FINE D’ANNO, uscito nel 1936 per i tipi della Treves [1], potrebbe apparire, ad una prima lettura, il resoconto autobiografico di una più o meno eroica opera di salvataggio di antichi possedimenti terrieri da parte di un’anziana signora di salute malandata. Paola Drigo, proveniente da un ambiente privilegiato sotto l’aspetto economico e culturale, entrò nell’alta borghesia veneta - molto vicina alla piccola nobiltà - grazie ad un importante matrimonio. Dopo la morte del marito, i dissesti finanziari, dovuti alla disonestà dell’amministratore ma anche alla totale ignavia dei proprietari stessi, la costrinsero a diventare fattora dell’antica tenuta di famiglia [2]. Ma questa autonarrazione a lieto fine è solo un pretesto, e nemmeno troppo nascosto fra le righe. Ritirarsi nella cadente tenuta di campagna e vendere tutto il resto per risollevare le sorti patrimoniali, è solo il punto di partenza per capire come salvarsi da se stessa, madre fagocitatrice e padrona inetta:
“Chiusa la villa per tre quarti e mi ritirai in poche stanze; la macchina non l’usavo quasi più. Pensieri scuciti, senza filo apparente, mi attraversavano la mente [...] E in tutto questo e sopra tutto il pensiero [...] ritornante [...] di mio figlio. [...] che da oltre un anno seguivo nello sbaraglio di un’oscura tormenta [...]trascinata oggi ad accettare, domani a ripudiare, convinzioni, sentimenti, avvenimenti, dei quali non potevo neppur giudicare, tant’erano da me lontani, smarrendo il senso [...] del meglio e del peggio, facendo molto male a me, senza riuscire a fare del bene a nessuno: tutto questo doveva finire” [FD, p. 101].
Fine D’Anno è dunque una lucida autoanalisi, un attento inventario memoriale grazie al quale la Drigo accede alla comprensione di sè e della propria storia di donna e di madre. È certamente un’autobiografia, ma anche una testimonianza di dissenso, uno strumento d’indagine sociale, un vero documento epocale. Paola parte da se stessa, altoborghese delusa e disillusa, per poi esplorare una ad una le tipologie femminili della sua mezzadria, dalle quali imparerà un diverso approccio alla vita. La narrazione autobiografica è dolorosa, eppure minuziosamente somministrata come una medicina. La scrittura diventa man mano pedagogica e generatrice di un nuovo inizio, tanto quanto l’atto stesso del parto:
“C’è un momento, quando il figlio viene alla luce, in cui il fragile legame di carne che l’unisce ancora alla madre deve essere troncato perchè, uniti, ne’ l’uno ne’ l’altra potrebbero vivere; c’è un altro momento in cui è necessario che la madre stessa, di sua volontà, coscientemente, deliberatamente, trovi la forza di disgiungere sè dal figlio, di lasciarlo solo. Toccava a me, questa volta; e in quel fugace attimo ne ebbi piena e chiara coscienza […]” [FD, p. 105].
Grazie ad una scrittura maieutica, la Drigo è finalmente libera dal ruolo di madre fallica e partorisce se stessa, nasce ad un nuovo rapporto materno non conflittuale:
“Dentro la scatola [...] c’era anche il principio di quella lettera che dovevo scrivere a lui, e che non avevo la forza di scrivere [..]. Quel giorno scrissi ‘Caro figlio’, anzichè ‘caro Giorgio’, come sempre... ‘Caro figlio, tu solo, ed io in disparte, tu nella casa di città’. [...] Qualche cosa dentro di me ora mi par rotto o profondamente mutato [...] Mi pare che qualche cosa [...] sia, nella mia vita, finito per sempre [...]” [FD, pp. 101-03].
Parallelamente all’analisi della sua condizione di madre, la Drigo procede all’esplorazione del microcosmo contadino e femminile delle sue mezzadre, molte madri pure loro, ma soprattutto donne. L’ingresso forzato in questo mondo a lei totalmente sconosciuto svelerà non pochi retroscena diametralmente opposti ai bucolici scenari sbandierati dalla propaganda di regime. Sempre ironica ma soprattutto autoironica, la Drigo non risparmia nessuno, tanto meno i nomi importanti:
“[…] Ah, la bonaria, la pura, idilliaca gente dei campi! Da lontano, quando passavo otto mesi all’anno in città […] a questa retorica avevo creduto anch’io; adesso avrei potuto giurare che interessanti dal punto di vista umano ed anche artistico lo erano certo, ma bonari ed idilliaci assolutamente no” [FD, pp. 5-7].
“Mussolini ha detto che le donne non sanno fare le case? Modestamente, fra prima e dopo il mio male ne ho costruite ben tre, e non sono ancora crollate. […] Le mie case reggono: hanno i muri, le porte, le finestre, le tegole: non ho dimenticato la scala, ne’ il camino” [FD, p. 124].
Una battuta più o meno caustica contro il regime non basta, però, a rendere FINE D’ANNO un esempio di dissenso, o potenzialmente tale. E non basta nemmeno che la Drigo qui parli di sole - o quasi - donne, ma è piuttosto come ne parla, di quali donne parla e con quali decide di confrontarsi e da loro imparare. Qui non esistono annoiate nobili o altoborghesi, nemmeno figure femminili soffuse di agreste soavità; eliminate le passive e prolifiche produttrici di carne da cannone, anche i rurali angeli del focolare sono totalmente assenti. Tutte le donne della tenuta, Drigo inclusa, possono, se vogliono, assumere anche questo ruolo, ma sono perfettamente in grado di prendere in mano la zappa, domare un cavallo imbizzarrito, e fare il muratore. Grazie ad una specifica rappresentazione di sè e delle altre protagoniste la Drigo permette che FINE D’ANNO assuma una valenza politica e dissenziente, poichè propone una collocazione della donna al di là di qualunque interpretazione contemplata dal regime. Lei stessa è vedova, e gloriosamente non di guerra, non ha uno stuolo di figli da dare alla patria, ma solo uno, distante e, per lei, incomprensibile. In questa storia ci sono ben pochi uomini: un suocero; un marito al quale la Drigo non fa mai nessun riferimento diretto (entrambi deceduti da qualche tempo) un fattore disonesto e pure lui passato a miglior vita; ed infine questo figlio alienato quasi fantasma mai dettagliatamente descritto, presente solo attraverso le ricostruzioni memoriali ed umorali della madre, e che apparirà fisicamente solo alla fine di questo anno di autoanalisi, al capezzale materno, dicendo, forse, tre parole:
“‘Suona’, gli dissi. Sì, [...] proprio questa parola da melodramma […] E forse non fu che la ripresa di una cara consuetudine interrotta. Ricordo chiaramente che egli chiese: Davvero? E la sua voce era sommessa e timida.
‘Suona’, ripetei
‘Che cosa?’
‘Quello che vuoi’.
Dal fondo del mio lettino, colla borsa del ghiaccio sulla testa, il respiro frequente, più che udirlo io lo guardavo: le spalle larghe, quella bella figura che al piano rimaneva ferma, impassibile” [FD, p. 112].
Uomini, questi, che nell’iconologia e nell’iconografia del regime fascista appaiono inconcepibili, da non imitarsi, dei non-modelli impossibili da contestualizzare. Opposti e pure complementari alle donne di FINE D’ANNO, tutti insieme procedono alla sovversione dei paradigmi sociali e sessuali stabiliti dal regime. Le protagoniste, dal canto loro, risultano inaccettabili nel panorama dittatoriale in quanto danno vita ad una comunità di madri, intese non tanto nel significato biologico, ma soprattutto come generatrici di un tessuto sociale in grado di sostituirsi, con la propria autenticità, alle comunità immaginate (ed immaginarie) della propaganda fascista. Nella versione drighiana della famiglia, la gerarchia, se esiste, quando esiste, è strutturata secondo canoni opposti a quelli dettati dall’allora vigente regola, come nel caso delle Pigozze:
“[s]trana famiglia, quella delle Pigozze. Era composta di cinque femmine, tutte, tranne una, vedova, pulzelle, e di tre uomini scapoli, il più giovane dei quali si vedeva raramente, ed era un ragazzo lungo, scialbo, col viso sparso di grossi foruncoli, che teneva sempre gli occhi a terra, e, dicevano, voleva “andar missionario”. Gli altri, assai più anziani, quasi vecchi, spazzavano, cucinavano, facevano il bucato e lavavano i piatti, mentre alla vanga, alla falce, all’aratro stavano le cinque femmine che li comandavano a bacchetta. Una specie di matriarcato, che raggiungeva però un risultato imprevisto: il podere delle Pigozze era bello, lucido, ordinato come un giardino, anzi, come un ricamo” [FD, pp. 14-15].
Non si limita a descriverele, queste donne così diverse e sconosciute. La madre Drigo, la siorata [3] si rapporta a Martina, madre schiava della miseria e presunta prostituta della tenuta, ma non per questo mancante di dignità. Decide di conoscerla, e da lei imparare:
“Mi vidi venire avanti esitando una vecchia magra e nera, con un fazzoletto annodato sotto il mento, le gonne fino ai piedi, e una bocca tutta rientrata, certo mancante di parecchi denti. Aveva gli occhi chiari ed un ventre a punta, che non si capiva come e perchè fosse spuntato e prosperasse in quella nera secchezza. “Mi lavoro - disse - fazo la lavandera, mi go sempre pagà.” [...] (FD, 37) [N]oi, posti nelle stesse condizioni, non saremmo forse, di molto migliori; e pur nelle favorevoli condizioni in cui siamo non è proprio certo che si valga moralmente di più” [FD, p. 124].
La scrittura della Drigo è classificabile come femminile in quanto prodotta da una donna; per certi aspetti, la posizione della Drigo potrebbe richiamare quella della Kristeva “che non accetta la tesi della “scrittura femminile” in quanto ritiene che la scrittura in quanto tale non è “sessuata” e “può essere praticata anche dalle donne per portare nel linguaggio l’ordine semiotico della madre” (Restaino e Cavarero, p. 212). Si potrebbe obiettare che la Drigo sia stata pubblicata da Treves, editore di opere scritte esclusivamente da donne; sicuramente Treves ebbe un occhio di riguardo per le scrittrici, ma la Drigo non cerca nell’editore, ne’ altrove, la wolfiana stanza tutta per sè. L’autrice sembra aver superato questa conflittualità; pur conscia delle restrizioni a cui le donne sono sottoposte, e non solo in quanto scrittrici, si pone, nella sua performance di produttore di cultura, al di là di ogni dibattito. Sia in FINE D’ANNO che nel seguente tragico bildungsroman MARIA ZEF, propone figure le cui azioni non sono dettate dal fatto che siano uomini o donne, secondo i codici comportamentali imperanti dell’epoca. I suoi personaggi agiscono in un modo o nell’altro perchè le condizioni sociali, economiche, psicologiche, e ambientali - non tanto la loro sessualità - impongono determinate performances [4].
Altro elemento dissenziente in FINE D’ANNO è la lingua usata dalla Drigo. La dama alto-borghese alle soglie della vecchiaia decide di cambiare completamente stile di vita, mutamento rispecchiato nello scriversi; la sua lingua diventa quella del flusso interiore, il dialogo di una donna con se stessa che impara a guardarsi e ad osservare gli altri. L’uso frequente del dialetto [5], ora garbatamente graffiante, ora volutamente uniforme, incolore, quasi come una litania da vecchia comare, la distanzia dalla ridondanza di molta letteratura di regime [6].
Paola Drigo, grazie ad una sapiente messa in scena - per dirla con Eco - permette ai suoi personaggi di demolire le icone delle famiglie paesane, vigorose, irreprensibili ed in piena salute, che spariscono grazie al suo semplice atto narrativo. Attraverso la sovversione dell’immagine immaginata della società patriarcale di regime, l’autrice ne demolisce la retorica e l’estetica, sostituendo i connotati del potere e della forza con le loro antinomie, obbligando chi legge ad identificarsi con l’indesiderabile, l’improprio, la realtà altra. Questo non significa che la Drigo fosse una militante antifascista, benchè si fosse espressa abbastanza esplicitamente in FINE D’ANNO (e lo farà con maggior forza nel romanzo seguente, MARIA ZEF). Probabilmente una non allineata, l’autrice lavorò coscientemente per spostare l’attenzione sulle realistiche figure fragili di un ambiente negletto e sommerso, contribuendo alla demolizione della narrativa fascista.
NOTE
[1] Ristampato solo ultimamente, nel 2005, da Rocco Carabba. Fine d’Anno sarà seguito da Maria Zef, che vinse il premio Viareggio nel ’37, per poi sparire nel dimenticatoio. Uscì di nuovo per la Garzanti solo negli anni ’80.
[2] Termine usato dall’autrice stessa nel testo.
[3] Padrona, in dialetto alto-veneto, con connotazione negativa.
[4] A questo proposito si vuole prendere in considerazione Judith Butler ed il suo GENDER TROUBLES. Se “gender is a performance” questo non sembra valere per le protagoniste di FD che sembrano andare decisamente contro le tesi della Butler.
[5] In MZ la Drigo dedicherà intere pagine alle intere villotte, o ballate, in lingua friulana.
[6] Si veda Sapori, DA ROMA AL CIRCEO, del 1934: “Roma Imperiale risorge. […] Il pellegrino innamorato vede i frammenti marmorei del Tempio di Marte Ultore […] Il Duce penso’ di aprire un varco dalla Piazza di Venzia all’Anfiteatro Flavio. Questa regina delle strade […]e’ la piu’ monumentale strada del mondo, perche’ sprofonda nella storia di Roma come un titanico sole.’’ pp. 34 - 37.
OPERE CITATE E CONSULTATE
A. Arslan, DAME, REGINE E GALLINE: LA SCRITTURA FEMMINILE TRA ‘800 E ‘900, Milano, Guerini Studio, 1998.
AA.V.V., CARTA DI DONNA. NARRATRICI ITALIANE DEL NOVECENTO, Torino, SEI, 1996.
A.A.V.V., IL NOVECENTO DELLE ITALIANE. UNA STORIA ANCORA DA RACCONTARE, Roma, Editori Riuniti, 2001.
G. Baransk e S. Vinall, WOMEN AND ITALY. ESSAYS ON GENDER, CULTURE, AND HISTORY, London, University of Reading European and International Studies,1991.
R. Ben-Ghiat, FASCIST MODERNITIES. ITALY, 1922-1945, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 2001.
J. Butler, GENDER TROUBLE, New York, Routledge, 1990.
M. De Giorgio, LE ITALIANE DALL’UNITÀ AD OGGI. MODELLI CULTURALI E COMPORTAMENTALI SOCIALI, Roma-Bari, Laterza, 1992.
P. Drigo, FINE D’ANNO, Milano, Treves, 1936; MARIA ZEF, Milano, Garzanti, 1982.
U. Eco e T. Sebeok, THE SIGNS OF THREE: DUPIN, HOLMES, PIERCE, Bloomington, Indiana University Press, 1983.
A. Illiano, INVITO AL ROMANZO D’AUTRICE DELL’OTTOCENTO-NOVECENTO, Fiesole, Cadmo, 2001.
J. Kristeva, BLACK SUN, New York, Columbia University Press, 1989.
MOTHERS OF INVENTION: WOMEN, ITALIAN FASCISM, AND CULTURE, a cura di R. Pickering-Iazzi, Minneapolis Minnesota University Press, 1995.
F. Restaino e A. Cavarero, LE FILOSOFIE FEMMINISTE, Torino, Paravia, 1999.
F. Sapori, DA ROMA AL CIRCEO, Milano, Bompiani, 1934.