prete inoltre istiga una donna a mettere in atto una seduzione mai portata a termine nei confronti del contadino calciatore in modo da confonderlo con un desiderio sessuale continuamente frustrato e renderlo così insicuro da fargli sbagliare un tiro. Non esita poi a indurre la stessa donna all’aborto quando si ritrova incinta di un altro. Infine mette in atto una trappola che coinvolge l’intera comunità rendendola complice di un’opera di corruzione con cui riesce a contagiarla.
Breve ma densissimo e molto largo questo romanzo di Luca Ricci, come sono larghi i racconti che raramente superano le quattro pagine, dove basta uno spiraglio per farci precipitare nel vuoto di una vita in cui l’anormalità, l’anomalia, la perversione servono proprio difendere la “falsa” normalità della propria vita familiare.
Qui siamo a confronto con una falsa vocazione, con un falso ministero, con un falso ministro di Dio che predica il bene mentre compie il male e che è destinato a far carriera e a raggiungere gli alti ranghi della Chiesa.
Viene in mente il personaggio più inquietante inventato da Leonardo Sciascia negli anni Settanta, don Gaetano di TODO MODO, il prete manager che crede fermamente che tutti sono colpevoli e che quindi non c’è alcun colpevole. E come don Gaetano che non esita a uccidere viene fermato nella catena delle causalità, così anche qui il prete non riesce ad attuare completamente il suo piano. Il contadino che non sbaglia un rigore dimostra infatti che c’è una forza che non cede alla bassezza.
Un altro calciatore, cui Giovanni Orelli aveva dedicato IL SOGNO DI WALACEK, aveva dimostrato come un vero gioco si possa opporre a un gioco perverso. La sua elevazione nel colpo di testa che segna il goal contro la nazionale di calcio nazista è visto da Orelli come la levitazione del santo. Il contadino che non sbaglia un rigore dimostra che esiste una grazia, una sacralità, una serietà che non cede all’impudico perpetuo schignazzo di chi non crede più in nulla. La bellezza dei suoi imbattibili tiri in porta afferma contro il gioco perverso del suo antagonista l’esistenza di una vocazione autentica.