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A cura di / Ed. Roberto Bertoni.
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ISSN 2009-7123
03/03/09
Caio Cosimo Sbeo, IL PATTO SEGRETO (FANTAGENESI DI UN RACCONTO FANTASTICO)
[The theatre of fantasy. (From the walls of Brussels). Foto di Marzia Poerio]
Il campanile aveva da poco rintoccato le nove, quando F. s’era alzato dalla tavola di famiglia e, senza una parola, s’era ritirato nella propria camera. La cena non era stata delle più serene: una banalità, il rifiuto di una pietanza, aveva offerto al padre il pretesto per l’ennesima scenata, alla quale F., come al solito, non aveva saputo opporre alcuna difesa. Ora, seduto alla scrivania, si sforzava di distrarsi leggendo. Ma invano: gli occhi scivolavano via dalla pagina e la mente tornava là, in sala da pranzo, a quelle velenose accuse; e le ripeteva, le discuteva, si provava a confutarle, opponendo una quantità di obiezioni ormai del tutto inutili. In fondo a quel vano soliloquio - lo sapeva bene - v’era ad attenderlo un’amara, ineludibile ammissione di impotenza.
Si scosse. Che valeva tormentarsi, macerarsi nel rancore? Doveva reagire, piuttosto; doveva vincere la paura e dimostrare al padre che non era un debole, che era in grado di difendersi; e di contrattaccare. Sapeva di possedere un’arma efficace, la scrittura, che da anni esercitava con impegno forse eccessivo: la scrittura, dunque, avrebbe usato come mezzo per la sua replica! Ripose il libro e si mise a rovistare fra le carte della scrivania. Il diario si trovava sotto l’ultimo numero del “Kunstwart”; F. lo tirò a sé, lo aprì, lesse le poche righe scritte due giorni prima, e voltò risolutamente pagina. Passò in rassegna i generi narrativi che più si addicevano al suo scopo e scelse la forma del racconto breve. Doveva congegnare la finzione in modo tale da lasciar ben riconoscibili, sotto una trama di analogie e metafore, i riferimenti al conflitto col padre. Certo, non era cosa da nulla; ma sentiva che ci sarebbe riuscito. Avrebbe quindi aggiunto il racconto agli altri che già Rowohlt aveva accettato di stampare; poi, una volta pubblicato, gli sarebbe stato facile far girare per casa il libro, e presto o tardi il padre l’avrebbe sicuramente letto… E allora avrebbe capito - oh sì, avrebbe ben inteso ciò che c’era da intendere! E per giunta non avrebbe potuto replicare, poiché dichiararsi destinatario di quelle pagine avrebbe significato ammettere implicitamente tutto ciò che in esse era scritto -!
Presto si convinse che quella era la strada da percorrere; e giurò a sé stesso che l’avrebbe percorsa: fino in fondo! Una colpa ingiusta e un’ingiusta condanna: su questi motivi doveva sorgere il racconto! Già sognava di comporre qualcosa di grande, di immutabile; qualcosa degno di Kleist, di Flaubert, di Dostoevskij...
Il fastidioso biancore della pagina vuota lo precipitò bruscamente nella realtà: come accendere il “fuoco” per un simile racconto? Come raggiungere “l’inferno degli scrittori veri”? Avrebbe giusto dovuto essere Kleist, o Flaubert, o Dostoevskij; e invece si sentiva poco più di un dilettante, autore di pagine effimere - poche prose incompiute che non si stancava mai di emendare -. C’era bisogno di uno spunto adeguato, di un’idea feconda, in grado di sostenere un intreccio valido e, nel contempo, di promuovere l’allusione... ma dove, dove trovare una simile idea?
Forse, a ben pensare, non doveva cercar troppo lontano. Proprio a tavola, ad esempio, mentre il padre lo insultava, aveva avuto l’impressione che sotto la finestra della sala si stesse radunando una moltitudine di individui; li aveva immaginati avvicinarsi ad uno ad uno in silenzio - disporsi spalla a spalla sulla pubblica via fino a riempirla per intero - ...
Che strana fantasia! Quale significato poteva mai celare? Chi erano quelle persone? Solo dei curiosi? Erano convenuti per accusarlo, o per sostenere la sua difesa? Ma allora, perché restavano immobili a guardare? Perché nessuno si faceva avanti? Sarebbe intervenuto qualcuno, se la fantasia avesse avuto seguito?
Provò a svolgere quella fantasia. Serrò gli occhi, si sforzò di muovere la scena con la mente, si concentrò con impegno, fece vari tentativi. Inutili. Tutto si fermava lì, a quella folla muta, enigmatica, pietrificata davanti alla finestra. Dovette desistere; con un gemito, allontanò il quaderno e si rilasciò vinto sulla sedia. Nella penombra della stanza, a tratti rischiarata dai lampi di un temporale, il sordo rintocco della pendola cadenzava l’incessante scrosciare della pioggia. F. volse lo sguardo intorno. Sullo scaffale era posto un calco ingiallito che raffigurava una menade senza testa. A lato del calco, due libri: un ANTICO TESTAMENTO in pelle nera e un’edizione economica del FAUST. Li dispose l’uno accanto all’altro, sulla scrivania. Indugiò le dita sui rilievi miniati dell’ANTICO TESTAMENTO, sui bordi, sul taglio; poi fermò la mano sulla copertina liscia del FAUST. Chiuse gli occhi, e come in trance così parlò al proprio demone: “Sono pronto ad affrontare qualsiasi prova”, disse, “pronto a sopportare qualsiasi sofferenza, a rinunciare ad ogni gioia, ad ogni affetto, ad accettare la malattia più dolorosa, la morte più orribile... Tanto ti offro, e questo ti chiedo: fa’ che stanotte escano dalla mia penna parole che sappiano farsi leggere da ogni uomo; e fa’ che possa vivere per sempre in loro, io che non un istante riesco a vivere in me stesso!”
Con questa atroce ammissione ebbe termine la supplica; ma non il delirio: s’irrigidì, le mani strette al FAUST, come invocando una risposta. Un lampo improvviso rischiarò la stanza; lo seguì un tuono poderoso. In quel segno, F. ravvisò la risposta affermativa del demone invocato. Nella febbre mormorò un debole danke; quindi crollò stremato in un sonno profondo, liberatorio, brevissimo.
Lo destarono i rintocchi del campanile: le dieci. Stropicciò gli occhi, smarrito. Vide l’ANTICO TESTAMENTO a terra: nel cadere, s’era aperto sulle prime pagine. Si chinò per raccoglierlo, ma lo fecero esitare due minuscole stampe, che illustravano il capitolo ventiduesimo della GENESI. Nella prima, Abramo, rivolto al cielo, riceve l’ordine divino che condanna Isacco; nella seconda, Isacco dispone con il padre l’altare per il sacrificio.
Chino sul pavimento, F. fermò gli occhi intorpiditi su questa seconda immagine; vi trattenne pensoso lo sguardo. Per un istante, per un magico istante, vide nel volto di Abramo il volto del padre, nel volto di Isacco il suo proprio volto; e a questa visione si aggiunse la precedente immagine della folla; e a quest’immagine ancora seguì una miriade di vorticose immagini, come in un caleidoscopio in cui le forme, pur sovrapponendosi l’una all’altra, permangano tutte singolarmente percettibili. Rivide gli occhi sottili di Isaak, l’amico attore emigrato a Berlino; rivide il timido sorriso della signorina Bauer, di cui era già segretamente innamorato; rivide Max e il suo buffo gesticolare; rivide Oskar, e Felix e Otto...
Nella sua mente scattò qualcosa. Colto da repentina determinazione si levò alla scrivania, tirò a sé il diario, impugnò risoluto la penna, e cominciò a scrivere: “Era una splendida mattina di primavera…”
E continuò, come in estasi, senza pause, rileggendo raramente, correggendo quasi mai, fino a che il racconto, un buon numero di pagine avanti, non fu terminato. Infine, soddisfatto, sbadigliò e spense la lampada, che ormai non serviva più, perché fuori s’era fatto chiaro: aveva scritto per tutta la notte, otto ore consecutive! Avrebbe ricordato il giorno dopo, in un commento poscritto al racconto: “Non riuscivo quasi a trarre da sotto la scrivania le gambe irrigidite dallo star seduto”; e ancora: “Sforzo spaventevole e gioia veder svolgersi davanti a me la narrazione e procedere come navigando in un mare”; ed infine, con rinnovata enfasi: “Tutto si può osare, per tutti: per le più remote idee è pronto un fuoco nel quale incessantemente muoiono e risorgono...”
F. mai fece menzione - non nel diario, né altrove - del patto con il demone. Forse confuse l’episodio con le sterili fantasie che lo avevano preceduto; forse pensò d’averlo sognato, oppure, semplicemente, se ne dimenticò… Ma non se ne dimenticò il demone, che non mancò di tener fede all’impegno assunto: riservò infatti a F. una vita di dolore, minata anzitempo da un male incurabile, che lo condusse in pochi anni a una morte fra le più strazianti. Per contro, dispose che le pagine da lui scritte in quella vertiginosa nottata potessero sopravvivergli nel tempo, e per sempre durassero nella memoria dell’umanità.
Quelle pagine compongono il racconto che ha titolo DAS URTEIL (LA CONDANNA), scritto nella notte fra domenica 22 e lunedì 23 settembre 1912 in un appartamento della Niklasstrasse di Praga. Il loro autore - o, al demone credendo, il loro estensore - risponde al nome, indelebile, di Franz Kafka.