30/11/08

CARTE ALLINEATE. Numero 23, Novembre 2008 / Issue 23, November 2008

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INDICE ALFABETICO / INDEX

Le voci elencate qui sotto senza il nome dell'autore sono state scritte da Roberto Bertoni. Foto di Marzia Poerio / Entries listed below without the name of the author were written by Roberto Bertoni. Pictures by Marzia Poerio.

- ARRIGO, Nino, LETTERATURA COMPARATA E “LETTERATURA MONDIALE”. Riflessione, 19-11-08.
- BERTONI, Alberto, RICORDI DI ALZHEIMER. Note di lettura di Alessandro DI PRIMA, 3-11-08.
- BLASUCCI, Luigi, GLI OGGETTI DI MONTALE. Rilettura, 25-11-08.
- BOG. Fotografia e versi di Marzia POERIO, con commento, 1-11-08.
- ELIADE, Mircea, MITI, SOGNI, MISTERI. Note di lettura, 21-11-08.
- FERRI, Gio, L'ASSASSINIO DEL POETA. Note di lettura di Giuliana LUCCHINI, 11-11-08.
- FRIEL, Brian, TRANSLATIONS. LA TRADUZIONE IMPOSSIBILE: rilettura di Cristina CONA, 27-11-08.
- HAMID, Mohsin, THE RELUCTANT FUNDAMENTALIST. Note di lettura, 23-11-08.
- KUSAMA, Karyn, AEONFLUX. Storie di film di Renato PERSÒLI, 27-11-08.
- LE CARRÉ, John, A MOST WANTED MAN. Note di lettura, 17-11-08.
- LEVINE, Karina. EN ESTA TARDE GRÍS, tango. Musica di Mariano Mores. Parole di José María Contursi. Storie di musiche di Renato Persòli, 29-11-08
- MATTEI, Piera, UNA CONFESSIONE. Testo, 7-11-08.
- MONTOBBIO, Santiago, EL ANARQUISTA DE LAS BENGALAS. Note di lettura di Martha L. CANFIELD, 13-11-08.
- RAGNOLI Gian Paolo, L’ESTATE QUASI FINITA (Racconto rock). Testo, 9-11-08
- SHAKESPEARE, William, COME VI PIACE. Storie di teatro di Ivano MUGNAINI, 5-11-08.
- YOUNG, Augustus, ELEGY FOR AN UNTAKEN SWIM, JUNE 1882. Testo e traduzione, 15-11-08.

29/11/08

EN ESTA TARDE GRÍS, tango. Musica di Mariano Mores. Parole di José María Contursi

Que ganas de llorar
en esta tarde gris,
en su repiquetear
la lluvia habla de ti.
Remordimiento de saber
que, por mi culpa, nunca,
vida, nunca te vere.
Mis ojos al cerrar
te ven igual que ayer,
temblando al implorar
de nuevo mi querer.
Y hoy es tu voz que vuelve a mi,
en esta tarde gris.

"Ven," triste me decias,
"que en esta soledad
no puede más el alma mia...
Ven, y apiadate de mi dolor,
que estoy cansada de llorar,
de sufrir y esperar
y de hablar siempre a solas
con mi corazón.
Ven, que te quiero tanto
que si no vienes hoy
voy a quedar ahogada en llanto...
No, no puede ser que siga asi,
con este amor clavado en mi
como una maldición."

No supe comprender
tu desesperación
y alegre me aleje
en alas de otro amor.
Que solo y triste me encontre
cuando me vi tan lejos
y mi engaño comprobe.
Mis ojos al cerrar
te ven igual que ayer
temblando al implorar
de nuevo mi querer,
y hoy es tu voz que sangra en mi
en esta tarde gris.


Nella sera grigia, il desiderio di pianto e la stanchezza delle lacrime e della solitudine, l'appello a chi si ama, l'incomprensione del dolore della persona amata e la fuga tra le braccia di altri, implorare di ricominciare una storia... Quasi un repertorio di temi del tango, cantati impeccabilmente secondo la tradizione con i mancamenti, le variazioni della voce, la musica acustica, alternanze di nostalgia, di risentimento, di passionalità, da Karina Levine assieme ad altri motivi in TINTA ROJA. Le parole sono tratte da planet-tango.


[Commento di Renato Persòli]

27/11/08

Cristina Cona, LA TRADUZIONE IMPOSSIBILE: TRANSLATIONS di Brian Friel

Siamo nel 1833 a Ballybeg ("Baile Beag": "villaggio"), nel Donegal, contea dell'Irlanda nordoccidentale. Diversi abitanti sono riuniti nel granaio che funge da "hedge school" per seguire la lezione del giorno: latino, greco, aritmetica (le "hedge schools" erano scuole non ufficiali, assai diffuse nelle campagne irlandesi dal Seicento fino alla metà dell'Ottocento, tenute da maestri che venivano pagati dalle famiglie contadine per istruire i loro figli e sopperire così all'assenza di scuole per la popolazione cattolica; spesso effettivamente esse insegnavano anche le lingue dell'antichità classica). La lezione viene interrotta dall'arrivo di Owen, figlio minore del maestro, che vive a Dublino e che si trova nella contea per fare da accompagnatore ed interprete a due ufficiali dell'esercito britannico impegnati nella preparazione di una mappa con relativa "traduzione" dei toponimi locali.

In quel decennio, infatti, le autorità militari britanniche effettuavano rilievi topografici di questo genere su tutto il territorio irlandese, nel quadro di una politica al contempo di controllo e di più stretta integrazione dell'isola nel Regno Unito (l'Act of Union tra Irlanda e Gran Bretagna è dell'anno 1800). Il lavoro di traduzione consisteva nell'anglicizzare i toponimi gaelici (non solo villaggi e città, ma anche campi, colline, corsi d'acqua), o trascrivendoli in una versione foneticamente (più o meno) simile, o traducendoli nei corrispondenti termini inglesi (ad esempio, "Cnoc Bán" - collina chiara, o bianca - poteva dare, nel primo caso, "Knockbawn", e nel secondo, "Fair Hill").

Il compito affidato ad Owen (che i due inglesi, non comprendendo questo nome gaelico, si ostinano a chiamare "Roland") non si limita alla toponomastica, ma consiste anche nel fare da tramite - linguisticamente e politicamente - tra gli ufficiali e gli abitanti, che non parlano l'inglese. L'esistenza di questa barriera linguistica non impedisce comunque che sbocci un idillio fra Máire, una ragazza del villaggio, e George Yolland, il più giovane dei due ufficiali, idealista e ben intenzionato, sul quale l'Irlanda esercita un profondo richiamo. Quando George scompare (come tutti sanno e nessuno dice, ucciso dai gemelli Donnelly, misteriose figure che, mai presenti fisicamente sulla scena, ricorrono tuttavia sovente nei discorsi dei personaggi e che rappresentano la "physical force tradition" della storia irlandese), l'esercito annuncia rappresaglie terribili e si intuisce lo sgretolarsi imminente del mondo come finora lo conoscevano gli abitanti di Ballybeg, della sua civiltà e della sua cultura. Il villaggio sarà raso al suolo, Máire è decisa a partire per l'America (e il maestro le insegnerà l'inglese), Owen sembra voler abbandonare il suo ruolo di traduttore-traditore. Solo Jimmy Jack, un solitario scapolo sulla sessantina intriso di mitologia greca, continua ad inseguire il miraggio di un matrimonio con Pallade Atena.

Numerosi ed estremamente vari sono i temi di TRANSLATIONS (1981), opera del celebre commediografo irlandese Brian Friel: la conquista coloniale ("an act of geographical violence through which virtually every space in the world is explored, charted and finally brought under control" - E. Said), la perdita di identità culturale e linguistica, i colpi mortali che il 19° secolo assesterà alla civiltà gaelica (prefigurati nel dialogo: la carestia, evocata da quello "sweet smell" che ogni volta si rivela un falso allarme, ma che una dozzina di anni dopo annuncerà effettivamente la malattia delle patate, la fame e la morte; l'emigrazione massiccia dalle campagne di lingua irlandese, che porta Máire a chiedere insistentemente di imparare l'inglese; l'avvento delle National Schools, che usavano unicamente l'inglese e che furono un potente fattore di anglicizzazione anche forzata). Questa crisi linguistica "becomes the focus through which questions of authority and failure, love and treachery, culture and its disintegration are examined" (S. Deane).

Fra gli schemi possibili di lettura, è per noi comunque importante quello costituito dall' intersecarsi di vari livelli di traduzione. In primis, certo, traduzione dall'irlandese all'inglese, processo di acculturazione obbligata e di contenimento di una realtà linguistica "sovversiva" (e viceversa, l'esclamazione di Owen, "George! For God's sake! My name is not Roland!", segna il primo passo verso la rivendicazione di un'identità fino a poco tempo fa negata: "Owen - Roland - what the hell. It's only a name"). Ma anche traduzione dell'inaccettabile in concetti politicamente accettabili (nel primo incontro fra abitanti ed ufficiali Owen fornisce una traduzione volutamente edulcorata, dalla quale non risulta affatto il carattere militare dell'operazione in corso), del burocratese in linguaggio normale (Il capitano Lancey: "His Majesty's government has ordered the first ever comprehensive survey of this entire country - a general triangulation which will embrace detailed hydrographic and topographic information and which will be executed to a scale of six inches to the English mile". Traduzione di Owen: "A new map is being made of the whole country"), della realtà quotidiana nei miti di un'antichità classica scomparsa come è destinata a scomparire la civiltà gaelica tradizionale (il dialogo perenne con déi ed eroi omerici in cui è assorto Jimmy Jack, filtro atemporale che gli consente sia di trascendere che di interpretare il mondo che lo circonda), dei sentimenti personali in gesti e parole che in qualche modo suppliscano all'assenza di una lingua comune (così il dialogo fra Yolland e Máire, reso tutto in inglese nella finzione scenica, obbliga lo spettatore ad uno sforzo di immaginazione per discernere quale sia il vero grado di comunicazione fra i due innamorati), dell'inglese parlato in Irlanda nel "Queen's English" (Hugh, il maestro, vuole offrire da bere a Lancey: "What about a drop, sir?". Lancey: "A what?").

In TRANSLATIONS però la traduzione finisce per capovolgersi nel suo opposto: l'intraducibilità, quella che Seamus Deane ha definito "the failure of language to accommodate experience, the failure of a name to fully indicate a place, the failure of lovers to find the opportunity to express their feeling": intraducibilità connaturata alla natura politica del confronto fra colonizzatore e colonizzato, al partire da presupposti diversi quale che sia la lingua usata, così che anche quando l'Irlanda sarà "normalizzata" e anglicizzata le parole porteranno sempre in sè "the final incoherence that has always characterized the relationship between the two countries". Lo stesso Yolland, che accarezza il progetto di stabilirsi nel villaggio, dimostra di rendersene conto quando dice: "Even if I did speak Irish....the language of the tribe will always elude me, won't it? The private core will always be...hermetic, won't it?" In questo senso, il tema centrale di TRANSLATIONS potrebbe definirsi la traduzione impossibile.


NOTA

Fonti: Brian Friel, SELECTED PLAYS, Londra, Faber, 1984 (introduzione di Seamus Deane); Seamus Deane, A SHORT HISTORY OF IRISH LITERATURE, Londra, Hutchinson, 1986; David Cairns e Shaun Richards, WRITING IRELAND: COLONIALISM, NATIONALISM AND CULTURE, Manchester University Press, 1988.

L’articolo, riprodotto col consenso dell’autrice, è apparso in precedenza sulla rivista ”Inter@lia”.

Karyn Kusama, AEONFLUX


[Pipes' flux with a light. Foto di Marzia Poerio]


Karyn Kusama, AEONFLUX, 2005. Sceneggiatura di Phil Hay and Matt Manfredi. Con Marton Csokas, Ralph Hertford, Frances McDormand, Johnny Lee Miller, Sophie Okonedo, Charlize Theron.

La fantascienza di genere si è espressa spesso negli ultimi decenni tramite i cartoni animati. Nel caso di AEONFLUX, il cartone di Peter Chung si proponeva scopi in parte alternativi alle serie televisive: una certa ambiguità dei comportamenti umani e il conflitto tra due civiltà; così ai cultori dell'originale non sempre è piaciuto il film.

A noi non dispiace. Intanto ecco l'intreccio. Nella città di Bregna, isolata da mura dal mondo esterno composto da una natura incontaminata, si raccolgono gli eredi dei sopravvissuti a un virus che ha distrutto il codice genetico degli esseri umani e con una società che si rivela oppressiva con chi si ribelli all'ordine costituito, dominata da un'oligarchia di scienziati guidati da Trevor Goodchild. Aeonflux è una rappresentante dei ribelli Monicani e ha l'incarico di uccidere Trevor, ma non porta a termine l'impresa perché setole di memoria e di intuito si insinuano a farle ricordare qualcosa del passato che la legava alla sua vittima e che si scopre poco a poco essere un matrimonio. Aeonflux e tutti del resto a Bregna sono infatti cloni riprodotti da generazioni precedenti e con embrioni impiantati artificialmente a insaputa degli abitanti. Goodchild non è il marrano che si temeva, bensì uno scienziato onesto che continua a riprodurre i cloni mentre cerca una cura per poter far continuare la specie umana. Tuttavia suo fratello Oren, per eternare se stesso, vorrebbe bloccare i test che stanno per avere risultati positivi e condurrebbero alla moltiplicazione del genere umano, ma anche alla conclusione della riproduzione artificiale, per cui tenta con un colpo di stato di impadronirsi del potere. Aeonflux è ormai alleata di Trevor; e insieme sconfiggeranno Oren; lei distruggerà il deposito dei cloni; infine un varco nel muro di Bregna consentirà ai superstiti di uscire all'esterno e di iniziare una nuova vita.

Ci sono riferimenti a vari antecedenti, trasfusi l'uno con l'altro come si addice all'eclettismo tardomoderno, dalla società che seda gli abitanti reprimendo i ribelli in 1984 (il romanzo del 1949 di Orwell); al tentativo di uscita all'aperto verso la natura in LA FUGA DI LOGAN (romanzo del 1967 di W.F. Nolan, film diretto nel 1976 da M. Anderson); a riferimenti al recente MATRIX (1999, di A. e R. Wachowski).

Il motivi della società autoritaria e di un'oligarchia politica derivata dalla concentrazione delle conoscenze specialistiche nelle mani di pochi consente il riemergere del mito apocalittico temperato dalla presenza della rinascita: un ciclo, questo dell’”eterno ritorno” (come lo ha denominato Eliade) che nella storia culturale data fin dalle origini e nelle forme del romanzo popolare si perpetua.

Sul piano etico, AEONFLUX insiste sull'arroganza umana, la proiezione verso un presente perpetuo contrapposto alla storia col suo inevitabile corollario di fine e morte delle creature. Nel contesto delle concezioni scientifiche, sono attuali i richiami alla biogenetica e alla possibilità di scomparsa della nostra specie.

Non si tratta di un film soprattutto filosofico, data la prevalenza di scene d'azione e di spettacolo, ma è vero che gli elementi di riflessione, come spesso nella fantascienza, esistono sotto la patina dell'avventura. Gli effetti speciali sono utilizzati con moderazione; e più, si direbbe, per riprodurre con attori umani atti da fumetto che per dare un ritmo serrato alla pellicola, che è in verità, nonostante i duelli e le variazioni di copione, stranamente lenta.

C'è un notevole senso dello spazio nella costruzione della città di Bregna. C'è un uso contrastivo dei colori a pastello. La voce è emessa quasi al rallentatore. L'effetto estetico della scenografia, di buon gusto, ci ha ricordato in parte GATTACA (diretto nel 1997 da A. Niccol), sebbene quella pellicola si disponesse su un maggiore livello di complessità tematica, prospettandosi anzi come film di impegno.


[Renato Persòli]

25/11/08

Luigi Blasucci, GLI OGGETTI DI MONTALE


["Where was the opening in that wall? I was sure one could be found, but not at that moment" (Image from La Rocchetta, SP). Foto di Marzia Poerio]


Luigi Blasucci, GLI OGGETTI DI MONTALE. Bologna, Il Mulino, 2002


Ha già la capacità critica di una rilettura questo saggio di Blasucci, che come altri suoi punta su una lettura puntuale e approfondita, che rivaluta le parole, da queste prende le mosse per enucleare concetti, una visione del mondo, una posizione del testo in rapporto ad altri testi. Il tema degli oggetti, inoltre, oltre che tipicamente montaliano, è determinante per chi crede a una possibilità di dire il reale e di esprimere anche il soggettivo tramite il rapporto tra l'oggettuale e la scrittura, nei cui interstizi si insinua una metafisica del mondo. Ma veniamo ad alcuni aspetti dell'indagine di Blasucci prima che prenda la tentazione di divagare autonomanemte sul tema del suo libro.

Vanno distinti e visto in scansione cronologica "l'oggetto-metafora, prevalente negli OSSI DI SEPPIA (il muro, l'orto, il varco, ecc.); l'oggetto-barlume, prevalente nelle OCCASIONI (il topo d'avorio, gli sciacalli al guinzaglio, ecc.)" [p. 8], ovvero "oggetti 'epifanici', per lo più salvifici, in contrapposizione al negativo della realtà inerziale o routinière" [p. 207]; l'oggetto allegorico prevalente nella BUFERA (la ruota, il gallo cedrone, la stessa bufera)" [p. 9].

Negli OSSI, "il cosmo si presenta innanzitutto nella sua dimensione spaziale: nella fattispecie il paesaggio delle Cinque Terre con le sue marine, i suoi scogli, i suoi greti, i suoi orti, i suoi muretti. Un cosmo che, evocato per lo più nell'assolata ora meridiana, diventa per il poeta una metafora stessa della vita, atona, arida, prigioniera dell'invariabilità. Il simbolo di questa prigionia è appunto il muro, […] metafora esistenziale" (cfr. il muro di MERIGGIARE; la muraglia di CRISALIDE) [p. 88]. "In alternativa alll'immagine del muro, sempre nell'ambito di una costellazione relativa all'idea di prigione, nella lirica d'apertura del libro è proposta quella della rete: "cerca una maglia rotta nella rete / che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!" (IN LIMINE)", ovvero "l'insperato ritrovamento di un'apertura, di un passaggio verso il di là [pp. 88-89). Questo passaggio si presenterà in CASA SUL MARE come un varco: "Penso che per i più non sia salvezza, / ma taluno sovverta ogni disegno, / passi il varco, qual volle si rittrovi" [p. 89].

In FINE DELL"INFANZIA (in OSSI DI SEPPIA) ci sono riferimenti leopardiani, alla fanciullezza come età biografica e come età dell'umanità (per esempio la "nostra stupita fanciullezza" in cui "si vestivano di nomi / le cose, il nostro mondo aveva un centro…"). Viene utilizzato il verbo "varcare" riferito ai monti, come nelle RICORDANZE: in Montale "Poco s'andava oltre i crinali prossimi / di quei monti; varcarli pur non osa / la memoria stancata"; e in Leopardi "la vista / di quel lontano mar, quei monti azzurri / che di qua scopro, e che varcare un giorno / io mi pensava"; anche la "memoria stancata" potrebbe essere, come nota Lonardi in IL VECCHIO E IL GIOVANE, un riferimento leopardiano, dal SOGNO: "Oggi nel vano dubitar si stanca / la mente mia" [pp. 118-19].

Sul piano intertestuale, Blasucci nota la "provenienza sempre 'alta' della cultura linguistica montaliana": nel primo Montale soprattutto Govoni, Gozzano e gli autori di "Riviera ligure", Sbarbaro, "con l'avvertenza, beninteso, che l'ascendenza linguistica non comporta ipso facto un'adesione di poetica, e che se a quegli autori Montale deve tanto sul piano dell'imagery (la predilezione per gli 'oggetti poveri'), la sua carica gnoseologica è ad essi del tutto ignota. La constatazione di una diversità vale del resto anche nei confronti degli autori 'alti': esemplare il caso di D'Annunzio, altra fonte di alimentazione linguistica", nei cui confronti Montale compie un'opera di "ribaltamento: dall'euforico […] al disforico"; mentre per Pascoli si nota il "confine tra il suo puntinismo impressionistico e la fermezza della parola montaliana". Nei confronti di Dante ci sono "riprese allusive (il "lago del cuore"), "propensione per certe coniazioni verbali" ("s'infinita" in CASA SUL MARE), parole corpose ("sterpi", "roccia", ecc.), "riproposizione tutta laica e moderna (cioè metaforica) della vicenda escatologica dannazione-salvezza" [p. 8].


[Roberto Bertoni]

23/11/08

Mohsin Hamid, THE RELUCTANT FUNDAMENTALIST

Prima edizione 2007. Londra, Penguin, 2008

Il narratore pakistano in prima persona, di nome Changez, in un'ambientazione geograficamente definita (il quartiere di Anarkali, che ha forse anche un significato simbolico richiamando nel nome la cortigiana murata viva da un regnante Moghul, a Lahore, in Pakistan), all'interno di un locale nel corso di un pranzo, racconta a un interlocutore statunitense la propria storia: gli studi a Princeton, la laurea, il lavoro ottenuto presso una società di valutazione economica internazionale, il successo e l'alto stipendio, l'amore sfortunato per una ragazza americana che, perso il fidanzato per un incidente, non riesce a separarsi dalla memoria di lui e precipita nella malattia mentale, scomparendo infine, forse suicida, da una casa di cura in cui era stata ricoverata. La storia d'amore indica una difficoltà di comunicazione anche personale nell'esperienza dell'esilio in Occidente, acuendo l'alienazione provata per il lavoro svolto e sentita con più intensità dopo l'11 settembre, data nella quale sentimenti contraddittori si presentano nella mente del protagonista, che se pubblicamente si unisce alla deprecazione dell'attentato ed è dispiaciuto per le perdite umane, al contempo non può sottrarsi al pensiero che sia stata colpita una superpotenza avversa ai popoli dei paesi meno sviluppati. Preso da un'inedia del personale e còlto in questa difficoltà del politico, il narratore lascia scorrere nell'inattività il suo ultimo incarico professionale, dal che consegue il licenziamento, il ritorno in Pakistan dove diviene docente universitario legandosi a cause libertarie e proclamandosi non violento. Il romanzo si conclude su una scena in cui il narratore e l'americano sembrano sul punto di dilaniarsi a vicenda, ma ciò non accade (o non accade ancora?).

Il testo del romanzo lascia nell'ambiguità se lo statunitense sia o meno un emissario dei servizi segreti e se Changez sia o meno un fondamentalista come dice il titolo. Tuttavia, un'intervista rilasciata a Jennifer Reese chiarisce che la parola Changez non nasce, come alcuni in Occidente hanno pensato, dall'idea di "cambiare" (sebbene questo concetto sia insito nel volume). Si tratta, nella proiezione intenzionale dell'autore sul testo, del "nome in Urdu di Genghis, il conquistatore mongolo che assalì il mondo islamico, per cui Changez non può essere veramente un fondamentalista religioso"; semmai è un "nazionalista islamico" con un'impostazione ideologica "secolare". La posizione di Hamid di fronte all'11 settembre, data in cui viveva a New York, fu di preoccupazione per persone conosciute e per il fatto politico e pensò: "Il mio mondo sta per cambiare da cima a fondo". Dichiara di avere scritto il romanzo "da un'angolazione di grande affetto per l'America" e di ritenere che "dire queste cose a un pubblico americano sia di aiuto all'America" [RELUCTANT SUCCESS; "EW.com"].

L’attualità del tema, trattato con notevole capacità di riflessione, non è l’unico pregio di questo libro. La scrittura ha leggerezza e spesso umorismo, due tratti stilistici che assorbono la drammaticità degli eventi e consentono la rappresentazione non patetica, bensì credibile, umana, vicina alla realtà, delle emozioni, soprattutto quelle della distanza da “casa”, dell'identità composita e della diversità con cui si convive risiedendo in un paese straniero, e dell’amore non ricambiato.

L’interlocutore al quale il narratore si rivolge mentre racconta la storia, usando un “you” che si alterna alla prima persona, rappresenta tanto il narratario di questa storia quanto il lettore, come se il riferimento fosse interno ed esterno al testo e si definisse in quanto strategia testuale ma anche come appello al lettore occidentale del libro, in un intreccio di sottotesti e significati che pare utilizzare al meglio i suggerimenti del moderno, con riferimenti in questo espliciti anche a Italo Calvino (oltre che nel tu/io, in una citazione da Palomar a p. 27).

Quanti altri libri si annidano nell’intertestualità di THE RELUCTANT FUNDAMENTALIST? Forse romanzi in lingua inglese (Salinger? O gli autori citati da Hamid: De Lillo e Toni Morrison?); ci sono riferimenti ai DUELLANTI di Tolstoy? Senz’altro si tratta di un testo di impegno notevole e di letterarietà raffinata, che merita in pieno l’interesse critico che ha ricevuto.


[Roberto Bertoni]

21/11/08

Mircea Eliade, MITI, SOGNI, MISTERI


[Amouliki (Collezione privata). Foto di Marzia Poerio]

MITI, SOGNI, MISTERI (1957; Torino, Lindau, 2007) contiene vari saggi di Eliade, che si propongono un accostamento alla tematica del sacro dall'angolazione della storia delle religioni e nello stesso tempo indagando elementi archetipici in un dialogo con la psicanalisi, sulla base della convinzione che "non vi è motivo mitico o scenario iniziatico che non sia in qualche modo presente anche nei sogni o nelle fantasie dell'immaginario" (p. 6). Il serbatoio dei miti è il mondo onirico entro la realtà sociale. Ecco la definizione di mito:

"Il mito si definisce per il suo modo d'essere: è riconoscibile come mito solamente nella misura in cui rivela che qualcosa si è pienamente manifestato, e questa manifestazione è al contempo creatrice ed esemplare perché fonda sia una struttura del reale, sia un comportamento umano. Un mito racconta che qualcosa è realmente accaduto, che un avvenimento è accaduto nel senso forte del termine: non importa che si tratti della creazione del Mondo, o della più insignificante specie animale o vegetale, oppure di un'istituzione. Il fatto stesso del dire quanto è accaduto rivela come l'esistenza in questione si è realizzata (e questo come coincide anche con il perché). [...] La cosmogonia è anche una teofania, la manifestazione piena dell'Essere" (p. 7).

Eliade pone la differenza tra mito e sogno nel fatto che il primo è "svelamento di un 'mistero', rivelazione di un avvenimento primordiale" e "non può essere personale, privato", diventa "modello per il mondo intero" (p. 9), mentre al sogno, se non profetico, mancano le caratteristiche di universalità e prevalgono quelle soggettive, nondimeno è proprio dall'inconscio che nascono i simboli e miti delle religioni. Esistono tra i due campi similarità, ma essi restano al contempo distinti.

Nel saggio intitolato I MITI DEL MONDO MODERNO (pp. 17-36), si rileva che nelle società tradizionali il mito non è una favola, bensì un riferimento a qualcosa di reale, "serve da modello" del mondo (p. 19), rivela la realtà, si prolunga nella storia. Così i miti escatologici che dall'Età dell'Oro passano nel pensiero progressista dell'Otto-Novecento. C'è un prolungamento da parte del cristianesimo del "comportamento mitico" (p. 26). La funzione dei miti è "creare modelli esemplari per l'intera società" (p. 27). "Gli archetipi mitici sopravvivono in un certo senso nei grandi romanzi moderni" (p. 30); e "la struttura mitologica della letteratura d'appendice è evidente" e riposta in grandi temi come la lotta tra il bene e il male, o in figure come quello del personaggio perseguitato, della "protettrice sconosciuta" e così via (p. 31).

Come si legge nel MITO DEL BUON SELVAGGIO (pp. 37-57), l'idea di un tempo mitico perfetto, di felicità, di Età dell'Oro è proprio tanto dei tempi moderni come di quelli antichi, percorsi dalla coscienza di "aver perduto un 'paradiso' primordiale" (p. 41): compito del presente allora come ora è ricordare l'accaduto; e esprimerne la nostalgia, come viene chiarificato nel saggio LA NOSTALGIA DEL PARADISO NELLE TRADIZIONI PRIMITIVE (pp. 78-95).

Queste e altre idee circolano anche nei testi restanti, ricognizioni nella primordialità del fuoco (per radici etimologiche legato al furore e alla collera sciamaniche), nel mito della terra madre, nelle ierogamie cosmiche. In MISTERI E RIGENERAZIONE COSMICA (pp. 244-92), il tema affrontato è quello della morte affrontata senza morire nel viaggio di discesa nell'Aldilà o in altri mondi simili come il ventre del mostro e della Balena (in cui "essere inghiottiti equivale a morire", p. 281). Questi viaggi sono riti d’iniziazione, regressioni "nell'indistinto primordiale" (p. 283) il ritorno dai quali, vivi, indica una "valorizzazione arcaica della morte in quanto mezzo di rigenerazione spirituale" (p. 287), così in Orfeo come in Giona, come se l'essere umano morisse e rinascesse continuamente.


[Roberto Bertoni]

19/11/08

Nino Arrigo, LETTERATURA COMPARATA E “LETTERATURA MONDIALE”


[Modernity from Asia (View on skyscrapers in Hong Kong). Foto di Marzia Poerio)

Il 31 Gennaio 1827 Goethe, conversando con Eckermann a proposito di un romanzo cinese [1], spegneva subito l’entusiasmo nei confronti della diversità culturale destato nell’amico (“un romanzo cinese! Esclamai: deve essere ben singolare!”), con una laconica risposta (“Quegli uomini pensano, agiscono e sentono quasi come noi, e ci si accorge assai presto d’esser loro uguali”), che tradirebbe - secondo Franca Sinopoli - “un grande meccanismo di elusione della diversità” [2].

A noi pare piuttosto di riscontrare, nell’atteggiamento di Goethe - d’accordo con Guillén - i prodromi del “comparativismo migliore”, quello che parte da un punto di vista nazionale, locale, per poi aprire ad un contesto più ampio, “rendendo così possibile il dialogo tra il locale e l’universale, l’uno e il diverso, che infonde vita, da allora” [3], alla comparatistica letteraria.

L’operazione condotta da Goethe è senza dubbio di enorme portata culturale, e in anticipo sulla storia. Egli aveva “presenti le peculiarità dei suoi tempi e guardava soprattutto verso il futuro”, ed è appunto con lui che nasce il concetto di Weltliteratur che si potrebbe dunque tradurre - come suggerisce Guillén - con “letteratura del mondo” [4].

L’atteggiamento goethiano sembrerebbe inoltre evocare, dal punto di vista metodologico, i principi del “pensiero sistemico”. Nel pensiero sistemico - lo ricordiamo - “le proprietà delle parti possono essere comprese solo studiando l’organizzazione del tutto. Di conseguenza, il pensiero sistemico non si concentra sui mattoni elementari, ma piuttosto sui principi di organizzazione fondamentali. Il pensiero sistemico è “contestuale”, cioè l’opposto del pensiero analitico. Analisi significa smontare qualcosa per comprenderlo; pensiero sistemico significa porlo nel contesto di un insieme più ampio” [5]. Porre le singole letterature nazionali nel contesto dell’insieme più ampio di una “letteratura mondiale”, non era l’intenzione nascosta dietro il concetto goethiano di Weltliteratur? Piuttosto che “meccanismo di elusione della diversità” - il “dispositivo” goethiano - non sembrerebbe rispondere ai canoni dell’apertura al dialogo interculturale, secondo quel “doppio vincolo” di locale e globale, terra/patria, suggeritoci da Morin e dal “pensiero complesso” [6]?

L’oscillazione tra il locale e il globale, l’uno e il diverso, le parti e il tutto, presente nel concetto di Weltliteratur (ad un livello, quindi, del “tutto”), sembrerebbe corrispondere, in maniera ologrammatica, all’oscillazione tra mito (il tutto) e Logos (le parti) attiva all’interno dei singoli testi letterari (quindi delle “parti”) [7], che compongono come delle tessere il grande mosaico della “letteratura mondiale”.

Quello ereditato da Goethe è senza dubbio, per tutti coloro che si occupano di letteratura, un testamento importante, un testamento però - secondo Milan Kundera - “tradito” [8]:

“Provate infatti ad aprire qualsiasi manuale, qualsiasi antologia: la letteratura universale è sempre presentata come una giustapposizione di letterature nazionali. Come una storia delle letterature! Delle letterature, al plurale!

Eppure Rabelais, sempre sottovalutato dai suoi compatrioti, non è mai stato capito così profondamente come da un russo: Bachtin; Dostoevskij da un francese: Gide; Ibsen da un irlandese: G. B. Shaw; James Joyce da un austriaco: Herman Brock; l’importanza universale della generazione dei grandi nordamericani - Hemingway, Faulkner, Dos Passos - è stata rivelata in primo luogo da alcuni scrittori francesi (‘in Francia sono il padre di un movimento letterario’ scrive Faulkner nel 1946 lamentandosi della sordità che incontra in patria). Questi pochi esempi non sono bizzarre eccezioni alla regola; no, sono la regola: la distanza geografica allontana l’osservatore dal contesto locale e gli permette di abbracciare il grande contesto della Weltliteratur, il solo capace di mostrare il valore estetico di un romanzo, vale a dire gli aspetti sino allora sconosciuti dell’esistenza sui quali il romanzo ha saputo far luce; la novità della forma che ha saputo trovare.

Intendo forse dire che per giudicare un romanzo non occorre conoscere la sua lingua originale? Certo, è esattamente quel che intendo dire! Gide non sapeva il russo, G. B. Shaw non sapeva il norvegese, Sartre non ha letto Dos Passos in originale [...] (E i professori di letterature straniere? La loro missione primaria non dovrebbe essere quella di studiare le opere nel contesto della Weltliteratur? Non c’è speranza. Per dimostrare la loro competenza di esperti, si identificano ostentatamente con il piccolo contesto nazionale delle letterature che insegnano. Ne adottano le opinioni, i gusti, i pregiudizi. Non c’è speranza: è nelle università straniere che un’opera d’arte è più profondamente invischiata nella propria provincia d’origine) […]” [9].

Niente di più suggestivo di un romanziere che parla del romanzo. Quale migliore critica?

La forza polemica di Kundera, scagliata contro il provincialismo di certa critica, è sferzante. Un punto di vista, rigidamente e scleroticamente fissato sulle questioni linguistiche, non farebbe che distogliere lo sguardo dalle ben più importanti componenti estetiche e dalle novità formali del fatto letterario, che, ad assecondare il critico-romanziere, andrebbe meglio gustato e compreso al di là della provincia d’origine e, persino, in traduzione [10].

Glissando le “piccole” questioni che l’opera letteraria incontrerebbe in un contesto provinciale, l’idea di Weltliteratur sembra intendere l’opera, alla maniera dell’ermeneutica, come “apertura di un mondo”, proprio mentre dalla provincia (il locale) apre al mondo (l’universale).

L’esperienza estetica diverrebbe in tal modo un’esperienza “della verità che ‘si apre’ nelle opere” [11], e che rimanda “a un ambito che non si lascia definire se non in riferimento all’esperienza della religione e del mito” [12].

Un’esperienza che, “intesa nel senso di Gadamer, come un processo di trasformazione entro cui il lettore dell’opera è coinvolto (insieme all’opera stessa - non dimentichiamolo - che dalle interpretazioni riceve un reale incremento d’essere)”, non potrebbe dunque che essere un’esperienza dell’interpretazione e poco importa, dunque, se in lingua o in traduzione.


NOTE

[1] Si possono leggere i colloqui tra Goethe e G. P. Eckermann in A. Gnisci, LA LETTERATURA DEL MONDO, Roma, Sovera, 1993, pp. 17-21.

[2] F. Sinopoli, DALLA COMPARAZIONE INTRACULTURALE ALLA COMPARAZIONE INTERCULTURALE, in A. Gnisci-F. Sinopoli, MANUALE STORICO DI LETTERATURA COMPARATA, Roma, Meltemi, 1997, p. 15.

[3] C. Guillén, L’UNO E IL MOLTEPLICE. INTRODUZIONE ALLA LETTERATURA COMPARATA (1985), Bologna, Il Mulino, 1992, p. 60.

[4] Ibidem.

[5] F. Capra, LA RETE DELLA VITA (1996), Milano, Rizzoli, 2001, pp. 40-41.

[6] Rimandiamo a E. Morin, LA TESTA BEN FATTA. RIFORMA DELL’INSEGNAMENTO E RIFORMA DEL PENSIERO (1999), Milano, Cortina, 2000, sorta di vademecum, versione “tascabile” della sua “monumentale” opera di elaborazione del “Metodo”, ma anche sintesi illuminante delle nuove coordinate del “pensiero complesso”, indirizzate verso una riforma (quanto mai utile ed auspicabile) dei programmi d’insegnamento, tenendo conto della “tensione” generata dalla doppia prospettiva “locale-globale”. Per uno studio esaustivo del pensiero di Morin si veda A. Anselmo, EDGAR MORIN. DALLA SOCIOLOGIA ALL’EPISTEMOLOGIA, Napoli, Guida, 2006.

[7] Rimandiamo qui alla dialettica complementare tra il dionisiaco e l’apollineo nietzschiani cui accostiamo - facendole corrispondere - le categorie di mito e logos. Cfr. F. Nietzsche, LA NASCITA DELLA TRAGEDIA (1872), Milano, Adelphi, 2000.

[8] Cfr. M. Kundera, IL SIPARIO (2004), Milano, Adelphi, 2005, p. 48.

[9] Ibidem, pp. 48-49.

[10 Alla lista degli scrittori meglio compresi in traduzione sfugge a Kundera il caso Poe. Notoriamente bistrattato dalla critica americana, ancora in tempi recenti (vedi l’ostracismo riservatogli da Harold Bloom), l’importanza di Poe nel contesto della Weltliteratur si deve alla mediazione della critica e della letteratura francese.

[11] G. Vattimo, OLTRE L’INTERPRETAZIONE, Bari, Laterza, 1994, p. 83.

[12] Ibidem, p. 82. Piuttosto che di competenze tecniche finalizzate all’analisi semiotica dei testi, avremmo bisogno di affinare il nostro udito per diventare quegli “ascoltatori estetici” di cui parlava Nietzsche. Ecco come Morin liquida in poche, fulminanti, battute la stagione della semiotica francese: “tempo fa, in Francia, andava di moda la semiotica. I professori di letteratura non facevano più leggere i testi, Racine, Voltaire, o che altro, come in passato: prendevano certe pagine e le analizzavano semiologicamente. Risultato: i giovani, che prima amavano leggere, dopo questa “cura”, non volevano leggere più” (Cfr. “La Repubblica”, 4-4-2007, intervista a Morin a cura di Laura Lilli).

17/11/08

John Le Carré, A MOST WANTED MAN

Londra, Hodder and Stoughton, 2008


Dopo aver narrato la guerra fredda in varie sue connotazioni col personaggio di Smiley e altri e sempre con la complessità necessaria all’argomento, John Le Carrè ha delineato nuove finzioni puntando sulle problematiche più vive del mondo attuale, componendo romanzi che mentre rispecchiano la sua propensità verso la suspense e il giallo a mosaico, in cui le trame del delitto e le reti delle azioni e dei personaggi si rivelano poco per volta, si rivolgono al contempo a temi di grande impegno, come la sperimentazione farmaceutica delle multinazionali a spese di cittadini africani con una mancanza di scrupoli etico-politici che arriva al crimine in THE CONSTANT GARDENER (Londra, Hodder and Stoughton, 2001), e il terrorismo in questo A MOST WANTED MAN, ambientato ad Amburgo, in una Germania post-muro e negli anni successivi all’11 settembre.

Issa, un ceceno figlio di un’ex spia russa che aveva aperto un conto presso una banca inglese operante ad Amburgo, entra clandestinamente in Germania per donare la propria eredità, che gli appare immorale in nome di principi religiosi, a società caritatevoli del mondo islamico, reclamando soltanto la possibilità di studiare medicina. Rivelare di più dell’intreccio serrato di questo romanzo significherebbe impedirne la lettura: è un thriller; e logicamente una buona parte della scorrevolezza è riposta nell’andamento della narrazione che svela le ramificazioni con gradualità.

Si potrà dire, però, che il teatro delle azioni è su piani molteplici. Una linea segue l’operato di Annabel Richter, l’avvocato che difende Issa e lo nasconde per proteggerlo, entrando in contatto col banchiere Breur e con Gunther Bachmann, rappresentante quest’ultimo dei servizi segreti tedeschi. Ben delineata la strategia degli operatori del settore. “Siamo spie e non arrestiamo la gente”, pensa Bachmann a un certo punto, notando che lo scopo è semmai quello di modificare l’atteggiamento dei sospetti, spingerli a collaborare e lasciarli in libertà per allargare la rete delle osservazioni e colpire a livelli più alti. Bachmann dà la propria parola a Annabel che Issa uscirà sano a salvo dalla situazione in cui si trova, sospettato (parrebbe del tutto ingiustamente) di terrorismo: non potrà tener fede non per sua responsabilità; e si tratta di uno dei punti importanti, in quanto delinea un contrasto non solo tra un mondo in rapida scomparsa di chi ancora crede nell’onore e chi è disposto a mancare agli impegni, ma anche, ad altri livelli, di una differenza di impostazione tra la maniera europea e statunitense di affrontare il terrorismo; e c’è una denuncia dei casi di rendition, ovvero di consegna dei sospetti a luoghi di tortura segreti in varie parti del mondo.

Se Bachmann si profila come persona leale, non per questo è idealizzato; ha anzi tratti anche rudi, parla linguaggi gergali, ha un senso dell’umorismo discutibile. Nel teatro globalizzato della contrapposizione tra società occidentali e terrorismo, disegnato sempre con precisione e senza cedere ai clichè (si veda il discorso di Aziz, sul bene al 95% e il male al 5% in Abdullah, un altro personaggio chiave collegato al terrorismo, pp. 253-59), l’elemento umano riceve attenzione; e oltre alla complessità con cui vengono riferite le ideologie, è questo che rende il libro un buon testimone della società in cui viviamo. I personaggi non cedono ai ruoli, che pur tuttavia svolgono, assegnati dalla narrazione e da ciò che rappresentano delle vita reale (il banchiere, la spia, l’avvocato, ecc.), ma hanno frattanto motivazioni umane, su cui la narrazione si sofferma (la figlia di Breur, per esempio; l’affetto di questi per Annabel; l’illusione amorosa di Issa; i rapporti personali tra Issa e la famiglia turca che lo ospita nascondendolo all’inizio del romanzo). L’umanità sembra proprio essere, e giustamente, quanto, assieme a sopravvivenze (individuali e non di sistema) dell’etica, rimane nel nuovo millennio dopo il crollo delle ideologie: come se le nuove solidarietà potessero emergere di qui, dall’investimento razionale-emotivo nella disponibilità verso gli altri accompagnato da una richiesta di legalità e di trasparenza da parte dello stato e da una difesa dei diritti civili. Tali ideali si rivelano inevitabilmente donchisciotteschi in A MOST WANTED MAN come in THE CONSTANT GARDENER; nondimeno vengono descritti e affermati con coerenza e come testimonianza della loro importanza in un mondo distortosi. In tal senso, Le Carré è un autore di impegno, capace di assegnare alla società contemporanea messaggi di responsabilità e di denunciare uno stato di cose insoddisfacente attraverso la sua opera di scrittore.

A MOST WANTED MAN è senza dubbio un romanzo notevole.


[Roberto Bertoni]

15/11/08

Augustus Young, ELEGY FOR AN UNTAKEN SWIM, JUNE 1982


[Not a Sicilian Lake, and one where swimming is forbidden. Glendalough, Co Wicklow, Ireland. Foto di Marzia Poerio]


ELEGY FOR AN UNTAKEN SWIM, JUNE 1982

Swimming in Sicily is easy.
You just take a deep breath
and dive from a mountain.

More often than not the water is clear.
Homicides are dumped from the headland.
It would take dynamite to discover them in coral.

More often than not the water is clear.
Even in Lake Pergusa the water is made to carry blood
to Proserpine panting on the car-racing track.

When it is not clear take a running plunge
into the puce seaweed and tangled squids.
You will come up cured with iodine.

It is easiest in sweet-smelling grottoes
where the moss clings to the tufa rock
and the swimmer can stroke the moss as he slips in.

Easy too off lava shores if you avoid prickly pears.
You can crush the sediment in your palm
and throw it out to sea.

Nights when the sirocco blows
it is safe to swim in the sastrugi sea
if you are the moon. Fishermen know this.



**********


ELEGIA PER UNA NUOTATA MANCATA DEL GIUGNO 1982

È facile nuotare in Sicilia.
Basta inspirare
e tuffarsi da una cima.

L’acqua è spesso trasparente.
Dai promontori si gettano assassini:
li troverà la dinamite tra i coralli.

L’acqua è spesso trasparente.
È adatta a convogliare sangue anche nel lago di Pergusa
verso Proserpina ansimante sul circuito automobilistico.

Quando non ha trasparenze, correrai a tuffarti
dentro le alghe color pulce e i calamari ingarbugliati.
Per risalire guarito dallo iodio.

Quanto ciò è più agevole nelle grotte dal profumo dolce
dove il muschio si abbarbica alle concrezioni di tufo
e il nuotatore intrufolandosi carezza muschio.

È altrettanto agevole immergersi dalle spiagge di lava,
basta evitare quelle pere spinose. I sedimenti,
li schiacci dentro il palmo, poi li butti in mare.

A volte nottetempo soffia soffia lo scirocco e se sei la luna
saprai tuffarti con sicurezza nel mare increspato.
Come sanno i pescatori.


[Traduzione di Roberto Bertoni]

13/11/08

Santiago Montobbio, EL ANARQUISTA DE LAS BENGALAS


[Pattern. Foto di Marzia Poerio]

Santiago Montobbio, EL ANARQUISTA DE LAS BENGALAS. Barcelona, Biblioteca Íntima (March Editor), 2005.

L’inquietante titolo di questa quinta e ultima raccolta del poeta catalano Santiago Montobbio (nato a Barcellona nel 1966) si spiega in parte nel componimento omonimo che si trova nell’ultima delle cinque sezioni del libro: “Io sono l’anarchico dei bengala / l’anarchico totale, quello che rimane e passa [...] Lavoro a tutte le ore, / specie quando la gente afferma / che non faccio nulla. So lavarmi l’anima / su un pezzo di carta e nulla, collocare bombe a orologeria / nelle città che sento alle mie spalle, / cercare e poi dimenticare il solletico di un amore / che prefiguro con distanza e attraverso tutto questo / continuare a rimanere dappertutto quando invece / me ne sono andato. / Perché io sono / l’anarchico dei bengala. Ogni volta / che ne accendo uno il tuo cuore / e il mio cuore si spengono” (p. 127).

La vocazione “anarchica” dell’autore affiora senz’altro nel rifiuto di qualsiasi definizione assoluta, tanto che la parola chiave del libro sembra essere “quasi”, che dà il titolo al primo componimento di una delle varie serie chiamate “poemas decapitados”. Quasi è l’esperienza di ogni vissuto, la conoscenza e l’emozione che se ne ricava; quasi è la vita stessa, che non riesce mai a essere “completa” o “assoluta”; quindi quasi è anche lo stato successivo, e cioè la morte di cui quasi sappiamo che quasi la possiamo intuire o provare: “se qui – ormai lo vedete – soltanto siamo / quasi tanto morti quanto l’alba”. Si capisce allora perché “poemas decapitados”, poesie decapitate, senza capo, senza ragione o coscienza. La poetica di Montobbio è legata filosoficamente al nichilismo e letterariamente alla “disperanza” di Mutis-Maqroll e al pessimismo fondamentale di Juan Carlos Onetti. In effetti, quest’ultimo aveva detto di un precedente libro di Montobbio, HOSPITAL DE INOCENTES, del 1989: “è molto bello e in un certo modo misterioso sento che coincide con il mio stato d’animo quando scrivo”. Il fallimento quindi attende, inevitabile, alla fine di ogni impresa, anche quella della scrittura, “l’oscura traversata” (p.15). Eppure, seguendo la prospettiva mutisiana, Montobbio concepisce la “disperanza”, ossia la dismissione di ogni speranza, come una forma di lucidità che alla fine dona insieme disincanto e serenità: “Non abbiamo altro, nient’altro ci rimane”.

In questo desolante panorama, dove spesso si arriva all’autolesionismo (“l’unico modo in cui mi sopporto / è quando mi ferisco”, p. 48) e perfino alla disintegrazione dell’io (“Parlo in plurale per fare finta di non essere solo, / o forse in questa notte io sono ormai tutti”, p. 45), dove Dio non c’è, o l’abbiamo scordato, o è dentro di noi, come tale o come una forza della natura, ma ormai non lo sappiamo (“Io dormivo e avevo dimenticato / di essere stato un dio, un fiume e / forse un sole”, p. 85), un valore rimane comunque in alto, forse due se – come faceva Octavio Paz – li consideriamo la stessa cosa: la poesia e l’amore. La letteratura per Montobbio è “la forma di sentire il polso delle varie miserie” (p. 35). Per questo per la poesia vale la pena “dare la vita” (p.19), anche se quelle proprie non valgono un soldo (ibid.). E l’amore “è una carta o uno specchio”, dove l’io si riflette, sicuramente attraverso quegli “afonici versi” possibili, attraverso i quali ognuno può capirsi e finalmente accettare la dura eppure rassicurante verità della nostra insignificanza: “io mi capisco e so / che non siamo nulla” (p.40).

L’amore e la donna, più volte evocata in questa raccolta, portano nel panorama della generale di speranza della poetica che le dà origine l’unica timida e spesso struggente luce:

“Perché io lo so che tu ti trovi in fondo
e nasci in mezzo al fuoco,
e ti sollevi senza rumore dagli antichi pozzi
come figura bianca di ridente terra
che dovrà ricordarmi
i suoni ormai estranei
dei soli giovani.
Io so che tu sei qui, sotto l’amore e il fiume,
e che quello che giace sono soltanto io
e che siamo piccoli, più poveri ogni giorno,
più poveri, o con più freddo”.

(Da: NE PIÙ NE MENO TRISTE DI CHIUNQUE ALTRA, pp. 99-100)

La poesia di Santiago Montobbio deriva direttamente dai grandi maestri spagnoli e ispanoamericani della generazione ormai al tramonto: Onetti, Mutis, Sabato, e continua la loro voce ruvida e disincantata capace di aprire nuove strade all’espressione e alla redenzione mediante la parola. EL ANARQUISTA DE LAS BENGALAS rivela una voce che sa scuotere e commuovere, che sa rinnovarsi e creare a partire da radici salde, riconosciute e rigenerate.


[Martha L. Canfield]

11/11/08

Gio Ferri, L'ASSASSINIO DEL POETA


[To the bone. Foto di Marzia Poerio]


Gio Ferri, L'ASSASSINIO DEL POETA: LE PAPILLON CRUEL (Canti XVI-XXV), Verona, Anterem Edizioni, 2007 (III volume della serie)


La poesia a puntate. Una trovata, una innovazione. Si resuscita il feuilleton, con apporto poetico, a diluire, bevanda cauta, il pasto grosso, a digerire, per pause, il leggere e il gustare (papille… auditive?) materia sonante, orgiastica. Il ritmo è alternativamente sereno e affastellato, stretto o incalzante, governato a rigore come già lo conosciamo dai precedenti Canti.

Nell'organico del proprio stile si afferma il poeta, qualunque tema lui porga. Qui è da notare come questa particolare “scrittura” (l”indagatore fra incartamenti vari appunta forme/mappe), pur sconfinando in un quasi-racconto seriale di delitto e investigazioni - e proposto a puntate, un tipo di giallo/noir dell”inconscio, in libri che si susseguono a intervalli regolari (novità progettuale, in questo campo) - possa adeguarsi a un gusto corrente che l”epoca nutre fra le nuove generazioni in materia di cult, senza dimettersi dal suo statuto di poesia austera e pensante, derivata dai grandi padri sia per tenuta del verso che per scelta lessicale, in un generarsi moderno sempre presente a se stesso e sempre in divenire, secondo le esigenze dell'“arte dello scrivere”.

Lingua sapiente di poesia e materia d'amore in decomposizione cadaverica. Qualcosa come una descrizione grafica in perfetta disposizione geometrica che spinga linee d’asintoto, tangenza in un punto improprio. In questo modo si ovvia al noto, al ripetitivo, allo scontato. Un’invenzione del genere, appunto, è un “modo” poetico di “narrare”. A tratti, e per un certo tenore di strofa, paragonabile perfino a ritmi di “manga” per la sua espressione figurativa.

Diverso dall’approccio comune del destreggiare poesia, extra-vagante nel suo movimento di sequenza, produce un pensiero colto e nervoso, scherzoso e fazioso, pervaso di ironia. È un inno comunque alla “parola”, alla sua “allure” extra-ordinaria. Forma alto-simbolica contro discorso basso del materiale. In altre parole, una poetica che si situa in un sistema linguistico e letterario di antica tradizione con esiti d’avanguardia.

C’è sempre un sottotitolo. Questa volta LE PAPILLON CRUEL (terzo volume de L’ASSASSINIO DEL POETA) interviene a lenire una crudeltà “benigna” DI KATY DALLE ALI BLU nel morso dei Canti (sequenza XVI-XXV). Crudeltà di farfalla, il leggero del volo non si appesantisce neppure imbrattato d’ali nella tinta del polline. Amore platonico non pesa. (“Katy dolcidula Katy / crudele bocca feroce / la mia passione atroce / la croce dei miei martìri / la foce delle mie fluenti / voglie la voce che chiama / da quelle soglie ansie doglie / e l’anima mia discioglie”.)

Un poeta è assassino o è stato assassinato? Nei Canti XVI-XVII introduttivi/continuativi del presente volume, condotti in ottave di perfetti versi ottosillabici, pare che il numero 8 porga una chiave di soluzione esoterica all’enigma protratto in peripezie romanzesche. Tuttavia, anche quando cambia metro, chi scrive (l’indagatore) è meticoloso nel preservare regolarità di struttura alla strofe della sua ricerca, in un procedere di severissima indagine.

Centrale di questo volume è il problema di Katy, o “l’abbandono”. La farfalla dalle ali blu è scomparsa, né si rintraccia segnale di lei. (“così l”abbandono riporta il dono / della crudeltà al parossismo delle viscere”. Il protagonista sente in sé disseccarsi la parola che lo guidava a capire: “infelice dissecca la radice della vaga / astanza”.

Nel labirinto della sua mente si sigilla la solitudine: “solitudine è un grave moto astrale”. Finché il silenzio si fa cerimoniale: “speco bieco e greco roso / ròsa ascosa dei venti”. Si spezza la parola nel cervello, tutto il ricercare svanisce in un nulla irrazionale” “humus”, “sapida sapodilla”, “tzapoll fruttifico”, “aztèko” /“perduto […] / […] e muto”. Per concludersi in un profondo silenzio di sonno: (“si muta allora illuso aduso / e gioca di segno che taccia!”).

Senonché, Katy a un tratto ritorna. Fluttuano i nomi ancora sulle sue ali. L’istinto del Commissario indagatore si risveglia. Sopra un foglio ritrovato, un sonetto di Shakespeare, il n° 107 nei vv. 5 e 8, viene analizzato per variazioni di traduttori-poeti che vi stemmano ognuno la propria impronta (“parola canta alla viola”), alla ricerca di un indizio di delitto.

Così sbattendo le ali, il papillon stregato di crudeltà gli fa incrociare nomi propri in elenco, per confrontare significati. A quale d’essi dovrà ricondursi l’indagatore? (“Katy non parla, farfalla crudele, dice il suo corpo”). Dove si nasconde la soluzione del mistero?

“The mortal Moon hath her eclipse endure […] //[…] And peace proclaims olives of endless age”, dice Shakespeare. Si profila un raggio di speranza. Superate le oscurità, torna in luce la nominazione. Il vero di ciò che è reale. Così le carte del passato diventano fiamma, ciò che è nuovo procede in pace il suo corso: “Katy crudele s’invola / si prende l’anima sola e nella fiammata grida / parola di verità”.

Il mistero di Katy se svelato concluderà l’indagine in futuro? Gio Ferri non demorde. Racconta e si racconta, lingua senza tempo perseguita nel tempo, dialettica che supera i confini del suo stesso proposito, insegue “oltre questi canti altri canti, oltre questa vita altra vita”. Dopo la presente trilogia, che batte numeri dispari d”uscita - 2003, 2005, 2007 - (anche questo è un significato?), forse il 2009 porterà un”ulteriore “prova d”autore”. Il finale lascia spazio bianco.


[Giuliana Lucchini]

09/11/08

Gian Paolo Ragnoli, L’ESTATE QUASI FINITA (Racconto rock)

“Dove saremo quando l’estate se ne sarà andata?
Il mattino ci ha trovato tranquillamente inconsapevoli
Il pomeriggio ha bruciato l’oro nei nostri capelli
La notte abbiamo nuotato nel mare ridente
Quando l’estate sarà finita dove saremo?”

(The Doors, SUMMER’S ALMOST GONE)


Era la fine dell’estate. Eravamo seduti ai tavoli di un bar, all’angolo di Place Saint Sulpice. Bevevamo pastis e sfogliavamo “Liberation”, Jim fumava anche le Gitanes, sembravamo due idioti che giocano a fare i francesi. Forse era proprio così…

Jim aveva lasciato l’America, il successo, i soldi, la moglie e tutto il resto e si era trasferito a Parigi. Voleva fare lo scrittore e voleva vivere qui. Io, come al solito, cercavo di far perdere le mie tracce soprattutto a me stesso, sempre le solite cose, amori finiti male, rivoluzioni fallite prima di cominciare, riviste chiuse al secondo numero. La solita vita, insomma.

Ci siamo incontrati qui, una mattina di inizio settembre. Mi ha fermato lui, io con la barba non l’avrei mai riconosciuto, evidentemente non solo io, nessuno sembrava rendersi conto che uno dei più famosi cantanti rock di tutti i tempi stava tranquillamente seduto in un bar tabacchi, a sgranocchiarsi un croissant dopo l’altro.

“Hey Ted, come va? Quanto tempo, che anno era?”

“Jim! È bello vederti, non avrei mai immaginato di incontrarti qui, anzi a dirti la verità non avrei proprio pensato che ci saremmo più incontrati”.

“Ted, ricordi che sei stato proprio tu a insegnarmelo, “La vita, amico, è l’arte dell’incontro”.

Già, dico spesso frasi di questo genere, devo aver preso troppe droghe in gioventù...

Avevo conosciuto Jim ai tempi dell’Ucla, studiava cinema e parlava continuamente di un film che voleva fare su uno sciamano, diceva di averlo incontrato da piccolo nel deserto del Mojave e di aver “sentito” il suo potere. A me sembravano tutte sciocchezze, ad essere sincero, forse perché passavo il mio tempo con Tom Hayden alle ultime riunioni del S.D.S., prima dello scioglimento. C’era spesso un tipo curioso, sballato perso, si chiamava Lebowski e sosteneva di aver scritto lui gran parte della dichiarazione di Huron del ’62, l’atto di nascita del gruppo. Boh, Tom ghignava ma non l’ha mai smentito.
Jim, come ho detto, mi sembrava un po’ fuori, ma era simpatico, aveva una collezione di vecchi dischi di blues pazzesca e scriveva benissimo.

A volte mentre sentivamo Sleepy John Estes o Skip James saltava su e incominciava a leggere i suoi versi, raccordandosi immediatamente col blues saltellante che usciva dalle casse dello stereo.

Ma perché non ti trovi una band e canti, sei fantastico, glielo dicevo tutte le volte ma lui niente, voleva fare come il suo amico Francis, che stava già cominciando a lavorare come regista.

Poi ci perdemmo di vista per un paio d’anni, la vita, a volte, ti porta dove non vorresti essere a fare cose che non vuoi fare.

Quando ci incontrammo di nuovo Jim era già una star, Light My Fire e il primo album del suo gruppo erano ai piani alti delle classifiche, le ragazzine si strappavano le mutandine e gliele tiravano ai concerti. Lo vidi nel backstage dell’Hollywood Bowl, dopo un concerto trionfale.

Jim era contento di vedermi, ci mettemmo a chiacchierare dei good ol’ times e lui mi disse che sì, le cose andavano bene ma non era questa la sua vita, si sentiva ingabbiato in uno schema, tutte le sere a ripetere lo stesso show, con il pubblico che gridava e non ascoltava le parole. Le parole, inutile dirlo, erano stupefacenti, testi come THE END o WHEN THE MUSIC’S OVER sono grande poesia americana, ed era quello che gli interessava adesso, aveva trovato la sua strada, voleva scrivere.

Quella sera gli presentai Nico, una vecchia amica dei tempi della Factory, modella, attrice, cantante, tossica ma comunque stupenda. Finirono a letto insieme quasi immediatamente, non c’era modo di resistere a Jim. Non potevi neanche invidiarlo, era troppo simpatico...

Il giorno dopo andammo a bere insieme, mi regalò FOREVER CHANGES dei Love, ”è un album meraviglioso, ascoltalo, Arthur è grande”, poi ci salutammo e non lo vidi più. Lessi sui giornali dei suoi successi, dei suoi arresti, dei suoi problemi con moglie e coi discografici, della sua uscita, clamorosa, dal gruppo.

E poi, di colpo questo tizio con la barba mi chiama, mi volto ed è come fossimo ancora a cazzeggiare con Lebowski al “Whisky a Go-Go”, giocando a chi le spara più grosse. Adesso abbiamo ripreso a frequentarci, ci vediamo al bar, mangiamo in qualche bistrot, andiamo spesso al cinema. Credo stia con qualcuna, a volte anch’io credo di stare con qualcuna, ma il nostro è un rapporto a due, chiacchere, bevute, approfondite analisi dell’universo, qualche joint.

Stamattina mi ha portato un regalo, anche se non mi pare sia il mio compleanno. È incartato con una bella carta Bluette, quasi mi spiace romperla per aprire il pacchetto. Dentro c’è un libro, una confezione straordinaria, un astuccio blu sigillato da una cordicella che contiene fogli non legati, in carta pergamena, con una poesia per foglio. Apro a caso e leggo qualche verso, Jim fuma senza dire una parola. Mi accorgo improvvisamente che non c’è una foto dell’autore, solo il nome, per intero. James Douglas Morrison.

07/11/08

Piera Mattei, UNA CONFESSIONE

Nel quartiere non c'era persona che vedendo un'ombra aggirarsi sui tetti di notte alla luce incerta che veniva dalla strada temesse di ladri o di assassini. Sapevano che si trattava di quella abitudine, strana ma inoffensiva, perché lo stesso istinto che spingeva il sonnambulo al bordo estremo dei cornicioni lo salvava poi giusto in tempo dal cadere di sotto.

Invece venne giù. Proprio davanti ai vetri della stanza dove stavo seduto con gli occhi sollevati dal mio libro.

Le sue braccia erano spalancate come se nel volo intendesse bilanciarsi e planare. E tuttavia mi parve che una mano si muovesse davanti ai vetri della mia finestra in un inequivocabile cenno di saluto. Nello sguardo esibiva un'espressione tra ironica e impudente, come di chi chiedesse scusa di un disturbo che comunque aveva deciso di arrecare.

Lo raccolsero nell'orto sottostante e lo ricoverarono per fratture multiple, tutte sul lato sinistro del corpo, dalle gambe al viso.

Andai a trovarlo all'ospedale. Sentii il dovere di farlo non perché gli fossi amico da prima ma per il motivo che nel cadere si era tutto girato verso la mia finestra per lanciarmi un messaggio estremo di amicizia, e da quel lato proprio s'era tutto schiacciato.

La frattura laterale aveva ridotto il viso a dimensioni asimmetriche, storcendolo in una specie di sorriso fisso che tuttavia non aveva proprio nulla di tragico. Appena mi vide prese ad agitarsi facendomi capire che voleva parlarmi ma non poteva - accennava con la mano sana alla mostruosità della mascella. A gesti anch'io comportandomi chissà perché come se fossi muto o se lui fosse sordo, gli feci capire di stare quieto. A sua volta muovendo l'indice nell'immagine della ruota, disse: "A dopo". Annuii. A dopo, quando fosse guarito.

Nacque così tra noi una strana amicizia sordomuta e prese voce solo dopo che lui fu tornato alla vita normale. La voce aiutava molto per la confidenza che aveva da farmi. Riguardava un'illuminazione che aveva avuto proprio mentre precipitava dal tetto. O forse si trattava dell'intuizione di un attimo prima?

Aveva capito che non era mai stato un sonnambulo sincero e tale era stata l'urgenza di comunicare la sua scoperta da farmi - benché già in volo - quel gesto con la mano contro i vetri della finestra. Aveva mentito. Si era costruito dal niente quella reputazione, dapprima per spavalderia, poi per prendersi gioco degli altri. Alzarsi di notte con ogni tipo di clima per andare a spasso sui tetti, al bordo delle grondaie, era diventata col tempo un'abitudine.

Cos'è veramente un'abitudine alla quale non si può rinunciare? Una qualità che aderisce alla nostra persona in maniera sostanziale ovvero un vizio conseguente a un pigro inceppamento della volontà? Quella notte sul tetto, dopo tanti anni, questi interrogativi gli si erano presentati nella chiarezza accecante e simultanea di un lampo e ne era rimasto folgorato. Per questo era caduto?

Discutemmo insieme di simili interrogativi quel giorno stesso e poi negli anni successivi della nostra amicizia. Infine quei quesiti si tramutarono in veri e propri scogli nei quali ci incagliavamo durante la rotta delle nostre conversazioni. A che pro del resto approfondire quanto ci fosse di autentico nella sua trascorsa natura di sonnambulo?

Quella sua identità vera o falsa concerneva il passato. Lui dalla caduta era rimasto zoppo e non si danno casi di sonnambuli zoppi o in qualunque altro modo menomati.

05/11/08

William Shakespeare, COME VI PIACE


[Arcadian scenery reflected in symmetric modernist glass. Foto di Marzia Poerio]


Ivano Mugnaini, L’ARCADIA VISTA ALLO SPECCHIO

COME VI PIACE non è certo la più nota delle commedie di Shakespeare. Ma è conosciuta, rappresentata, letta e studiata quel tanto che basta per coglierne il fascino sottile, subdolo, verrebbe da dire: le complessità, i divertiti e bruschi cambiamenti di visione e prospettiva, le trappole farcite di cortesi florilegi accuratamente preparate dal buon William. Ancora efficacissime, pronte a scattare alla minima sollecitazione. Shakespeare ricevette in dono una consapevolezza linguistica che gli consentiva di padroneggiare le parole, versi alati o ruvida prosa, in modo da poter comprendere, nel senso più ampio del termine, il gusto, la capacità ricettiva, lo scandaglio emotivo, la contemplazione estetica (ed estatica) di un pubblico vastissimo. Dal contadinotto venuto a teatro per farsi due risate e guardarsi un paio di dame dagli abiti non esattamente casti, al Professore di Oxford che si mischia alla folla ed elucubra, tra uno schiamazzo e l’altro, individuando assonanze e consonanze, richiami intertestuali e compagnia bella. William aveva cibo a sufficienza per sfamare tutti. Per lasciare ciascuno alla fine, sazio, certo di aver avuto ciò che desiderava.

COME VI PIACE, opportunamente tradotto da qualcuno anche con COME VI PARE, diventa quindi in un certo senso anche una specie di marchio di fabbrica, un motto, uno slogan. Se è questo che volete, sembra dirsi Shakespeare, questo avrete. Per me è lo stesso, l’importante è che siate contenti voi, e che riempiate i teatri, giorno dopo giorno. Questa è, almeno in parte, una potenziale chiave di lettura. Le porte letterarie shakespeariane tuttavia di chiavi ne richiedono numerose per sperare di vederle socchiudere. Il buon William sembra voler assecondare gusti e richieste, pare allinearsi a ciò che furoreggia, ciò che è in voga. Dal canto suo sembra addirittura dire “Io scrivo, così, perché sono drammaturgo, è il mio mestiere. Sono come un sarto, confeziono abiti su misura, a seconda delle esigenze e delle mode”. La frase è falsa, oltre che inventata. Niente di più lontano dalla realtà. Doveva mangiare, William, certo, come ogni padre di famiglia, o forse di famiglie. Ma ciò non gli impediva di fare, in realtà, come pareva a lui. Dando sempre l’impressione di servire la rispettabilissima platea, of course.

La commedia COME VI PIACE avrebbe potuto, anzi avrebbe dovuto, a regola, uniformarsi ai dettami della letteratura “pastorale”, l’Arcadia che faceva sognare e versare fiumi di inchiostro. L’intreccio avrebbe potuto essere complesso ma prevedibile, ed aprire la strada, anzi, un verde e profumato sentiero, verso l’atteso happy ending. Avrebbe accontentato tutti, o quasi. Di sicuro la maggioranza degli spettatori. Non avrebbe soddisfatto però uno spettatore particolare, il primo e l’ultimo: William Shakespeare da Stratford. Accade così allora che, alla fin fine, il primo e l’ultimo a divertirsi sia proprio l’autore. Anche a spese del suo pubblico. Lo schema di base della commedia pastorale era semplice nella sua intricatezza. Travestimenti, giochi, trucchi innocui e in gran parte giocosi, e poi via, l’agnizione, ognuno si rivela per quello che è, buoni e cattivi, belli e brutti, e finisce a tarallucci e vino, e dentro una mirabolante alcova. Shakespeare scardina il meccanismo. Dando la colpa con un ghigno sarcastico ai propri attori, quasi avessero fatto di testa loro, mostra che la vita, sia nella realtà che nella finzione, è più articolata, più ricca di sfumature. Perché tutto il mondo recita una commedia (e qui l’eco arriva nitida fino a Pirandello ed oltre), e la Fortuna svolge una parte determinante.

La scena è quella della foresta di Arden, luogo deputato, idilliaco per eccellenza. Una sede “ecologica” da contrapporre alla cruda vita sociale e cittadina. Ma anche nell’Arcadia si insinuano, non meno aspre, le contraddizioni, i contrasti, i dissidi. Shakespeare non sopportava l’esaltazione incondizionata del mondo pastorale. A lui, è il caso di dirlo, non pareva plausibile. Finisce allora per minarne le basi dall’interno, in modo velato, indiretto, e, per questo, più efficace. Tramite il linguaggio, arma primaria. Le miti principessine e le fanciulle in fiore, ed anche gli integerrimi eroi, cadono, non di rado, e con un certo gusto, nel linguaggio “osceno”. Mai fine a se stesso, con un verve ed un senso della misura assoluti. Si tratta però pur sempre di un elemento che va al di fuori del cliché. Anche l’esaltazione della campagna come paradiso in terra è sottoposta a occhiate e battute schiettamente ironiche. Meglio lasciare la campagna ai contadini, ci dice Shakespeare. Anzi, lo fa dire ai suoi saggi pazzi, siano essi raffinati ed eccentrici viaggiatori o buffoni di mestiere. Jaques, il personaggio dal nome francesizzante, è il signore che vive e pensa da filosofo. Divertendosi a “ragionare”, il che spesso equivale a camminare in direzione contraria rispetto alla folla. Il buffone invece è Touchstone, Pietra di Paragone. Già la traduzione del suo nome dice molto. Ricerca l’oro. Materiale prezioso e raro. Come la verità. Forse non la troverà mai. Ma già la ricerca lo eleva, di sicuro dal punto di vista morale e intellettuale. I personaggi “malinconici”, afflitti da quella sorta di malattia che li porta al morbo del pensiero, della ragione, erano un mezzo per mostrare l’altro lato della luna, quello oscuro, scomodo, avvolte da dense foschie. Un’altra eco, distante dai tempi e dai climi shakespeariani, ma forse neppure troppo, destinata a giungere fino a Freud, comincia a vibrare nell’aria.

L’ultimo è più gustoso scherzo di Shakespeare, lo specchio deformante più possente e grottesco, appare nel finale della commedia. Il gioco della luce e dell’ombra, del bianco e del nero, viene ribaltato, o, almeno, intessuto in nodi più complessi. Il duca cattivo in un primo momento è al potere, e quello buono in esilio. Situazione standard, si potrebbe dire, comunissima, quasi normale, nell’ambito teatrale e non solo. Accade però in COME VI PIACE che il cattivo diventi buono, e si faccia addirittura eremita. Lasciando il potere all’altro, che lascia la macchia, senza troppi rimpianti, per tornare a palazzo. La formula si ripete, a chiasmo, nei due figli dei duchi, Oliver e Orlando. Il cattivo Oliver diventa buono e sceglie il bosco. Quando però viene a sapere dell’eredità, si ricrede. Pungente e credibile, sul piano psicologico, anche questo retrofront. Nella parte conclusiva della pièce, le figlie dei duchi, Rosalinda e Celia (nome forse non casuale, quest’ultimo) sposeranno il nuovo buono e l’ex-cattivo. In un matrimonio collettivo stile giapponese, quasi, in grado di mettere in crisi anche il più solerte impiegato dell’Ufficio Anagrafe. Ma proprio dall’ambito che dovrebbe rinsaldare la pace e l’armonia, quello pastorale, emergono, emblematicamente, le prime insidie, le contraddizioni, le complicazioni amorose personificate dall’ulteriore coppia, quella di Silvio e Febe.

Complicata, molto, la trama della commedia, e tuttavia solare, nella sua arguta sequenza di ombre e riflessi. Forse perché il linguaggio, è, come osservò Johnson, tra i più fluidi e vitali del repertorio shakespeariano. Una commedia un po’ fuori luogo e fuori epoca, COME VI PIACE, ma anche fuori dal tempo, con quella grazia e quel brio, a tratti serenamente taglienti, che ancora racchiude. Divertente, a suo modo. Forse perché l’autore si è divertito in prima persona, a prendere modelli e smontarli, rimettendoli insieme a suo piacimento. Si è anche divertito a giocare a mosca cieca con lo spettatore, e a prenderlo in giro, facendogli credere che il testo fosse stato scritto come piaceva a lui. In realtà è il contrario, si tratta di un esperimento letterario, giocoso e complicato come una partita a dama. Ma a noi, in fondo, piace anche così. Forse perché ci piace pensare che tutto sia come ci pare.

03/11/08

Alberto Bertoni, RICORDI DI ALZHEIMER

RICORDI DI ALZHEIMER (Ferrara, Book, 2007) è uno di quei luoghi poetici dove il disegno che unisce i singoli testi raccolti e l’amore paziente per la parola trovano una sintesi di lucente verità. Nelle tre sezioni (FÚDBAL, KAFKA, NOT) del libro di Alberto Bertoni ogni testo è segnato dall’indicazione di numero e mese a scandirne un ritmo di scrittura memoriale, se non proprio la sequenza esplicita di annales familiari, di un romanzo stagionale in versi. La figura del padre, qui vero protagonista e tributario della parola poetica, è coagulo del racconto, anabasi corporea dove il flusso del vivere svela tutta la sua fragilità nelle perdite della memoria, fino al punto massimo di non ritorno, all’impossibilità stessa di accertare la propria definitiva identità. Attraverso lampi diegetici, Bertoni restituisce alla pagina il resoconto di una “imprevista” conoscenza, di una storia comune – paterna e di sé – che svela al lettore i timori e le epifanie, il vissuto e le tenerezze che nel tempo l’hanno costituita; inscenando, del padre, anche la progressiva difficoltà del ricordare che si annida nei vuoti delle sinapsi e che è – sintomaticamente – la devastante prima manifestazione di una malattia come l’Alzheimer.

Passando per libri precedenti quali TATI (1999), IL CATALOGO È QUESTO (2000), LE COSE DOPO (2003), HO VISTO PERDERE VARENNE (2006), che innervano con i molti testi rivisitati e gli inediti la fisionomia di questo Ricordi di Alzheimer, Bertoni dimostra come per lui fare poesia si traduca eticamente in una scrittura ancorata profondamente all’esperienza vissuta, e che di questa esperienza riporta - con Bachtin - i caratteri di pluridiscorsività e plurilinguismo che le sono propri. Non a caso uno dei titoli considerati possibili da Bertoni per quel libro d’esordio che è LETTERE STAGIONALI (1996) era stato proprio ROMANZO; mentre ora l’intreccio di interlocutori, di luoghi, di idiomi diversi che da sempre caratterizza la sua poesia sembra assestarsi, riconoscere una sua propria cifra nella definitiva elezione del dialetto di provenienza a lingua poetica. Il dialetto modenese, che in LINGUE SALVATE (un testo di HO VISTO PERDERE VARENNE) è riconosciuto come “lingua d’amore”, diventa in RICORDI DI ALZHEIMER rappresentazione dell’altro, resoconto della parola paterna immessa nel procedere del racconto e perimetrata sulla pagina dalla finissima perizia metrica con cui Bertoni determina la struttura delle poesie.

Giovanni Giudici, scrivendo la prefazione a LETTERE STAGIONALI, mise fin da subito in evidenza di cosa questo racconto si sostanzi, quali sono i temi o le “occasioni” da cui prendono spunto i testi di Bertoni e che da lì in poi, per tutte le raccolte, hanno segnato il catalogo, i topoi della sua poesia: la materia “amorosa” innanzitutto, vissuta quasi sempre come scacco, abbandono, o impossibilità di riconoscimento definitivo, le amicizie, la passione per le corse ippiche, il vino, il buon cibo; insomma tutto un catalogo di “sentimenti” registrato con una scrupolosità che potremmo dire diaristica. La parola di Alberto Bertoni, però, tutta carnale, fisica, materica (come hanno rilevato critici amici del poeta quali Niva Lorenzini e Andrea Battistini), non è mai meramente cronistica. Il discorso poetico non si adagia sui fatti senza uno scarto che provenga dai sensi e restituisca una percezione straniata della realtà, calibrando così una disposizione conoscitiva sempre tesa ad un altrove, a un di più o un di meno di reale che ne sfugge.

Già a partire dai titoli che suddividono in tre distinti capitoli i suoi RICORDI DI ALZHEIMER, Bertoni dà ragione di altrettante aree semantiche, di scatti e accensioni linguistiche in cui vita e letteratura, passioni e morte, rivelazione e assenza, insomma “tutta l’insettitudine del mondo” (da: NOTIZIA) trova la sua trasmutazione più aderente e più alta. Diario di sentimenti, dunque, romanzo del padre e del figlio che procede per brevi scorci di vita quotidiana, per episodi minimi tesi a ricostruire una sorta di saga familiare e privatissima a cui non sfugge un altro dato di tutta la poesia di Alberto Bertoni: la passione proustiana per i noms de pays; l’epifania culturale oltre che esperenziale che il nome di un luogo porta con sé e che in RICORDI DI ALZHEIMER si concentra nel toponimo di Modena.

Luogo natale di cui nelle LETTERE STAGIONALI si contemplava la trasfigurazione metafisica (con quel nominarne la sola “M*” iniziale, omaggio dichiarato al modo che Antonio Delfini aveva di indicare la città di Modena specificandola così come entità esistenziale), tra le pagine dei Ricordi Modena torna ad essere luogo reale e corporeo, storia e appartenenza concrete. In questo modo vengono dunque a saldarsi al suo etimo il sentimento dell’Heimat (la patria del cuore che Bertoni con Delfini condivide) e le solide fattezze topografiche di una città quale Modena è stata per Gilberto, il padre protagonista di RICORDI DI ALZHEIMER: uno spazio urbano di casa e lavoro, luogo di tutta una vita, città di passioni e educazione sportiva trasmesse nel figlio come lascito continuamente emergente (“[…] mi attardo /anche oggi a guardare / le borse blu in corame / con la doppia striscia gialla / il canarino, la scritta / F.C. MODENA 1912 / e dentro le divise, i tacchetti/da campi pesanti / portieri corpaccioni o centravanti / di scarsa elevazione ma forti / gesti da panzer, altro che i nostri /rischi di fraseggi troppo alti…”; VIII, MAGGIO).

D'altronde, nella personale recherche di Bertoni, il paesaggio è spesso protagonista, avvolge gli umori e le parole con risultati quasi di metamorfosi, di contatto fisico con i chiaroscuri e le tempere, con gli elementi naturali e architettonici. Tanto che si potrebbe tentare una ricognizione in termini pittorici della sua scrittura, tutta giocata sui colori forti cari al movimento dei fauves (e a Matisse in particolare), con effetti di straniamento sul racconto che si situano appunto tra materica concretezza e tensione metafisica (“Chiaro e scuro / ma tu ascolta la luce / chiamarti per nome / accenderti favole farfalle / quel rosso di tuono / – aspettami ancora un minuto / […] / siamo qui, io e te / bello e brutto di oggi / pietre lisce del muro”; II, MARZO).

Quello del cronotopo spaziale è dunque un codice euristico, un metodo di avvicinamento alla realtà che Bertoni non disgiunge dall’altro fattore determinante della sua poesia, quello temporale, sempre presente soprattutto nella fattispecie di tempo meteorologico. Così, come il testo che fa da prologo in LETTERE STAGIONALI prendeva inizio da una constatazione climatica per chiudersi sul tempo e sul senso dei destini individuali (à la manière dei BREVI LUCIGNOLi con cui Giovanni Giudici apre il suo libro del ’93, QUANTO SPERA DI CAMPARE GIOVANNI), altrettanto “climatico” è l’incipit con cui si dà inizio ai RICORDI DI ALZHEIMER (“Lo sai, papà, si sta/tranquillamente in giacca e maglia / nonostante febbraio”; I, FEBBRAIO). Il cronotopo del tempo è tutto giocato nelle connessioni che la memoria, anche quella involontaria, è capace di creare. Ma si tratta pure della capacità, tutta di responsabilità individuale, di partire da eventi quotidiani o ricordi sportivi biograficamente precisi, per poi trovare il varco che li trasponga in una dimensione più alta, che dai toni ironici di una biografia faccia passare a una visionarietà capace di conoscere l’altro, capace di socialità, e dunque di porsi come responsabilità veramente etica (“Babbo, cosa mi sucede / se sto con il catívo / oggi e fin che vivo?”; IX, MAGGIO).

Non a caso tra i poeti amati e studiati da Bertoni ci sono Sereni, Saba, tutto il Montale da SATURA in poi, e quel Caproni postumo capace di condensare in un libro come RES AMISSA tutto il nulla del reale (tra l’altro, nelle molte citazioni di cui si è sempre nutrita e si tesse tutta la sua poesia, Bertoni in uno dei suoi testi precedenti parlava della realtà proprio come “res amissa”). C’è insomma in questa poesia, per un autore rigorosamente laico quale Alberto Bertoni è e si professa, nel rifiuto di ogni fede ideologicamente e teologicamente imposta, una dimensione della preghiera come disposizione laica all’interrogazione, al colloquio, che si declina anche nel “mantra” dei nomi (almeno dichiaratamente a partire da un libro come Tatì, con la specificazione di Anna, nome ebraico perfetto) o nel richiamo ai nomi come primigenio atto linguistico creativo di identità culturale (“Torno ai dettagli, allora/ai nomi delle strade / cuore d’improvviso a tiro / nella giacca da poco, che mi piace // Luce tremante/giù dalle grondaie / rari ebrei, alba d’allarme / quell’unica famiglia / da sfamare”; XI, GIUGNO).

E se nei libri che hanno preceduto RICORDI DI ALZHEIMER la preghiera di Bertoni riconosceva l’angelo di aura montaliana nella sua routine domestica, là dove spesso il solo contatto possibile era quello aspettato invano al telefono, quello che progressivamente viene a mancare a partire da libri come LE COSE DOPO e HO VISTO PERDERE VARENNE (con l’ultima sua sezione RICORDI DI ALZHEIMER) fino a giungere proprio a RICORDI DI ALZHEIMER è un appiglio che salvi dalla frana degli eventi (“Minerale mi resta l’olfatto / ma io non ci metto più piede, nel reale / perché bevono sangue le ombre / prima di parlare”; XIV, GENNAIO). Nessun angelo è ora possibile se non quello della benjaminiana parola di macerie, che nella perdita della memoria individuale riconosce una più alta e allegorica perdita. D'altronde, la terza parte di LE COSE DOPO portava in epigrafe la dicitura di uno dei più innovativi poeti tedeschi della nostra contemporaneità, Durs Grünbein, che recita: “angelo malato, lo sai, quel che accade è storia - dopo. Lasciale conficcate la tua scomunica, la tua maledizione”. Di conseguenza, se nei testi di LE COSE DOPO la dimensione etica e civile che Bertoni riconosceva al presente storico era incapace di condannare un orrore passato della storia come l’Olocausto (di primaria importanza per Bertoni che in sede critica vi ha dedicato lo splendido saggio di apertura di PARTITURE CRITICHE: AUSCHWITZ: SILENZIO COME VERBO), da lì in poi e per tutto un libro come HO VISTO PERDERE VARENNE, Bertoni intrecciava lo stesso motivo storico dell’Olocausto con quello privato della malattia del padre, l’Alzheimer, sovrapponendo così il resoconto di una dolorosissima perdita personale all’allegoria di una più ampia perdita collettiva di memoria e d’identità.

Appare allora forse lecito nei RICORDI DI ALZHEIMER intravedere tra i bassorilievi dei monumenti, tra le luci e il lutto della Modena di Bertoni anche qualche riverbero della Ferrara di Bassani (“Il mondo era pieno di pericoli / e di ombre – tartarughe / negli orti marini / e a Modena tritoni”; V, MAGGIO). A Modena, dunque, storia di un mondo passato e privata vicenda familiare si intrecciano e trasmutano proprio a partire da quel cortocircuito della memoria che la malattia dell’Alzheimer innesca, umiliando col suo oblio identità pubblica e dignità privata. Non a caso, credo, una delle parole più ricorrenti messe in bocca al padre nel DIARIO DI ALZHEIMER, poi in parte confluito nei RICORDI è la parola “sassi”, che nel corrispettivo tedesco “stein” è tra le parole emblema più significanti di Paul Celan, un poeta davvero capitale del Novecento e del “silenzio come Verbo”.

E si giunge nel cuore dei RICORDI DI ALZHEIMER, dove la figura del padre si scioglie come eucaristia (“Gli occhi gli sono / cambiati, gli occhi / sciolti d’amore, acquosi”; XIV, SETTEMBRE), corpo fatto cibo che si dà alla natura (“E gli uccellini, babbo? Non vuoi / che ti becchino la guancia / – tortorelle passerotti colombine/possibile che non li sfami /un pochino anche oggi /della stessa tua carne?”; XVI, SETTEMBRE). Si tratta dello stesso luogo del libro dove anche il corpo del figlio assume sembianze spossessate d’identità per approdare (in questo processo di disumanizzazione che è della malattia, ma anche di chi vi assiste) alla corazza acerba di scarafaggio: epilogo di una delle poesie più belle del libro, posta in apertura della sezione centrale e significativamente intitolata KAFKA. La parallela trasmutazione del padre in cibo per gli insetti e del figlio nel kafkiano insetto “nero, schiacciato, la corazza acerba al posto delle ali” (I, LUGLIO), diventa così - nel movimento di una metamorfosi - l’ultima possibilità di vero incontro tra i due, il “buco vivo” dove il “purissimo bianco memoriale” che è il padre può ancora affermare la sua adorazione per il figlio “come l’amore più grande non si sogna” (VIII, LUGLIO); riscattando così, contro la perdita di senso, la dignità di un’esistenza.

Il “movimento di un addio” (I, FEBBRAIO) che Bertoni indica in apertura di RICORDI DI ALZHEIMER può ricongiungersi dunque nel finale alle quartine del COMMIATO che conclude il libro: una accorata “presa in diretta” dell’avvenuta morte del padre (“Sveglio di soprassalto / ascolto fare forza le mie dita / sulla tua fine già trasmessa / alle gambe, al buco della bocca”) e del successivo lutto del figlio (“Oggi non c’è il babbo? / chiede il cameriere grasso / e non sa cos’avrei pagato / per trascinarti a pranzo”). È qui che il colloquio ormai esile si spezza del tutto per inabissarsi nell’assenza, mentre i tentativi di assomigliare all’altro ne rivelano il mancato riconoscimento (“Mantengo la tua calma / il nero della barba / ma non riesco, non so / riconoscerti salma”). Così, dopo un sussulto disperato al paesaggio domenicale di morte (“Ma cazzo, cazzo, cazzo / cosa ci porto, un morto / nella domenica di marzo / fredda di foglie e di marmo?”), Bertoni mette tra parentesi la parola poetica, e con essa la sua intima grammatica delle emozioni, consegnando a un conclusivo quasi silenzio il suo ricordo più estremo: “(Buttarle nel fango / o in qualcos’altro che taccio / lirica e grammatica / da liceo classico)”.

[Alessandro Di Prima]