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INDICE ALFABETICO / INDEX
Le voci elencate qui sotto senza il nome dell'autore sono state scritte da Roberto Bertoni. Foto di Marzia Poerio / Entries listed below without the name of the author were written by Roberto Bertoni. Pictures by Marzia Poerio.
- AVOLEDO, Tullio, L'ELENCO TELEFONICO DI ATLANTIDE. Note di lettura, 7-2-09.
- BOERO, Silvia, FINE D’ANNO DI PAOLA DRIGO: L’ AUTOBIOGRAFIA DISSENZIENTE. Rilettura, 27-2-09.
- BONOMO, Annalisa, UN ARTISTA A CAVALLO TRA CIELO E TERRA: L’ALLEGORIA TOLKENIANA DI LEAF BY NIGGLE. Note di lettura, 9-2-09.
- FRISA, Lucetta, TRE POESIE DA BASSO CONTINUO. Testo con commento, 11-2-09.
- HILTON, James, LOST HORIZON. Rilettura, 27-2-09.
- KUROSAWA, Akira, LA FORTEZZA NASCOSTA. Storie di film di Renato Persòli, 5-2-09.
- MARGINAL RING. Fotografia e versi di Marzia Poerio, con commento, 21-2-09.
- PAICE, Andy, DOES SPIRITUALITY HAVE ANY RELEVANCE FOR WESTERN INTELLECTUAL CULTURE? LOOKING FOR ANSWERS IN THE BUDDHIST TRADITION [PART 2]. Riflessione, 3-2-09.
- PASSALACQUA, Solange, ORIGAMI D'ACQUA. Testo, 1-2-09.
- PIERNO, Franco, TRILOGIA PER ALBERTO BERTOLUCCI. Testo, 17-2-09.
- ROVERSI, Roberto, TRE POESIE E ALCUNE PROSE. Note di lettura di Piera MATTEI, 13-2-09.
- SAMONÀ, Carmelo, FRATELLI. Rilettura di Giuliana LUCCHINI, 15-2-09.
- TURNER, Henry, S., SHAKESPEARE'S DOUBLE HELIX. Note di lettura di Matteo BRERA, 19-2-09.
- ZOLLINO, Antonio, I PARADISI AMBIGUI. SAGGI SU MUSICA E TRADIZIONE NELL'OPERA DI MONTALE. Note di lettura di Paola POLITO, 23-2-09.
Rivista in rete di scritti sotto le 2.200 parole: recensioni, testi narrativi, poesie, saggi. Invia commenti e contributi a cartallineate@gmail.com. / This on-line journal includes texts below 2,200 words: reviews, narrative texts, poems and essays. Send comments and contributions to cartallineate@gmail.com.
A cura di / Ed. Roberto Bertoni.
Address (place of publication): Italian Dept, Trinity College, Dublin 2, Ireland. Tel. 087 719 8225.
ISSN 2009-7123
27/02/09
James Hilton, LOST HORIZON
["The horizon was lost behind icy fog". Foto di Marzia Poerio]
Uscito nel 1933, il romanzo di Hilton delinea un misterioso viaggio all'interno dell'Himalaya, tramite un sequestro durante un'evacuazione da zone di guerra. Si scopre gradualmente che chi ha dato ordine di questo sequestro è il Monastero lamaico (nel testo inglese "lamasery") di Shangri-La, in cui vengono accolti i sopravvissuti e dal quale i monaci sconsigliano di andarsene, cercando di persuadere i nuovi arrivati, oltre che delle difficoltà del viaggio, dei vantaggi esistenti nel rimanere in luoghi desolati in cui, secondo quanto Conway (il principale interprete della storia) viene a sapere, si adottano tecniche di meditazione e di stile di vita che allungano la vita in un ambiente culturale e spirituale di studio, di conservazione della cultura mondiale e di pacifismo, con lo scopo utopico di prepararsi al post-catastrofe, ai prodromi di una prevista guerra mondiale, da cui sarà necessario emergano ragionevolezza e riforma delle menti e degli atteggiamenti. Conway, nella sua solitudine e per predisposizione personale, crede a quanto gli viene rivelato e sembrerebbe disposto a restare a Shangri-La se un suo collega, Mallinson, non gli ponesse di fronte una diversa verità, scuotendolo e dandogli a credere che quanto ha saputo sia frutto di abili menzogne. Così Conway lascia il Monastero, verrà trovato dal narratore in prima persona della storia di cornice in stato confusionale fino a quando, ritrovata la memoria gli narrerà la storia di Shangri-La, sparendo di nuovo in cerca del Monastero.
Sospeso nel fantastico non spiegato, con indizi che quanto è stato narrato potrebbe essere o meno vero, si tratta di un'utopia cui risponde il senso di realtà, sconvolgendola e riportando in funzione la scoperta del mondo esterno e il confronto col rischio e col pericolo.
Il Monastero potrebbe rappresentare l'aspirazione alla pace interiore, ma anche un'identificazione positiva con le parti elevate e intellettuali della personalità, messe in discussione dalle emozioni e soprattutto dalla presenza dell'attrazione erotica e dell'amore.
L'utopia è introvabile perché il genere umano è ancora lontano dalla possibilità di realizzarla; così, anche se desiderata, si allontana, dando un senso impegnato a quest'opera tanto leggibile nel suo svolgersi fluido.
Scene del film di Frank Capra tratto dal romanzo (1937) sono visibili a LOST HORIZON, Versione cinematografica. Stranamente, un sito collegato, esamina LOST, il serial televisivo, come un racconto di revival di SHANGRI LA (THE ISLAND IN LOST).
[Roberto Bertoni]
25/02/09
Silvia Boero, FINE D’ANNO DI PAOLA DRIGO: L’ AUTOBIOGRAFIA DISSENZIENTE
FINE D’ANNO, uscito nel 1936 per i tipi della Treves [1], potrebbe apparire, ad una prima lettura, il resoconto autobiografico di una più o meno eroica opera di salvataggio di antichi possedimenti terrieri da parte di un’anziana signora di salute malandata. Paola Drigo, proveniente da un ambiente privilegiato sotto l’aspetto economico e culturale, entrò nell’alta borghesia veneta - molto vicina alla piccola nobiltà - grazie ad un importante matrimonio. Dopo la morte del marito, i dissesti finanziari, dovuti alla disonestà dell’amministratore ma anche alla totale ignavia dei proprietari stessi, la costrinsero a diventare fattora dell’antica tenuta di famiglia [2]. Ma questa autonarrazione a lieto fine è solo un pretesto, e nemmeno troppo nascosto fra le righe. Ritirarsi nella cadente tenuta di campagna e vendere tutto il resto per risollevare le sorti patrimoniali, è solo il punto di partenza per capire come salvarsi da se stessa, madre fagocitatrice e padrona inetta:
“Chiusa la villa per tre quarti e mi ritirai in poche stanze; la macchina non l’usavo quasi più. Pensieri scuciti, senza filo apparente, mi attraversavano la mente [...] E in tutto questo e sopra tutto il pensiero [...] ritornante [...] di mio figlio. [...] che da oltre un anno seguivo nello sbaraglio di un’oscura tormenta [...]trascinata oggi ad accettare, domani a ripudiare, convinzioni, sentimenti, avvenimenti, dei quali non potevo neppur giudicare, tant’erano da me lontani, smarrendo il senso [...] del meglio e del peggio, facendo molto male a me, senza riuscire a fare del bene a nessuno: tutto questo doveva finire” [FD, p. 101].
Fine D’Anno è dunque una lucida autoanalisi, un attento inventario memoriale grazie al quale la Drigo accede alla comprensione di sè e della propria storia di donna e di madre. È certamente un’autobiografia, ma anche una testimonianza di dissenso, uno strumento d’indagine sociale, un vero documento epocale. Paola parte da se stessa, altoborghese delusa e disillusa, per poi esplorare una ad una le tipologie femminili della sua mezzadria, dalle quali imparerà un diverso approccio alla vita. La narrazione autobiografica è dolorosa, eppure minuziosamente somministrata come una medicina. La scrittura diventa man mano pedagogica e generatrice di un nuovo inizio, tanto quanto l’atto stesso del parto:
“C’è un momento, quando il figlio viene alla luce, in cui il fragile legame di carne che l’unisce ancora alla madre deve essere troncato perchè, uniti, ne’ l’uno ne’ l’altra potrebbero vivere; c’è un altro momento in cui è necessario che la madre stessa, di sua volontà, coscientemente, deliberatamente, trovi la forza di disgiungere sè dal figlio, di lasciarlo solo. Toccava a me, questa volta; e in quel fugace attimo ne ebbi piena e chiara coscienza […]” [FD, p. 105].
Grazie ad una scrittura maieutica, la Drigo è finalmente libera dal ruolo di madre fallica e partorisce se stessa, nasce ad un nuovo rapporto materno non conflittuale:
“Dentro la scatola [...] c’era anche il principio di quella lettera che dovevo scrivere a lui, e che non avevo la forza di scrivere [..]. Quel giorno scrissi ‘Caro figlio’, anzichè ‘caro Giorgio’, come sempre... ‘Caro figlio, tu solo, ed io in disparte, tu nella casa di città’. [...] Qualche cosa dentro di me ora mi par rotto o profondamente mutato [...] Mi pare che qualche cosa [...] sia, nella mia vita, finito per sempre [...]” [FD, pp. 101-03].
Parallelamente all’analisi della sua condizione di madre, la Drigo procede all’esplorazione del microcosmo contadino e femminile delle sue mezzadre, molte madri pure loro, ma soprattutto donne. L’ingresso forzato in questo mondo a lei totalmente sconosciuto svelerà non pochi retroscena diametralmente opposti ai bucolici scenari sbandierati dalla propaganda di regime. Sempre ironica ma soprattutto autoironica, la Drigo non risparmia nessuno, tanto meno i nomi importanti:
“[…] Ah, la bonaria, la pura, idilliaca gente dei campi! Da lontano, quando passavo otto mesi all’anno in città […] a questa retorica avevo creduto anch’io; adesso avrei potuto giurare che interessanti dal punto di vista umano ed anche artistico lo erano certo, ma bonari ed idilliaci assolutamente no” [FD, pp. 5-7].
“Mussolini ha detto che le donne non sanno fare le case? Modestamente, fra prima e dopo il mio male ne ho costruite ben tre, e non sono ancora crollate. […] Le mie case reggono: hanno i muri, le porte, le finestre, le tegole: non ho dimenticato la scala, ne’ il camino” [FD, p. 124].
Una battuta più o meno caustica contro il regime non basta, però, a rendere FINE D’ANNO un esempio di dissenso, o potenzialmente tale. E non basta nemmeno che la Drigo qui parli di sole - o quasi - donne, ma è piuttosto come ne parla, di quali donne parla e con quali decide di confrontarsi e da loro imparare. Qui non esistono annoiate nobili o altoborghesi, nemmeno figure femminili soffuse di agreste soavità; eliminate le passive e prolifiche produttrici di carne da cannone, anche i rurali angeli del focolare sono totalmente assenti. Tutte le donne della tenuta, Drigo inclusa, possono, se vogliono, assumere anche questo ruolo, ma sono perfettamente in grado di prendere in mano la zappa, domare un cavallo imbizzarrito, e fare il muratore. Grazie ad una specifica rappresentazione di sè e delle altre protagoniste la Drigo permette che FINE D’ANNO assuma una valenza politica e dissenziente, poichè propone una collocazione della donna al di là di qualunque interpretazione contemplata dal regime. Lei stessa è vedova, e gloriosamente non di guerra, non ha uno stuolo di figli da dare alla patria, ma solo uno, distante e, per lei, incomprensibile. In questa storia ci sono ben pochi uomini: un suocero; un marito al quale la Drigo non fa mai nessun riferimento diretto (entrambi deceduti da qualche tempo) un fattore disonesto e pure lui passato a miglior vita; ed infine questo figlio alienato quasi fantasma mai dettagliatamente descritto, presente solo attraverso le ricostruzioni memoriali ed umorali della madre, e che apparirà fisicamente solo alla fine di questo anno di autoanalisi, al capezzale materno, dicendo, forse, tre parole:
“‘Suona’, gli dissi. Sì, [...] proprio questa parola da melodramma […] E forse non fu che la ripresa di una cara consuetudine interrotta. Ricordo chiaramente che egli chiese: Davvero? E la sua voce era sommessa e timida.
‘Suona’, ripetei
‘Che cosa?’
‘Quello che vuoi’.
Dal fondo del mio lettino, colla borsa del ghiaccio sulla testa, il respiro frequente, più che udirlo io lo guardavo: le spalle larghe, quella bella figura che al piano rimaneva ferma, impassibile” [FD, p. 112].
Uomini, questi, che nell’iconologia e nell’iconografia del regime fascista appaiono inconcepibili, da non imitarsi, dei non-modelli impossibili da contestualizzare. Opposti e pure complementari alle donne di FINE D’ANNO, tutti insieme procedono alla sovversione dei paradigmi sociali e sessuali stabiliti dal regime. Le protagoniste, dal canto loro, risultano inaccettabili nel panorama dittatoriale in quanto danno vita ad una comunità di madri, intese non tanto nel significato biologico, ma soprattutto come generatrici di un tessuto sociale in grado di sostituirsi, con la propria autenticità, alle comunità immaginate (ed immaginarie) della propaganda fascista. Nella versione drighiana della famiglia, la gerarchia, se esiste, quando esiste, è strutturata secondo canoni opposti a quelli dettati dall’allora vigente regola, come nel caso delle Pigozze:
“[s]trana famiglia, quella delle Pigozze. Era composta di cinque femmine, tutte, tranne una, vedova, pulzelle, e di tre uomini scapoli, il più giovane dei quali si vedeva raramente, ed era un ragazzo lungo, scialbo, col viso sparso di grossi foruncoli, che teneva sempre gli occhi a terra, e, dicevano, voleva “andar missionario”. Gli altri, assai più anziani, quasi vecchi, spazzavano, cucinavano, facevano il bucato e lavavano i piatti, mentre alla vanga, alla falce, all’aratro stavano le cinque femmine che li comandavano a bacchetta. Una specie di matriarcato, che raggiungeva però un risultato imprevisto: il podere delle Pigozze era bello, lucido, ordinato come un giardino, anzi, come un ricamo” [FD, pp. 14-15].
Non si limita a descriverele, queste donne così diverse e sconosciute. La madre Drigo, la siorata [3] si rapporta a Martina, madre schiava della miseria e presunta prostituta della tenuta, ma non per questo mancante di dignità. Decide di conoscerla, e da lei imparare:
“Mi vidi venire avanti esitando una vecchia magra e nera, con un fazzoletto annodato sotto il mento, le gonne fino ai piedi, e una bocca tutta rientrata, certo mancante di parecchi denti. Aveva gli occhi chiari ed un ventre a punta, che non si capiva come e perchè fosse spuntato e prosperasse in quella nera secchezza. “Mi lavoro - disse - fazo la lavandera, mi go sempre pagà.” [...] (FD, 37) [N]oi, posti nelle stesse condizioni, non saremmo forse, di molto migliori; e pur nelle favorevoli condizioni in cui siamo non è proprio certo che si valga moralmente di più” [FD, p. 124].
La scrittura della Drigo è classificabile come femminile in quanto prodotta da una donna; per certi aspetti, la posizione della Drigo potrebbe richiamare quella della Kristeva “che non accetta la tesi della “scrittura femminile” in quanto ritiene che la scrittura in quanto tale non è “sessuata” e “può essere praticata anche dalle donne per portare nel linguaggio l’ordine semiotico della madre” (Restaino e Cavarero, p. 212). Si potrebbe obiettare che la Drigo sia stata pubblicata da Treves, editore di opere scritte esclusivamente da donne; sicuramente Treves ebbe un occhio di riguardo per le scrittrici, ma la Drigo non cerca nell’editore, ne’ altrove, la wolfiana stanza tutta per sè. L’autrice sembra aver superato questa conflittualità; pur conscia delle restrizioni a cui le donne sono sottoposte, e non solo in quanto scrittrici, si pone, nella sua performance di produttore di cultura, al di là di ogni dibattito. Sia in FINE D’ANNO che nel seguente tragico bildungsroman MARIA ZEF, propone figure le cui azioni non sono dettate dal fatto che siano uomini o donne, secondo i codici comportamentali imperanti dell’epoca. I suoi personaggi agiscono in un modo o nell’altro perchè le condizioni sociali, economiche, psicologiche, e ambientali - non tanto la loro sessualità - impongono determinate performances [4].
Altro elemento dissenziente in FINE D’ANNO è la lingua usata dalla Drigo. La dama alto-borghese alle soglie della vecchiaia decide di cambiare completamente stile di vita, mutamento rispecchiato nello scriversi; la sua lingua diventa quella del flusso interiore, il dialogo di una donna con se stessa che impara a guardarsi e ad osservare gli altri. L’uso frequente del dialetto [5], ora garbatamente graffiante, ora volutamente uniforme, incolore, quasi come una litania da vecchia comare, la distanzia dalla ridondanza di molta letteratura di regime [6].
Paola Drigo, grazie ad una sapiente messa in scena - per dirla con Eco - permette ai suoi personaggi di demolire le icone delle famiglie paesane, vigorose, irreprensibili ed in piena salute, che spariscono grazie al suo semplice atto narrativo. Attraverso la sovversione dell’immagine immaginata della società patriarcale di regime, l’autrice ne demolisce la retorica e l’estetica, sostituendo i connotati del potere e della forza con le loro antinomie, obbligando chi legge ad identificarsi con l’indesiderabile, l’improprio, la realtà altra. Questo non significa che la Drigo fosse una militante antifascista, benchè si fosse espressa abbastanza esplicitamente in FINE D’ANNO (e lo farà con maggior forza nel romanzo seguente, MARIA ZEF). Probabilmente una non allineata, l’autrice lavorò coscientemente per spostare l’attenzione sulle realistiche figure fragili di un ambiente negletto e sommerso, contribuendo alla demolizione della narrativa fascista.
NOTE
[1] Ristampato solo ultimamente, nel 2005, da Rocco Carabba. Fine d’Anno sarà seguito da Maria Zef, che vinse il premio Viareggio nel ’37, per poi sparire nel dimenticatoio. Uscì di nuovo per la Garzanti solo negli anni ’80.
[2] Termine usato dall’autrice stessa nel testo.
[3] Padrona, in dialetto alto-veneto, con connotazione negativa.
[4] A questo proposito si vuole prendere in considerazione Judith Butler ed il suo GENDER TROUBLES. Se “gender is a performance” questo non sembra valere per le protagoniste di FD che sembrano andare decisamente contro le tesi della Butler.
[5] In MZ la Drigo dedicherà intere pagine alle intere villotte, o ballate, in lingua friulana.
[6] Si veda Sapori, DA ROMA AL CIRCEO, del 1934: “Roma Imperiale risorge. […] Il pellegrino innamorato vede i frammenti marmorei del Tempio di Marte Ultore […] Il Duce penso’ di aprire un varco dalla Piazza di Venzia all’Anfiteatro Flavio. Questa regina delle strade […]e’ la piu’ monumentale strada del mondo, perche’ sprofonda nella storia di Roma come un titanico sole.’’ pp. 34 - 37.
OPERE CITATE E CONSULTATE
A. Arslan, DAME, REGINE E GALLINE: LA SCRITTURA FEMMINILE TRA ‘800 E ‘900, Milano, Guerini Studio, 1998.
AA.V.V., CARTA DI DONNA. NARRATRICI ITALIANE DEL NOVECENTO, Torino, SEI, 1996.
A.A.V.V., IL NOVECENTO DELLE ITALIANE. UNA STORIA ANCORA DA RACCONTARE, Roma, Editori Riuniti, 2001.
G. Baransk e S. Vinall, WOMEN AND ITALY. ESSAYS ON GENDER, CULTURE, AND HISTORY, London, University of Reading European and International Studies,1991.
R. Ben-Ghiat, FASCIST MODERNITIES. ITALY, 1922-1945, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 2001.
J. Butler, GENDER TROUBLE, New York, Routledge, 1990.
M. De Giorgio, LE ITALIANE DALL’UNITÀ AD OGGI. MODELLI CULTURALI E COMPORTAMENTALI SOCIALI, Roma-Bari, Laterza, 1992.
P. Drigo, FINE D’ANNO, Milano, Treves, 1936; MARIA ZEF, Milano, Garzanti, 1982.
U. Eco e T. Sebeok, THE SIGNS OF THREE: DUPIN, HOLMES, PIERCE, Bloomington, Indiana University Press, 1983.
A. Illiano, INVITO AL ROMANZO D’AUTRICE DELL’OTTOCENTO-NOVECENTO, Fiesole, Cadmo, 2001.
J. Kristeva, BLACK SUN, New York, Columbia University Press, 1989.
MOTHERS OF INVENTION: WOMEN, ITALIAN FASCISM, AND CULTURE, a cura di R. Pickering-Iazzi, Minneapolis Minnesota University Press, 1995.
F. Restaino e A. Cavarero, LE FILOSOFIE FEMMINISTE, Torino, Paravia, 1999.
F. Sapori, DA ROMA AL CIRCEO, Milano, Bompiani, 1934.
“Chiusa la villa per tre quarti e mi ritirai in poche stanze; la macchina non l’usavo quasi più. Pensieri scuciti, senza filo apparente, mi attraversavano la mente [...] E in tutto questo e sopra tutto il pensiero [...] ritornante [...] di mio figlio. [...] che da oltre un anno seguivo nello sbaraglio di un’oscura tormenta [...]trascinata oggi ad accettare, domani a ripudiare, convinzioni, sentimenti, avvenimenti, dei quali non potevo neppur giudicare, tant’erano da me lontani, smarrendo il senso [...] del meglio e del peggio, facendo molto male a me, senza riuscire a fare del bene a nessuno: tutto questo doveva finire” [FD, p. 101].
Fine D’Anno è dunque una lucida autoanalisi, un attento inventario memoriale grazie al quale la Drigo accede alla comprensione di sè e della propria storia di donna e di madre. È certamente un’autobiografia, ma anche una testimonianza di dissenso, uno strumento d’indagine sociale, un vero documento epocale. Paola parte da se stessa, altoborghese delusa e disillusa, per poi esplorare una ad una le tipologie femminili della sua mezzadria, dalle quali imparerà un diverso approccio alla vita. La narrazione autobiografica è dolorosa, eppure minuziosamente somministrata come una medicina. La scrittura diventa man mano pedagogica e generatrice di un nuovo inizio, tanto quanto l’atto stesso del parto:
“C’è un momento, quando il figlio viene alla luce, in cui il fragile legame di carne che l’unisce ancora alla madre deve essere troncato perchè, uniti, ne’ l’uno ne’ l’altra potrebbero vivere; c’è un altro momento in cui è necessario che la madre stessa, di sua volontà, coscientemente, deliberatamente, trovi la forza di disgiungere sè dal figlio, di lasciarlo solo. Toccava a me, questa volta; e in quel fugace attimo ne ebbi piena e chiara coscienza […]” [FD, p. 105].
Grazie ad una scrittura maieutica, la Drigo è finalmente libera dal ruolo di madre fallica e partorisce se stessa, nasce ad un nuovo rapporto materno non conflittuale:
“Dentro la scatola [...] c’era anche il principio di quella lettera che dovevo scrivere a lui, e che non avevo la forza di scrivere [..]. Quel giorno scrissi ‘Caro figlio’, anzichè ‘caro Giorgio’, come sempre... ‘Caro figlio, tu solo, ed io in disparte, tu nella casa di città’. [...] Qualche cosa dentro di me ora mi par rotto o profondamente mutato [...] Mi pare che qualche cosa [...] sia, nella mia vita, finito per sempre [...]” [FD, pp. 101-03].
Parallelamente all’analisi della sua condizione di madre, la Drigo procede all’esplorazione del microcosmo contadino e femminile delle sue mezzadre, molte madri pure loro, ma soprattutto donne. L’ingresso forzato in questo mondo a lei totalmente sconosciuto svelerà non pochi retroscena diametralmente opposti ai bucolici scenari sbandierati dalla propaganda di regime. Sempre ironica ma soprattutto autoironica, la Drigo non risparmia nessuno, tanto meno i nomi importanti:
“[…] Ah, la bonaria, la pura, idilliaca gente dei campi! Da lontano, quando passavo otto mesi all’anno in città […] a questa retorica avevo creduto anch’io; adesso avrei potuto giurare che interessanti dal punto di vista umano ed anche artistico lo erano certo, ma bonari ed idilliaci assolutamente no” [FD, pp. 5-7].
“Mussolini ha detto che le donne non sanno fare le case? Modestamente, fra prima e dopo il mio male ne ho costruite ben tre, e non sono ancora crollate. […] Le mie case reggono: hanno i muri, le porte, le finestre, le tegole: non ho dimenticato la scala, ne’ il camino” [FD, p. 124].
Una battuta più o meno caustica contro il regime non basta, però, a rendere FINE D’ANNO un esempio di dissenso, o potenzialmente tale. E non basta nemmeno che la Drigo qui parli di sole - o quasi - donne, ma è piuttosto come ne parla, di quali donne parla e con quali decide di confrontarsi e da loro imparare. Qui non esistono annoiate nobili o altoborghesi, nemmeno figure femminili soffuse di agreste soavità; eliminate le passive e prolifiche produttrici di carne da cannone, anche i rurali angeli del focolare sono totalmente assenti. Tutte le donne della tenuta, Drigo inclusa, possono, se vogliono, assumere anche questo ruolo, ma sono perfettamente in grado di prendere in mano la zappa, domare un cavallo imbizzarrito, e fare il muratore. Grazie ad una specifica rappresentazione di sè e delle altre protagoniste la Drigo permette che FINE D’ANNO assuma una valenza politica e dissenziente, poichè propone una collocazione della donna al di là di qualunque interpretazione contemplata dal regime. Lei stessa è vedova, e gloriosamente non di guerra, non ha uno stuolo di figli da dare alla patria, ma solo uno, distante e, per lei, incomprensibile. In questa storia ci sono ben pochi uomini: un suocero; un marito al quale la Drigo non fa mai nessun riferimento diretto (entrambi deceduti da qualche tempo) un fattore disonesto e pure lui passato a miglior vita; ed infine questo figlio alienato quasi fantasma mai dettagliatamente descritto, presente solo attraverso le ricostruzioni memoriali ed umorali della madre, e che apparirà fisicamente solo alla fine di questo anno di autoanalisi, al capezzale materno, dicendo, forse, tre parole:
“‘Suona’, gli dissi. Sì, [...] proprio questa parola da melodramma […] E forse non fu che la ripresa di una cara consuetudine interrotta. Ricordo chiaramente che egli chiese: Davvero? E la sua voce era sommessa e timida.
‘Suona’, ripetei
‘Che cosa?’
‘Quello che vuoi’.
Dal fondo del mio lettino, colla borsa del ghiaccio sulla testa, il respiro frequente, più che udirlo io lo guardavo: le spalle larghe, quella bella figura che al piano rimaneva ferma, impassibile” [FD, p. 112].
Uomini, questi, che nell’iconologia e nell’iconografia del regime fascista appaiono inconcepibili, da non imitarsi, dei non-modelli impossibili da contestualizzare. Opposti e pure complementari alle donne di FINE D’ANNO, tutti insieme procedono alla sovversione dei paradigmi sociali e sessuali stabiliti dal regime. Le protagoniste, dal canto loro, risultano inaccettabili nel panorama dittatoriale in quanto danno vita ad una comunità di madri, intese non tanto nel significato biologico, ma soprattutto come generatrici di un tessuto sociale in grado di sostituirsi, con la propria autenticità, alle comunità immaginate (ed immaginarie) della propaganda fascista. Nella versione drighiana della famiglia, la gerarchia, se esiste, quando esiste, è strutturata secondo canoni opposti a quelli dettati dall’allora vigente regola, come nel caso delle Pigozze:
“[s]trana famiglia, quella delle Pigozze. Era composta di cinque femmine, tutte, tranne una, vedova, pulzelle, e di tre uomini scapoli, il più giovane dei quali si vedeva raramente, ed era un ragazzo lungo, scialbo, col viso sparso di grossi foruncoli, che teneva sempre gli occhi a terra, e, dicevano, voleva “andar missionario”. Gli altri, assai più anziani, quasi vecchi, spazzavano, cucinavano, facevano il bucato e lavavano i piatti, mentre alla vanga, alla falce, all’aratro stavano le cinque femmine che li comandavano a bacchetta. Una specie di matriarcato, che raggiungeva però un risultato imprevisto: il podere delle Pigozze era bello, lucido, ordinato come un giardino, anzi, come un ricamo” [FD, pp. 14-15].
Non si limita a descriverele, queste donne così diverse e sconosciute. La madre Drigo, la siorata [3] si rapporta a Martina, madre schiava della miseria e presunta prostituta della tenuta, ma non per questo mancante di dignità. Decide di conoscerla, e da lei imparare:
“Mi vidi venire avanti esitando una vecchia magra e nera, con un fazzoletto annodato sotto il mento, le gonne fino ai piedi, e una bocca tutta rientrata, certo mancante di parecchi denti. Aveva gli occhi chiari ed un ventre a punta, che non si capiva come e perchè fosse spuntato e prosperasse in quella nera secchezza. “Mi lavoro - disse - fazo la lavandera, mi go sempre pagà.” [...] (FD, 37) [N]oi, posti nelle stesse condizioni, non saremmo forse, di molto migliori; e pur nelle favorevoli condizioni in cui siamo non è proprio certo che si valga moralmente di più” [FD, p. 124].
La scrittura della Drigo è classificabile come femminile in quanto prodotta da una donna; per certi aspetti, la posizione della Drigo potrebbe richiamare quella della Kristeva “che non accetta la tesi della “scrittura femminile” in quanto ritiene che la scrittura in quanto tale non è “sessuata” e “può essere praticata anche dalle donne per portare nel linguaggio l’ordine semiotico della madre” (Restaino e Cavarero, p. 212). Si potrebbe obiettare che la Drigo sia stata pubblicata da Treves, editore di opere scritte esclusivamente da donne; sicuramente Treves ebbe un occhio di riguardo per le scrittrici, ma la Drigo non cerca nell’editore, ne’ altrove, la wolfiana stanza tutta per sè. L’autrice sembra aver superato questa conflittualità; pur conscia delle restrizioni a cui le donne sono sottoposte, e non solo in quanto scrittrici, si pone, nella sua performance di produttore di cultura, al di là di ogni dibattito. Sia in FINE D’ANNO che nel seguente tragico bildungsroman MARIA ZEF, propone figure le cui azioni non sono dettate dal fatto che siano uomini o donne, secondo i codici comportamentali imperanti dell’epoca. I suoi personaggi agiscono in un modo o nell’altro perchè le condizioni sociali, economiche, psicologiche, e ambientali - non tanto la loro sessualità - impongono determinate performances [4].
Altro elemento dissenziente in FINE D’ANNO è la lingua usata dalla Drigo. La dama alto-borghese alle soglie della vecchiaia decide di cambiare completamente stile di vita, mutamento rispecchiato nello scriversi; la sua lingua diventa quella del flusso interiore, il dialogo di una donna con se stessa che impara a guardarsi e ad osservare gli altri. L’uso frequente del dialetto [5], ora garbatamente graffiante, ora volutamente uniforme, incolore, quasi come una litania da vecchia comare, la distanzia dalla ridondanza di molta letteratura di regime [6].
Paola Drigo, grazie ad una sapiente messa in scena - per dirla con Eco - permette ai suoi personaggi di demolire le icone delle famiglie paesane, vigorose, irreprensibili ed in piena salute, che spariscono grazie al suo semplice atto narrativo. Attraverso la sovversione dell’immagine immaginata della società patriarcale di regime, l’autrice ne demolisce la retorica e l’estetica, sostituendo i connotati del potere e della forza con le loro antinomie, obbligando chi legge ad identificarsi con l’indesiderabile, l’improprio, la realtà altra. Questo non significa che la Drigo fosse una militante antifascista, benchè si fosse espressa abbastanza esplicitamente in FINE D’ANNO (e lo farà con maggior forza nel romanzo seguente, MARIA ZEF). Probabilmente una non allineata, l’autrice lavorò coscientemente per spostare l’attenzione sulle realistiche figure fragili di un ambiente negletto e sommerso, contribuendo alla demolizione della narrativa fascista.
NOTE
[1] Ristampato solo ultimamente, nel 2005, da Rocco Carabba. Fine d’Anno sarà seguito da Maria Zef, che vinse il premio Viareggio nel ’37, per poi sparire nel dimenticatoio. Uscì di nuovo per la Garzanti solo negli anni ’80.
[2] Termine usato dall’autrice stessa nel testo.
[3] Padrona, in dialetto alto-veneto, con connotazione negativa.
[4] A questo proposito si vuole prendere in considerazione Judith Butler ed il suo GENDER TROUBLES. Se “gender is a performance” questo non sembra valere per le protagoniste di FD che sembrano andare decisamente contro le tesi della Butler.
[5] In MZ la Drigo dedicherà intere pagine alle intere villotte, o ballate, in lingua friulana.
[6] Si veda Sapori, DA ROMA AL CIRCEO, del 1934: “Roma Imperiale risorge. […] Il pellegrino innamorato vede i frammenti marmorei del Tempio di Marte Ultore […] Il Duce penso’ di aprire un varco dalla Piazza di Venzia all’Anfiteatro Flavio. Questa regina delle strade […]e’ la piu’ monumentale strada del mondo, perche’ sprofonda nella storia di Roma come un titanico sole.’’ pp. 34 - 37.
OPERE CITATE E CONSULTATE
A. Arslan, DAME, REGINE E GALLINE: LA SCRITTURA FEMMINILE TRA ‘800 E ‘900, Milano, Guerini Studio, 1998.
AA.V.V., CARTA DI DONNA. NARRATRICI ITALIANE DEL NOVECENTO, Torino, SEI, 1996.
A.A.V.V., IL NOVECENTO DELLE ITALIANE. UNA STORIA ANCORA DA RACCONTARE, Roma, Editori Riuniti, 2001.
G. Baransk e S. Vinall, WOMEN AND ITALY. ESSAYS ON GENDER, CULTURE, AND HISTORY, London, University of Reading European and International Studies,1991.
R. Ben-Ghiat, FASCIST MODERNITIES. ITALY, 1922-1945, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 2001.
J. Butler, GENDER TROUBLE, New York, Routledge, 1990.
M. De Giorgio, LE ITALIANE DALL’UNITÀ AD OGGI. MODELLI CULTURALI E COMPORTAMENTALI SOCIALI, Roma-Bari, Laterza, 1992.
P. Drigo, FINE D’ANNO, Milano, Treves, 1936; MARIA ZEF, Milano, Garzanti, 1982.
U. Eco e T. Sebeok, THE SIGNS OF THREE: DUPIN, HOLMES, PIERCE, Bloomington, Indiana University Press, 1983.
A. Illiano, INVITO AL ROMANZO D’AUTRICE DELL’OTTOCENTO-NOVECENTO, Fiesole, Cadmo, 2001.
J. Kristeva, BLACK SUN, New York, Columbia University Press, 1989.
MOTHERS OF INVENTION: WOMEN, ITALIAN FASCISM, AND CULTURE, a cura di R. Pickering-Iazzi, Minneapolis Minnesota University Press, 1995.
F. Restaino e A. Cavarero, LE FILOSOFIE FEMMINISTE, Torino, Paravia, 1999.
F. Sapori, DA ROMA AL CIRCEO, Milano, Bompiani, 1934.
23/02/09
Antonio Zollino, I PARADISI AMBIGUI. SAGGI SU MUSICA E TRADIZIONE NELL’OPERA DI MONTALE
[Tradition under disguise. Foto di Marzia Poerio
Antonio Zollino, I PARADISI AMBIGUI. SAGGI SU MUSICA E TRADIZIONE NELL’OPERA DI MONTALE. Piombino, Edizioni Il Foglio, 2008
Col suo approccio intertestuale, e nell’ambito di una critica stilistica aggiornata negli strumenti, Antonio Zollino mira con questa raccolta di saggi (1989-2008) a collocare l’opera di Montale “all'interno di una salda concezione tradizionale della poesia: una concezione che si rivolge alla voce d'altri poeti come ad un termine di dialogo e di riferimento, magari da rovesciare” (p. 65), come già ebbe a esprimersi Romano Luperini, nella sua STORIA DI MONTALE, commentando gli esiti dell’influenza dannunziana sugli OSSI: “Ma Montale nel suo primo libro non si limita ad ‘attraversare’ D’Annunzio: alla fine, lo rovescia […]” [1].
L’opera montaliana acquista qui ulteriori, appassionanti profondità perché sottoposta a un’indagine che, rinvenendo tradizioni, risonanze, reminiscenze, ne spiega anche la rifunzionalizzazione in un ordine proprio, all’interno della diversa e specialissima Weltanshauung del poeta ligure. Operazione che fornisce altresì valido sostegno, quando non un quadro di riferimento, a molte delle interpretazioni (o anche solo intuizioni) della vastissima critica montaliana.
Zollino muove fondamentalmente in due direzioni: mostrare l’ampiezza delle fonti di Montale, soprattutto a livello lessicale e fonosintattico, fornendo un contributo prezioso per arricchirne la mappa; rilanciare, provandola però con maggiore acribia di spogli, la ricognizione - che definiremmo “D’Annunzio-oriented” - inaugurata autorevolmente da Pier Vincenzo Mengaldo sul corpus montaliano [2]. Il titolo I PARADISI AMBIGUI (da un verso di VIOLONCELLI), rinvia ai contributi più pregnanti qui dati da Zollino nelle due direzioni indicate: l’VIII, MONTALE PARADISIACO, sull’”osmosi”, fortemente rivendicata dal critico, “fra gli OSSI [ma non solo] e il Poema paradisiaco” dannunziano (p. 229); il X, omonimo, con la proposta di una “tipologia delle incidenze musicali nell’opera poetica” montaliana (p. 278), la cui lettura raccomandiamo al lettore per piacevolezza e dovizia di riferimenti.
Per la prima direzione (saggi I, IV, V, IX, X), il punto di partenza di Zollino sta nell’accoglimento dell’invito alla cautela espresso da Enrico Falqui molti anni or sono rispetto alla derivazione dannunziana del linguaggio poetico di Montale sostenuta (a suo giudizio troppo estensivamente) da Mengaldo col suo lavoro germinale in materia; Falqui segnalava il “rischio […] di far dipendere da D’Annunzio […] ciò che invece appartiene alla storia del linguaggio poetico italiano” [3] - di cui l’opera dannunziana costituirebbe, semmai, un poderoso agente traduttivo.
In apertura, con “Poliziano nel FALSETTO di Montale” - una “ricognizione sulle coordinate culturali” del componimento montaliano del 1924 - Zollino evidenzia la soggiacente “reminiscenza letteraria” - ai livelli lessicale, stilistico, figurale - delle STANZE, interpretata non tanto come peregrino esercizio neoclassicistico, quanto piuttosto come la rappresentazione dell’“occasione biografica” secondo un “modello di costruzione del personaggio tipico di tanta letteratura primonovecentesca”. Tale operazione di rivisitazione di una tradizione mitologizzante (l’Esterina come la Simonetta-ninfa), già praticata da D’Annunzio, obbedirebbe però in Montale ad un intento “antifrastico”, il mitologismo costituendo non più uno strumento unificante ma invece, modernisticamente, uno strumento ostensivo della “separazione” tra soggetto e altro da sé, secondo un’interpretazione del resto già ampiamente codificatasi nella critica: ancora Luperini sulle differenze già in esordio rispetto al modello dannunziano:
“Il fatto è che, mentre D’Annunzio è tutto impegnato a rimuovere la crisi del soggetto e dell’identità della poesia attraverso l’esaltazione panica e superomistica dell’io e l’elevazione al quadrato della poesia stessa, in Montale la crisi d’identità è lasciata drammaticamente aperta e lo sforzo di ricostruzione è semmai teso […] a un recupero della dimensione razionale ed etica contro ogni tentazione panica” [4].
A Zollino va il merito di fornire una “direzione di ricerca” che conferisce nuovo valore e, diremmo, “mette in sistema” precedenti “agnizioni” critiche, inclusa l’ipotesi di Ettore Bonora sull’allusione del titolo FALSETTO alla “voce del poeta che tenta di adeguarsi alla felicità del suo personaggio, di questa creatura tutta validità, che egli ammira sentendosi da lei troppo diverso” [5]. Il “falsetto” varrebbe come “falso” e, insieme, come “artificioso innalzamento del canto a un’ottava superiore” , nel senso dell’adozione di una voce non propria (il mitologismo, appunto).
Un “rapporto di trafila” fra Montale e il Papini “fantastico” (CONCERTO FANTASTICO) è esplorato e proposto nel IV saggio sulla base di somiglianze d’“ambiti tematici”, “soluzioni testuali”, “coincidenze espressive”: il tema del prigioniero, il simbolismo dello specchio, la situazione di immobilità… Convincente l’accostamento di ARSENIO alla papiniana ELEGIA PER CIÒ CHE NON FU, dove sono rilevate davvero “singolari” omologie.
Nel saggio su IL VENTAGLIO (1942), il V, Zollino ricostruisce con perizia quel che definisce “l’ampio semenzaio” intertestuale con cui Montale entrò in risonanza (specie per i motivi del ventaglio e del cannocchiale capovolto), e in modo molto convincente addita nel racconto VECCHIA STORIA (1941) di Gianna Manzini una possibile fonte. Cercando di sviluppare le implicazioni contenute nell’allusione oraziana di apertura “Ut pictura…”, l’interprete immagina che Montale abbia voluto col suo sonetto “fingere una battaglia” raccogliendo l’invito di Leonardo da Vinci, sostenitore della superiorità della pittura, a che i poeti si cimentino con i pittori nella raffigurazione della guerra (CODEX URBINAS LATINUS, 1279). Il ventaglio di Montale, sorta di pittura con “figurate parole”, fungerebbe da ex-voto imperfetto in quanto ben lungi dal potersi far “garante dell’avvenuta salvazione”; nel suo tessuto, tuttavia (e sta in questo l’interesse del lavoro ‘indiziario’ svolto dal critico), vanno ad intrecciarsi “fittissimi richiami intertestuali, che sembrerebbero raggruppati per confermare i valori di una tradizione minacciata dall’emergenza” (pp. 89-90): il ventaglio, come “condensato culturale”, oppone una fragile ma civile resistenza alla barbarie, stringendo “i valori di arte e poesia, di religione e tradizione a difesa di un’umanità gravemente minacciata nei suoi presupposti” (p. 99).
I saggi II, III e VI seguono invece la direzione della “trafila” dannunziana.
In “Su VECCHI VERSI: un’OCCASIONE fra il tempo degli OSSI e i luoghi di ALCYONE” (II cap.) il critico istruisce un’altra prova del vincolo esistente in Montale tra occorrenze biografiche e coincidenze letterarie, adducendone come esempio la “ricca vita intertestuale” di un “componimento cruciale, incentrato sui temi della memoria e della morte, in stretta connessione e opposizione fra loro, e posto in apertura della prima sezione delle OCCASIONI” (p. 27).
Partendo dalla notazione di Ettore Bonora sulla presenza in VECCHI VERSI di “una toponomastica insolitamente fitta” rispetto alle “scarse indicazioni topografiche e toponomastiche che s’incontrano nella ricca descrizione della Liguria negli Ossi di seppia” [6], il critico spezzino (conoscitore dei luoghi di referenza) lamenta il ricorrere nella critica di sviste quali l’attribuzione dell’isoletta del Tino al comprensorio delle 5 Terre o l’interpretazione del nome “Tritone” come indicazione toponomastica anziché mitologica: incongruenze che, osserva, viziano “l’ermeneutica complessiva delle OCCASIONI”, in quanto “mancano” il significativo riferimento nel testo a un territorio “già cantato [….] da d’Annunzio nell’ALCYONE” e l’altrettanto significativo richiamo mitologico - anch’esso di ascendenza dannunziana -.
Lo studioso prosegue la ricognizione intertestuale sottolineando le convergenze sia d’“ambito geografico-letterario” che lessicale con l’ALCYIONE e con LA “BAMBOCCIATA DELLA CILIEGIA” dannunziani, ma anche coincidenze lessicali e situazionali con testi librettistici (TOSCA, il TROVATORE). Il modello dannunziano sarebbe tanto più certo quanto più Montale si affannò a negarlo, come quando, nel 1970, riferendosi alla Riviera degli anni Venti, sostenne che “la variante ligure del dio Pan appariva nelle vesti di uno gnomo servizievole”: dichiarazione fuorviante rispetto al fatto che nel vecchio testo di “diversi decenni prima, fra i flutti di Portovenere, fuoriusciva il Tritone” (p. 40).
Il saggio “D’Annunzio nei TEMPI DI BELLOSGUARDO” [III cap.] muove dalle dichiarazioni dello stesso Montale sulla funzione paradigmatica svolta dal mare nella sua percezione e modalità di rappresentazione in generale (“il mare era dovunque”) [7], e - fedelmente al proprio assunto, e cioè che il poeta ligure “non possa disgiungere una qualsiasi contingenza personale da una precisa corrispondenza artistica o letteraria” (p. 41) - s’incarica di ricercare se in Montale anche “il tema marino si arricchisca del riferimento a precedenti e analoghe formulazioni espressive”.
Sulla scorta di Mengaldo e Isella, il saggio sviluppa una comparazione (specie negli incipit ed explicit) tra i tre tempi di TEMPI DI BELLOSGUARDO e vari luoghi di LAUS VITAE, ALCYONE e NOTTURNO, rilevando “certe somiglianze nelle orditure metriche, lessicali, sintattiche e retoriche”, tra cui i procedimenti dell’assonanza e della ripetizione, e un generale esito di “sostenutezza retorica”, opportunamente giudicati abbastanza poco usualmente montaliani (p. 59).
Suscita nel recensore aspettative di approfondimento la constatazione che i riscontri dannunziani, specie lessicali, nei TEMPI DI BELLOSGUARDO sono “tolti da componimenti alcioni a contenuto metamorfico e impiegati in un contesto analogo, caratterizzato dal parallelo tra piante ed esseri umani attestato soprattutto nel secondo dei ‘tempi’ montaliani” (p. 64): così come per altri temi/motivi da Montale ripresi e personalizzati fino a capovolgerne la valenza, quale ad es. “il collegamento fra musica e guerra” che nella terza parte delle OCCASIONI richiama il NOTTURNO, “eliminando qualsiasi giustificazione o esaltazione dell’imminente conflitto” (p. 65), sarebbe interessante (magari sulla scorta anche del bel saggio di Balducci) [8] indagare più da vicino le modalità, i procedimenti e le funzioni del metamorfismo in Montale, in comparazione ai modelli dannunziani.
Ma dove più riccamente si esplica il contributo critico di Zollino è nei saggi centrali: il VI, “Riscontri dannunziani nella BUFERA E ALTRO DI MONTALE (pp. 101-81); il VII, IL RIFERIMENTO DANNUNZIANO DA SATURA AD ALTRI VERSI (pp. 183-219); l’VIII, MONTALE PARADISIACO (pp. 221- 54).
Nel VI, il modello mengaldiano è applicato a LA BUFERA E ALTRO, e s’interessa “prevalentemente ai prestiti sintagmatici e alle reminiscenze fono-semantiche” da D’Annunzio (p. 106). L’accurata indagine, cui il ricorso agli spogli informatici assicura esaustività, trova un suo sicuro interesse a livello dell’interpretazione soprattutto là dove (come nella lettura de L’OMBRA DELLA MAGNOLIA) rileva la plusvalenza che certi simboli/motivi ricorrenti nell’opera montaliana (quali ad es. la /poesia-amuleto/, la /magnolia/, il /congedo/) traggono dall’intreccio che in essi si realizza tra “ricordo reale” e riferimento a precedenti letterari:
“L’OMBRA DELLA MAGNOLIA è nella BUFERA E ALTRO ciò che IL NOVILUNIO è all’interno dell’ALCYONE: appunto una lirica d’addio, a una donna e a una stagione insieme […]. Con la partenza della donna si sancisce, oltre che la fine di un’epoca storica per Montale, e di un’irripetibile stagione della vita in d’Annunzio, anche la fine di un modo di far poesia che a quell’epoca-stagione era legato: così in d’Annunzio la “canzone” dell’estate “si tace per sempre” (v. 165), mentre in Montale “la lima che sottile / incide tacerà, la vuota scorza / di chi cantava sarà presto polvere” (vv. 20-23)” (p. 166).
Suggestiva la notazione di Zollino sul “carattere schiettamente tematico” della motivazione che soggiace al “riuso” di passi dannunziani nella BUFERA: “il riferimento scatta di frequente per esprimere un’idea salvifica della poesia come scrigno di valori da eternare, esemplarmente condensabile nel simbolo del “gioiello” (si vedano GLI ORECCHINI in Montale e IL SONETTO D’ORO per d’Annunzio […]); ma anche [….] in presenza del tema dell’ “attesa del miracolo”, motivo che sarà certamente caratteristico di Montale, ma anche altrettanto certamente trova un illustre precedente in d’Annunzio (p. 178).
Nel VII saggio, Zollino mostra come dopo la BUFERA, “consumato l’estremo tentativo di una poesia salvifica ed esoterica, saldamente radicata su basi tradizionali e postsimboliste” (p. 183), pur nell’adozione di una lingua molto più vicina a quella dell’uso e nel ridimensionamento dell’allusività, permanga in Montale un dialogo intertestuale, benché più “diluito”, con la tradizione: Gadda, Tasso, Gonçales Dias e Sinisgalli (spunti evidenziati da Cesare Segre, 1996) e… D’Annunzio, con una manifesta preferenza per il LIBRO SEGRETO, attraverso rinvii difficilmente giudicabili come mere “coincidenze occasionali di temi e di atmosfere” (p. 215).
Nell’VIII saggio il critico sostiene l’idea di una continuità tematica ed espressiva rispetto al POEMA PARADISIACO - non solo negli OSSI ma anche nelle “raccolte successive (e in particolar modo […nel]la stagione “postuma”) di Montale, confermando in questo modo una ricezione né effimera né superficiale” (p. 224). Il recupero di POEMA PARADISIACO nel DIARIO POSTUMO sarebbe conseguente a un cambiamento di poetica, nel senso che
“quella poesia che nelle sillogi precedenti poteva sopravvivere soltanto screditata e senz’ombra d’aura, quasi negando se stessa, torna ora a rivestire una funzione attiva e credibile. Una siffatta rinnovata funzionalità si accompagna, dal punto di vista contenutistico, al ritorno alla purezza e alla semplicità del privato intesi come recupero di uno spazio edenico, immacolato, lontano dal mondo secolare e dai suoi pervertimenti, che combacia sostanzialmente con i motivi ispiratori e alla sostanza del POEMA PARADISIACO” (p. 234).
La lettura di NEL GIARDINO e di altri luoghi del DIARIO POSTUMO, come IL FILOLOGO, mostrano l’assimilazione di “una serie di momenti testuali e di spunti tematici” del POEMA PARADISIACO, con un procedimento che riscatta il registro spesso degradato del dettato poetico attraverso una “sovrapposta allusione letteraria, attiva solo cripticamente” (p. 242), e l’attivazione di campi semantici già dannunziani, quali la “musica dimenticata”, il /bianco/, il /giardino-paràdeisos/, il /tizianesco/ e il /pallore/ muliebri… D’accordo con Giuseppe Savoca, che nell’introduzione alle CONCORDANZE di DIARIO POSTUMO rilevava nel corpus stretti rapporti con Leopardi ed anche autocitazioni [9], Zollino definisce DIARIO POSTUMO come uno spazio poetico “in cui d’Annunzio appare inserito in un coro di voci intertestuali trascelte in un canone ‘alto’” (p. 247), dove la riproposizione, non più “negata e ironizzata”, di “temi e stilemi paradisiaci” avviene “all’interno di uno spazio comunicativo interamente ritagliato nel privato e, nella fattispecie, nel dialogo rivitalizzante con la ‘giovane Saffo’, ovvero l’interlocutrice femminile [Annalisa Cima] che campeggia nel testo e nella stessa destinazione del DIARIO POSTUMO” (p. 254).
Un volume che ben fa risaltare le qualità da segugio testuale di Zollino, montalianamente capace di rilevare la “maglia che non tiene” proprio nel luoghi testuali - poetici e critici (anche di autorità quali Mengaldo o Segre (cfr. saggio IX, sul “sabià” di Montale) - dove meno sembrerebbe annidarsi l’imboccatura d’una pista fruttuosa per una sempre più dettagliata ricostruzione dell’“enciclopedia” montaliana.
NOTE
[1] R. Luperini, STORIA DI MONTALE, Roma-Bari, Laterza, 1986, p. 24.
[2] Pier Vincenzo Mengaldo, DA D’ANNUNZIO A MONTALE, in AA.VV., RICERCHE SULLA LINGUA POETICA CONTEMPORANEA (1966), “Quaderni del Circolo filologico-linguistico padovano”, I, Padova, Esedra, 1972; poi in LA TRADIZIONE DEL NOVECENTO, PRIMA SERIE, Milano, Feltrinelli, 1975; Torino, Bollati Boringhieri, 1996.
[3] E. Falqui, NARRATORI ITALIANI DA D’ANNUNZIO A C.E. GADDA, Firenze, Vallecchi, 1972, p. 77.
[4] R. Luperini, cit., p. 24.
[5] E. Bonora, INTERPRETAZIONE DI MONTALE, Torino, Tirrenia Stampatori, 1977, p. 71.
[6] Ibidem, p. 36.
[7] MONTALE COMMENTA MONTALE, a cura di L. Greco, Parma, Pratiche, 1980, p. 94.
[8] M. A. Balducci, IL SORRISO DI ERMES. STUDIO SUL METAMORFISMO DANNUNZIANO, Firenze, Vallecchi, 1989.
[9] G. Savoca, CONCORDANZA DEL DIARIO POSTUMO DI EUGENIO MONTALE: FACSIMILE DEI MANOSCRITTI, TESTO, CONCORDANZA, Firenze, Olschki, 1997.
[Paola Polito]
19/02/09
Henry S. Turner, SHAKESPEARE’S DOUBLE HELIX
[Two beginnings, one thread. Foto di Marzia Poerio]
Henry S. Turner, SHAKESPEARE’S DOUBLE HELIX. Londra e New York, Continuum, 2007
SHAKESPEARE’S DOUBLE HELIX è un libro insolito. E dunque un volume che si trova a suo agio tra i titoli raccolti nella collana “Shakespeare Now” edita da Continuum Books, la quale promuove libri che, stando alla premessa del curatore della serie, puntano al riavvicinamento tra la critica shakespeariana e la comunità di lettori.
Ciò che è maggiormente innovativo nel libro di Turner è senza dubbio la struttura bipartita da cui il titolo deriva. La doppia elica è infatti, da un punto di vista formale e immediato, la giustapposizione di due testi. Il primo (WHEN EVERYTHING SEEMS DOUBLE) è stampato sulle pagine dispari e riguarda i concetti di mimesi e metamorfosi, in particolare a riguardo del testo shakespeariano A MIDSUMMER NIGHT’S DREAM. Il secondo saggio (TWO INTERTWINING HELICES), che occupa le pagine pari, cerca di stabilire alcune linee per una possibile parentela tra genetica e letteratura. Ed è proprio questo secondo scritto a risultare il più interessante tra i due. La struttura bifronte riguarda pure la bibliografia: le voci sono raggruppate in due veri e propri capitoletti bibliografici a cui l’autore dà per titolo un verso del SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE. La prima delle due parti si intitola “THIS IS THE TRUE BEGINNING OF OUR END” (Atto V, scena 1), la seconda “THEN READ THE NAMES OF THE ACTORS; AND SO GROW TO A POINT” (Atto I, scena 2). Sembra interessante notare come la parola “actors”, appartenente al campo semantico delle professioni teatrali, sia associata al secondo saggio, il quale incomincia trattando di genetica. Turner cerca di mettere in evidenza l’esistenza di elementi comuni tra il palcoscenico, i suoi attori e l’idea di mimesis e il mondo dei laboratori e dell’eugenetica. E si spinge quindi oltre, suggerendo due modi per leggere il volume: uno “verticale”, saggio per saggio, e uno “orizzontale”, che permetterebbe al lettore di “digerire” (“to digest”) simultaneamente il due scritti (p. xii).
Il primo contributo non pare essere estremamente innovativo, ma è utile al lettore in quanto utilizzabile come pietra di paragone per il secondo saggio, di certo invece più stimolante.
Il primo dei due scritti si concentra su A MIDSUMMER NIGHT’S DREAM e sulle alchimie linguistiche di Shakespeare che sono in grado, secondo Turner, proprio come la moderna eugenetica, di produrre continue alterazioni e metamorfosi. Gli esempi testuali citati dal SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE sono molto ben scelti e mettono in rilievo la molteplicità dell’opera shakespeariana, caratterizzata da un continuo divenire e da una lingua poetica fortemente metamorfica. Turner cita inoltre a una vasta gamma di fonti e risulta certamente apprezzabile la menzione di alcune voci bibliografiche spesso dimenticate (su tutte Martin Gardner, THE NEW AMBIDEXTROUS UNIVERSE: SYMMETRY AND ASYMMETRY FROM MIRROR REFLECTIONS TO SUPERSTRINGS [1], citato a proposito della seduzione di Bottom-asino da parte di Titania). Turner considera quindi l’idea di mimesis, l’antico potere di imitazione della natura, e ne delinea un profilo storico a partire dalle teorie di Platone e Aristotele e, attraverso l’analisi delle esperienze di Giovanni Pico Della Mirandola e Marsilio Ficino, conclude sottolineando la capacità del teatro di dare vita alle cose attraverso la forza della significazione. Ciò vale in particolare per i drammi shakespeariani, spesso caratterizzati da una fitta trama di giochi meta-teatrali.
In A MIDSUMMER NIGHT’S DREAM il potere mimetico della parola può essere sintetizzato dalla famosa esclamazione di Snout: “Bottom thou art translated” (Atto II, scena 2). Una metamorfosi, questa, che crea un asino da un uomo, o meglio innesta una testa d’asino in un corpo di uomo, e avviene per mezzo di una sorta di incantesimo evocato dall’elfo Puck. Il teatro, dunque, può ben essere visto come una continua mutazione, secondo Turner; e la metamorfosi come un incantesimo. Da queste due idee l’autore fa partire il suo studio che ha come fine ultimo la dimostrazione della possibilità di apparentare fra loro arte teatrale e genetica. Parlando di Pico della Mirandola, di Sir Philip Sidney e delle scienze occulte che Shakespeare “sfrutta in pieno nei boschi fuori Atene” (p. 54), Turner fa propria l’idea del poeta come mago, i cui intrugli magici sono le parole: proprio come gli amminoacidi sono i costituenti base dell’elica del DNA e, conseguentemente, della duplicazione genetica. Pertanto Puck è, in un libro che cerca di proporre teatro e scienza, palcoscenici e laboratori, parole e proteine come due facce della stessa medaglia, il personaggio più interessante del SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE. Difatti, secondo Turner, l’elfo riassume in sé sia l’idea di mimesis che quella di metamorfosi, mutando la sua forma con tanta facilità da rendere difficile comprendere quale sia la sua vera natura (p. 78). Per questa ragione, essendo una sorta di stregone che attraverso incantesimi verbali dà forma a se stesso - e agli altri - attraverso “a spectrum of non human beings” (p. 78), Turner afferma che Puck “enters the laboratory”, può essere considerato di fatto alla stregua di un operatore scientifico. È questa la più chiara espressione di quel potere mimetico, reso possibile dalla parola poetica, che rende A MIDSUMMER NIGHT’S DREAM un dramma rivoluzionario, collocato proprio nel mezzo della “nuova scienza” del sedicesimo secolo.
Consideriamo ora il secondo saggio, il più “scientifico”. Lo scopo che l’autore vi si prefigge è chiaramente affermato sin dalle prime righe: “we should regard genetic engineering and biotechnology not simply as a new application of scientific knowledge but rather as a new model of poetics, and that Shakespeare’s own work provides a model for just such an approach” (p.7). Tutto, second Turner, ruota attorno a un problema che è quello della denominazione: “making a tool that is naturally ‘fitted for each purpose’” (p. 15). In A MIDSUMMER NIGHT’S DREAM è Teseo che brandisce le parole come un’arma per creare significazioni dal nulla, riaffermando così il ruolo della parola quale molecola fondamentale della vita poetica che dà, di fatto, il nome alle cose. In questo senso, allora, il meta-teatro (nel SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE la recita dei “rude mechanicals”) assume, nella cellula che è l’intera opera, il ruolo del cromosoma malato. Peter Quince è, conseguentemente, “the misfiring regulator gene” (p. 23). Un approccio al meta-teatro shakespeariano condotto da questa prospettiva risulta piuttosto affascinante.
Turner passa poi ad osservare una presunta influenza di Shakespeare persino sulla nominazione scientifica degli oggetti. In particolare la sua attenzione si concentra su un fiore, la rosa per la precisione, sul suo profumo e sulla “Puck’s potion”, la pozione realizzata da Puck, una fragranza nata, stando Turner, dalla “unlikely collaboration between the Royal Society of Chemistry and The Royal Shakespeare Company” (p. 27), il che dovrebbe suggerire come poesia e scienza possano essere, seppure talvolta inconsciamente, apparentate.
Questa considerazione di Turner porta alla luce, tuttavia, un limite del suo volume, peraltro ammesso dall’autore stesso: la mancanza di prove filologiche a sostegno delle tesi sostenute. La sottile linea considerata il trait d’union tra linguaggio e genetica, arte teatrale e laboratori, Shakespeare e la scienza, seppure accattivante, è in fatti gran parte frutto di speculazioni scarsamente (o non del tutto) sostenute da prove testuali cogenti. Occorre dire inoltre che, a dispetto di una certa originalità, Turner si appoggia frequentemente a scritti tra cui spicca WHAT A MAD PURSUIT di Francis Crick [2], che a sua volta svolge uno studio comparato sulle figure del biologo Richard Dawkins e William Shakespeare per illustrare il processo di selezione naturale.
Il maggiore pregio del volume resta comunque quello di presentare lo studio della letteratura non come un corpo morto, ma come un’entità in perpetuo divenire e ricca di quelle molecole che, esattamente allo stesso modo dell’elica del DNA, sono in grado di perpetuare e modificare l’esistente. Sotto il velame di Shakespeare e delle sue “implicazioni scientifiche” il libro di Turner, che si decida di leggerlo in modo orizzontale o verticale, sembra essere un’esortazione a un approccio un po’ più curioso alla letteratura e, in particolare, alla critica shakespeariana, un campo critico spesso a rischio di stagnazione.
Per concludere, Turner sembra volere incitare [3] alla considerazione dei materiali poetici quasi come fossero una sorta di brodo cellulare. I corpuscoli che costituiscono questa materia lavorano insieme per poi riprodursi, potenzialmente all’infinito, con l’aiuto degli amminoacidi giusti e grazie a quella doppia elica, il DNA, che in questo volume può essere vista come una metafora dello spirito comparativo. Se si legge il libro da una tale prospettiva sarà certo più facile sorvolare su alcuni fastidiosi errori di stampa e su alcune ovvietà presenti nei due saggi, soprattutto nel primo. Ciò detto, il volume di Turner può certo essere un potenziale stimolo per nuove discussioni critiche e, nel complesso, una buona aggiunta alla sterminata critica shakespeariana.
NOTE
[1] Londra, Penguin, 1964.
[2] Londra, Wiedenfield and Nicolson, 1988.
[3] Chiaramente sotto l’influenza di Richard Dawkins, THE SELFISH GENE, Oxford University Press, 1988.
[Matteo Brera]
17/02/09
Franco Pierno, TRILOGIA PER ATTILIO BERTOLUCCI
[Leaves which lived a previous life. Foto di Marzia Poerio]
“VERSO CASAROLA” - I
Qui regola una buona abitudine:
che l’autista, svegliandoci da sonni
intrecciati d’afa e vite prima che
sia più vivo il taglio dell’Appennino,
lo stordimento di pietra e noccioli
negli occhi, ci lasci benevolo
all’accalmìa di questo dopopranzo
luminoso, in un tempo sospeso
su opache tende e fiamme
di vino nel vetro, lontano
da riprendere il passo di questa
corriera verso un cielo furente.
“VERSO CASAROLA” - II
Troverò A. in posa curva, atona,
insensibile a un tempo
che lesina luglio come poco
amore sofferto, pietra di versi
infilati come sentieri umidi
fra i castagni, candore di pause
su piani tronchi segati, sequenze
interrotte in dirupi d’aria e azzurro?
UN “THE” A CASAROLA - III
Ci sono tempi inglesi per trovarsi
e nubi del favore appenninico
migranti sui declivi, sull’orto
perdendo l’ora e la stagione che ora
si infiammeranno in un campo emiliano
o lombardo, affliggeranno
di sonno una pergola...
“... no, signor Attilio, i suoi ottanta
non la minacciano...” sfiorano, invece,
la vita che dalle tazze si stacca
con il vapore che alla finestra
si confonde con questo passaggio
celeste.
Torneranno del parquet e del fogliame
i colori abituali, sarà solo
vezzo del villeggiante montano
il cardigan, ben abbottonato ora,
incurante del mese e della moda.
15/02/09
Carmelo Samonà, FRATELLI
["Look for oneself daily without finding". Foto di Marzia Poerio]
Carmelo Samonà, FRATELLI (1978), in TUTTA L’OPERA NARRATIVA, Milano, Mondadori, 2002
Ciascuno cela il mistero di se stesso. È quotidiano a tutti il cercarsi senza ritrovarsi. La mente altrove.
Per questo è sempre attuale il percorso che Carmelo Samonà traccia nel suo primo libro di narrativa, FRATELLI , che, per quanto risalga al 1978, quando l’autore aveva 32 anni, si trova adesso riproposto nell’ opera omnia pubblicata da Mondadori, in cui sono compresi tutti i romanzi scritti nell’arco di tempo 1978-1990.
Si tratta di un racconto lungo che ebbe molto successo - Natalia Ginzburg lo definì “uno dei romanzi più belli degli ultimi anni” - e ancora si ripropone quale piccolo gioiello.
Quasi genere a sé, è un tipo di narrativa che ha in nuce una proposta di cinema psicologico, o dramma da palcoscenico. È stato ripreso spesso da giovani attori e portato in teatro per la regia di Antonio Viganò, a Palermo (Teatro Libero), a Milano (T. Elfo), a Riccione (T. del Mare), a Bellinzona (Teatro Sociale), a Merate, CO, (T. La Ribalta), etc.
FRATELLI: fiction o autobiografia? Diario di un’avventura dello spirito.
Il racconto prende forma in una tessitura scritturale semplice e quotidiana su cui si intrecciano colorazioni ambigue dei rapporti fra fili interni in tensione. L’indagine psicologica si svolge con forza di penetrazione nel definire ruoli e dettagli dell’agire di due individui a stretto contatto fra loro. Eventi di ogni giorno sono messi in rilievo, isolati come dall’insieme di un quadro. Ingigantito il contenuto emotivo.
La vicenda si svolge in un appartamento di città, quasi una stanza sola, un deserto, comunque un labirinto dell’anima. I personaggi sono due fratelli, maschi. Uno sano, l’altro malato, afflitto da depressione maniacale, ossessiva. Nel trascorrere delle ore che paiono secoli d’attesa e di sospensione, i due vivono in simbiosi un diario di giorni senza tempo. Fra assurdo e verità. Sintomi chiari di malattia si alternano a finzione. I compromessi del rapporto con la persona malata che si ama significano annullamento di sé per chi è sano, perdita (temporanea?) dell’io primigenio; ma anche lotta per la sopravvivenza, coraggio dell’azione contingente, scambio dei ruoli, e perseveranza, per una salvezza inseguita di normalità.
Un rapporto difficile, un confronto con la pazzia. I ruoli di despota e di vittima, di sano e di malato, che si alternano fra i due fratelli, li imprigionano in un gioco di mente e di assuefazione che stravolge l’esperienza eccezionale.
FRATELLI: una coppia, che potrebbe essere qualsiasi altra coppia - e ciascuno di noi rispetto all’altro che è in noi. Il limite della ragione umana si pone al confine estremo con il mistero di qualche cosa nel profondo dell’essere al di là del conoscibile.
La tensione è alta. L’analisi minuziosa traduce amore austero nel gesto quotidiano.
Lo stile della scrittura appare stringato e senza indulgenze o intemperanze. Nel mosaico delle intuizioni psicologiche il dettato è preciso, tracciato con sicurezza in economia di discorso. Il vocabolario è ricco e concreto, nell’adozione di un linguaggio quasi scientifico.
Si ha l’impressione che l’autore sia stato in qualche modo coinvolto in una esperienza similare, per la verità con cui penetra in profondo certa sensibilità esasperata:“potrei […] lasciare mio fratello al suo destino e fuggire. Se non faccio nulla di simile è perché ho scelto liberamente di vivere qui”.
Questo lavoro, se si prescinde dalle esigenze implicite della finzione teatrale, si allinea con opere di teatro quali TOI ET TES NUAGES di Eric Westphal (dramma di due sorelle in rapporto di convivenza complesso, paragonabile a quello qui trattato); THE GLASS MENAGERIE E A STREETCAR NAMED DESIRE di Tennessee Williams; nonché WHO’S AFRAID OF VIRGINIA WOOLF? di Edward Albee.
In tutte le opere la sottigliezza della motivazione psicologica delle reazioni e la situazione eccezionale di convivenza creano, nel difficile equilibrio della coppia, un’atmosfera rarefatta e allucinante di violenza spirituale, una tensione dei rapporti e una brama della propria identità che non trovano riscontro nella condizione quotidiana.
Carmelo Samonà (Palermo 1926 - Roma 1990): uno dei maggiori ispanisti italiani, ha insegnato all’Università “La Sapienza” di Roma. FRATELLI è stato finalista al “Premio Nazionale di Narrativa, Città di Bergamo”, nel 1985. Ha ricevuto il premio letterario Luigi Russo a Pozzale (Empoli), nel 2002. Pubblicato inizialmente da Einaudi, è stato in seguito inserito nella collana “Gli Elefanti” di Garzanti.
[Giuliana Lucchini]
13/02/09
Roberto Roversi, TRE POESIE E ALCUNE PROSE
[A man in a northern town. Foto di Marzia Poerio]
Roberto Roversi, TRE POESIE E ALCUNE PROSE. A cura di Marco Giovenale, Roma, Sassella, 2008
Un uomo e una città: Roberto Roversi e la sua Bologna.
Un uomo e la sua scrittura: dal giovanile progetto di “Eredi”, una rivista con Pasolini, Leonetti e Serra nel lontano 1942, fino ai suoi versi letti in piazza, a Bologna, durante l'estrema agonia di Eluana Englaro.
Forse non c'è, anzi credo che in assoluto non ci sia, un altro scrittore di casa nostra che abbia – dalla prima metà degli anni quaranta a oggi – un curriculum così lineare.
E scrivo l'espressione di "casa nostra" volendo sottolineare che Roversi è uno scrittore che mai ha perso di vista la realtà, la letteratura, la cultura e la politica di questo nostro Paese. Molto presto, anche se quasi per caso, ha trovato nella libreria antiquaria Palmaverde il suo osservatorio insieme centrale e appartato, un radicamento nei libri tra le pietre della sua Bologna.
L'editore Sossella pubblica oggi, per la cura di Marco Giovenale e con una nota dello studioso Fabio Moliterni, un' antologia consistente, che tuttavia non vuole e non potrebbe essere esaustiva, data l'abbondanza dei materiali. Un libro che era necessario fare e che torna a mostrare la serietà dell'impegno del suo editore sul fronte della poesia.
Il libro s'intitola TRE POESIE E ALCUNE PROSE. Scritti che vanno dai primi anni sessanta ai primi anni del duemila. Le poesie sono nella forma di lunghi poemetti, con appassionati trapassi argomentativi, citazioni da giornali e telegiornali; le prose hanno, nella loro capacità di raggiungere con la mente anche i sensi, una forza che è più frequente riconoscere alla poesia.
Il confine tra la prosa e la poesia nel fare (poiein) di Roversi viene spesso cancellato, infranto. Questo nonostante il ritmo musicale dei versi, il ricorso frequente alla rima interna e a fine verso, una cantabilità che ha risvegliato, è noto, l'interesse della canzone d'autore.
Ma torniamo ai luoghi, per i quali in mezzo a dichiarazioni scontrose d'amore, esplode una polivalenza di significati. Bologna è il luogo di LIBRO PARADISO, pubblicato nel difficile 1993, che raccoglie materiali scritti in un altro periodo di grave crisi della storia quasi-recente, la metà degli anni '70: “1. La creta, la selenite e l'arenaria / Di qui nasce il colore di Bologna / Nei tramonti brucia torri e aria […] 22. A che punto è la città? / La città è lì in piedi che ascolta. […] 24. A che punto è la città? / La città si nasconde le mani”.
Bologna: una città di rossi, il rosso come colore che brucia, colore della passione, anche politica. Bologna è muta e in silenzio, resa attonita dalla violenza, spaventata delle sue stesse responsabilità (“si nasconde le mani”). Bologna non è più la città, dove, negli anni cinquanta, arrivavano ancora dalla campagna gli odori stagionali, come Roversi testimonia in una splendida intervista resa a Gianni D'Elia, soffermandosi sullo svariare degli odori, dalla fioritura alla macerazione, della canapa. Bologna, comunque è la civitas per antonomasia, il luogo della contraddizione umana, della "civile convivenza", non più ormai laboratorio all'avanguardia, in un'Italia sempre sull'orlo della barbarie.
L'utopia è sempre l'idea regolativa della politica: Tommaso Campanella (il suo nome nella forma abbreviata dei codici: Th) è il dedicatario di tutti i libri. Utopiche, nel senso propositivo, anche le finalità della letteratura. Sperimentare è quanto si presenta imprescindibile. Sperimentare è mettere costantemente la letteratura alla prova della sua efficacia, non ripetere le fredde prove di un'avanguardia consumata che solo per arroganza può credersi innovativa. Questo è quanto Roversi afferma in serrati saggi degli anni sessanta, con i quali non è mai entrato in contraddizione.
La già citata preziosa intervista di D'Elia parte da un parallelo con l'altro poeta-librario antiquario, Umberto Saba. Le domande sugli incontri con altri grandi nomi, attiva una catena di ricordi che hanno uno dei nodi fondamentali negli anni della collaborazione con Pasolini intorno al gruppo di “Officina”. I rapporti interpersonali, certo si erano presto spezzati. La stessa fulminea affermazione di Pasolini lo aveva collocato in posizione asimmetrica rispetto al gruppo, rendendo di fatto impossibile una collaborazione paritaria. Ma, cambiando i compagni di strada, Roversi ha mantenuto una coerenza virile, un'ansia di giustizia sociale, testimoniata dai suoi scritti e dalle sue parole, una sostanziale fedeltà ai valori di una politica appassionatamente vissuta tramite la letteratura, nella logica di una militanza intellettuale al di fuori dei partiti politici.
[Piera Mattei]
11/02/09
Lucetta Frisa, Tre poesie da BASSO CONTINUO
BASSO CONTINUO è un testo ancora inedito di Lucetta Frisa, di cui pubblichiamo volentieri tre poesie. Non solo la musica e le sue cadenze riprodotte a seconda di ognuno dei generi qui prescelti, ma i temi più propri della poetessa genovese, la luce e le ombre, la vita e la morte, l’interrogazione sull’identità di sé e dell’altro (RB).
1.
NOTTURNI E VALZER
(Fredéric Chopin)
spegni la luce
il buio ci vola tra le mani
sparso ce lo tocchiamo sulla pelle
nella gola il fresco di un gelato e Chopin
danza tra gli oggetti - piume sfatte.
Poi quel soffio sulla guancia
ogni volta che siamo qui in estate
sempre allo stesso posto del divano
e nessuno di noi ha aperto i vetri
per non fare entrare le zanzare.
È solo aria?
Dicono che a volte i morti
si sollevano
fino a venirci accanto.
Forse
nei Notturni e nei Valzer
nel tocco sensuale del pianista
in questa stanza di note e ombre
vanno e vengono
in tempo reale.
2.
OBLIVION
(Astor Piazzola)
dimenticare è danzare all’indietro
ogni passo striscia il tacco sulla cera
non bisogna inciampare
ma scivolare il corpo con grazia.
Tu reggimi bene lo sai
che soffro di vertigini
quando mi allontano dalla scrivania.
Ciascuno con una spina dorsale
eretta da cinquantamila anni
ha imparato a volteggiare poi
s’incrina il pavimento.
Se danziamo all’indietro il piede
cancella il fastidio dei riflessi
ci illudono le curve di seguire
il flessuoso universo.
Miei occhi nei tuoi occhi: dipanando
il filo lungo e ritorto del tango
e del mondo che slitta via e noi
ci attorcigliamo a un chiodo.
3.
TEMPO DI SONATA
(Johannes Brahms)
non si può riportare qui la giovinezza
con un morso sulle labbra
sulla parete le foglie di una pianta
disegnano una ragazza che saluta
tutte le sere le ombre cambiano
ci accolgono affettuose in questa nicchia
o minacciano.
Brahms ci stringe in una morsa
di colpe e incompletezze
scortica subito e non sappiamo
dove nasconderci.
È nel diesis minore la tristezza?
Fa caldo. La ragazza saluta sempre
un faro d’auto sfreccia e la cancella
s’allontana e non la ritroviamo più.
Ora è un uccello, te ne sei accorta?
Entra una vespa dal buio grilli e rane dai giardini
forse il flutto regolare del mare
il cd si ferma sulla stessa nota
o l’ossessione è di Brahms?
1.
NOTTURNI E VALZER
(Fredéric Chopin)
spegni la luce
il buio ci vola tra le mani
sparso ce lo tocchiamo sulla pelle
nella gola il fresco di un gelato e Chopin
danza tra gli oggetti - piume sfatte.
Poi quel soffio sulla guancia
ogni volta che siamo qui in estate
sempre allo stesso posto del divano
e nessuno di noi ha aperto i vetri
per non fare entrare le zanzare.
È solo aria?
Dicono che a volte i morti
si sollevano
fino a venirci accanto.
Forse
nei Notturni e nei Valzer
nel tocco sensuale del pianista
in questa stanza di note e ombre
vanno e vengono
in tempo reale.
2.
OBLIVION
(Astor Piazzola)
dimenticare è danzare all’indietro
ogni passo striscia il tacco sulla cera
non bisogna inciampare
ma scivolare il corpo con grazia.
Tu reggimi bene lo sai
che soffro di vertigini
quando mi allontano dalla scrivania.
Ciascuno con una spina dorsale
eretta da cinquantamila anni
ha imparato a volteggiare poi
s’incrina il pavimento.
Se danziamo all’indietro il piede
cancella il fastidio dei riflessi
ci illudono le curve di seguire
il flessuoso universo.
Miei occhi nei tuoi occhi: dipanando
il filo lungo e ritorto del tango
e del mondo che slitta via e noi
ci attorcigliamo a un chiodo.
3.
TEMPO DI SONATA
(Johannes Brahms)
non si può riportare qui la giovinezza
con un morso sulle labbra
sulla parete le foglie di una pianta
disegnano una ragazza che saluta
tutte le sere le ombre cambiano
ci accolgono affettuose in questa nicchia
o minacciano.
Brahms ci stringe in una morsa
di colpe e incompletezze
scortica subito e non sappiamo
dove nasconderci.
È nel diesis minore la tristezza?
Fa caldo. La ragazza saluta sempre
un faro d’auto sfreccia e la cancella
s’allontana e non la ritroviamo più.
Ora è un uccello, te ne sei accorta?
Entra una vespa dal buio grilli e rane dai giardini
forse il flutto regolare del mare
il cd si ferma sulla stessa nota
o l’ossessione è di Brahms?
09/02/09
Annalisa Bonomo, UN ARTISTA A CAVALLO TRA CIELO E TERRA: L’ALLEGORIA TOLKENIANA DI LEAF BY NIGGLE
La raccolta conosciuta sotto il nome di TREE AND LEAF, venne pubblicata dalla Allen&Unwin Publishers, nel 1955, in seguito alla volontà di dare alle stampe in un unico volume il saggio ON FAIRY-STORIES ed il racconto allegorico dal titolo Leaf by Niggle, rispettivamente del 1938 e del 1939. Negli anni Sessanta, la stessa casa editrice decise di ripubblicare il volume con due ulteriori aggiunte SMITH OF WOOTTON MAJOR e THE HOMECOMING OF BEORHTNOTH, rispettivamente un altro racconto allegorico ed un piacevole poemetto pubblicati da J.R.R. Tolkien separatamente nel 1967 e nel 1953. Ad oggi pertanto, TREE AND LEAF riunisce definitivamente tutti e quattro i componimenti tolkeniani.
Pubblicato per la prima volta autonomamente sulla “Dublin Review” nel 1945, LEAF BY NIGGLE “was written when THE LORD OF THE RINGS was beginning to unroll itself” [1]. Definito dall’amatissima figlia Priscilla, come il racconto più autobiografico di J. R. R Tolkien, rimane effettivamente tra le più affascinanti creazioni tolkeniane. Nel 1938-39, la guerra imperversava, e con essa le insicurezze dell’uomo e dell’artista che spinsero Tolkien ad interrogarsi sui sempre più complessi rapporti tra uomo e società. Le domande senza risposta, la paura dell’inutilità dei propri miti lo portarono sul punto di rinnegare la propria esistenza di artista avvertita come pietosamente ridicola di fronte alla tragedia dell’umanità.
È con questo stato d’animo che l’autore decide tra l’azione o il ritiro dal proprio compito sociale ed è così che nasce la storia di Niggle il pittore, allegoria della condizione tolkeniana di quel periodo e unico protagonista di uno dei racconti migliori mai scritti da Tolkien, sebbene relativamente poco noto e spesso sottovalutato dalla critica di settore.
Niggle è un pittore di scarso successo, pigro e disordinato, ma ossessionato dalla voglia di “rifinire” (ma avrebbe fatto meglio a dire “terminare”) la sua unica ed importante creazione: un quadro raffigurante un grande albero al centro di un boschetto soleggiato. Aveva iniziato col dipingere solamente una foglia al centro della tela, ma quest’ultima si era via via trasformata in un albero maestoso e poi in un vero e proprio bosco di ampie dimensioni, tanto grande da costringerlo a costruire un apposito capannone nel suo giardino per potervi continuare a lavorare.
Dal desiderio ossessivo di completare l’opera il pittore è però continuamente distratto dagli obblighi di concittadino molto legato alla vita del suo paese. Curare il suo giardino o accorrere in aiuto del proprio vicino, continuano a rappresentare per lui l’impossibilità materiale di poter dipingere.
Particolarmente conflittuale è in tal senso il rapporto con uno dei suoi vicini, Parish lo zoppo, il quale non perde mai tempo per stuzzicarlo specie nei momenti in cui è più assorto a lavorare al quadro. Agli occhi di Parish, infatti, l’impegno di Niggle costituisce nient’altro che un’inutile perdita di tempo su un orribile ammasso di “macchie” scure e senza senso.
Va da sé che dietro il nome del vicino di Niggle, Parish, vi sia un evidente riferimento al significato di “comunità”, oltre che strettamente al corrispettivo italiano di “parrocchia”; quella degli uomini probabilmente, zoppa perché incompleta, incapace di valutare le azioni o l’impegno del singolo se non su limitate basi utilitaristiche.
È il rapporto conflittuale tra Niggle e Parish a costituire però il tema centrale del racconto. È in seguito all’ennesima distrazione procuratagli da Parish che Niggle finisce con l’ammalarsi, ed è durante la sua convalescenza che matura una crescente e lacerante percezione della brevità del tempo e della piccolezza dello spazio rimastigli da vivere.
L’antica consapevolezza della necessità di un viaggio, rimasto sempre a mezz’aria, mai iniziato se non nell’atto di rimandarne gli eterni preparativi prende solo allora il sopravvento sull’impegno artistico prolungato una vita.
Finalmente ripresosi dalla malattia ed al tempo stesso convinto di godere adesso delle forze sufficienti al completamento dell’opera, viene ancora una volta interrotto dall’ennesima visita: questa volta è il Cocchiere Nero a portargli la notizia che il tempo del suo viaggio non può più essere rimandato. Costretto a lasciare la sua unica opera incompiuta e privo degli adeguati preparativi necessari al viaggio, Niggle condivide con l’uomo di ogni tempo la condizione di partenza per l’ultima meta di ciascuna esistenza. Abbandonato il proprio paese, che molto ha in comune con le ridenti campagne inglesi tanto care a Tolkien, si ritrova protagonista di un nuovo scenario, i cui colori e le cui sfumature lo fanno simile ad una sorta di Purgatorio dantesco. Preso in cura in uno strano ospedale del luogo, Niggle impara a lavorare con intensità e costanza, pur non rinunciando mai alle sue benevole meditazioni solitarie. Dimenticati gli sbagli terreni, è ormai sicuro del “dono” artistico che padroneggia con quasi assoluta abilità.
La serenità intimamente connessa all’inserimento nella nuova comunità coincide con la promozione ad uno stadio successivo della cura a cui è sottoposto, così come Niggle stesso ha modo di intendere in seguito ad una conversazione privata avvenuta tra due “voci” misteriose.
Partito dunque per un altro breve viaggio e non ancora del tutto consapevole del luogo in cui riveste i panni di un eterno malato, Niggle si ritrova a contatto con una natura ridente mai vista prima:
“Niggle pushed open the gate, jumped on the bicycle, and went bowling downhill in spring sunshine. Before long he found that the path on which he had started had disappeared , and the bicycle was rolling along over a marvelous turf. It was green and close […]He seemed to remember having seen or dreamed of that sweep of grass somewhere or other” [2].
Ed è allora che si svela il miracolo: il nuovo paesaggio, che gli è in qualche modo familiare, non è nient’altro che il soggetto del suo stesso quadro, ma questa volta vivo e completato meglio di quanto lui stesso l’avesse mai immaginato. A padroneggiare l’intero panorama, Niggle ritrova il suo grande e amatissimo Albero:
“Before him stood the Tree, his Tree, finished. If you could say that of a Tree that was alive, its leaves opening, its branches growing and bending in the wind that Niggle had so often felt or guessed,[…]He gazed at the Tree, and slowly he lifted his arms and opened them wide.
“It’s a gift!” he said. He was referring to his art, and also to the result; but he was using the word quite literally” [3].
Sebbene l’Albero sia ormai perfettamente terminato, Niggle si accorge quasi subito che molte zone circostanti richiedono ancora un suo intervento.
Preso dalla voglia disperata di rifinire una volta per tutta la sua opera, la volontà rimane potenza per via di una strana sensazione dell’assenza di qualcosa. L’acquisita consapevolezza del proprio dono artistico, infatti, non è sufficiente: Niggle si riscopre incapace di operare sull’opera senza la presenza del suo antico nemico Parish.
Anche Parish, infatti, si trova presso lo stesso luogo di cura di Niggle ed è solo insieme che i due amici ritrovatisi dimostrano la forza necessaria al completamento dell’ultima fase della creazione artistica di Niggle.
La Fantasia (Niggle) e il senso pratico (Parish) sono così inevitabilmente legati e destinati a produrre i risultati migliori.
Parish è ormai guarito dalla sua infermità fisica e spirituale; è adesso un uomo nuovo e arricchito, pronto ad essere di vero aiuto all’opera di Niggle.
Terminati gli ultimi lavori, l’artista Niggle è ormai pronto a sognare mete più elevate, può ora desiderare il Paradiso stesso.
“Al livello dell’esperienza profana, la vita vegetale non è che un insieme di “nascite” e “morti”. Solo la visione religiosa della Vita permette di “scoprire” nel ritmo della vegetazione altri significati, prime fra tutte le idee di rigenerazione, di eterna giovinezza, di salvezza e di immortalità.[…]L’immagine dell’albero è stata scelta per significare la vita, l’immortalità e la sapienza” [4].
Niggle è ormai pronto per il suo ultimo viaggio: abbandona l’amicizia riscoperta per Parish, nel paese da loro insieme creato, Niggle’s Parish, destinato a rimanere meta di “ristoro” per chiunque si senta affaticato dal lungo viaggio che è la vita.
Il pittore Niggle sarà presto dimenticato definitivamente anche sulla Terra. Anche l’ultima foglia del suo quadro,infatti, conservatasi miracolosamente dopo la sua morte, andrà perduta dal Museo che l’aveva inizialmente conservata.
Quell’ultima foglia (l’opera) era di certo destinata a perire, ma il suo creatore, Niggle/ Tolkien, era invece pronto ad un legame maturo e costruttivo con il mondo, sulle ali di una fantasia intimamente legata ai colori dell’intuizione e alla forza di una partecipazione pratica alla vita.
NOTE
[1] J.R.R. Tolkien, INTRODUCTORY NOTE, in TREE AND LEAF, London, Unwin Books, 1971.
[2] “Niggle spinse il cancello, saltò in sella e scese pedalando per la collina nel sole primaverile. Ben presto si accorse che il sentiero lungo il quale si era avviato era scomparso e che la bicicletta stava ora correndo su un meraviglioso prato. Era verde e compatto […] Gli pareva di ricordarsi di aver visto o sognato quella distesa chissà dove o quando” (Dalla traduzione italiana ALBERO E FOGLIA).
[3] “Davanti a lui stava l’Albero,il suo Albero, bell’e finito. Se lo si poteva dire di un albero, quello era vivo, con le foglie che si aprivano e si piegavano nel vento che Niggle aveva così spesso sentito o immaginato […]Guardò l’Albero, e lentamente alzò le braccia e le allargò. “E’ un dono!” , esclamò. Intendeva riferirsi alla propria arte, ma insieme anche al risultato, e tuttavia la parola l’aveva usata in senso assolutamente letterale” (TREE AND LEAF, cit., p. 88; traduzione italiana ALBERO E FOGLIA, pp. 127-28).
[4] M. Eliade, IL SACRO E IL PROFANO, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, p. 95
Pubblicato per la prima volta autonomamente sulla “Dublin Review” nel 1945, LEAF BY NIGGLE “was written when THE LORD OF THE RINGS was beginning to unroll itself” [1]. Definito dall’amatissima figlia Priscilla, come il racconto più autobiografico di J. R. R Tolkien, rimane effettivamente tra le più affascinanti creazioni tolkeniane. Nel 1938-39, la guerra imperversava, e con essa le insicurezze dell’uomo e dell’artista che spinsero Tolkien ad interrogarsi sui sempre più complessi rapporti tra uomo e società. Le domande senza risposta, la paura dell’inutilità dei propri miti lo portarono sul punto di rinnegare la propria esistenza di artista avvertita come pietosamente ridicola di fronte alla tragedia dell’umanità.
È con questo stato d’animo che l’autore decide tra l’azione o il ritiro dal proprio compito sociale ed è così che nasce la storia di Niggle il pittore, allegoria della condizione tolkeniana di quel periodo e unico protagonista di uno dei racconti migliori mai scritti da Tolkien, sebbene relativamente poco noto e spesso sottovalutato dalla critica di settore.
Niggle è un pittore di scarso successo, pigro e disordinato, ma ossessionato dalla voglia di “rifinire” (ma avrebbe fatto meglio a dire “terminare”) la sua unica ed importante creazione: un quadro raffigurante un grande albero al centro di un boschetto soleggiato. Aveva iniziato col dipingere solamente una foglia al centro della tela, ma quest’ultima si era via via trasformata in un albero maestoso e poi in un vero e proprio bosco di ampie dimensioni, tanto grande da costringerlo a costruire un apposito capannone nel suo giardino per potervi continuare a lavorare.
Dal desiderio ossessivo di completare l’opera il pittore è però continuamente distratto dagli obblighi di concittadino molto legato alla vita del suo paese. Curare il suo giardino o accorrere in aiuto del proprio vicino, continuano a rappresentare per lui l’impossibilità materiale di poter dipingere.
Particolarmente conflittuale è in tal senso il rapporto con uno dei suoi vicini, Parish lo zoppo, il quale non perde mai tempo per stuzzicarlo specie nei momenti in cui è più assorto a lavorare al quadro. Agli occhi di Parish, infatti, l’impegno di Niggle costituisce nient’altro che un’inutile perdita di tempo su un orribile ammasso di “macchie” scure e senza senso.
Va da sé che dietro il nome del vicino di Niggle, Parish, vi sia un evidente riferimento al significato di “comunità”, oltre che strettamente al corrispettivo italiano di “parrocchia”; quella degli uomini probabilmente, zoppa perché incompleta, incapace di valutare le azioni o l’impegno del singolo se non su limitate basi utilitaristiche.
È il rapporto conflittuale tra Niggle e Parish a costituire però il tema centrale del racconto. È in seguito all’ennesima distrazione procuratagli da Parish che Niggle finisce con l’ammalarsi, ed è durante la sua convalescenza che matura una crescente e lacerante percezione della brevità del tempo e della piccolezza dello spazio rimastigli da vivere.
L’antica consapevolezza della necessità di un viaggio, rimasto sempre a mezz’aria, mai iniziato se non nell’atto di rimandarne gli eterni preparativi prende solo allora il sopravvento sull’impegno artistico prolungato una vita.
Finalmente ripresosi dalla malattia ed al tempo stesso convinto di godere adesso delle forze sufficienti al completamento dell’opera, viene ancora una volta interrotto dall’ennesima visita: questa volta è il Cocchiere Nero a portargli la notizia che il tempo del suo viaggio non può più essere rimandato. Costretto a lasciare la sua unica opera incompiuta e privo degli adeguati preparativi necessari al viaggio, Niggle condivide con l’uomo di ogni tempo la condizione di partenza per l’ultima meta di ciascuna esistenza. Abbandonato il proprio paese, che molto ha in comune con le ridenti campagne inglesi tanto care a Tolkien, si ritrova protagonista di un nuovo scenario, i cui colori e le cui sfumature lo fanno simile ad una sorta di Purgatorio dantesco. Preso in cura in uno strano ospedale del luogo, Niggle impara a lavorare con intensità e costanza, pur non rinunciando mai alle sue benevole meditazioni solitarie. Dimenticati gli sbagli terreni, è ormai sicuro del “dono” artistico che padroneggia con quasi assoluta abilità.
La serenità intimamente connessa all’inserimento nella nuova comunità coincide con la promozione ad uno stadio successivo della cura a cui è sottoposto, così come Niggle stesso ha modo di intendere in seguito ad una conversazione privata avvenuta tra due “voci” misteriose.
Partito dunque per un altro breve viaggio e non ancora del tutto consapevole del luogo in cui riveste i panni di un eterno malato, Niggle si ritrova a contatto con una natura ridente mai vista prima:
“Niggle pushed open the gate, jumped on the bicycle, and went bowling downhill in spring sunshine. Before long he found that the path on which he had started had disappeared , and the bicycle was rolling along over a marvelous turf. It was green and close […]He seemed to remember having seen or dreamed of that sweep of grass somewhere or other” [2].
Ed è allora che si svela il miracolo: il nuovo paesaggio, che gli è in qualche modo familiare, non è nient’altro che il soggetto del suo stesso quadro, ma questa volta vivo e completato meglio di quanto lui stesso l’avesse mai immaginato. A padroneggiare l’intero panorama, Niggle ritrova il suo grande e amatissimo Albero:
“Before him stood the Tree, his Tree, finished. If you could say that of a Tree that was alive, its leaves opening, its branches growing and bending in the wind that Niggle had so often felt or guessed,[…]He gazed at the Tree, and slowly he lifted his arms and opened them wide.
“It’s a gift!” he said. He was referring to his art, and also to the result; but he was using the word quite literally” [3].
Sebbene l’Albero sia ormai perfettamente terminato, Niggle si accorge quasi subito che molte zone circostanti richiedono ancora un suo intervento.
Preso dalla voglia disperata di rifinire una volta per tutta la sua opera, la volontà rimane potenza per via di una strana sensazione dell’assenza di qualcosa. L’acquisita consapevolezza del proprio dono artistico, infatti, non è sufficiente: Niggle si riscopre incapace di operare sull’opera senza la presenza del suo antico nemico Parish.
Anche Parish, infatti, si trova presso lo stesso luogo di cura di Niggle ed è solo insieme che i due amici ritrovatisi dimostrano la forza necessaria al completamento dell’ultima fase della creazione artistica di Niggle.
La Fantasia (Niggle) e il senso pratico (Parish) sono così inevitabilmente legati e destinati a produrre i risultati migliori.
Parish è ormai guarito dalla sua infermità fisica e spirituale; è adesso un uomo nuovo e arricchito, pronto ad essere di vero aiuto all’opera di Niggle.
Terminati gli ultimi lavori, l’artista Niggle è ormai pronto a sognare mete più elevate, può ora desiderare il Paradiso stesso.
“Al livello dell’esperienza profana, la vita vegetale non è che un insieme di “nascite” e “morti”. Solo la visione religiosa della Vita permette di “scoprire” nel ritmo della vegetazione altri significati, prime fra tutte le idee di rigenerazione, di eterna giovinezza, di salvezza e di immortalità.[…]L’immagine dell’albero è stata scelta per significare la vita, l’immortalità e la sapienza” [4].
Niggle è ormai pronto per il suo ultimo viaggio: abbandona l’amicizia riscoperta per Parish, nel paese da loro insieme creato, Niggle’s Parish, destinato a rimanere meta di “ristoro” per chiunque si senta affaticato dal lungo viaggio che è la vita.
Il pittore Niggle sarà presto dimenticato definitivamente anche sulla Terra. Anche l’ultima foglia del suo quadro,infatti, conservatasi miracolosamente dopo la sua morte, andrà perduta dal Museo che l’aveva inizialmente conservata.
Quell’ultima foglia (l’opera) era di certo destinata a perire, ma il suo creatore, Niggle/ Tolkien, era invece pronto ad un legame maturo e costruttivo con il mondo, sulle ali di una fantasia intimamente legata ai colori dell’intuizione e alla forza di una partecipazione pratica alla vita.
NOTE
[1] J.R.R. Tolkien, INTRODUCTORY NOTE, in TREE AND LEAF, London, Unwin Books, 1971.
[2] “Niggle spinse il cancello, saltò in sella e scese pedalando per la collina nel sole primaverile. Ben presto si accorse che il sentiero lungo il quale si era avviato era scomparso e che la bicicletta stava ora correndo su un meraviglioso prato. Era verde e compatto […] Gli pareva di ricordarsi di aver visto o sognato quella distesa chissà dove o quando” (Dalla traduzione italiana ALBERO E FOGLIA).
[3] “Davanti a lui stava l’Albero,il suo Albero, bell’e finito. Se lo si poteva dire di un albero, quello era vivo, con le foglie che si aprivano e si piegavano nel vento che Niggle aveva così spesso sentito o immaginato […]Guardò l’Albero, e lentamente alzò le braccia e le allargò. “E’ un dono!” , esclamò. Intendeva riferirsi alla propria arte, ma insieme anche al risultato, e tuttavia la parola l’aveva usata in senso assolutamente letterale” (TREE AND LEAF, cit., p. 88; traduzione italiana ALBERO E FOGLIA, pp. 127-28).
[4] M. Eliade, IL SACRO E IL PROFANO, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, p. 95
07/02/09
Tullio Avoledo, L’ELENCO TELEFONICO DI ATLANTIDE
Tullio Avoledo, L’ELENCO TELEFONICO DI ATLANTIDE
Prima edizione: Milano, Sironi, 2003; ripubblicato lo stesso anno: Torino, Einaudi
Il protagonista, Giulio Rovedo, consulente legale per una banca dell’Italia nord-orientale, si trova coinvolto in varie vicende tra loro collegate: la fusione della banca con un gruppo finanziario più grande con la conseguente minaccia anche per il suo impiego; un’avventura con una dirigente che lo seduce e fa in modo che la moglie lo butti fuori di casa; l’incontro con un sedicente Libonati che cerca di persuaderlo dell’esistenza di mondi paralleli e la ricerca, nell’ambito di questa direzione dell’intreccio, dell’Arca dell’Alleanza, che verrebbe utilizzata da una setta che, tramite quell’oggetto biblico, vorrebbe far rivivere gli dei egizi, mentre nello stabile in cui Rovedo abita senza la propria famiglia, il condominio Nobile, oltre a segrete che potrebbero racchiudere l’Arca, c’è una fonte dell’immortalità. Chi voleva l’Arca per dominare il mondo se non i voraci dirigenti della banca multinazionale? La loro avidità verrà delusa e la ricerca archeologica sarà sventata, almeno per il momento. In un capitolo intitolato CODA, si viene a scoprire che quanto si è letto era frutto di un’invenzione impiantata in un microchip sottopelle a un individuo perito: i protagonisti dell’ultimo capitolo sono due terrestri che dialogano dopo la III guerra mondiale, in un’epoca del futuro in cui si va da Londra a Berlino a teatro in metropolitana.
L’intreccio rivela una densità avventurosa, che parte tuttavia con lentezza, accelerando dopo parecchie pagine e si frammischia alla descrizione della vita quotidiana del protagonista, narrata in terza persona al presente indicativo e diretta verso una descrizione di un mondo di slealtà e sopraffazione da parte dei potenti nei confronti dei sottoposti, assunto espresso tramite registri talora ironici, talora sarcastici, che lo alleggeriscono. I pregiudizi di un certo nord Italia contro l’immigrazione extracomunitaria sono espressi tramite personaggi come un assessore leghista fissato con le origini celtiche di tutto ciò che riguarda il territorio in cui egli opera. Nel passato di uno dei personaggi ci sono i campi di sterminio. C’è una parodia degli eccessi sessuali. C’è una critica ma, nel finale della storia principale, anche un riscatto della routine e della quotidianità.
Più un divertissement, si direbbe, che un impianto di impegno, ad ogni buon conto, con incursioni tra i fumetti e il cinema (Indiana Jones alla ricerca dell'arca perduta sembra uno dei film principali), citazioni dirette o indirette da testi a letterarietà alta (Bibbia, Gnosi, autori quali Seamus Heaney e Antonia Byatt), titoli di fantascienza (oltre varie allusioni ad alcuni classici come Philip K. Dick, un reperto divertente è la contraffazione di un numero della serie "Urania"). La storia che sigla il volume, fornendo una conclusione e una spiegazione del fantastico espresso nella maggior parte del libro, è inventata con credibilità.
Come altri autori di narrazioni di anni recenti, Avoledo si serve del genere fantasy e della miscela di quotidiano e immaginoso e di serio e faceto per delineare un quadro della società disgregata di questo tempo, invasa dai media e frammentata nei rapporti umani. Sembra suggerire che il virtuale prevalga, o almeno si affianchi con dimensioni inquietanti, al reale; che il melange di sensazioni e riflessioni fondate, consciamente o inconsciamente, sull'influsso dei mass media, costituisca un elemento funzionale della nostra mente, ormai.
In cosa consiste, infine la realtà? Quando si legge l'affabulazione principale, familiarizzata con dettagli realistici per conferire credibilità agli aspetti fantastici, alla fine si fa strada la persuasione di essere in un meccanismo di eventi balzano, che si svolge ai fianchi della realtà comune; ma poi quanto legittima l'immaginario è il raccontino conclusivo, che spiega trattarsi di una fantasia. Già; e mentre lo si nota, occorre far caso al fatto che il finale si svolge in un mondo futuro inventato di sana pianta. La menzogna letteraria e le scatole cinesi sono, in breve, dappertutto.
Interessante leggere le recensioni dei lettori a IBS, Avoledo: certe anche negative, ma che rivelano la partecipazione con cui il testo è stato letto. Un’intervista a cura di Marco Mocchi con l’autore è a Publinet.it.
[Roberto Bertoni]
Prima edizione: Milano, Sironi, 2003; ripubblicato lo stesso anno: Torino, Einaudi
Il protagonista, Giulio Rovedo, consulente legale per una banca dell’Italia nord-orientale, si trova coinvolto in varie vicende tra loro collegate: la fusione della banca con un gruppo finanziario più grande con la conseguente minaccia anche per il suo impiego; un’avventura con una dirigente che lo seduce e fa in modo che la moglie lo butti fuori di casa; l’incontro con un sedicente Libonati che cerca di persuaderlo dell’esistenza di mondi paralleli e la ricerca, nell’ambito di questa direzione dell’intreccio, dell’Arca dell’Alleanza, che verrebbe utilizzata da una setta che, tramite quell’oggetto biblico, vorrebbe far rivivere gli dei egizi, mentre nello stabile in cui Rovedo abita senza la propria famiglia, il condominio Nobile, oltre a segrete che potrebbero racchiudere l’Arca, c’è una fonte dell’immortalità. Chi voleva l’Arca per dominare il mondo se non i voraci dirigenti della banca multinazionale? La loro avidità verrà delusa e la ricerca archeologica sarà sventata, almeno per il momento. In un capitolo intitolato CODA, si viene a scoprire che quanto si è letto era frutto di un’invenzione impiantata in un microchip sottopelle a un individuo perito: i protagonisti dell’ultimo capitolo sono due terrestri che dialogano dopo la III guerra mondiale, in un’epoca del futuro in cui si va da Londra a Berlino a teatro in metropolitana.
L’intreccio rivela una densità avventurosa, che parte tuttavia con lentezza, accelerando dopo parecchie pagine e si frammischia alla descrizione della vita quotidiana del protagonista, narrata in terza persona al presente indicativo e diretta verso una descrizione di un mondo di slealtà e sopraffazione da parte dei potenti nei confronti dei sottoposti, assunto espresso tramite registri talora ironici, talora sarcastici, che lo alleggeriscono. I pregiudizi di un certo nord Italia contro l’immigrazione extracomunitaria sono espressi tramite personaggi come un assessore leghista fissato con le origini celtiche di tutto ciò che riguarda il territorio in cui egli opera. Nel passato di uno dei personaggi ci sono i campi di sterminio. C’è una parodia degli eccessi sessuali. C’è una critica ma, nel finale della storia principale, anche un riscatto della routine e della quotidianità.
Più un divertissement, si direbbe, che un impianto di impegno, ad ogni buon conto, con incursioni tra i fumetti e il cinema (Indiana Jones alla ricerca dell'arca perduta sembra uno dei film principali), citazioni dirette o indirette da testi a letterarietà alta (Bibbia, Gnosi, autori quali Seamus Heaney e Antonia Byatt), titoli di fantascienza (oltre varie allusioni ad alcuni classici come Philip K. Dick, un reperto divertente è la contraffazione di un numero della serie "Urania"). La storia che sigla il volume, fornendo una conclusione e una spiegazione del fantastico espresso nella maggior parte del libro, è inventata con credibilità.
Come altri autori di narrazioni di anni recenti, Avoledo si serve del genere fantasy e della miscela di quotidiano e immaginoso e di serio e faceto per delineare un quadro della società disgregata di questo tempo, invasa dai media e frammentata nei rapporti umani. Sembra suggerire che il virtuale prevalga, o almeno si affianchi con dimensioni inquietanti, al reale; che il melange di sensazioni e riflessioni fondate, consciamente o inconsciamente, sull'influsso dei mass media, costituisca un elemento funzionale della nostra mente, ormai.
In cosa consiste, infine la realtà? Quando si legge l'affabulazione principale, familiarizzata con dettagli realistici per conferire credibilità agli aspetti fantastici, alla fine si fa strada la persuasione di essere in un meccanismo di eventi balzano, che si svolge ai fianchi della realtà comune; ma poi quanto legittima l'immaginario è il raccontino conclusivo, che spiega trattarsi di una fantasia. Già; e mentre lo si nota, occorre far caso al fatto che il finale si svolge in un mondo futuro inventato di sana pianta. La menzogna letteraria e le scatole cinesi sono, in breve, dappertutto.
Interessante leggere le recensioni dei lettori a IBS, Avoledo: certe anche negative, ma che rivelano la partecipazione con cui il testo è stato letto. Un’intervista a cura di Marco Mocchi con l’autore è a Publinet.it.
[Roberto Bertoni]
05/02/09
Akira Kurosawa, LA FORTEZZA NASCOSTA
["It was a map of the territory, and the border of her country was not far". Foto di Marzia Poerio]
LA FORTEZZA NASCOSTA. 1958. Con Minoru Chiaki, Kamatari Fujuwara, Toshiro Mifune, Misa Uehara. Musica di Masaro Sato. Dvd British Film Institute (BFI), 2002
È difficile sottrarsi a Kurosawa, è come un'assuefazione, ma produttiva, che a ogni rivisualizzazione attende la prossima.
LA FORTEZZA NASCOSTA è uno dei film del ciclo dei samurai e racconta la storia di un generale che cerca di portare oltre confine una principessa sedicenne che non deve esser fatta prigioniera assieme a un carico d'oro che serva a ricostruire la casata sconfitta, con l'aiuto talora e talora i tradimenti di due contadini reduci dalla guerra. Il lieto fine giunge dopo difficoltose traversie. Una fortezza nascosta tra i monti è il motivo del titolo.
Mifune impera con autorità e atletismo battagliero. La principessa si finge muta per non farsi riconoscere anche se tradisce la propria regalità nel portamento e nell'orgoglio. Dietro la barriera di apparente arroganza della ragazza si nasconde un cuore, riscatta da condizioni misere e umilianti una coetanea. Il viaggio è un'iniziazione della giovane e una testimonianza della vita reale.
La guerra impera col suo carico di distruzione. Astuzia e forza sono armi entrambe necessarie. La natura testimonia. Le azioni umane sono ora dissennate, ora adatte alle circostanze.
In un'intervista sul dvd, Geroge Lucas attribuisce a questo e altri film del regista giapponese un'influena sul suo GUERRE STELLARI.
[Renato Persòli]
03/02/09
Andy Paice, DOES SPIRITUALITY HAVE ANY RELEVANCE FOR WESTERN INTELLECTUAL CULTURE? LOOKING FOR ANSWERS IN THE BUDDHIST TRADITION [PART 2]
[Bodhisattva in Lantau. Foto di Marzia Poerio]
The Madhyamaka position goes even further to say that a “no-self” cannot be found either. That indeed the true nature of phenomena is unqualifiable, beyond any conceptual labelling whatsoever.
This position should not be misconstrued as a nihilistic point of view which states that nothing exists. Ultimately it points to the fact that phenomena lack any kind of inherent reality, yet relatively things do exist as labels imputed on to conglomerates.
For example, “I” do exist, but the solid, permanent, inherently existing kind of “I” that mind habitually takes to be real can be conclusively found to be nothing other than a delusion. So the way in which “I” truly exist is simply as a label, a thought which is imputed onto the collection of the body and mind.
The above is an example of a meditation on the inner phenomenon of the “I”. Yet all outer phenomenon can be subjected to the same kind of analysis. Thus following the same logic
the self, sentient beings, the world, the universe are nothing more than thoughts, lacking any concrete or inherent reality.
This brings us to an awareness that all inner and outer phenomena are of one and the same nature of selflessness or emptiness. Since everything is of this nature there are no real boundaries separating anything. Despite all manifold things appearing in their diversity their true nature is found to be this same unqualifiable reality. To understand this is to understand the unity of all things, what the Buddha described as the “seamless garment” of all phenomena.
Through analysis one can come to an intellectual appreciation of this so called empty nature of reality. However as we saw earlier the very point of the Buddhist teachings is to lead one to an actual experience and realisation of this nature. Since all phenomena can be found to lack an inherent self the same can be said for our very being. This means our very being has no boundaries. Ultimately there is no separation between ourselves and others, the planet and the entire cosmos. This is the reality of non-duality. Siddhartha, the Prince, sitting under the Pippala tree was said to have achieved a complete liberation from all kinds of delusion concerning the truth of reality and through realising this non-duality was named the Buddha, the awakened one.
However we are habitually caught in a mode of perception that apprehends only the superficial and partial side of this unity. Due to the natural fact of living in the world we are obliged to make distinctions and to divide reality into fragmented concepts of this and that, self and others, mine and not mine. However by not letting go of these boundaries and distinctions and being instinctively caught in the belief that they are real the end result is that of suffering. By misapprehending the world we misapprehend ourselves which is the primal cause of every kind of pain.
Therefore by following an intellectual process of reasoning it is possible to reach a profound understanding which is in the order of spiritual truth. Rigorous intellectual examination and spiritual or religious experiences need not be mutually exclusive territories.
By understanding this approach it becomes possible to appreciate a core reality at the source of every religious tradition, yet which belongs to none of them. Although this would certainly not be the orthodox view from within the majority of religions, it is possible to surmise that all of them have sprung from individuals experiencing this unity consciousness. One can speculate that pathways, to bring followers to similar levels of awareness were systematised according to the varying mentalities, traditions and times. Whether or not the religions then developed as their founders would have liked is altogether a different question.
If we are to look at the Christian injunction of “Love thy neighbour as one would love thyself” from the point of view of a non-dual appreciation of reality, then one’s neighbour actually is oneself. This understanding of religion as a vehicle of divinity which is not separate from oneself radically changes the reading of what various sages, masters or prophets were perhaps trying to say. What appeared to be moralistic ‘commandments’ now reveal themselves to be guidelines of how to relate with one’s greater self (or indeed non-self in the Buddhist tradition) which transcends the boundaries of the individual self.
The Buddhist master Shantideva demonstrates this exact sentiment:
“Just as hands and other limbs
Are thought of as the members of a body,
Can we likewise not consider others
As the limbs and members of a living whole?
Just as in connection with this form devoid of self,
My sense of ‘I’ arose through strong habituation,
Why should not the thought of ‘I,’
Through habit, not arise related to another?”
Buddhist doctrine exhorts compassion for all forms of sentient life, but again this is not merely a proscription to become a do-gooder. Indeed psychologists and neuroscientists have attested to the fact that cultivating compassionate states of mind have a positive effect on our own psycho-physical well being. Furthermore the teachings conform to a logic that compassion is a natural response for a mind that clearly sees no separation between self and others. Thus others suffering becomes ones own suffering, which in turn prompts action for the welfare of others.
The practice of a spiritual path based upon a meditative technique also simply ‘brings the mind back home.’ In today’s world of increasing stress and anxiety a simple meditation practice which centres the mind can be of enormous benefit to one's all round health. One does not even have to rely on any particular belief system in order to reap benefit from meditation.
So does Spirituality hold any use or relevance for Western Intellectuals? From the Buddhist point of view the answer would be a resounding yes. Indeed, universally, going through life unaware of a greater dimension to one's own being is tantamount to being cut off from a greater part of oneself. From this perspective intellectual inquiry alone can never fully satiate the deepest yearning of one's being, namely to know one's own greater nature. Conversely there is also an argument that spirituality and intellectual endeavour need to work together. Spiritual practice may heal the wounds of consciousness yet human society will always have a need for cognitive growth and evolution. Reuniting the the hitherto divorced fields of Spirituality and Intellectualism in the West could be a cause for a blossoming of potentials that would bring forth a Renaissance in all kinds of fields of human endeavour.
The aforementioned description of selflessness and the non-dual view of reality, which gives rise to compassion for others and provides a remedy to suffering, is the quintessential core and raison d'être of Buddhist practice. Yet of course, along with all religions, Buddhism does contain certain aspects which may be considered spurious to any serious intellectual examination. A fundamental Buddhist notion is Karma, the law of cause and effect which states that our present experience in life is the ripening result of past actions. Although this resembles laws of causality in Physics, it is something which is evidently very difficult to verify. Buddhism also sets forth the existence of reincarnation - that we continue to turn in cyclic existence until we realise the fundamental nature of enlightenment, and it also describes various realms which one can be born into as a result of various actions. So can such ‘beliefs’ be adopted by modern critical thinkers?
The question is a complex one, which today in the advent of an emerging ‘Western Buddhism’ finds varying responses. This confrontation of traditional Buddhist teachings with the cultural heritage of the West is still in its infancy, yet is already producing new presentations of the doctrine. Buddhism arose in the cultural context of pre-modern Asia and now that it is establishing itself in the West there are unavoidable tensions arising due to the contact of two different world views. Yet the Buddhist tradition has always adapted and evolved according to the mindsets and customs of each country that it finds itself. The European Buddhist Union’s recent exchange on “The Features of an Emerging European Buddhism” bears witness to this:
“In the process of assimilating the dharma (Buddhist teachings) we are going to the essentials and are stripping spiritual practice of non-helpful beliefs. We want to follow a path of true liberation, and not of doctrines. It seems that the dharma coming to Europe from Asia enters into a marriage with our strong wish to become deeply free from narrow views and imprisoning habitus”.
Nevertheless, there is still widespread debate concerning what must be retained and what can be discarded whilst remaining true to the essence of the tradition. The English scholar Stephen Batchelor argues in his book “Buddhism Without Beliefs” that such notions as Karma and Rebirth are not fundamental to the goal of realising emptiness (as briefly outlined above.) Likewise the Tibetan teacher Dzongsar Jamyang Khyentse referring to the deeply ritualistic Himalayan Buddhist tradition states: “Theistic trappings such as incense, bells and multicoloured hats can attract people’s attention, but at the same time they can be obstacles. People end up thinking that is all there is to Buddhism and are diverted from its essente”. Therefore those who argue for a modern presentation of Buddhism say that the essential point is in discovering and progressively cultivating the wholesome experience of non-dual awareness. The fact that large numbers of educated, independent-minded Europeans and Americans are finding use and benefit in the teaching points to the fact that many are indeed acquiring at least a taste of this spiritual dimension. This does suggest its relevance in the modern world.
We have looked into the Buddhist tradition as an example of a tradition that has a possibility of bringing benefit to Western Intellectual Culture. Yet what of other Spiritual traditions? As has been suggested here, humanity has an inherent spiritual dimension that can be accessed, even by means of the intellect. Therefore if this dimension can be recognised, such as through a meditative technique, this opens the possibility of returning to the hitherto discarded religious traditions to explore truths they may contain. This particular field of inquiry is exemplified in the work of the contemporary American philosopher Ken Wilber. In his most recent publication he posits a way forward for the reconciliation of the sciences and humanities with Spirituality- fields which have been distinctly divorced since the Western Enlightenment. He argues that Postmodernity has effectively won the battle in refuting metaphysical presentations of reality but that the religious traditions do contain the ability to introduce individuals to the undiscovered spiritual dimension of their being. He reasons they can and do function in this respect even if their metaphysical descriptions are discarded.
Spiritual experience is something that is problematic when one tries to convey it through the media of words. However I have attempted to put forward through looking at the example of Buddhism, the fact that Religion and Spirituality do not have to be rejected in their entirety by Western Intellectuals. In spite of the scorn received by Spirituality in serious academic circles, it still represents an important area of truth that must not be dismissed outright. Serious research by intellectuals into the Spiritual traditions, not simply as objects of knowledge but as vehicles of inner truth, has the potential of being mutually beneficial for both Western culture and Spirituality. If humankind is to move beyond the individualistic and personal gratification that is destroying our global community perhaps the time is right for a marriage of sense and spirit.
REFERENCES
- S. Batchelor, BUDDHISM WITHOUT BELIEFS, A CONTEMPORARY GUIDE TO AWAKENING, New York: Riverhead Books, 1997
- D.J. Khyentse, WHAT MAKES YOU NOT A BUDDHIST, ©2007 Shambhala Publications Ltd.
- S. Salzberg, FACETS OF METTA, www.vipassana.com
- Shantideva, translated by the Padmakara Translation Group, THE WAY OF THE BODHISATTVA, ©2006 Shambhala Publications Ltd.
- Lhundrup Lama, THE FEATURES OF AN EMERGING EUROPEAN BUDDHISM, www.someglimpses.com
- K. Wilber, INTEGRAL SPIRITUALITY, A STARTLING NEW ROLE FOR RELIGION IN THE MODERN AND POSTMODERN WORLD, ©2007 Integral Books
01/02/09
Solange Passalacqua, ORIGAMI D'ACQUA
[Water was falling in the hues of white. Foto di Marzia Poerio]
I.
Suona melodia
l'abbaino
di luna
dopo aver rischiarato
le sottili dita
in ventagli
d'aria liquida.
Trattiene
parole d'opale
l'abbacinato
lucore che evapora.
Strimpellato
fruscìo di madreperla.
II.
La foglia
screpolata
di rosa
balena
in umide vene
quadrato
di respiri
avvizziti
un secco
volto ventoso
avvinghia
la notte.
Accade un respiro
di porpora blu.
III.
Altisonanti
castelli
riempiono
gli occhi
di fragili
cièli.
Mani geroglifico
scricchiolano
applausi di cartapesta.
Colonne di carne
abbattono
istoriati pesci morti.
Assale la marea
in blu profondo.
IV.
Si è seduti
come randagi
la notte
a ripiegare
foglie secche.
Scampanìo
di latte
a roteare
il mondo.
Buio
il vicolo
è già stretto
sopra la notte.
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