15/06/08

Nino Arrigo, LETTERATURA COMPARATA

[Sebbene non rifletta gli intendimenti della Redazione, che rispetta la critica sociologica e i rapporti con la storia, si riceve e pubblica questo articolo di Arrigo, sperando che anche altri vogliano esprimere le proprie opinioni]


Nino Arrigo, LETTERATURA COMPARATA, CRITICA LETTERARIA, DIALOGO “TRANSDISCIPLINARE”

Letteratura comparata. Proprio così, letteratura; non letterature. Non è un errore ortografico quello col quale travisiamo la dicitura apparentemente “più corretta” - di certo la più diffusa, se non altro in ambito accademico (quella che contrassegna il settore disciplinare cui si riferisce, per intenderci) - di questa “giovane disciplina”. Ma una scelta consapevole che, nel rimando al concetto goethiano di Weltliteratur, custodisce anche un larvato intendimento metodologico [1].

Se oltreoceano - nonostante critici del calibro della Spivak teorizzino la “morte di una disciplina” [2] - il dibattito critico-teorico, anche per via della prospettiva post-coloniale assunta da quest’ultima, sembra mostrare ancora vigore e passione politica accesa, qui dall’Italia le “notizie dalla crisi” [3], scandiscono uggiosamente la fase di stanca attraversata dalla critica, e dai critici, che più recentemente (e attraverso uno dei più intelligenti di essi) giungono a paventarne persino una vera e propria “eutanasia” [4] con, per la verità, scarsi tentativi per esorcizzarla [5].

La letteratura comparata intesa - come sostiene una delle voci più interessanti del suo panorama “giovane”, Attilio Scuderi - piuttosto che come “una tradizionale ‘disciplina’ accademica” [6], come “un campo di tensioni conoscitive aperto alle nuove forme di studio della letteratura, alle tematiche connesse alla pratica e alla teoria della traduzione, all’esigenza dell’interculturalità e dell’interdisciplinarietà oltreché (in modo più canonico) allo studio dei generi e dei temi di lunga durata della storia letteraria” [7] potrebbe assolvere al delicato (e forse ingrato) ruolo di “coscienza critica” nei riguardi dell’attuale panorama critico-letterario italiano. Magari accogliendo al suo interno le “sfide della complessità”, in special modo la polemica contro lo specialismo disciplinare, innescata con passione e vigore da Edgar Morin [8].

Ma all’entusiasmo dei “giovani” fa da controcanto il dogmatismo, a tratti ottuso, spesso segnato da sfumature pessimistiche e, persino, apocalittiche dei “vecchi”. Non è nostra intenzione, qui, risolvere l’opposizione prendendo posizione a favore di una delle due parti in causa, ricadremmo in quel vizio del pensiero dialettico e “metafisico” che intendiamo superare [9].

Ma non intendiamo neppure unirci nel coro funebre in compianto delle grandi narrazioni e dei grandi affreschi realistici ottocenteschi perduti o in quelle moralistiche, paternalistiche, invettive (tutte contrassegnate dalla stessa, dogmatica, chiusura in direzione del divenire delle forme letterararie) nei riguardi di tutto ciò che in letteratura è fantasia, gioco, pastiche, invenzione umoristica e dissacrante. In una sola parola, il postmoderno o - se volete - la letteratura stessa (ci domandiamo, infatti, cosa resterebbe, tolte siffatte componenti, del fatto letterario).

A prevalere nella critica letteraria italiana, soprattutto in quella di stampo accademico e al di là delle prese di posizione ideologiche (conservatori e progressisti insieme) è “una concezione retoricamente classicheggiante e moralmente impegnata della letteratura, una preoccupazione quasi angosciata per la fine di tutto un mondo di valori, una chiusura molto decisa a gran parte delle esperienze letterarie e delle posizioni critiche contemporanee” [10]. Sono parole di Remo Ceserani, il più versatile, “eclettico”, “nord-americano” dei critici italiani e, guarda caso, un comparatista. Più avanti, nella stessa pagina, Ceserani prosegue fornendo due prese di posizione nei riguardi della critica e del fatto letterario che si caratterizzano per il loro atteggiamento di estrema chiusura e quasi di “compianto” per una letteratura che non c’è più. Ci sembra utile, in parte, riportarle:

“La critica accademica non per questo ha minori responsabilità [...] non si offre oggi alle sirene della “deriva” e del “fremito”, avida di dissacrare, decostruendo e parodizzando: o non si è convertita alle cattive attualizzazioni del ricezionismo, una buona volta sentendosi liberata dal confronto col testo e con la storia; o non si esalta nel parossismo conformistico -assurdo, contraddittorio, monstruum! - della pan-carnevalizzazione? E’ così che si crede di lavorare alla rivoluzione del nostro tempo! [11].

La letteratura è la più evidente dimostrazione, in quanto è, al di là del tempo e di ogni trasformazione storico-sociale, sempre leggibile, riconoscibile e sperimentabile, del carattere stabile e immutabile della natura e della condizione umana” [12].

Niente di più lontano da quella realtà che il paradigma della “complessità” “smaschera” come mutevole, instabile, incerta e contraddittoria, allo stesso modo e in maniera speculare alla soggettività umana. Noi riteniamo piuttosto che la letteratura, nella misura in cui sia il prodotto dello spirito umano, ne rispecchi tutta la “complessità” e le contraddizioni.

E non possiamo non notare quanto simili posizioni siano viziate dalle pastoie di quel determinismo e di quell’essenzialismo, semplificante e riduttivo, tipico di quella critica che, ancora oggi e sempre più in netto contrasto con la storia, si definisce marxista in senso ortodosso. Persa nelle ambagi delle descrizione di ambienti, classi sociali e contesti storici, questa critica ha dimenticato, se non addirittura rimosso, il vero produttore della letteratura: il soggetto. Lo ha ritrovato l’epistemologia. Ad una rinnovata critica letteraria la “missione” e la “sfida” di recuperarlo, dialogando.

Il determinismo e l’essenzialismo ci sembrano distinguere anche uno dei più celebri - di certo uno dei più noti grazie anche alla diffusione della sua manualistica - critici di questa stagione: Romano Luperini, nonostante -riteniamo - proposte teoriche di questo genere. Del tutto condivisibili:

“Il testo letterario offre l’esperienza dello spessore e della pluralità dei significati, e insegna così che la verità è relativa, storica, processuale […]. La letteratura è di per sé una disciplina aperta. Si fonda su una testualità data e dunque presuppone anche una serie di competenze specifiche, ma poi si presenta, all’atto dell’interpretazione, come punto d’incontro e di interferenza di una serie di elementi diversi, che implicano il mondo dell’esperienza esistenziale e quello dell’immaginario, della storia economica e politica e della cultura, il passato e il presente, una visione nazionale e una sovranazionale. La letteratura è un momento d’ingresso in altri mondi, non di chiusura; può essere studiata come punto di snodo, di raccordo e di articolazione di interessi e campi diversi” [13].

Simili intendimenti non possono recidere, a nostro avviso, il filo rosso che unisce anche Luperini alle due precedenti posizioni sulla letteratura, e che hanno segnato una stagione. Delle due l’una, o il critico ha perso in lucidità e rigore metodologico (in relazione alle posizioni che lo hanno contraddistinto come uno dei critici più militanti e politicamente schierati della stagione marxista) o non ne ha abbastanza (in relazione alle nuove tendenze critiche cui si rivolge, con un atteggiamento non del tutto sufficiente - riteniamo - ad abbandonare i precedenti dettami metodologici) per scoprire la contraddizione (che in questo caso non ci sembra caratterizzarsi come complessità) tra queste intenzioni e gli assunti di fondo del suo (precedente?) pensiero. Probabilmente, per meglio giustificare metodologicamente intenzioni così interessanti, il pensiero dei critici che si attestano su posizioni metodologiche analoghe a quelle finora da noi passate in rassegna, dovrebbe mutare il suo “statuto ontologico” e abbandonare quella “metafisica della presenza”, che ha come pendant una concezione deterministica della storia.

Riteniamo che non ci sia antidoto migliore - contro le degenerazioni eccessive delle posizioni più ideologiche, “moralmente impegnate” e “retoricamente classicheggianti” di certa critica di matrice marxista (soprattutto, in questo caso, italiana) - delle pagine dedicate da Harold Bloom alla sua “elegia per il canone”. E a Bloom non si potrà certo rimproverare di essere un nemico dei classici o, ancora, di “offrirsi alle sirene della deriva” e della “pan-carnevalizzazione”. Le sue posizioni in difesa di un “canone forte” e occidentale sono ben note a tutti. Eccone un esempio, in cui il punto di riferimento polemico è proprio la critica marxista:

“Della critica marxista, questo mi sembra valido: nella forte scrittura c’è sempre conflitto, ambivalenza, contraddizione tra soggetto e struttura. Dove dai marxisti divergo è attorno alle origini del conflitto [...] Il movimento dall’interno della tradizione non può essere ideologico né può porsi al servizio di qualsivoglia meta sociale, per quanto moralmente degna di ammirazione. Uno dentro il canone irrompe solo per forza estetica, la quale consiste primariamente di un amalgama di padronanza del linguaggio figurativo, originalità, capacità cognitiva, sapere, esuberanza espressiva [...]. La maniera più stupida di difendere il Canone Occidentale è di insistere che esso incarna tutte le sette mortifere virtù morali che compongono la nostra supposta gamma di valori normativi e principi democratici [...]. I massimi scrittori dell’Occidente sono sovversivi di tutti i valori, i nostri e i loro propri [...]. Se leggiamo il Canone Occidentale per plasmare i nostri valori morali, sociali, politici o personali, credo proprio che diverremo mostri di egoismo e sfruttamento. Leggere al servizio di qualsivoglia ideologia, a mio parere significa non leggere affatto [...]; leggere in profondità [...] non farà di te una persona migliore o peggiore , un cittadino più utile o più dannoso. Il dialogo della mente con se stessa non è innanzitutto una realtà sociale. Tutto ciò che il Canone Occidentale può apportare, consiste nell’adeguato uso della propria solitudine, quella solitudine la cui forma conclusiva è il proprio confronto con la propria mortalità [14]”.

Nessuna miglior epitome, alle nostre precedenti considerazioni, della potenza di queste righe. Torna qui, in Bloom, oltre ad un rinnovato impulso estetico, quell’attenzione verso il soggetto - da noi pocanzi evocata e del tutto messa in soffitta da tanta critica -con le sue contraddizioni, e le sue incertezze legate alla propria finitudine. Auspichiamo soltanto - pur condividendo le affermazioni del grande critico, e senza alcuna pretesa moralistica - un rinnovato impegno civile da parte degli scrittori (e dei critici) che, una volta compiuto quel mutamento di “statuto ontologico” necessario per passare da un “pensiero forte” ad un “pensiero debole”, possa assumere un’ immagine più liberale.

Potremmo trovare nel cosiddetto “atteggiamento ermeneutico”, una possibile via d’uscita a questa impasse, in cui tanta critica s’imbatte. E lo faremo ritornando al punto in cui il nostro discorso aveva preso le mosse, ovvero alla critica post-coloniale, con quello che ormai è un suo “classico”, ORIENTALISM di Edward Said: “A seconda della risposta, il nostro discorso [...] tenderà ad essere più generale, o più analitico e particolare. D’altra parte l’approccio globale e quello analitico non sono che due prospettive da cui ci proponiamo di cogliere il medesimo oggetto [...] Perchè dunque non servirsi di entrambi, contemporaneamente o in successione? [15].

La tensione tra “il generale” e il “particolare”, il “globale” e il locale, l’approccio “analitico” quello “olistico”, ammessi come complementari (“perché non servirsi di entrambi, contemporaneamente?”, si domanda Said), oltre ad essere la prerogativa di fondo della “complessità” dovrebbe anche essere il punto di arrivo (o di partenza) metodologico di qualsiasi comparatista. Per tal motivo, senza alcun bisogno di scomodare l’ormai quasi logora idea post-coloniale di “location” [16], il critico-comparatista dovrebbe sempre sforzarsi di assumere un doppio punto di vista, che si ritiri nella prospettiva critica italiana (locale/Patria) e si apra, al contempo, ad una prospettiva più internazionale (Globale/Terra), interculturale e interdisciplinare. Tentando di tenere il più possibile fermo ( ma in maniera, allo stesso tempo, quanto più possibile “dinamica”) questo punto, soprattutto in relazione al suo compito più arduo e insieme appassionante, l’interpretazione del testo letterario. Sempre oscillante tra l’apertura verso il mito (e il simbolo) e la chiusura verso il logos (e l’allegoria) o la chiusura verso il mito e l’apertura verso il logos. Ma non si tratta che della stessa cosa. E’ solo un problema di prospettiva.


NOTE

[1] Nella tensione tra il locale e il globale, “l’uno e il molteplice” (per dirla con Guillén), presente all’ interno del concetto di WELTLITERATUR, potremmo infatti individuare i prodromi della “complessità” e del “pensiero sistemico”.

[2] Si veda G. C. Spivak, MORTE DI UNA DISCIPLINA, Roma, Meltemi. 2003.

[3] Cfr. C. Segre, NOTIZIE DALLA CRISI, Torino, Einaudi. 1993. Segre “ritorna” sull’argomento anche con il successivo RITORNO ALLA CRITICA, Torino, Einaudi. 2001.

[4] Cfr. M. Lavagetto, EUTANASIA DELLA CRITICA, Torino, Einaudi. 2005. Nonostante il vigore appassionato e intelligente del pamphlet, il bel libro di Lavagetto, non fa altro che riabilitare il valore della letteratura e della lettura proprio a spese della critica che, come si suol dire, non ne esce certo in piedi

[5] Tra i pochi tentativi segnaliamo il saggio curato da Emanuele Zinato, IL CRITICO COME INTRUSO, Firenze, Le Lettere, 2007, che ricostruisce la biografia intellettuale di Alfonso Berardinelli, mettendo in discussione “i mostri sacri” e le “scuole” letterarie del Novecento.

[6] Cfr. GUIDA DELLO STUDENTE, “Facoltà di Lingue e Letterature Straniere”, A.A. 2205/2006, p. 119.

[7] Ibidem.

[8] Cfr. E. Morin, LA TESTA BEN FATTA, Milano, Cortina, 2000

[9] Superare la dialettica vuol dire, paradossalmente, non superarla, non risolverne le contraddizioni ma valutarle, bensì, come necessarie. Ci preme inoltre segnalare che uno dei pensatori più “giovani” che conosciamo, Edgar Morin è un “vecchio”.

[10] R. Ceserani, GUIDA ALLO STUDIO DELLA LETTERATURA (1999), Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 4.

[11] N. Mineo, CHE COS’È OGGI ALA LETTERATURA? PRIMATO DEL SIGNIFICATO E TRASCENDENZA, in “Il Ponte”, 47.1, pp. 103-110. Citato in Ceserani, p. 5.

[12] G. Barberi Squarotti, CHE COS’È OGGI LA LETTERATURA? UNO STATUTO IMMUTABILE, in “Il Ponte”, 47.2, pp. 112-14. Citato in Ceserani, p. 6

[13] R. Luperini, IL PROFESSORE COME INTELLETTUALE. LA RIFORMA DELLA SCUOLA E L’INSEGNAMENTO DELLA LETTERATURA, Lecce, Manni, 1998, pp. 15 e 26.

[14] H. Bloom, IL CANONE OCCIDENTALE. I LIBRI E LE SCUOLE DELLE ETÀ (1994), Milano, Bompiani, 2005, pp. 23-26.

[15] E. W. Said, ORIENTALISMO (1978), Milano, Feltrinelli 2001, p. 18.

[16] Pensiamo piuttosto all’idea complessa -in quanto contemporaneamente portatrice dei concetti di chiusura e apertura -di Terra/Patria in Morin, cfr. LA TESTA BEN FATTA, cit., pp. 65-75.