29/06/08

CARTE ALLINEATE. Numero 18, Giugno 2008 / Issue 18, June 2008

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INDICE ALFABETICO / INDEX

Le voci elencate qui sotto senza il nome dell'autore sono state scritte da Roberto Bertoni. Foto di Marzia Poerio / Entries listed below without the name of the author were written by Roberto Bertoni. Pictures by Marzia Poerio.

- ARRIGO, Nino, LETTERATURA COMPARATA. Riflessione, 15-6-08
- CRISI ALIMENTARE. Fotografia e commento, 3-6-08
- DE SANTILLANA, Giorgio, FATO ANTICO E FATO MODERNO. Rilettura, 23-6-08
- FRISA, Lucetta e ERCOLANI, Marco, LA CASA DELLE FIABE. DUE LETTERE IMMAGINARIE TRA CHARLES E MARY LAMB. Testo, 9-6-08
- GOWARIKAR, Ashutosh, JODHA AKBAR. Storie di film di Renato PERSÒLI, 29-6-08
- GUTHRIE, Woody, I AIN'T GOT HOME. Testo con commento di Gian Paolo RAGNOLI, 5-6-08
- HOOD, Gavin, RENDITION. Storie di film di Renato PERSÒLI, 19-6-08
- MACCIÒ, Francesco, BLOOMSDAY (GENOVA, 2008). Storie di teatro, 27-6-08
- MATARRESE, Eleonora, LA PROPRIETÀ INTELLETTUALE. Testo con commento, 11-6-08
- MONTOBBIO, Santiago, OGNI STORIA DEL POETA. QUATTRO POESIE. Testo, 17-6-08
- PIERSANTI, Umberto, L’ALBERO DELLE NEBBIE. Note di lettura, 21-6-08
- RIGONI-STERN, Mario. Commemorazione, 25-6-08
- SANGUINETI's SONG, a cura di Antonio GNOLI. Note di lettura, 7-6-08
- SEO. Fotografia e versi di Marzia POERIO, con commento, 1-6-08
- VECCHI FORD, Laura, "SACRALITÀ E DIAVOLERIA". Testo con immagine di Laura VECCHI FORD, 5-6-08

Ashutosh Gowarikar, JODHA AKBAR


[Elephant Hunt, detail. (From the walls of Cork). Foto di Marzia Poerio]


2008. Musica di A.R. Rahman. Con Hrithik Roshan e Aishwarya Rai Bachchan.

Il regista Ashutosh Gowarikar aveva già dato prova di notevole abilità con il film LAGAAN (2001), una storia di conflitto coloniale e di orgoglio nazionalista, ben ambientata e ben raccontata.

Con JODHA AKBAR si entra in quella zona incerta tra storia e leggenda in cui eccelle Bollywood: tra le pellicole recenti di questa tendenza si ricorda ASOKA; tra quelle ormai classiche e forse insuperate per fasto e recitazione (protagonista la grande Madhubala) resta stagliata più di altre opere MUGHAL-E-AZAM.

JODHA AKBAR è il nome della principessa indù andata sposa al re Moghul Akbar. Non eccessivo il rispetto per gli eventi storici, si tratta di una ricostruzione fiabesca, con una protagonista decisa a farsi rispettare quanto convinta dei suoi metodi non violenti, alla stregua del marito che riuscirà infine a sconfiggere gli avversari, imponendo il proprio dominio sull’India. Mentre si dipana la trama del potere, del tradimento, delle alleanze, delle battaglie (sontuose come nei maggiori film epici), si svolge la storia d’amore tra i due protagonisti, presentata con tatto e qualità psicologiche presenti nonostante i necessari toni tipizzati del melodramma bollywoodiano.

Il colore invade lo schermo. Il palazzo reale è ricostruito nei dettagli. Aishwarya Rai recita la parte con compostezza signorile.

Non si tratta di un’opera neutrale e distante dalla realtà, altrimenti ci si dovrebbe domandare perché ci sono state proteste contro questo film in Uttar Pradesh. Il racconto accontenta il gusto di chi desidera spettacolo ed emozioni dai film indiani; nondimeno qui si affronta il nodo di come far rispettare la coesistenza pacifica tra due religioni diverse (quella islamica e quella indù); tema parallelo a questo è il rispetto per la dignità femminile.

Un bel film, senza esitazioni.


[Renato Persòli]

27/06/08

Francesco Macciò, BLOOMSDAY (GENOVA, 2008)

Si dà qui conto della terza tappa (TELEMACHIA, “PROTEO”, LA SPIAGGIA, Libreria del Porto Antico) delle diciotto in cui si è snodato il Bloomsday, coordinato dal prof. Massimo Bacigalupo nell’ambito del 14° Festival Internazionale di Poesia di Genova. Il Bloomsday, che si è svolto il 16 giugno, ha proposto a un pubblico itinerante la lettura integrale del capolavoro di James Joyce, trasportando i diciotto capitoli dell'ULISSE, che corrispondono ad altrettanti luoghi e tempi dell’ambientazione dublinese, all'interno o a ridosso della labirintica rete di “vichi marini” di Genova.


Una quindicina gli spettatori predisposti all’ascolto, infreddoliti da una pioggia insistente, tutti seduti in un improvvisato mini-teatro contornato lateralmente da scaffali di libri -di là dalla vetrata rigata di pioggia, lo sfondo poco bloomiano di Palazzo San Giorgio, ma, a guardare più attentamente, “uova di pesce e marame, la marea avanzante...” - di là dalla vetrata rigata di pioggia, chi vi fosse passato davanti scrutando all’interno (“ineluctable modality of the visible”) avrebbe potuto scorgere fogli sparsi sul leggio e in piedi, di spalle, i lettori di questa ultima tappa della Telemachia, tappa sezionata prudentemente in otto parti, facendo ricorso nella lettura alla vetusta figura dell’anadiplosi, spuria certo e non joyciana: voce maschile e voce femminile in alternanza, che inizia una ripetendo le parole conclusive dell’altra, in modo da evocare, rifiatando, i tempi remotissimi in cui le opere venivano affidate alla voce e all’ascolto visivo di una voce - numerose le parti cantabili tutte senza partiture nel testo (a iniziare da quel “VUOI VENIRE A SANDYMOUNT/ CAVALLINA MAUD?”) e tutte impudentemente cantate: arie affidate a libere interpretazioni, un po’ traditional Irish, alla Dubliners tanto per dare il riferimento di una linea melodico-musicale, con la stoccata di imprevedibili clausole (“lina Maud”) - di là dai vetri rigati di pioggia “brezze mordenti e frizzanti”, qualche volto sbirciante di passaggio, qualcun altro catturato dalle voci amplificate (o da un verdiano “ALL’ERTA”): una ragazza sorridente appena entrata compulsa libri agli scaffali, uno dopo l’altro... uno accanto all’altro... (“nacheinander”... “nebeneinander”...) traguardando ciò che accade sulla scena - sulla scena invero non accadeva niente, e niente invero doveva accadere, ma ogni cosa nominata prendeva forma (“legno crivellato dal tarlo marino, perduta Armada”) - applausi rincuoranti alla fine (“come un fiotto di vapor di caffè dalla caldaia brunita”) e commenti sorgivi del pubblico a scena inevitabilmente aperta: “viaggio onirico”, “come se la realtà fosse dentro di lui” (dentro Stephen), “nel pieno dello stream”: queste pressappoco le parole di chi aveva voglia di dire, tanto per non finire... rimanendo ancora lì seduto “controcorrente, muovendo silenziosamente, nave silenziosa”.

25/06/08

MARIO RIGONI-STERN


[Winter in light. Foto di Marzia Poerio]


È di pochi giorni fa la notizia della scomparsa di Mario Rigoni-Stern.

Nato nel 1921, tra le sue opere si ricordano IL SERGENTE DELLA NEVE (scritto nel 1944 e pubblicato nel 1953), IL BOSCO DEGLI UROGALLI (1962), STORIA DI TÖNLE (1978), UOMINI, BOSCHI E API (1998), L'ULTIMA PARTITA A CARTE (2002), QUEL NATALE NELLA STEPPA (2006) [1].

La memoria collettiva e la necessità di tramandarla sono uno degli aspetti chiave della narrativa di Rigoni-Stern. IL SERGENTE DELLA NEVE e L'ULTIMA PARTITA A CARTE sono libri autobiografici che raccontano l'esperienza di guerra, da alpino, nella campagna di Russia e poi in un lager tedesco, in modo obiettivo, rapido, privo di retorica e perciò tanto più efficace nel rappresentare gli orrori della II guerra mondiale, ma anche la presa di coscienza antifascista. Si legge in un'intervista del 2000:

"Avevo capito come stavano le cose altrove. In Italia allora tutto era proibito; nessuno ci parlava di democrazia né di letteratura straniera; il fascismo ci manteneva in una visuale della romanità, Roma capitale del mondo […]. Ci avevano insegnato a credere, obbedire e combattere; e che l’obbedienza doveva essere cieca, pronta e assoluta. Quando a scuola, in chiesa, in famiglia ti dicono queste cose, man mano che si cresce si è convinti che sia vero. Per me i dubbi sono venuti quando sono andato in guerra e mi sono scontrato con altri mondi e altre realtà" [2].

STORIA DI TÖNLE è ambientato tra la seconda metà dell'Ottocento e la prima guerra mondiale; e ha per protagonista un rappresentante della cultura rurale e arcaica, pastore, soldato, minatore, emigrante in varie zone tra l'altopiano di Asiago, la Stiria, Praga, sullo sfondo della decadenza dell'impero austro-ungarico.

Sono propri di Rigoni Stern anche motivi ecologici, come nel BOSCO DEGLI UROGALLI. Un'intervista del 2002 precisa che quello dell'ambiente "è un problema di una gravità paragonabile alla guerra. Una volta non se ne parlava. Al punto in cui siamo arrivati, la salvaguardia del pianeta, dal punto di vista morale, viene in cima alla piramide" [3].

Uso non retorico del linguaggio, capacità di affrontare verità anche difficili e dolorose, modalità scarne del racconto, equilibrio della voce narrativa sono tutte caratteristiche della sua cifra stilistica che ne fanno uno scrittore di rilievo.


NOTE

[1] Quest'ultimo recensito su "Carte allineate" in data 5-12-2007.
[2] LE MIE STORIE CHE SANNO DI CIVILTÀ, "Giornale di Brescia", 29-1-2000.
[3] MARIO RIGONI-STERN. PRIMO, NON SPRECARE!, intervista a cura di G. Zois, "Il giornale del popolo", 27-8-2002.


[Roberto Bertoni]

23/06/08

Giorgio de Santillana, FATO ANTICO E FATO MODERNO

Saggi pubblicati tra il 1963 e il 1965 e raccolti nel 1968 in REFLECTIONS ON MEN AND IDEAS. Traduzioni di A. Passi e R. Mastromattei. Milano, Adelphi, 1985.


Piaceva a Italo Calvino l’impianto culturale di Santillana. Strano che un pensatore della divagazione e commentatore di Anassimandro e Parmenide abbia potuto suscitare l’attenzione del narratore ligure? Forse no, se si pensa all’andamento del discorso intellettuale per punti e riprese, variazioni e “fili intrecciati” delle LEZIONI AMERICANE, simile a FATO; e a una delle problematiche principali di Santillana, compatibile con Calvino, nei saggi contenuti in FATO ANTICO E MODERNO, consistente nella coesione intravista tra mito e scienza nel mondo arcaico, un mondo in cui la misurazione numerica, la definizione matematica e l’osservazione astrologica sono fonti dei racconti mitici, li fondano e costituiscono un elemento ricorrente:
“[…] non troviamo ovunque, come ci aspetteremmo, una cruda rappresentazione antropomorfa e teriomorfa della divinità. Ci potrebbe invece capitare di incontrare dei numeri o una tessitura di unità di tempo proiettate nello spazio, che manifesta un’origine astronomica” (p. 152).

Secondo Santillana, nella società arcaica “l’uomo non è perché non ha decisioni da prendere. È passivo, è in un certo modo un riflesso. Partecipa dell’essere, in quanto celebra i miti ed esegue i riti” (p. 16).

Similmente, riguardo gli dèi, sulla volontà prevalgono l’esistenza e l’inevitabilità: “la loro natura stessa, impassibile e inesorabile, portatrice di ogni bene e di ogni male” (p. 15).

Sul piano dell’unità del cosmo si impone l’inevitabile: “Se l’universo è uno, non si possono scegliere unità arbitrarie come facciamo noi: tutte le unità di misura sono strettamente interconnesse fra loro e col tutto. Non c’è libertà, non c’è gioco ad alcun livello, tutto è come deve essere, se è” (p. 28).

Un addentellato essenziale di questa posizione, come già per Eliade (nonostante la distanza dalle posizioni di quest’ultimo per altri aspetti) è il tempo ciclico, che torna su se stesso; per esempio nel caso della riflessione antica sulla catastrofe: “ogni visione apocalittica è un modo di ricongiungere la fine al principio, onde il tempo riacquisti un senso” (p. 20).

Rispetto al concetto di fato, il discrimine tra il mondo antico e quello moderno pare essere la decisionalità, in quanto quel che “fa aggricciare gli uomini di fronte al Fato è l’arbitrio, l’estraneità” (p. 39). Il salto verso concezioni moderne del Fato, in Occidente, sarebbe la tragedia greca, perché in essa “risiedono non solo la volontà degli dèi ma gli errori e le colpe degli uomini” (p. 34).

Prezzo della “libertà”, osserva, Santillana, “è la nevrosi” (p. 56). Difficile dargli torto…


[Roberto Bertoni]

21/06/08

Umberto Piersanti, L’ALBERO DELLE NEBBIE


[The foggy tree. Foto di Marzia Poerio]

In L’ALBERO DELLE NEBBIE (Torino, Einaudi, 2008), l’originalità e il carattere risiedono nella rielaborazione della memoria e dell’assenza, associata ad uno sguardo assorto ed appuntato fin nel minimo particolare su un paesaggio vario. L’albero delle nebbie è lo scotano, che con il suo acceso colore rosso arancione è l’unico visibile anche quando la nebbia più folta rende tutto attutito e irriconoscibile nelle vallate intorno alle Cesane. A questo protagonista di un paesaggio quasi monocolore è affidato quindi il ruolo di simboleggiare tutto ciò che è più tenacemente radicato, inamovibile e visibile per il poeta ma anche per ognuno di noi: i ricordi delle passate stagioni, quelli che sono e saranno sempre vivi e presenti anche in una realtà esistenziale mutata. Nella prima delle tre sezioni della raccolta, che ha per titolo IN UN TEMPO REMOTO, il poeta evoca le figure familiari a lui più care, descrivendole in un contesto di descrizioni naturalistiche. È così che queste creature si connaturano, quasi presenze mitiche, ai luoghi. Ciò che è mitico tende a tornare anche per l’uomo di oggi. Il poeta crea per queste sue necessità interiori una lingua scarna, che non rinuncia però ad assegnare il nome e l’aggettivo giusto ad ogni minimo particolare, disseminando qua e là anche qualche termine dialettale quando questo è ritenuto più efficace e rievocativo.

Anche nella terza sezione, TRA CRONACA E MEMORIA, il poeta spaziando di più su temi, situazioni e ambientazioni, lascia che sia il flusso dei ricordi vicini e lontani a far sgorgare versi in cui non sono mai presenti venature nostalgiche. C’è solo, come nei quadri di Fattori, un’evidenza del reale e del ricordo.

La seconda sezione, quella dedicata al figlio Jacopo, raccoglie invece alcune delle poesie ispirate al vissuto di oggi con il figlio amato ma che “lo affatica” per il grave disturbo psichico da cui è stato colpito. Anche in queste liriche gioca un ruolo importantissimo la memoria dei quattro anni vissuti serenamente con lui prima del manifestarsi della malattia, quel periodo viene contrapposto continuamente ad un presente desolato e inquieto.

Le immagini poetiche più incisive sono però, in tutte le sezioni, quelle di una natura infinitamente variabile e ricca, che mitiga con la sua bellezza le sorti tristi dell’esistenza. Tutte le poesie della raccolta hanno forza evocativa anche per la coerenza dell’intero corpus e la ripetitività dei temi e delle presenze. Sono caratteristici in Piersanti un classicismo formale ed un attaccamento alla tradizione, che ancorano saldamente la sua poesia a esperienze del nostro passato, senza diminuirne il valore di voce diversa, attuale rispetto ai toni millenaristici oggi dominanti sulla distruzione di tutto quel complesso di equilibri ambientali e sociali, che per secoli hanno costituito l’habitat delle nostre genti.


[Silvia De Vincentiis]

19/06/08

Gavin Hood, RENDITION


[Imaginary setting for a thriller. Foto di Marzia Poerio]


Sud Africa 2007. Titolo italiano: DETENZIONE ILLEGALE. Scenografia di Kelley Sane. Con Alan Arkin, Jake Gyllenhaal, Omar Metwally, Yigal Naor, Peter Sarsgaard, Meryl Streep, Reese Witherspoon


Il titolo si riferisce ai casi di traslazione di persone sospette di terrorismo in luoghi segreti, in questo caso in Egitto, affinché subiscano interrogatori che nel film sono accompagnati da confessioni estorte e da torture. In aggiunta, il protagonista Anwar El Ibraimi (l’attore Omar Metwally), un egiziano trasferitosi con regolare permesso di soggiorno negli Stati Uniti, viene trattenuto nel carcere segreto, dopo essere stato privato di ogni diritto a difendersi, ingiustamente, sotto l’accusa di aver collaborato con un gruppo terrorista. Si lascia intendere che, sebbene ci sia una pista legale, la ragione principale della detenzione è la sua identità nazionale.

I funzionari del servizio segreto statunitense non sono compattamente a favore del provvedimento; e le misure di scarcerazione saranno infine prese da un agente della CIA (il cui cognome è non a caso Douglas Freeman, “uomo libero”, impersonato da Jake Gyllenhall).

Ai vertici, la funzionaria (Meryl Streep) che ha ordinato la carcerazione rappresenta un potere machiavellico che giustifica i propri metodi con la gravità della guerra contro il terrorismo. Anche chi si sforza inizialmente, nelle sfere politiche, di aiutare le ricerche di Isabella , la moglie di El Ibraimi (l’attrice Reese Witherspoon), si defila al momento di mettere a repentaglio la carriera.

In questa denuncia delle infrazioni alle procedure democratiche, i personaggi, anche quelli negativi, sono dotati di spessore umano, dal che risulta una pellicola non banale.

La struttura narrativa è ben congegnata. Il filo dell’intreccio si svolge su due assi spaziali e temporali: quello della vicenda di El Ibraimi in ordine cronologico va dal passato al presente; e quello di Khalid (Moa Khouas) e Fatima (Zineb Oukach), terrorista il primo, figlia la seconda del funzionario di polizia che interroga Omar, si dipana in ordine inverso, ricongiungendosi nel finale con la scena iniziale. La costruzione è abile al punto che non ci si rende conto del parallelismo temporale fin quasi all’ultimo.

Combinando un thriller di buona levatura (che pur mostrando momenti di violenza lo fa per motivi funzionali senza cadere nel voyeurismo bieco) con una storia responsabilmente politicizzata e servendosi di spazi interessanti di silenzio e musica nonché di immagini di alta qualità e di un’ottima recitazione, è un film da vedere.


[Renato Persòli]

17/06/08

Santiago Montobbio, OGNI STORIA DEL POETA (QUATTRO POESIE)

1.

TÚ ERAS EL POETA, PERO TE DESHEREDÓ LA VIDA,
la oscuridad de un tiempo sin rostro
que se te metió adentro hasta robarte
la pequeña y calurosa herencia
que huérfanas lunas te entregaron:
jóvenes palabras ahora sepultadas,
versos de luz, trazos de alma
por los que te rescatabas. Y cincel,
también cuchillo, rompiendo el blanco,
hasta romperte, hacerte astillas
o elevarte por nubes arenosas
que el mar de los sueños configura.
Eso eras y eres ya el poeta a quien desheredó la vida,
el vino de los años ya no te aleja el frío,
y como sólo ésta es tu historia
no otra cosa cantas y repites,
enloquecido y viejo, una
herencia muerta, otra
rota sombra.


TU ERI IL POETA, MA TI DISEREDÒ LA VITA,
l’oscurità di un tempo senza volto
che ti scavò dentro fino a rubarti
la piccola e calorosa eredità
che orfane lune ti donarono:
giovani parole ora sepolte,
versi di luce, tratti d’anima
lungo i quali riscattarsei. E scalpello,
anche coltello, rompendo il bianco,
fino a romperte, farti schegge
o alzarte verso nuvole sabbiose
che il mare dei sogni delinea.
Quello eri e sei già il poeta a chi diseredò la vita,
il vino degli anni non ti allontana ormai dal freddo,
e come soltanto questa è la tua storia
non altra cosa canti e ripeti,
impazzito e vecchio,
un’eredirà morta, altra
rotta ombra.


2.

DESDE PEQUEÑO HE SENTIDO PREFERENCIA
POR LAS HISTORIAS QUE ACABAN DEL REVÉS

Alguna vez te dije: amor, muchas más: angustia,
y si la noche era clara: a la muerte, que yo invito.

Así un querer o un vivir
que sólo de sombra supo.

Así fuego, abrazos crujientes, tierra.
Así niños que respiraban tras mis besos
con el destino lento del me ahogo
o así pájaros de abismo.

Así, exactamente así querer o vivir o sepultarse
como cuando empiezan a sospecharse
las entrelíneas de un destino:
entre querer o vivir, sobre silencios finales,
con burladero y miedo extraviarse
y diminuta la música ser piedra de sombra,
el poeta ya una piedra así, o cualquier tontería.


FIN DA PICCOLO HO PREFERITO
LE STORIE CHE FINISCONO A ROVESCIO

Alcune volte ti ho detto: amore, molte altre: angoscia,
e se la notte era chiara: alla morte, invito io.

Così un volere o un vivere
che solo d’ombra sapeva.

Così fuoco, abbracci scricchiolanti, terra.
Così bambini che respiravano tra i miei baci
col destino lento dell’affondo
o così uccelli di abisso.

Così, esattamente così volere o vivere o seppellirsi
come quando cominciano a sospettarsi
le interlinee di un destino:
fra volere o vivere, sui silenzi finali,
con inganno e paura smarrirsi
e piccola la musica essere pietra d’ombra,
il poeta già una pietra così, o qualsiasi sciocchezza.


3.

TODA HISTORIA

Toda historia es simple y se me olvida.
Quizá me fui a tomar café, quizá la amaba
y me perdí entre jardines de piernas esmaltadas
que fueron juncos trenzados de palabras
y después retama que mi lengua de trapo
había hecho trizas. Quizá fue el amor,
quizá el café, tal vez la noche. El recinto
sin madrugadas, con sangre y lunas rotas,
el recinto, el barranco de dientes oxidados
o el valle de hojas de afeitar dulcísimas
no hería o no existía. Quizá fue el café
o fueron sus piernas, o quizá la amaba.
Toda historia es simple y se me olvida
en las axilas de mi ciudad tristísima.
Sabedlo ya: mis ojos no se acuerdan de qué miran.


OGNI STORIA

Ogni storia è semplice e la dimentico.
Forse andai a prendere un caffè, forse l’amavo
e mi persi fra giardini di gambe smaltate
che furono giunchi intrecciati di parole
e dopo ginesta che la mia lengua di straccio
aveva frantumato. Forse fu l’amore,
forse il caffè, forse la notte. Il recinto
senza albe, con sangue e lune rotte,
il recinto, il burrone di denti ossidati
o la valle di lame per rasoi dolcissime
non feriva o non esisteva. Forse fu il caffè
o le sue gambe, o forse l’amavo.
Ogni storia è semplice e la dimentico
sotto le ascelle della mia città tristissima.
Sappiatelo già: i miei occhi non ricordano ciò che guardano.


4.

NEL MEZZO DEL CAMMIN

Los desafinados ojos, y después fracasos.
Fracasos, fracasos, y otras formas de alba.
Desde el precipicio último, en el balcón sin aire,
a través del amor, o en las espaldas del tiempo,
a través de mi adiós y mi sombra, con la ridícula vida
iguales y grises, grises o iguales
cifrando el vivir y sus cansancios
mis nombres de octubre, pobrecitos ya,
tan ciegos, entre pestañas de nadie,
con los colores de nunca, sí, desde el precipicio mismo
una soledad enferma fotografiándose
para poder soportar los pasos con que las calles aún piden
palabras que lluevan y se hagan tristes sobre octubre,
palabras que lluevan, que tengan frío,
que se hagan pequeñas, que se estrujen y tengan daño
las palabras llovidas sobre los nombres de octubre
inútilmente bailando al son
de la apagada voz o en los dedos quizá
de un ejército de marchitos domingos,
como cristal de pájaro y sangre menuda,
como afonía, cristal o rostro herido
unas redondas palabras a la vez cuchillos,
unas palabras solas y que lluevan
sobre el infame octubre de la tinta.


NEL MEZZO DEL CAMMIN

Gli occhi dissonanti, e poi fallimenti.
Fallimenti, fallimenti, ed altre forme d’alba.
Dal precipizio ultimo, sul terrazzo senz’aria,
attraverso l’amore, o sulle spalle del tempo,
attraverso il mio addio e la mia ombra, con la ridicola vita
uguali e grigi, grigi o uguali
cifrando il vivere e la sua stanchezza
i miei nomi di ottobre, poveri ormai,
così ciechi, tra le ciglia di nessuno,
con i colori del mai, sì, dal precipizio stesso
una solitudine malata fotografiandosi
pero poter sopportare i passi con cui le strade chiedono ancora
parole che piovano e si facciano tristi su ottobre,
parole che piovano, che sentano freddo,
che si facciano piccole, che si stringano fino al danno
le parole piovute sui nomi di ottobre
inutilmente ballando al suono
della voce spenta o forse tra le dita
di un esercito di appassite domeniche,
come cristallo di uccello o sangue minuto,
come afonia, cristallo o volto ferito
alcune rotonde parole simili a coltelli,
alcune parole sole e che piovano
sull’infame ottobre della tinta.

(Traduzione di Mónica Liberatore)

15/06/08

Nino Arrigo, LETTERATURA COMPARATA

[Sebbene non rifletta gli intendimenti della Redazione, che rispetta la critica sociologica e i rapporti con la storia, si riceve e pubblica questo articolo di Arrigo, sperando che anche altri vogliano esprimere le proprie opinioni]


Nino Arrigo, LETTERATURA COMPARATA, CRITICA LETTERARIA, DIALOGO “TRANSDISCIPLINARE”

Letteratura comparata. Proprio così, letteratura; non letterature. Non è un errore ortografico quello col quale travisiamo la dicitura apparentemente “più corretta” - di certo la più diffusa, se non altro in ambito accademico (quella che contrassegna il settore disciplinare cui si riferisce, per intenderci) - di questa “giovane disciplina”. Ma una scelta consapevole che, nel rimando al concetto goethiano di Weltliteratur, custodisce anche un larvato intendimento metodologico [1].

Se oltreoceano - nonostante critici del calibro della Spivak teorizzino la “morte di una disciplina” [2] - il dibattito critico-teorico, anche per via della prospettiva post-coloniale assunta da quest’ultima, sembra mostrare ancora vigore e passione politica accesa, qui dall’Italia le “notizie dalla crisi” [3], scandiscono uggiosamente la fase di stanca attraversata dalla critica, e dai critici, che più recentemente (e attraverso uno dei più intelligenti di essi) giungono a paventarne persino una vera e propria “eutanasia” [4] con, per la verità, scarsi tentativi per esorcizzarla [5].

La letteratura comparata intesa - come sostiene una delle voci più interessanti del suo panorama “giovane”, Attilio Scuderi - piuttosto che come “una tradizionale ‘disciplina’ accademica” [6], come “un campo di tensioni conoscitive aperto alle nuove forme di studio della letteratura, alle tematiche connesse alla pratica e alla teoria della traduzione, all’esigenza dell’interculturalità e dell’interdisciplinarietà oltreché (in modo più canonico) allo studio dei generi e dei temi di lunga durata della storia letteraria” [7] potrebbe assolvere al delicato (e forse ingrato) ruolo di “coscienza critica” nei riguardi dell’attuale panorama critico-letterario italiano. Magari accogliendo al suo interno le “sfide della complessità”, in special modo la polemica contro lo specialismo disciplinare, innescata con passione e vigore da Edgar Morin [8].

Ma all’entusiasmo dei “giovani” fa da controcanto il dogmatismo, a tratti ottuso, spesso segnato da sfumature pessimistiche e, persino, apocalittiche dei “vecchi”. Non è nostra intenzione, qui, risolvere l’opposizione prendendo posizione a favore di una delle due parti in causa, ricadremmo in quel vizio del pensiero dialettico e “metafisico” che intendiamo superare [9].

Ma non intendiamo neppure unirci nel coro funebre in compianto delle grandi narrazioni e dei grandi affreschi realistici ottocenteschi perduti o in quelle moralistiche, paternalistiche, invettive (tutte contrassegnate dalla stessa, dogmatica, chiusura in direzione del divenire delle forme letterararie) nei riguardi di tutto ciò che in letteratura è fantasia, gioco, pastiche, invenzione umoristica e dissacrante. In una sola parola, il postmoderno o - se volete - la letteratura stessa (ci domandiamo, infatti, cosa resterebbe, tolte siffatte componenti, del fatto letterario).

A prevalere nella critica letteraria italiana, soprattutto in quella di stampo accademico e al di là delle prese di posizione ideologiche (conservatori e progressisti insieme) è “una concezione retoricamente classicheggiante e moralmente impegnata della letteratura, una preoccupazione quasi angosciata per la fine di tutto un mondo di valori, una chiusura molto decisa a gran parte delle esperienze letterarie e delle posizioni critiche contemporanee” [10]. Sono parole di Remo Ceserani, il più versatile, “eclettico”, “nord-americano” dei critici italiani e, guarda caso, un comparatista. Più avanti, nella stessa pagina, Ceserani prosegue fornendo due prese di posizione nei riguardi della critica e del fatto letterario che si caratterizzano per il loro atteggiamento di estrema chiusura e quasi di “compianto” per una letteratura che non c’è più. Ci sembra utile, in parte, riportarle:

“La critica accademica non per questo ha minori responsabilità [...] non si offre oggi alle sirene della “deriva” e del “fremito”, avida di dissacrare, decostruendo e parodizzando: o non si è convertita alle cattive attualizzazioni del ricezionismo, una buona volta sentendosi liberata dal confronto col testo e con la storia; o non si esalta nel parossismo conformistico -assurdo, contraddittorio, monstruum! - della pan-carnevalizzazione? E’ così che si crede di lavorare alla rivoluzione del nostro tempo! [11].

La letteratura è la più evidente dimostrazione, in quanto è, al di là del tempo e di ogni trasformazione storico-sociale, sempre leggibile, riconoscibile e sperimentabile, del carattere stabile e immutabile della natura e della condizione umana” [12].

Niente di più lontano da quella realtà che il paradigma della “complessità” “smaschera” come mutevole, instabile, incerta e contraddittoria, allo stesso modo e in maniera speculare alla soggettività umana. Noi riteniamo piuttosto che la letteratura, nella misura in cui sia il prodotto dello spirito umano, ne rispecchi tutta la “complessità” e le contraddizioni.

E non possiamo non notare quanto simili posizioni siano viziate dalle pastoie di quel determinismo e di quell’essenzialismo, semplificante e riduttivo, tipico di quella critica che, ancora oggi e sempre più in netto contrasto con la storia, si definisce marxista in senso ortodosso. Persa nelle ambagi delle descrizione di ambienti, classi sociali e contesti storici, questa critica ha dimenticato, se non addirittura rimosso, il vero produttore della letteratura: il soggetto. Lo ha ritrovato l’epistemologia. Ad una rinnovata critica letteraria la “missione” e la “sfida” di recuperarlo, dialogando.

Il determinismo e l’essenzialismo ci sembrano distinguere anche uno dei più celebri - di certo uno dei più noti grazie anche alla diffusione della sua manualistica - critici di questa stagione: Romano Luperini, nonostante -riteniamo - proposte teoriche di questo genere. Del tutto condivisibili:

“Il testo letterario offre l’esperienza dello spessore e della pluralità dei significati, e insegna così che la verità è relativa, storica, processuale […]. La letteratura è di per sé una disciplina aperta. Si fonda su una testualità data e dunque presuppone anche una serie di competenze specifiche, ma poi si presenta, all’atto dell’interpretazione, come punto d’incontro e di interferenza di una serie di elementi diversi, che implicano il mondo dell’esperienza esistenziale e quello dell’immaginario, della storia economica e politica e della cultura, il passato e il presente, una visione nazionale e una sovranazionale. La letteratura è un momento d’ingresso in altri mondi, non di chiusura; può essere studiata come punto di snodo, di raccordo e di articolazione di interessi e campi diversi” [13].

Simili intendimenti non possono recidere, a nostro avviso, il filo rosso che unisce anche Luperini alle due precedenti posizioni sulla letteratura, e che hanno segnato una stagione. Delle due l’una, o il critico ha perso in lucidità e rigore metodologico (in relazione alle posizioni che lo hanno contraddistinto come uno dei critici più militanti e politicamente schierati della stagione marxista) o non ne ha abbastanza (in relazione alle nuove tendenze critiche cui si rivolge, con un atteggiamento non del tutto sufficiente - riteniamo - ad abbandonare i precedenti dettami metodologici) per scoprire la contraddizione (che in questo caso non ci sembra caratterizzarsi come complessità) tra queste intenzioni e gli assunti di fondo del suo (precedente?) pensiero. Probabilmente, per meglio giustificare metodologicamente intenzioni così interessanti, il pensiero dei critici che si attestano su posizioni metodologiche analoghe a quelle finora da noi passate in rassegna, dovrebbe mutare il suo “statuto ontologico” e abbandonare quella “metafisica della presenza”, che ha come pendant una concezione deterministica della storia.

Riteniamo che non ci sia antidoto migliore - contro le degenerazioni eccessive delle posizioni più ideologiche, “moralmente impegnate” e “retoricamente classicheggianti” di certa critica di matrice marxista (soprattutto, in questo caso, italiana) - delle pagine dedicate da Harold Bloom alla sua “elegia per il canone”. E a Bloom non si potrà certo rimproverare di essere un nemico dei classici o, ancora, di “offrirsi alle sirene della deriva” e della “pan-carnevalizzazione”. Le sue posizioni in difesa di un “canone forte” e occidentale sono ben note a tutti. Eccone un esempio, in cui il punto di riferimento polemico è proprio la critica marxista:

“Della critica marxista, questo mi sembra valido: nella forte scrittura c’è sempre conflitto, ambivalenza, contraddizione tra soggetto e struttura. Dove dai marxisti divergo è attorno alle origini del conflitto [...] Il movimento dall’interno della tradizione non può essere ideologico né può porsi al servizio di qualsivoglia meta sociale, per quanto moralmente degna di ammirazione. Uno dentro il canone irrompe solo per forza estetica, la quale consiste primariamente di un amalgama di padronanza del linguaggio figurativo, originalità, capacità cognitiva, sapere, esuberanza espressiva [...]. La maniera più stupida di difendere il Canone Occidentale è di insistere che esso incarna tutte le sette mortifere virtù morali che compongono la nostra supposta gamma di valori normativi e principi democratici [...]. I massimi scrittori dell’Occidente sono sovversivi di tutti i valori, i nostri e i loro propri [...]. Se leggiamo il Canone Occidentale per plasmare i nostri valori morali, sociali, politici o personali, credo proprio che diverremo mostri di egoismo e sfruttamento. Leggere al servizio di qualsivoglia ideologia, a mio parere significa non leggere affatto [...]; leggere in profondità [...] non farà di te una persona migliore o peggiore , un cittadino più utile o più dannoso. Il dialogo della mente con se stessa non è innanzitutto una realtà sociale. Tutto ciò che il Canone Occidentale può apportare, consiste nell’adeguato uso della propria solitudine, quella solitudine la cui forma conclusiva è il proprio confronto con la propria mortalità [14]”.

Nessuna miglior epitome, alle nostre precedenti considerazioni, della potenza di queste righe. Torna qui, in Bloom, oltre ad un rinnovato impulso estetico, quell’attenzione verso il soggetto - da noi pocanzi evocata e del tutto messa in soffitta da tanta critica -con le sue contraddizioni, e le sue incertezze legate alla propria finitudine. Auspichiamo soltanto - pur condividendo le affermazioni del grande critico, e senza alcuna pretesa moralistica - un rinnovato impegno civile da parte degli scrittori (e dei critici) che, una volta compiuto quel mutamento di “statuto ontologico” necessario per passare da un “pensiero forte” ad un “pensiero debole”, possa assumere un’ immagine più liberale.

Potremmo trovare nel cosiddetto “atteggiamento ermeneutico”, una possibile via d’uscita a questa impasse, in cui tanta critica s’imbatte. E lo faremo ritornando al punto in cui il nostro discorso aveva preso le mosse, ovvero alla critica post-coloniale, con quello che ormai è un suo “classico”, ORIENTALISM di Edward Said: “A seconda della risposta, il nostro discorso [...] tenderà ad essere più generale, o più analitico e particolare. D’altra parte l’approccio globale e quello analitico non sono che due prospettive da cui ci proponiamo di cogliere il medesimo oggetto [...] Perchè dunque non servirsi di entrambi, contemporaneamente o in successione? [15].

La tensione tra “il generale” e il “particolare”, il “globale” e il locale, l’approccio “analitico” quello “olistico”, ammessi come complementari (“perché non servirsi di entrambi, contemporaneamente?”, si domanda Said), oltre ad essere la prerogativa di fondo della “complessità” dovrebbe anche essere il punto di arrivo (o di partenza) metodologico di qualsiasi comparatista. Per tal motivo, senza alcun bisogno di scomodare l’ormai quasi logora idea post-coloniale di “location” [16], il critico-comparatista dovrebbe sempre sforzarsi di assumere un doppio punto di vista, che si ritiri nella prospettiva critica italiana (locale/Patria) e si apra, al contempo, ad una prospettiva più internazionale (Globale/Terra), interculturale e interdisciplinare. Tentando di tenere il più possibile fermo ( ma in maniera, allo stesso tempo, quanto più possibile “dinamica”) questo punto, soprattutto in relazione al suo compito più arduo e insieme appassionante, l’interpretazione del testo letterario. Sempre oscillante tra l’apertura verso il mito (e il simbolo) e la chiusura verso il logos (e l’allegoria) o la chiusura verso il mito e l’apertura verso il logos. Ma non si tratta che della stessa cosa. E’ solo un problema di prospettiva.


NOTE

[1] Nella tensione tra il locale e il globale, “l’uno e il molteplice” (per dirla con Guillén), presente all’ interno del concetto di WELTLITERATUR, potremmo infatti individuare i prodromi della “complessità” e del “pensiero sistemico”.

[2] Si veda G. C. Spivak, MORTE DI UNA DISCIPLINA, Roma, Meltemi. 2003.

[3] Cfr. C. Segre, NOTIZIE DALLA CRISI, Torino, Einaudi. 1993. Segre “ritorna” sull’argomento anche con il successivo RITORNO ALLA CRITICA, Torino, Einaudi. 2001.

[4] Cfr. M. Lavagetto, EUTANASIA DELLA CRITICA, Torino, Einaudi. 2005. Nonostante il vigore appassionato e intelligente del pamphlet, il bel libro di Lavagetto, non fa altro che riabilitare il valore della letteratura e della lettura proprio a spese della critica che, come si suol dire, non ne esce certo in piedi

[5] Tra i pochi tentativi segnaliamo il saggio curato da Emanuele Zinato, IL CRITICO COME INTRUSO, Firenze, Le Lettere, 2007, che ricostruisce la biografia intellettuale di Alfonso Berardinelli, mettendo in discussione “i mostri sacri” e le “scuole” letterarie del Novecento.

[6] Cfr. GUIDA DELLO STUDENTE, “Facoltà di Lingue e Letterature Straniere”, A.A. 2205/2006, p. 119.

[7] Ibidem.

[8] Cfr. E. Morin, LA TESTA BEN FATTA, Milano, Cortina, 2000

[9] Superare la dialettica vuol dire, paradossalmente, non superarla, non risolverne le contraddizioni ma valutarle, bensì, come necessarie. Ci preme inoltre segnalare che uno dei pensatori più “giovani” che conosciamo, Edgar Morin è un “vecchio”.

[10] R. Ceserani, GUIDA ALLO STUDIO DELLA LETTERATURA (1999), Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 4.

[11] N. Mineo, CHE COS’È OGGI ALA LETTERATURA? PRIMATO DEL SIGNIFICATO E TRASCENDENZA, in “Il Ponte”, 47.1, pp. 103-110. Citato in Ceserani, p. 5.

[12] G. Barberi Squarotti, CHE COS’È OGGI LA LETTERATURA? UNO STATUTO IMMUTABILE, in “Il Ponte”, 47.2, pp. 112-14. Citato in Ceserani, p. 6

[13] R. Luperini, IL PROFESSORE COME INTELLETTUALE. LA RIFORMA DELLA SCUOLA E L’INSEGNAMENTO DELLA LETTERATURA, Lecce, Manni, 1998, pp. 15 e 26.

[14] H. Bloom, IL CANONE OCCIDENTALE. I LIBRI E LE SCUOLE DELLE ETÀ (1994), Milano, Bompiani, 2005, pp. 23-26.

[15] E. W. Said, ORIENTALISMO (1978), Milano, Feltrinelli 2001, p. 18.

[16] Pensiamo piuttosto all’idea complessa -in quanto contemporaneamente portatrice dei concetti di chiusura e apertura -di Terra/Patria in Morin, cfr. LA TESTA BEN FATTA, cit., pp. 65-75.

13/06/08

Laura Ford, "SACRALITÀ E DIAVOLERIA"




Sacralità e diavoleria
dove a lungo si abbevera
l’anima col corpo
che agogna
rivelazioni poco discusse
bevute per vere
fino a che duri
della birra forte e nera
il potere;
(c’e’nella luce rosea
dei lieviti areati
schiumosa
la possibilitá
ch’essi formino nuovo nucleo
di sviluppi e di sapere).


[Immagine e versi di Laura Vecchi Ford]

12/06/08

Eleonora Matarrese, LA PROPRIETÀ INTELLETTUALE



Testi di usabilità come la calamina

sulla carta di una schiena di cellulosa che si torce

pari all’ombra di un comignolo sui campi al mattino

il sole non è obliquo e neanche al mezzo del giorno

e il grigio si allunga sui fili

l’erba, con le foglie secche nel mezzo

sembra la suola scricchioli ed è il reticolo che si spezza

Testi di costruzioni ad incastro, fonemi

presi a caso dal ricordo, dalla speme, dal cervello

tuffato nel futuro

di queste luci ora a sprazzi ora soffuse

che incantano l’anima che vaga rapita tra i pensieri

così e null’altro puoi spiegarti quel conoscere piano

e vero di una cosa che non vedi,

di una pietra posata al lambirsi d’acque riottose,

di un nodo su un ramo riempito di muschio

di un lucido pomo d’ottone in alto al campanile

Testi pregni, di bava e di fiele

il legno scardinato a furia di minarci il punteruolo,

di dentro, le schegge saltan fuori impazzite nelle

bambagie degli angoli,

rifiuti di vita, nascosti, ricordi, pulviscolo e

cellule, pezzi d’amianto usciti, uccisi, come d’incanto

dal cuore arlecchino e burattinaio che fugge

al contempo

irrisorio il ridere al teatrino sulla piazza dove il vento

spira - è il mare

e

in questo crogiuolo di confusione è la vita,

quella che rivivi come in un film nel tuo treno,

ma non c’è nessuno con cui puoi parlarne per sapere

com’è andata a finire

quale scena gli piacque di più

se quell’attimo in cui la figlia nasce

l’amore scocca

la bocca s’avvicina all’orecchio

il vino si scioglie lontano

è piaciuto o meno

Testi infiniti, allora, sembrano apparire

quegli occhi scrivono i fiumi, non le mani

le dita, quelle stesse che s’ancorano e s’arginano alla parola

nel disperato tentativo di renderla vana,

per riscriverla a vibrazioni una volta ancora



NOTA SUL TESTO

Nella PROPRIETÀ INTELLETTUALE, il rapporto tra testo e vita sembra di importanza vitale.

Da un lato l’immagine sbieca e la poesia che parla di un disordine; dall’altro i riferimenti a strategie letterarie che rimandano frattanto all’esperienza della realtà.

Per esempio il finire. Come finisce un testo? Quello intitolato PROPRIETÀ INTELLLETTUALE è intimamente aperto. E “com’è andata a finire” la storia implicita di sensazioni raccontata in questi versi?

Anche gli elementi svolgono un ruolo importante, l’acqua e le “foglie secche”.

C’era un tempo una rete in cui si apriva un varco in Montale; c’è in Matarrese un “reticolo che si spezza”: verso quale libertà artistica e interiore? O qualcosa si sfalda e nulla più tiene?

Si passa di infinito in infinito, con una proiezione costante di piani di lettura e di riflessione.

[Commento di Roberto Bertoni].



5 DOMANDE ALL’AUTRICE


1. In che misura il riferimento ai testi è un riferimento metaletterario?

Ho semplicemente pensato, come mi piace da sempre immaginare, che tutto ciò che esiste sia come un calderone da cui estrarre parole ("in questo crogiuolo di confusione è la vita"). E creare testi.

Così ci sono i testi "di usabilità", che possono anzi sono quelli di tutti i giorni, i testi "di costruzioni a incastro", in cui si può scegliere quali significati far pervenire al destinatario. Testi "pregni di bava e fiele" perché scritti con l'urgenza della passione o della rabbia.

Tutti derivano però da immagini che io vedo scorrere dietro le palpebre, che "nascono" dagli occhi, e scorrono come al cinema nella mente ("rivivi come un film nel tuo treno"), ma si è talmente di fretta che non ci si sofferma più su queste immagini, e non le si coglie, e così "non c'è nessuno con cui puoi parlarne per sapere / com'è andata a finire".

In realtà in me c'è una forte identificazione, anzi direi sovrapposizione, tra vita e letteratura.


2. Anche la vita è un testo con tratti di "usabilità" e momenti "ad incastro"?

Certamente. La vita è un testo ad altissimo tasso di "usabilità", sia che si voglia considerare come testo da consultazione o, nella maggior parte dei casi, come testo su cui sempre si ritorna per limarlo, sfrondarlo o aggiungere materiale.

Quanto ai momenti "ad incastro", ci sono oltre ai canonici momenti (nascita, istruzione, religione, lavoro, famiglia) che la caratterizzano, diversi momenti che paiono collimare, incastrandosi, creando un destino personale. Esattamente come in un testo, in particolar modo poetico, si fondono inventiva, grammatica, sintassi, lessico, recupero del passato, contemporaneità, etc.


3. "Ricordi", "pulviscolo": che cosa resta di noi?

Questo lo avverto come un "problema". Nel senso che oggi non ce lo si pone più come nei precedenti periodi storici, fino al Romanticismo soprattutto.

Oggi siamo troppi, la vita è troppo veloce, non si riflette abbastanza, non si fa in tempo ad analizzare un avvenimento per capire cosa ci ha dato o a far proprio un ricordo. Siamo bombardati e per questo più confusi e, a mio avviso, più vulnerabili, perché non focalizziamo più il fulcro ma viviamo in un vortice di piccole (e forse, per la maggior parte, inutili) collisioni. I ricordi fanno una persona più delle esperienze, perché sono ciò che rimane e che sale a galla nella mente.

Oggi però, epoca in cui si dà importanza spesso solo all'apparenza, e al rigurgito di avvenimenti passati nel tentativo di farli rivivere con l'abito nuovo e creare una sensazione, in realtà non si finisce che per essere pulviscolo. Polvere. Siamo già morti. E non con accezione pseudo-depressa: non sappiamo più vivere, siamo presi da altro che le nostre vite.


4. Che rapporto ha la nascita degli ultimi versi col resto della poesia?

Di fronte ad una "morte" nel tentativo di scrivere un testo reale, che parli del sé, di fronte a tanti testi-fotocopia, questa "nascita di testi infiniti" è una speranza.

Una speranza che siano gli occhi a guardare ciò che andrà a finire nei testi, cioè che oltre a guardare il mondo con occhi nuovi lo si guardi veramente.

E non che si creino testi con le mani, fatti ad arte.

Solo così ci saranno fiumi, e i testi saranno infiniti.


5. Quale messaggio vorrebbe comunicare con più urgenza ai Suoi lettori?

Riflettere di più, e andare a fondo di tutte le cose.

Guardare il mondo con occhi nuovi. Vivere alla massima espressione.

E imparare a volersi bene.


[Testo e foto pubblicati, per concessione dell’autrice, dal blog di Eleonora Matarrese]

09/06/08

Lucetta Frisa e Marco Ercolani, LA CASA DELLE FIABE. DUE LETTERE IMMAGINARIE TRA CHARLES E MARY LAMB

Lettera di Mary a Charles

13 dicembre 1806, ore 5,30 a.m.

Fratellino caro,

ti sento camminare nella stanza, dunque sei già sveglio in queste prime ore dell'alba, in queste tremende prime luci del mattino. Sei sveglio, quindi puoi leggere la mia lettera e correre subito qui, vicino a me. Sì, hai capito bene, potrai finalmente correre da me, perché io ti ho liberato.

Tremo tutta, ma obbedisco ai consigli che mi hai sempre ripetuto: scrivere calma i cuori più agitati, lenisce ogni sofferenza e allontana da noi le atrocità del presente.

Sono calma - stai tranquillo per me - sono calmissima mentre scrivo anche se per ciò che scrivo non ci sono parole adeguate e non oso quasi toccare il foglio con lo stesso strumento con cui ho compiuto un atto innominabile.

Ma, credimi, era necessario. Tu, di là, prigioniero, e io di qua, a farle da serva, a obbedire a ogni suo capriccio.

Come si poteva continuare così?

Perdonami, ti scongiuro. Sei così paziente, tu. Lascia che ti racconti:

Le prime, tremende luci dell'alba penetravano dalle fessure delle imposte, subito dopo il canto del gallo che squarcia il silenzio così greve della casa, quando ho udito uno strano rumore. Mi sono svegliata del tutto, ho aperto bene gli occhi. E che cosa ho visto? No, non era un incubo, era mattino e io perfettamente sveglia; lei, la mia vecchia bambola, la mia dolce, tenera Mary che sta seduta nell'angolo del divano da quando ero piccola - ha cominciato a fissarmi con i suoi occhi azzurri, mi guardava ostinatamente con i suoi occhi azzurri e feroci, finché non si è alzata e si è messa a camminare verso di me sempre fissandomi - camminava verso di me con aria spaventosa facendo orribili smorfie e alzando le sue manine rosate che si ingrandivano, si ingrandivano...

Lo so che ti è difficile crederlo, ma è la verità, te lo giuro. Io cercavo di alzarmi dal letto e fuggire ma non potevo, non potevo, ero inchiodata sul materasso, la testa piombata contro il guanciale e il cuore mi batteva così forte da scoppiare. Ma come! La mia dolce, tenera Mary che una volta sapeva cullarmi e mi cantava la ninnananna tutte le sere, che mi nutriva del suo dolce latte tutte le mattine, voleva uccidermi?! Se uccide prima me, ho pensato, non c'è più nessuna possibile salvezza per te, Hansel, così piccolo piccolo, indifeso... Allora - non so come ho fatto - sono riuscita a svincolarmi dalla sua stretta - mentre mi dominava un solo pensiero: trovare qualcosa di tagliente e di acuminato, per trafiggerla.

In tutta la stanza non ho nulla di simile, tu lo sai, nulla. Ma mentre lei mi afferrava per la gola, per i capelli, lottando disperatamente, ci siamo trovate davanti alla scrivania - io e lei avvinte - e cosa ho visto? La mia penna in piedi, dritta nel calamaio, sottile e affilata.

Hai capito, vero, caro?

Sì, l'ho colpita più volte, ripetutamente, non mi ricordo più, sono stanchissima, ora, e dopo...

Ho riacceso piano piano il camino, mio caro fratellino, mentre lei se ne stava lì, morta sul tappeto, una cosa di pezza così floscia e brutta da farmi quasi pietà.

Che bel fuoco, finalmente! Che bel fuoco! Mai visto uno più bello! Devi venire subito, caro Hänsel, ho buttato dentro la vecchia strega! Mentre ti scrivo sta ancora bruciando.

Vieni subito, spalanca la porta, le finestre, i muri di questa casa terribile. Voglio che anche tu la veda bruciare, non devi perderti questo straordinario spettacolo.

D'altra parte, stai tranquillo, qui non c'è sangue, neppure una goccia! La strega non aveva sangue nelle vene, ma latte, latte bianchissimo. Ne sono tutta coperta, redenta, purificata dal suo latte. Mi affaccio dalla finestra e fuori, vedo il giardino tutto bianco, immacolato Che meraviglia! Chi si copre di bianco non è umano, ma una fata o un angelo – liberi dalle pericolose passioni.

Così sono io, adesso. Così sarai tu, grazie a me.

Ora che sono riuscita a scrivere tutto questo mi sento leggera, leggerissima. È una sensazione esattamente simile a quella che ho provato dopo il fatto.

Tua Gretel

P.S. Come d'abitudine, passo la lettera sotto la tua porta con il solito segnale: due piccoli colpi sulla maniglia.



***


Lettera di Charles a Mary


13 dicembre 1806, ore 6,30 a.m.

Cara Gretel,

c'era una volta una vecchia che viveva in una casa bianca in un piccolo paese, e sapeva tutto di tutti. Nello stesso paesino viveva una donna di nome Emily che aveva una figlia di nome Mary. Il giorno del suo compleanno Emily regalò a Mary una penna dalla piuma di pavone. «Stai attenta a non perderla - le raccomandò. Mary, orgogliosa della sua penna, promise. Ma purtroppo era una bimba sventata e un giorno la smarrì nel bosco. Allora andò a bussare di casa in casa, chiedendo a tutti se l'avevano vista. Ma tutti scrollavano il capo. Mary chiedeva e chiedeva, ma nessuno ne sapeva niente. Disperata, scoppiò in lacrime. Allora un giovane contadino le consigliò di chiedere alla vecchia della casa bianca.

Mary corse a perdifiato e in un baleno raggiunse la casa bianca e chiese alla vecchia se aveva visto la penna di pavone. Quella rispose - «Ce l'ho io, la tua penna, e te la restituirò. Ma non dovrai dire a nessuno dove l'hai trovata. E ricordati che, se mi disubbidirai, io verrò a prenderti nel tuo letto, a mezzanotte in punto». E le restituì la penna.

Ma la madre, che sapeva della sbadataggine di Mary, al suo ritorno le chiese:

“Dove l'hai trovata?’
“Non posso dirlo, mamma”.
“Perché?”
“Se osassi dirtelo, la vecchia verrebbe a prendermi nel mio letto a mezzanotte in punto”.
“Sbarrerò porte e finestre, così non potrà entrare e non ti prenderà”.

E così Mary si convinse a dirle dove aveva trovato la penna di pavone. La madre la accarezzò e la baciò: poi sbarrò porta e finestre.

Mary alle dieci andò a letto. Nascose la penna sotto il cuscino e si addormentò. Le ore passavano lentissime. Al primo tocco di mezzanotte sentì un fruscìo.

“Mary, salgo il primo gradino”.
Era la voce della vecchia.

“Mary, salgo il secondo gradino”.
Il fruscìo divenne passo.

“Mary, salgo il terzo gradino”.
Il passo echeggiò.

“Mary, salgo il quarto gradino”.
La voce divenne rauca.

“Mary, salgo il quinto gradino”.
Il passo era sempre più vicino.

“Mary, salgo il sesto gradino”.
La voce quasi gridava.

“Mary, salgo il settimo gradino”.
“MARY, ECCOMI CHE TI PRENDOOOO!!!”

Fu in quel momento che Mary vide la faccia della vecchia che viveva nella casa bianca. Spaventata, agitò la penna di pavone nell'aria e al posto di quella faccia terribile apparve il volto chiaro della madre: che le sorrise, si chinò su Mary e la colmò di carezze e parole deliziose. Mary aprì le dita e lasciò cadere la penna sul pavimento: che si trasformò in prato, un prato pieno di fiori di ogni colore, incantevole.

Così finisce la fiaba, Mary.

Ma ora torniamo subito a lavorare al nostro Racconto d'inverno. Entreremo nella nostra bella biblioteca, affacciata sul giardino. Fuori nevica, ma la brutta stagione presto passerà. Dalla terra bianca nasceranno, come splendide piante, leggende e fiabe da raccontare, e che continueremo a raccontare insieme. Rassicurati: sto bene. Non mi è successo nulla. Non ti è successo nulla. Non è successo nulla. E tra poco, come sempre, risveglieremo la nostra penna, che ora sta dormendo sulla scrivania.

Quante cose è una penna! Può calmare l'anima e scrivere fiabe, scaldando il cuore nei giorni troppo freddi; può trasformarsi nel ventaglio che ci rinfrescherà il viso nei giorni troppo caldi.

Tra poco accenderemo insieme il camino nella biblioteca e faremo un fuoco caldo e bellissimo. Poi riprenderemo a riscrivere per i bambini il Racconto d’inverno di Shakespeare.

Buongiorno, Mary cara. Stai calma, molto calma e aspettami.

Tuo Hänsel



***


NOTA

In un acuto episodio di follia, la trentaduenne Mary Lamb accoltella a morte la madre Mary. Il fratello più giovane, Charles, il futuro autore degli ESSAYS OF ELIA, la prende sotto la sua tutela, vegliandone le periodiche ricadute nella malattia mentale. Insieme cureranno i TALES FROM SHAKESPEARE (1807), riscritture per ragazzi delle trame shakespeariane, POEMS FOR CHILDREN (1809), un libro di poesie per bambini, e i dieci racconti di MRS LEICESTER'S SCHOOL (1809), ispirati a comuni ricordi d'infanzia. Charles Lamb morrà nel 1834 e Mary gli sopravviverà di tredici anni.

Il brano qui proposto è tratto da L. Frisa e M. Ercolani, NODI DEL CUORE, Milano, Greco&Greco, 2000.

07/06/08

SANGUINETI'S SONG

Sottotitolo: CONVERSAZIONI IMMORALI. Intervista con Edoardo Sanguineti, a cura di Antonio Gnoli, Milano, Feltrinelli, 2006


In queso libro-intervista, Sanguineti percorre alcuni momenti autobiografici: le origini familiari, il trasferimento a Torino (sua città principale) e a Salerno, l'apprendistato universitario con Getto, le polemiche con Pasolini.

Ciò che prevale è però un dibattito serrato e intenso sulle concezioni del mondo. Alcuni nomi ricorrono in particolare, segnali delle ideologie intrecciate dell'autore: Darwin, Freud e Groddeck, Marx, Gramsci, Lukàcs.

Pur considerando "l'ortodossia [...] una cosa molto fluida" (p. 192), reitera la lealtà nei confronti del marxismo: "il materialismo storico continua a offrirmi chiavi interpretative della mia storia e della storia altrui, ma il giorno in cui non dovesse più funzionare, il giorno in cui trovassi un corredo concettuale più adeguato, non avrei dubbi sul da farsi. E così è stato per la psicoanalisi, e per quell'idea che l'uomo si muova all'interno di un'evoluzione darwinianamente interpretata" (p. 192). L'ideologia risulta ancora importante in un mondo in cui "non è che le ideologie siano finite, il punto è che si agisce come se esse fossero finite" (p. 179).

Una concezione realista si impone, in quanto "non esiste che il realismo, il resto rappresenta tutt'al più un'onesta utopia. Il mondo è quello che è. Non si può ignorare che sia attraversato dalle forze materiali, da conflitti di classe e di potere [...]. Non credo che esistano salvezze individuali se non nel capire quel meno peggio che c'è nella realtà del mondo" (p. 109).

Il presente ha problemi di rivivere la memoria ed è caratterizzato dalla globalizzazione. L'analisi di classe andrebbe applicata ancor oggi; invece che di "poveri" si dovrebbe parlare di proletariato. La modernità ha portato con sé avanzamenti oltre che problemi da risolvere, ma un regresso verso la società contadina sarebbe idealizzante.

L'intellettuale dovrebbe aderire allo "stile dell'inettitudine", ovvero quello di chi, "nella società mercificata, non sa fare niente" (p. 83).

Sul piano più strettamente letterario, si evidenziano in particolare i riferimenti a Spitzer, Contini, Auerbach, Brecht (quest'ultimo "contro Zdanov o contro Salinari", p. 192). Sanguineti ribadisce la fedeltà all'avanguardia; nonostante qualche aggiustamento di prospettiva a posteriori, dichiara: "non vedo sostanzialmente niente di cui pentirsi" (p. 161).

L'ispirazione è forse solo uno scavo nell'inconscio; la letteratura un conglomerato di citazioni; interessanti anche le notazioni sul rapporto tra letteratura e cinema.


[Roberto Bertoni]

05/06/08

Woody Guthrie, I AIN'T GOT HOME

I ain't got no home, I'm just a-roamin' 'round,
Just a wandrin' worker, I go from town to town.
And the police make it hard wherever I may go
And I ain't got no home in this world anymore.
My brothers and my sisters are stranded on this road,
A hot and dusty road that a million feet have trod;
Rich man took my home and drove me from my door
And I ain't got no home in this world anymore.
Was a-farmin' on the shares, and always I was poor;
My crops I lay into the banker's store.
My wife took down and died upon the cabin floor,
And I ain't got no home in this world anymore.
Now as I look around, it's mighty plain to see
This world is such a great and a funny place to be;
Oh, the gamblin' man is rich an' the workin' man is poor,
And I ain't got no home in this world anymore.


Non ho più una casa e mi trascino in giro
sono un lavoratore migrante mi muovo di città in città
la polizia mi rende la vita difficile dovunque vado
non ho più una casa in questo mondo.
I miei fratelli e le mie sorelle si sono arenati su questa strada
una strada rovente e polverosa che un milione di piedi ha già calpestato
il ricco si è preso la mia casa e mi ha buttato fuori
non ho più una casa in questo mondo.
Facevo il mezzadro e rimanevo sempre povero
i miei raccolti finivano nei forzieri delle banche
mia moglie è crollata ed è morta sul pavimento della baracca
non ho più una casa in questo mondo.
Se ora mi guardo intorno posso vedere con chiarezza
che questo mondo è davvero un posto grande e buffo in cui vivere
chi gioca d'azzardo è ricco e il lavoratore resta povero
non ho più una casa in questo mondo.


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Qualcuno, non ricordo chi, ha scritto che la musica folk è la musica che si rivolge ai giovani ribelli che non hanno smesso di essere ribelli quando hanno smesso di essere giovani.

Ho scelto ancora di tradurre un testo di Woody Guthrie, inesauribile miniera di canzoni ben piantate nella tradizione popolare americana ma autore politicamente consapevole, che non ha paura di chiamare le cose col loro nome, confrontandosi col presente e con uno sguardo aperto sul futuro. Molte delle sue canzoni, scritte prevalentemente negli anni '30 e '40, sono ben poco invecchiate.

Non saprei dire se per merito di Guthrie o per colpa degli anni che stiamo vivendo.

Questa canzone si chiama I AIN'T GOT HOME, è stata scritta nel 1938 dopo una visita ad una baraccopoli, una sorta di campo profughi dove si erano rifugiati, spogliati di tutto, i contadini sfuggiti alle tempeste di polvere che avevano inghiottito campi e case.

Chi ricorda FURORE, il romanzo di Steinbeck e/o il film di Ford, sa di cosa stiamo parlando.


[Gian Paolo Ragnoli]


NOTA

La canzone sipuò ascoltare a I AIN'T GOT NO HOME - U tube

03/06/08

CRISI ALIMENTARE


[Long is the road to full fertility. Foto di Marzia Poerio]

8-6-2008: Vertice FAO sulla crisi alimentare

"Oggi si stima siano 854 milioni le persone che soffrono la fame, di cui 820 milioni nei Paesi in via di sviluppo, i più colpiti dall'aumento dei prezzi alimentari e dai cambiamenti climatici. Tuttavia, stando ai dati della Banca mondiale, oggi sono due miliardi le persone che lottano per sopravvivere a fronte di un aumento dell'83% negli ultimi tre anni" (Rai News 24 - Fao).

Chi vive in Occidente, oggi, ha dimenticato?

"[...] il momento culminante della mia vita non è quando ho vinto premi letterari, o ho scritto libri, ma quando la notte dal 15 al 16 sono partito da qui sul Don con 70 alpini e ho camminato verso occidente per arrivare a casa, e sono riuscito a sganciarmi dal mio caposaldo senza perdere un uomo, e riuscire a partire dalla prima linea organizzando lo sganciamento, quello è stato il capolavoro della mia vita. E non avevamo nessuno che ci dava aiuto. Ecco ci davano aiuto i poveri russi che avevano fame come noi. Ossia gli uomini, i vecchi e le donne dei villaggi che abbiamo incontrato partendo da qui per arrivare su in Bielorussia" (Rigoni Stern - Intervista con Paolini).


[La Redazione]