09/11/08

Gian Paolo Ragnoli, L’ESTATE QUASI FINITA (Racconto rock)

“Dove saremo quando l’estate se ne sarà andata?
Il mattino ci ha trovato tranquillamente inconsapevoli
Il pomeriggio ha bruciato l’oro nei nostri capelli
La notte abbiamo nuotato nel mare ridente
Quando l’estate sarà finita dove saremo?”

(The Doors, SUMMER’S ALMOST GONE)


Era la fine dell’estate. Eravamo seduti ai tavoli di un bar, all’angolo di Place Saint Sulpice. Bevevamo pastis e sfogliavamo “Liberation”, Jim fumava anche le Gitanes, sembravamo due idioti che giocano a fare i francesi. Forse era proprio così…

Jim aveva lasciato l’America, il successo, i soldi, la moglie e tutto il resto e si era trasferito a Parigi. Voleva fare lo scrittore e voleva vivere qui. Io, come al solito, cercavo di far perdere le mie tracce soprattutto a me stesso, sempre le solite cose, amori finiti male, rivoluzioni fallite prima di cominciare, riviste chiuse al secondo numero. La solita vita, insomma.

Ci siamo incontrati qui, una mattina di inizio settembre. Mi ha fermato lui, io con la barba non l’avrei mai riconosciuto, evidentemente non solo io, nessuno sembrava rendersi conto che uno dei più famosi cantanti rock di tutti i tempi stava tranquillamente seduto in un bar tabacchi, a sgranocchiarsi un croissant dopo l’altro.

“Hey Ted, come va? Quanto tempo, che anno era?”

“Jim! È bello vederti, non avrei mai immaginato di incontrarti qui, anzi a dirti la verità non avrei proprio pensato che ci saremmo più incontrati”.

“Ted, ricordi che sei stato proprio tu a insegnarmelo, “La vita, amico, è l’arte dell’incontro”.

Già, dico spesso frasi di questo genere, devo aver preso troppe droghe in gioventù...

Avevo conosciuto Jim ai tempi dell’Ucla, studiava cinema e parlava continuamente di un film che voleva fare su uno sciamano, diceva di averlo incontrato da piccolo nel deserto del Mojave e di aver “sentito” il suo potere. A me sembravano tutte sciocchezze, ad essere sincero, forse perché passavo il mio tempo con Tom Hayden alle ultime riunioni del S.D.S., prima dello scioglimento. C’era spesso un tipo curioso, sballato perso, si chiamava Lebowski e sosteneva di aver scritto lui gran parte della dichiarazione di Huron del ’62, l’atto di nascita del gruppo. Boh, Tom ghignava ma non l’ha mai smentito.
Jim, come ho detto, mi sembrava un po’ fuori, ma era simpatico, aveva una collezione di vecchi dischi di blues pazzesca e scriveva benissimo.

A volte mentre sentivamo Sleepy John Estes o Skip James saltava su e incominciava a leggere i suoi versi, raccordandosi immediatamente col blues saltellante che usciva dalle casse dello stereo.

Ma perché non ti trovi una band e canti, sei fantastico, glielo dicevo tutte le volte ma lui niente, voleva fare come il suo amico Francis, che stava già cominciando a lavorare come regista.

Poi ci perdemmo di vista per un paio d’anni, la vita, a volte, ti porta dove non vorresti essere a fare cose che non vuoi fare.

Quando ci incontrammo di nuovo Jim era già una star, Light My Fire e il primo album del suo gruppo erano ai piani alti delle classifiche, le ragazzine si strappavano le mutandine e gliele tiravano ai concerti. Lo vidi nel backstage dell’Hollywood Bowl, dopo un concerto trionfale.

Jim era contento di vedermi, ci mettemmo a chiacchierare dei good ol’ times e lui mi disse che sì, le cose andavano bene ma non era questa la sua vita, si sentiva ingabbiato in uno schema, tutte le sere a ripetere lo stesso show, con il pubblico che gridava e non ascoltava le parole. Le parole, inutile dirlo, erano stupefacenti, testi come THE END o WHEN THE MUSIC’S OVER sono grande poesia americana, ed era quello che gli interessava adesso, aveva trovato la sua strada, voleva scrivere.

Quella sera gli presentai Nico, una vecchia amica dei tempi della Factory, modella, attrice, cantante, tossica ma comunque stupenda. Finirono a letto insieme quasi immediatamente, non c’era modo di resistere a Jim. Non potevi neanche invidiarlo, era troppo simpatico...

Il giorno dopo andammo a bere insieme, mi regalò FOREVER CHANGES dei Love, ”è un album meraviglioso, ascoltalo, Arthur è grande”, poi ci salutammo e non lo vidi più. Lessi sui giornali dei suoi successi, dei suoi arresti, dei suoi problemi con moglie e coi discografici, della sua uscita, clamorosa, dal gruppo.

E poi, di colpo questo tizio con la barba mi chiama, mi volto ed è come fossimo ancora a cazzeggiare con Lebowski al “Whisky a Go-Go”, giocando a chi le spara più grosse. Adesso abbiamo ripreso a frequentarci, ci vediamo al bar, mangiamo in qualche bistrot, andiamo spesso al cinema. Credo stia con qualcuna, a volte anch’io credo di stare con qualcuna, ma il nostro è un rapporto a due, chiacchere, bevute, approfondite analisi dell’universo, qualche joint.

Stamattina mi ha portato un regalo, anche se non mi pare sia il mio compleanno. È incartato con una bella carta Bluette, quasi mi spiace romperla per aprire il pacchetto. Dentro c’è un libro, una confezione straordinaria, un astuccio blu sigillato da una cordicella che contiene fogli non legati, in carta pergamena, con una poesia per foglio. Apro a caso e leggo qualche verso, Jim fuma senza dire una parola. Mi accorgo improvvisamente che non c’è una foto dell’autore, solo il nome, per intero. James Douglas Morrison.