31/05/09

CARTE ALLINEATE. Numero 29, Maggio 2009 / Issue 29, May 2009

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INDICE ALFABETICO / INDEX

Le voci elencate qui sotto senza il nome dell'autore sono state scritte da Roberto Bertoni. Foto di Marzia Poerio / Entries listed below without the name of the author were written by Roberto Bertoni. Pictures by Marzia Poerio.

- ADZOVIC, Najo, IL POPOLO INVISIBILE ROM. Note di lettura, 9-5-09.
- BEST, David, THE THEME OF PEASANT IDENTITY IN FRANCESCO GENITONI’S IL TEMPO FORSE. Riflessioni, 7-5-09.
- CHAN, Peter, WARLORDS. Storie di film di Renato PERSÒLI, 25-5-09.
- CONA, Cristina, INGLESE? AL CONTRARIO (SU BECKETT). Riflessione, 13-5-09.
- DUE PAROLE SULLA TRADUZIONE DELLA POESIA. Riflessione, 21-5-09.
- GIBBONS, Reginald, DUE POESIE. Nota ai testi e traduzioni di Piera MATTEI. Testi, 5-5-09.
- ISELLA, Gilberto, INNESCHI. Note di lettura di Rosa PIERNO, 27-5-09.
- MONTOBBIO, Santiago, ARRAÉZ, BOCETO, TRACTATUS”. Testi, 3-5-09.
- PIZZI, Marina, "UNA BALDORIA DA CAMERA D'ARIA" E ALTRO. Testi, 11-5-09.
- RAGNOLI, Gian Paolo, ALLA RICERCA DI NOMANSLAND. UN RICORDO DI “MUSICHE” (1987/1997), UNA RIVISTA DI “ALTRE MUSICHE”. Storie di musiche, 1-5-09.
- SALMON, Christian, STORYTELLING. LA MACHINE À FABRIQUER DES HISTOIRES ET À FORMATER LES ESPRITS. Note di lettura di Matteo BRERA, 19-5-09.
- ULTERIORI APPUNTI SU IDENTITÀ E POETI LIGURI. Riflessione, 23-5-09.
- WOO, John, RED CLIFF. Storie di film di Renato Persòli, 17-5-09.
- YOUNG, Augustus, JACOPONE DA TODI’S PRAYER TO THE LORD OF PATHOLOGY (After the thirteenth century Italian). Testo, 29-5-09.

29/05/09

Augustus Young, JACOPONE DA TODI’S PRAYER TO THE LORD OF PATHOLOGY (After the thirteenth century Italian)

Dear Lord, I thank you to send me
cancer cells in Your abundance,
and secondaries in all my glands:
and grant malfunctions every chance
to manifest infirmity.
But save me from myself.

Hepatitis, types E to A,
lymph adenititis, tinnitus:
hiccups that will not go away:
grand mal wouldn’t be an onus:
throw in the pox as a bonus.
But save me from myself.

Grant me perpetual migraine,
and gallstones without pity,
gout, trench-mouth,and the rat’s bane,
rodent ulcers, feeling shitty,
chronic quinsy, paludal ague.
But save me from myself.

Piles, pinworms and the scurvy
be my companions in pain:
botulism and beriberi,
general paralysis of the insane,
croup and dhobies’ itch console me.
But save me from myself.

Lord, suffer me with something slow:
fatty degeneration of the veins,
ingrown toenails, impetigo,
obstruction of the intestines.
Make my home a hospice so
intensive care can live with me.
But save me from myself.

Investigate me for all these:
surgical probes and biopsy,
lumber punctures, and some deep freeze
electro-encephalectomy.
Diagnosis be my worst disease
next to multiple therapy.
But save me from myself.

Till You switch off the life-support
keep me in traction for my sins,
and insult me with every sort
of surgical intervention,
back-up drugs, and resus teams:
and please bless my dying screams.
But save me from myself.

27/05/09

Gilberto Isella, INNESCHI


[The world was blurred in its reflection (London, 2009). Foto di Marzia Poerio]

Con sette collages di Enrico Della Torre. Signum edizioni d’arte, Bollate (MI), 2009

Immersione nel suono e nel senso: non è forse questa l’elargizione che sempre noi attendiamo dal contatto con la poesia? E, dunque, immediatamente trascinati nelle cataratte di un rutilante fluire di suoni e sensi, macchina per adescare e condurre con sapiente artificio alla meta, seguiamo Gilberto Isella nei meandri della sua ultima opera “Inneschi”, vero e proprio alambicco metamorfico, in cui il significato di parole prelevate da un tessuto linguistico scientifico, ma certamente non neutro, non inerte non innocente, viene costretto a trasmutare da un contesto culturale che separa scienza e arte, e le mantiene inerti in due culture refrattarie l’una all’altra, a un contesto in cui esse interagiscono producendo un livello “altro”, non unitario, ma più complesso e completo. “Due brividi nani dal cosmo cascato / in un’onda / Celeste il cespuglio di feto con l’ala / che affonda / Fetonte tradito dal canto che muove / nel sogno le leve / del sole”.

E certo, non soddisfatto da questo traguardo, il poeta vi ha aggiunto altra posta in gioco con movimento lestissimo: etica non può essere estromessa dal discorso scientifico, non nella nostra ricezione, non nell’uso che siamo chiamati a farne, nelle scelte e nelle valutazioni che, pure, dobbiamo effettuare: “freddo gaudio al mammifero umano / nel genoma che stride incrementa / con garbo toccando il corrimano / all’ebbro finire delle scorte”.

Una valutazione che chiama in causa tutte le risorse intellettive: etica, immaginario, sentimenti e che, comunque, non è esente da una critica della ragione, se essa è l’unica componente con cui si vuole affrontare il mondo o costruirlo. Obiettivo è che equilibrio regni fra ragione e passione e che mai una delle due componenti debba escludere l’altra, debba prevalere sull’altra: “Stenta il punto della situazione / senza più regole né conteggi / versa esche da pescherecci fermi / dentro una chiusa della ragione”.

Mai, peraltro, lasciando da parte un’estetica delle sensazioni, una bellezza che pure è ingrediente sempre ricercato, forse troppe volte comunemente scambiato con etica, ma comunque elemento da non sottovalutare quale costituente del nostro vivere, del nostro stare al mondo: “Armato di sola pioggia / il cielo insegue il volo di una starna / crudo sperpero di luce / quel lampo che le sue piume adorna”.

In questa pur brevissima silloge l’elenco è completo: non poteva mancare un riferimento alla nostra capacità di rappresentare un medesimo fenomeno con modalità espressive così divaricate, quali, appunto quelle scientifiche e quelle umanistiche: “ora dimora nel libro delle acque / e dice: sono la primavera”. Il riferimento al libro della natura è però la pertica con la quale Gilberto Isella salta verso tutti i libri del mondo, compreso quello scherzoso e immaginifico della favola, dove la realtà viene riconnessa da una para-razionalità: ciò che ragione sembra, mentre non è che la sua parodia: “Abitava l’aeroplano di carta / volava tra le luci del teatro / tracciava nell’alto una curva / rifaceva l’orlo a quella bimba / che usciva dal gomitolo di lana”. Ecco che qui il poeta si palesa come creatore di mondi che proliferano da una cultura che non ha dighe o pregiudizi, che serve all’uomo e che non lo domina con paralizzanti dogmi. Arte e scienza come un nastro di Möbius da perlustrare senza palizzate: la cultura non ha due superfici.


[Rosa Pierno]

25/05/09

Peter Chan, WARLORDS


[The Lion in Hong Kong. Foto di Marzia Poerio]


2007. Con Xu Jinglei, Takeshi Kaneshiro, Andy Lau, Jet Li

Adeline Johns-Putra osserva che “la definizione più semplice dell’epica è poemi narrativi lunghi ed eroici. Tuttavia, epica significa molto di più, dato che le si attribuisce uno status privilegiato di profondo rilievo nazionale e finanche universale, e di grandezza non solo rispetto agli scopi e al respiro ampio della narrazione, bensì rispetto ai risultati poetici. Il problema, però, nel descrivere l’epica nei termini di questo status particolare, è che esso può diventare con facilità una prescrizione invece di una descrizione, una richiesta che certi poemi (o, in seguito, romanzi, o persino film) debbano essere di qualità sufficientemente elevata per essere epici. Nella descrizione qui proposta non rientrano opere che aspirano allo status dell’epica pur mancando, si direbbe, di eccellenza” [1].

Tenendo conto di questa definizione, ci domandiamo fino a che punto l’ondata di film storico-patriottici e di impatto umano proveniente dalla Cina rientri nella categoria dell’epica. Abbiamo recensito di recente FEARLESS e RED CLIFF, ma potremmo inserire FAREWELL MY CONCUBINE e, con tessuto storico-fiabesco, CROUCHING TIGER, HIDDEN DRAGON, o THE EMPEROR AND THE ASSASSIN, o HOUSE OF FLYING DAGGERS. In senso generico, qui ci si trova di fronte a film epici, almeno tali vengono designati dalle pubblicità editoriali e dai critici.

Sembrerebbe esserci, rispetto alla precisazione di Johns-Putra, effettivamente un rilievo nazionale, si tratta di episodi storici ripresi in forme narrative grandiose e l’impatto umano è universale, fondato di solito su emozioni intense. Quanto all’eccellenza, i canoni non saranno più quelli poetici dell’epica antica, ma piuttosto caratteristiche interne all’arte cinematografica, in parte anche soggettivi.

Perché, poniamo, ciò che per noi rende GUERRA E PACE di Bondarchuk un film epico superiore ad altri è l’accuratezza della ricostruzione storica e la trasposizione del letterario nel filmico tramite metafore e riprese adeguate, ma è poi detto che questa logica sia più valida di quella di chi punta sul popolare senza scadere nell’effetto esteticamente semplificatorio? Del resto, tra i registi dei film cinesi citati ci sono, tra i più raffinati del mondo oggi, Chen Kaige e Zhang Yimou, i cui film epici hanno una qualità (forse si dovrebbe dire letterarietà) notevole mentre riescono a intrattenere.

Nell’approssimazione generica al concetto di epica filmica rientra il colossal; forse anche per questo abbiamo pellicole neo-epiche cinesi, per la possibilità che esiste in quella cultura ed economia di investire in scene con comparse numerose, costumi sfarzosi, grandi spazi geografici.

I film citati sopra, pur diversamente, ci sono piaciuti. Tuttavia, alcuni hanno tendenze maggiori all’eroicizzazione e alla spettacolarità; non tutti hanno gli stessi livelli di complessità estetica e sociale; in gradi diversi c’è una tendenza a dare un quadro dei sentimenti interiori e delle vicende collettive.

Durante un viaggio a Hong Kong, nel 2007, ci era spiaciuto perdere WARLORDS, allora in programmazione, e disponibile da qualche mese in Occidente in dvd.

WARLORDS affronta un tema universale umano, la lealtà affettiva corrosa da motivazioni politiche; e si basa su un episodio storico, la rivolta dei Taiping (1850-1864); essendo infine in parte una rielaborazione immaginaria di un delitto politico non risolto, quello del governatore di Nanjing, ucciso il giorno dell’investitura nel 1870.

La storia narrata nella pellicola è quella di Qing-Yun (interpretato da Jet Li), generale dell’esercito della dinastia Qing, sopravvissuto allo sterminio del suo esercito, raccolto da una banda di fuorilegge capeggiata da Wu-Yang (ovvero l’attore Takeshi Kaneshiro) e Er-Hu (l’attore Andy Lau). Qing-Yun stringe un patto di sangue con Wu-Yang ed Er-Hu; e per evitare a loro e al manipolo e al villaggio che capeggiano rappresaglie, nonché per rientrare nell’esercito imperiale, li spinge ad arruolarsi insieme a lui, formando così un battaglione che si coprirà di gloria, sconfiggendo i Taiping dopo l’assedio lungo e logorante di Suzhou e la conquista di Nanjing. A Suzhou, Er-hu, infiltratosi nella città, si incontra col capo dei Taiping, che sacrifica la propria vita in cambio della promessa di aver salva la vita dei suoi soldati. Impegnato il proprio onore e persuasa su quelle basi la città ad arrendersi, Er-Hu viene incapacitato però da Qing-Yun, il quale fa sterminare machiavellicamente i Taiping per necessità di guerra, cioè per procedere speditamente e senza impedimenti verso l’assedio successivo. Qing-Yung, fin dall’inizio, ha intrapreso una relazione amorosa con Lian-Sheng (l’attrice Xu Jinglei), compagna di Er-Hu, la testa del quale, a causa delle sue insubordinazioni, viene richiesta dai funzionari dell’imperatore, costringendo Qing-Yung all’obbedienza e a rompere il patto di fraternità. Sulla base di un equivoco, ovvero pensando che la more di Er-Hu sia voluta da Qing-Yung a causa dell’amore per Lian-Sheng, Wu-Yang la sopprime senza sapere che Er-Hu è già stato ucciso, quindi presentandosi armato di pugnale a Qing-Yung il giorno dell’investitura a governatore di Nanjing e lottando con lui, che sembra dal duello finale consenta quasi a farsi uccidere per non colpire l'amico, mentre però gli sparano alle spalle essendosi ormai inimicato, per il rilievo eroico raggiunto, la corte intrigante che non ha più bisogno di lui.

Vittima delle circostanze Qing-Yun e della politica; pietosa inizialmente nei suoi confronti Lian-Sheng e poi intrigata nella relazione; leale allo spasimo Wu-Yang; anarcheggiante Er-Hu; battaglie memorabili; controllo sulle scene d’azione e maggiore pronuncia, semmai, delle battaglie e delle scene di massa; con colori scuri dominanti, il blu-nero metallico della armature, il marrone delle zolle; molto movimento; momenti di ironia e predominante tragedia; un’epica, insomma.


NOTE

[1] Literary Encyclopedia.


[Renato Persòli]

23/05/09

ULTERIORI APPUNTI SU IDENTITÀ E POETI LIGURI


[Depth of space and time stopped in La Serra. Foto di Marzia Poerio]


L'identità rispetto al paesaggio, com'era intesa da Montale, o Bertolani, o Biamonti, era un riferimento a simboli: il mare, i limoni, per esempio, in OSSI DI SEPPIA; il "folto" e la neve, tra l'altro, in Bertolani.

Effigi nate dall'osservazione fenomenica dell'ambiente esterno naturale, ma in quanto segni si tratta di riferimenti al mondo interiore con strategie psicolinguistiche. (Ogni arte è una catarsi, per l'autore? Ogni archetipo ha un idioletto che lo riscopre nella sua universalità e consente per questo la trasmissione al lettore).

Il mondo osservato dal Montale degli OSSI, o da Bertolani, o da Biamonti era un universo arcaico, una società contadina, preurbanizzata, colta nel silenzio, nella presenza determinante, forte, della natura.

In breve, in quelle scritture, si ha una ricerca di identità che sfocia in illuminazioni mitizzanti.

Tuttavia, questi autori del paesaggio real-simbolico arcaico sono autori del moderno, per cui quegli elementi mitici, mentre discendono nelle lontananze del tempo facendo risuonare echi interiori primigeni, sono poi inseriti in poetiche novecentesche, innovative, sperimentali. Vedi Montale, o Tonelli. Le modalità sono non naturalisticamente rappresentative in Calvino. Il realismo di Bertolani è lirico. La mimesi di Biamonti è esistenziale.

L'effetto di queste scritture è un'estetica come pure la rivelazione di verità sulla vita, sul mondo. (Come in tutti i classici, ma con qualcosa di scontroso nei liguri citati e per questo, enigmaticamente, duttile ai sondaggi).

[Roberto Bertoni]

Gli appunti precedenti sullo stesso tema si trovano su "Carte allineate" in data 9-4-2009

21/05/09

DUE PAROLE SULLA TRADUZIONE DELLA POESIA

Sebbene i testi siano meglio fruibili nella lingua originale, ove ciò sia possibile, è anche vero, a parere di chi qui scrive, che la traduzione è pure possibile. Per partire dal buon senso, pare condivisibile quanto già sosteneva Leonardo Bruni nel 1420: “l’essenza della traduzione consiste tutta nel fatto che quanto si trova scritto in una lingua venga correttamente trasferito in un’altra” [1]; e per farlo è necessario conoscere bene sia la lingua di partenza che quella d’arrivo.

Cosa significhi “correttamente” varia a seconda di chi traduce: Goethe individuava tre tipi di traduzioni: quella “linearmente prosaica” [2]; quella “parodistica” [3], ovvero intesa a trasferire sensi a noi estranei nella nostra lingua; infine quella “identica all’originale” [4], che cioè rappresenta il testo originale pariteticamente.

Tutto ciò implica diversi livelli di traduzione; e nel tradurre poesia, se da un lato la precisione si rende necessaria, al punto da privilegiarla come fa Della Volpe in CRITICA DEL GUSTO, quando sostiene il criterio di una “fedeltà alla lettera poetica” [5], determinato dalla convinzione che la “fedeltà letterale” è anche “fedeltà allo spirito del testo originale” [6], è anche vero che chi traduce poesia si trova di fronte gli elementi del verso, del ritmo, delle assonanze, che implicano o una resa approssimativa, di per sé una scelta anche legittima, o una resa metrico-prosodica che vuol dire trasporto di un sistema in un altro, dunque mutazione parziale anche laddove il lessico resti espresso con precisione.

In tal senso la traduzione è, concordiamo con Gadamer, “interpretazione”; e, come egli scrive, “l’imperativo della fedeltà, che vale per ogni traduzione, non può sopprimere le fondamentali differenze che sussistono tra le diverse lingue”. Non necessariamente si concorda con la conclusione di Gadamer, secondo la quale inevitabilmente la traduzione è una “chiarificazione enfatizzante” e “risulta più chiara e più superficiale dell’originale”, ma interessa qui invece il suo concetto della traduzione come “dialogo”.

La traduzione operata da poeti da testi di altri poeti è un dialogo per eccellenza ed una modalità della poetica e dell’intertestualità, come si nota per esempio nelle traduzioni inglesi da parte di Montale o di Bertolucci, con le ripercussioni significative che ebbero sulla poetica personale di questi autori.

Con questa breve rassegna si volevano solo ricapitolare alcune idee sulla traduzione, anche se non è detto che poi siano di vera utilità pratica quando si traduce e ci si misura con la qualità verbale del testo, con la musicalità e con l’equilibrio da raggiungersi tra rispetto dell’originale e necessità di scorrevolezza nel tradotto.


NOTE

[1] L. Bruni, Tradurre correttamente, in S. Neergard, a cura di, LA TEORIA DELLA TRADUZIONE NELLA STORIA, Milano, Bompiani, 1993, I, p. 75.
[2] Ibidem, p. 121.
[3] Ibidem, p. 122.
[4] Ibidem, pp. 122-23.
[5] 1960. Milano, Feltrinelli, 1971, p. 101.
[6] Ibidem, p. 112.
[7] DALL'ERMENEUTICA ALL'ONTOLOGIA, in S. Neergard, a cura di, LA TEORIA DELLA TRADUZIONE NELLA STORIA, Milano, Bompiani, 1993, II, p. 345.


[Roberto Bertoni]

19/05/09

Christian Salmon, STORYTELLING. LA MACHINE À FABRIQUER DES HISTOIRES ET À FORMATER LES ESPRITS

Parigi, La Découverte, 2007. Trad. italiana di G. Gasparri, STORYTELLING. LA FABBRICA DELLE STORIE, Roma Fazi, 2008

“Innumerevoli sono i racconti del mondo” (Roland Barthes, INTRODUZIONE ALL’ANALISI STRUTTURALE DEI RACCONTI, 1969)

Si potrebbe riassumere con l’esergo barthesiano l’ultimo lavoro di Christian Salmon sull’arte di raccontare storie [1]. STORYTELLING. LA FABBRICA DELLE STORIE studia estesamente, nell’arco di sette capitoli, la presenza della narrazione all’interno di quattro contesti socio-culturali: l’azienda, la politica, la guerra e la propaganda. Inizialmente Salmon incentra la sua trattazione sul mondo del marketing e della gestione d’azienda e passa poi a considerare le storie raccontate dai politici, dagli esperti di propaganda e dagli operatori della comunicazione sugli scenari di guerra, assecondando l’affermazione di Francesca Polletta, secondo cui “lo storytelling si sviluppa in settori inattesi” [2]. Nel primo capitolo (DAI LOGHI ALLA STORY) è analizzata l’evoluzione del marketing in quanto arte della promozione di un prodotto. Salmon mette in luce come, negli ultimi due decenni, alla vendita del bene di consumo propriamente inteso si sia sostituita quella del marchio e come alla obsoleta campagna promozionale si sia sovrapposta, progressivamente e sino a sostituirla, una vera e propria serie di sequenze narrative atte a ‘raccontare’ e, quindi, a proporre e a commercializzare i brands. In questo senso, all’interno di un’azienda, il buon dirigente è anzitutto colui che sa essere un “buon raccontatore” (p. 59) ed è, inoltre, la prima manifestazione tangibile di quella “alleanza tra letteratura e management” (p. 65) che investe molti campi, tra cui quello dell’impresa e, più in generale, dell’economia.

In questa direzione procede il capitolo secondo (L’INVENZIONE DELLO STORYTELLING MANAGEMENT), che evidenzia la funzione essenzialmente comunicativa della figura del manager, il cui ruolo precipuo diviene quello di mobilitare le emozioni del pubblico (tanto quello dei lavoratori d’azienda, quanto quello dei fruitori del prodotto), attraverso una poetica dei racconti condivisi: tali narrazioni sono ideate per essere ugualmente recepite da chi le produce e da chi le fruisce. In questo modo chi racconta una storia mira a creare una nuova dimensione, anche e soprattutto sociale. Salmon la chiama “dream society” (p. 33), un rinnovato contesto comunicativo a cui tende il marketing del Duemila. Il nuovo ordine, stando all’autore del libro, si sarebbe instaurato a partire da un tessuto sociale nel quale dominava l’incomunicabilità, soprattutto all’interno delle aziende. A tal proposito Salmon prende ad esempio la situazione delle fabbriche inglesi del secondo Novecento, nelle quali vigeva un ordine basato proprio sul silenzio. Per meglio descrivere questo fenomeno l’autore cita Michel Foucault, il quale affermava: “Il silenzio […] si spande come una colata lavica in tutte le società della disciplina” (p. 43).

Superata la “fase del silenzio” il racconto ha preso il sopravvento e il ricorso a forme di forzatura della realtà, di cui lo storytelling è una delle massime espressioni, ha prodotto, nel mondo del lavoro, effetti stravolgenti impensabili sino a pochi decenni prima. Si è notata in particolare una marcata “fictionizzazione dei rapporti di lavoro” (p.67), osservata da vicino nel terzo capitolo (LA NUOVA “FANTAECONOMIA”). Tra queste modificazioni del reale Salmon dà conto di vere e proprie distorsioni, operate attraverso lo storytelling, che arrivano sino alla simulazione di mondi fittizi sul luogo di lavoro (è paradigmatico, in questo senso, il caso dei call-centers americani in India, nei quali gli impiegati vivono quasi una vita parallela, americanizzata, creata ad hoc dalle aziende). In questo capitolo i rapporti e le implicazioni tra storytelling e letteratura sono esplicitati, in particolare allorché Salmon cita Italo Calvino e suggerisce i titoli delle sue LEZIONI AMERICANE come “buon riassunto del buon management” (p. 79). In questo modo Salmon cerca di legittimare l’idea secondo cui il moderno storytelling (caratterizzato appunto da leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità e coerenza) rappresenta il miglior veicolo dell’ideologia del cambiamento. La questione viene tuttavia lasciata in sospeso e non più ripresa, laddove avrebbe probabilmente meritato un’investigazione più profonda.

Il mutamento che, soprattutto grazie allo storytelling, investe le aziende nell’era capitalistica viene invece studiato in dettaglio nel capitolo seguente, il quarto (LE AZIENDE MUTANTI DELLA NUOVA ERA DEL CAPITALISMO). Salmon riporta qui il caso del trasloco di un dipartimento dello stabilimento francese della Renault, avvenuto nel 2001. I dirigenti della casa automobilistica ne chiesero un resoconto agli impiegati e agli operai coinvolti, onde ricavarne preziose informazioni circa le dinamiche entro cui si muoveva la modificazione degli assetti societari. Le interviste così realizzate hanno prodotto un grande racconto polifonico che ha coinvolto partecipanti al trasloco e osservatori. Prendendo in prestito il termine dall’etnografia, Salmon chiama questa tipologia di racconto fondata sulla dialettica “jointly told tale”, una storia “a due voci” (p. 82). Il prodotto finito, il racconto, dopo un’opportuna peer-review da parte dei dirigenti, è stato proposto al pubblico: dapprima a quello interno composto dagli altri dipendenti, poi a quello esterno all’azienda, per dimostrare a una audience più ampia una buona immagine di innovazione manageriale della compagnia. Questo esempio di storytelling management mette in luce come in tempi recenti ogni luogo di lavoro sia divenuto ciò che Salmon chiama “storytelling organisation” (p. 87): non si tratta solamente di raccontare storie ai dipendenti, di nascondere la verità con un velo di invenzioni ingannevoli ma, soprattutto, far condividere una serie di credenze che suscitino adesione. Ciò mira - secondo Salmon - alla creazione di una sorta di “mito collettivo vincolante” (p. 87) che conduce lo storytelling a divenire, da un lato, forma di vigilanza all’interno delle aziende e, dall’altro, esemplifica al meglio la loro “pedagogia del cambiamento” (p. 88).

Non sorprende, dunque, che a queste osservazioni seguano tre capitoli che riguardano da vicino politica, guerra e propaganda.

Il quinto capitolo (POLITICA MESSA IN STORIA) analizza la campagna elettorale condotta da G. W. Bush in occasione delle elezioni presidenziali del 2004 e del ruolo in esse giocato dai cosiddetti spin-doctors, funzionari incaricati di volgere la storia (le storie) a vantaggio del candidato presidente. Nati durante lo scandalo Watergate come story-spinners (coloro che creano, attraverso il racconto, una contro-realtà) e poi ampiamente impiegati durante la presidenza Reagan, questi professionisti dello storytelling rappresentano perfettamente quella che Salmon chiama, sintetizzando il pensiero di Roland Barthes, “narrarchia” (p. 102) [3]. Il sistema di potere basato sullo storytelling si adopera in particolar modo per distogliere l’attenzione da qualcosa e convogliarla su altre tematiche. Per questo gli spin-doctors hanno messo a punto la cosiddetta “strategia di Shahrazad” (p. 117), il cui funzionamento è riassumibile con le parole del potentissimo Karl Rove (Deputy Chief of Staff del Presidente Bush Jr. dal 2004 al 2007): “Quando la politica vi condanna a morte, cominciate a raccontare storie così favolose, così accattivanti, così ammalianti che il re dimenticherà la vostra condanna a morte” (p. 119) [4].

Nel successivo capitolo, il sesto, Salmon si concentra sullo “storytelling di guerra” e ne analizza l’impiego all’interno dei processi di diffusione dell’informazione e addirittura di addestramento delle truppe, grazie allo sviluppo del digital storytelling e a nuove forme di realtà virtuale fondate sulla interattività. L’aspetto interessante di questa applicazione della fiction allo scenario di guerra, e dunque a un drammatico spaccato di vita reale, risulta essere il raggiungimento di una sincronizzazione perfetta tra il tempo della narrazione e quello della sua percezione, tra il tempo della fiction e quello della realtà, che sopprime la distanza temporale e simbolica propria di ogni rappresentazione.

Nell’ultimo capitolo (L’IMPERO DELLA PROPAGANDA) sono infine analizzati i meccanismi di diffusione di notizie, con particolare attenzione alla manipolazione delle news da parte della emittente Fox (“Le notizie sono quello che noi vi diciamo che sono”, David Boylan, Fox Tampa Bay, citato a p. 153), secondo cui la realtà viene distorta sino al punto di crearne una nuova. Pare questo, insieme alle conclusioni, il capitolo meno convincente e un poco indebolito dalla mancata chiusura di molte delle argomentazioni aperte nel corso del libro.

In ogni caso lo studio di Salmon dimostra in maniera chiara ed efficace come negli ultimi anni sia nato un “nuovo ordine narrativo” (“NON”) che lui stesso descrive come “formattazione dei desideri e propagazione di emozioni per mezzo della loro messa in narrazione, indicizzazione, archiviazione, diffusione, standardizzazione e strumentalizzazione attraverso tutte le modalità di controllo” (p.169). Sebbene si concentri sulla diffusione dello storytelling in ambiti estranei alla letteratura il saggio di Salmon mostra una fitta rete di rimandi alle teorie narratologiche (Todorov) e semiotiche (Barthes).

Un aspetto molto importante presente in questa trattazione riguarda pure - e avrebbe meritato forse maggiore spazio e attenzione - l’analisi del racconto inteso come insieme di elementi retorici e stilistici. Salmon accenna infatti molto rapidamente alla potenza delle parole e delle immagini utilizzate per raccontare storie e propone l’ossimoro come figura retorica prediletta degli storytellers. La scelta, da parte di chi racconta una storia, della figura di pensiero che accosta due termini in forte antitesi (e incompatibili semanticamente) tra di loro per “raggiungere fasce di consumatori spesso trascurati […] che cercano di conciliare desideri contraddittori” (p. 32), sembra essere una felice intuizione da parte di Salmon. L’ossimoro, infatti, è un espediente stilistico attraverso il quale si produce un’espressione di armonica mescolanza tra gli opposti, ma anche una destabilizzazione dei “riflessi di incredulità o di scetticismo” e contribuisce a creare “un effetto sorpresa in grado di intrigare, sedurre, accattivare” (p. 32). Per concludere, con le sue implicazioni linguistiche, semiologiche e narratologiche, STORYTELLING. LA FABBRICA DELLE STORIE può essere considerato come qualcosa di più di un testo sulle tecniche della comunicazione di massa. Uno stile agile e divulgativo (non inficiato da una traduzione italiana rivedibile) e una serie di preziosi spunti di riflessione, tanto arguti quanto, talvolta, poco sviluppati su un argomento assai complesso quale l’arte del racconto, rendono infatti questo volume un’irrinunciabile aggiunta allo scaffale dello studioso di narratologia.


NOTE

[1] Dopo il successo del quale “Le Monde” ha affidato allo scrittore francese, fondatore, nel 1993, del Parlamento Internazionale degli Scrittori (International Parliament of Writers), una rubrica nella quale discute giornalmente dei fenomeni comunicativi descritti nel suo libro. Di questo gruppo di intellettuali fanno parte, tra gli altri, Salman Rushdie, Jacques Derrida e gli italiani Antonio Tabucchi, Claudio Magris e Vincenzo Consolo. Il cenacolo pubblica annualmente una rivista, “autodafé”, che si occupa del rapporto tra intellettuali contemporanei e società.

[2] F. Polletta, IT WAS LIKE A FEVER. STORYTELLING IN PROTEST AND POLITICS, Chicago, CUP, 2006, p. 1.

[3] Secondo Barthes (MYTHOLOGIES, Parigi, Seuil, 1957), i racconti sono infatti “categorie della conoscenza che ci permettono di capire e ordinare il mondo”.

[4] I. Chernus, ON KARL ROVE’S BEDTIME STORIES FOR AMERICANS, “TomDispatch”, 6-7-2009, www.tomdispatch.com/post/99707.


[Matteo Brera]

17/05/09

John Woo, RED CLIFF


[Taoist Temple in Hong Kong. Foto di Marzia Poerio]


John Woo, RED CLIFF. Parte I: 2008; parte II: 2009. Fotografia: Lü Ye e Zhang Li. Colonna sonora: Taro Iwashiro. Con Chang Chen, Lin Chi-ling, Zhang Fengyi, Hu Jun, Takeshi Kaneshiro, Tony Leung, Zhao Wei


Si tratta di un film epico della durata complessiva di più di quattro ore (280 minuti), che si rende visibile senza monotonia a causa della miscela di storico e di romanzesco, di elementi di strategia militare, dibattito politico, momenti di arti marziali, ma anche interni d’epoca e una parte dell’intreccio dedicata alla devozione coniugale e all’amicizia.

Dalla fotografia di Lü Ye e Zhang Li risalta meno il primo piano che il campo lungo. Una delle scene decisive è un combattimento ripreso dall’alto oltre che da sotto i cavalli; coi caroselli degli armati attirati dentro una formazione a corazza di testuggine; in parte memore, per la tecnica filmica, di GUERRA E PACE nella versione cinematografica di Bondarchuk.

La colonna sonora di Taro Iwashiro segna i momenti chiave dello svolgimento narrativo tramite sonorità in parte hollywoodiane, e in parte fondate su arie orientali. Ci sono scene in cui assumono importanza gli strumenti tradizionali (una resta particolarmente impressa ed è il concerto a due sulle tastiere cinesi con un sottotesto di emozioni e un linguaggio musicale che indica con i suoni sentimenti e pensieri), oltre ad aspetti elettronici [2].

Il versante storico, reso con cura spettacolare del dettaglio dei costumi e delle strategie militari, delle costruzioni civili e delle navi, in parte con la coadiuvazione di proiezioni computerizzate, è la battaglia degli “Scogli Rossi”, o battaglia di Chibi, del 208-209 a.C., svoltasi, secondo la maggioranza delle ipotesi, sul fiume Yangtzé, tra l’esercito dell’Imperatore Han guidato dal generale Cao Cao da un lato e i signori della guerra meridionali ribelli Liu Bei e Sun Qan dall’altro, che si concluse con la vittoria dei secondi nonostante la loro inferiorità numerica, la fine della dinastia Han e la formazione dei regni indipendenti del Sud [1]. Il ROMANZO DEI TRE REGNI, narrazione classica cinese di Chen Shou, vissuto tra il 233 e il 297, fornisce un quadro immaginoso degli eventi, iperbolizzando le forze sovrastanti di Cao Cao e romanticizzando vari aspetti. Il regista deriva l’intreccio tanto dalla ricostruzione storica, quanto dalla versione narrativa.

Questo film, oltre a essere imponente sul piano visivo, tanto quanto, poniamo, i film di Kurosawa, parla dell’ambizione, della brama di potere, del tradimento, della lealtà, della fine di un’epoca, del coraggio degli uomini e delle donne [3].


NOTE

[1] Per una descrizione degli eventi storici, cfr. Battle of Red Cliff.

[2] Frammenti disponibili a Colonna sonora.

[3] L’intera pellicola è disponibile su YouTube, a Red Cliff (film).


[Renato Persòli]

13/05/09

Cristina Cona, INGLESE? AL CONTRARIO (SU BECKETT)

Irlandese, ma vissuto a Parigi per quasi tutta la sua vita di adulto, Samuel Beckett è uno dei pochi autori che, veramente bilingui, hanno scelto non solo di scrivere sovente nella lingua acquisita, ma anche di tradursi nella propria lingua madre. E' questo il caso della sua opera teatrale più famosa, EN ATTENDANT GODOT, presentata per la prima volta al pubblico in francese nel 1953 e da lui tradotta in inglese (WAITING FOR GODOT) alcuni anni dopo.

Il primo interrogativo che il lettore/spettatore si pone è, indubbiamente, perché a partire dal 1945 Beckett abbia deciso di utilizzare il francese anziché l'inglese (lingua materna oltreché dei suoi primi libri) come mezzo di espressione letteraria. Alle origini di questa scelta fu tra l'altro la sua esperienza di traduttore (di scrittori sia italiani che francesi), iniziata già negli anni Trenta, servita in qualche sorta da apprendistato e che nel 1937 lo aveva portato a tradurre da sé in francese il suo romanzo Murphy (e in Watt, scritto in inglese durante la guerra quando l'autore viveva nel Vaucluse e non aveva contatti con altri anglofoni, si riscontrano numerosi calchi dal francese, clamoroso fra tutti il ripetuto uso di "to support" nel senso di "supporter"). Le ragioni "vere" restano comunque di difficile individuazione: lo stesso Beckett ha fornito varie spiegazioni lapidarie che i critici non hanno trovato molto convincenti, da "I just felt like it", a "en français, c'est plus facile d'écrire sans style", dall'aver temuto di scrivere in inglese perché "you couldn't help writing poetry in [English]", alla dichiarazione più esauriente, rilasciata nel 1962 al critico statunitense Laurence Harvey:

" ... for him, an Irishman, French represented a form of weakness by comparison with his mother tongue. Besides, English because of its very richness holds out the temptation to rhetoric and virtuosity, which are merely words mirroring themselves complacently, Narcissus-like. The relative asceticism of French seemed more appropriate to the expression of being, undeveloped, unsupported somewhere in the depths of the microcosm." Il francese, lingua più scarna e diretta, risultava insomma più adeguato a veicolare l'universo ridotto ai minimi termini che è proprio dell'opera di Beckett. Prova ne sia che nel 1968 dichiarò al suo amico Ludovic Janvier di aver ricominciato a scrivere in francese con il desiderio di "impoverirsi ulteriormente".

Fra la versione francese e quella inglese di GODOT, pur separate da un arco di tempo brevissimo, si rilevano parecchie differenze di linguaggio e di impostazione. E' stato ad esempio osservato che il testo inglese è più stringato ed espunge quattro brani di dialogo assai lunghi, guadagnando così in agilità e scorrevolezza, oltre a contenere più precise indicazioni sceniche. A fianco di queste modifiche, che riflettono con ogni probabilità l'esperienza acquisita nel frattempo da Beckett nel mondo del teatro dopo la rappresenzione di Godot a Parigi, ve ne sono altre in cui l'autore si avvale di evocazioni e richiami letterari specificamente anglofoni (come la scena in cui i due protagonisti guardano la luna ed Estragon, che nella versione francese si limita a dire: "Je fais comme toi, je regarde la blafarde", in quella inglese cita un brano di Shelley), o viceversa sopprime allusioni e giochi di parole che hanno senso soltanto in francese.

A dividere i critici sono però soprattutto problemi di raffronto sistematico e complessivo dei due testi: è l'inglese o il francese ad essere più filosofico, o più pessimista, o più volgare, o più intellettuale? Alcuni vedono significative divergenze, altri ritengono che si tratti sostanzialmente dello stesso testo, e che i cambiamenti siano da considerarsi tutto sommato marginali. E qui avanzerei modestamente l'ipotesi che questo dibattito, per quanto autorevole, sia viziato da una lacuna fondamentale: il non aver prestato sufficiente attenzione al carattere profondamente irlandese della prosa di Beckett. Ignorando quest'aspetto gli studiosi sono incorsi talvolta in veri e propri equivoci, come il considerare meno colloquiali certe battute in inglese per via del ricorso ad espressioni ritenute a torto formali, in realtà semplicemente più vicine allo "Hiberno-English" che al "Queen's English" (come la traduzione di "Tu m'as fait peur" in "You gave me a fright", considerata dallo studioso americano L. Graver come appartenente ad un registro "superiore", mentre in realtà si tratta di un'espressione assai corrente in Irlanda). Chi abbia dimestichezza con l'inglese parlato in Irlanda e legga o ascolti Godot non può non notare quanto siano irlandesi l'andamento della frase, molte delle espressioni colloquiali utilizzate, l'umorismo che sottende la disperazione (o viceversa). Non è del resto un caso che nell'intervista sopra citata Beckett abbia dichiarato di ritenere debole il francese rispetto alla sua lingua madre "as an Irishman".

Per dare un'idea degli "ibernicismi" (se non addiritture dublinismi) che costellano Godot ricordiamo, fra i tanti, l'uso del verbo "to blather" (con il quale Beckett traduce il francese "bavarder") o dell'aggettivo "banjaxed" ("rovinato"); le costruzioni tipicamente irlandesi come "[...] ask myself is there anything I can do", "it wasn't you came yesterday", "'Twas my granpa gave it to me", "you won't be wanting the bones", "I'm tired telling you that", o "nice business it'd be if he fell sick on me" (dove "on me" serve a personalizzare le conseguenze della malattia sul parlante, così che si potrebbe tradurre "bella roba se mi facesse lo scherzo di ammalarsi"); espressioni come "what ails him?" (= "what's wrong with him?"), "come here till I embrace you", "he wants to cod me but he won't", o "your man" (forma molto diffusa, equivalente a "that man"). A questi si aggiungono diverse allusioni a luoghi e cose d'Irlanda, come il camogie (uno sport gaelico) o il negozio dublinese di pipe Kapp and Peterson.

Parlando di umorismo, infine, la maggiore varietà di registri osservabile nel testo inglese, con il frequente andare e venire dal colloquiale al ricercato, provoca un effetto di discontinuità comica che colloca Beckett nella grande tradizione della letteratura satirica irlandese del ventesimo secolo; in particolare i preziosismi di stile cui ricorrono spesso i personaggi (a proposito dei quali un critico amico di Beckett osservò che i due mendicanti Didi e Gogo, principali protagonisti, "sound as if they had got a Ph.D"; risposta dell'autore: "How do you know they hadn't?") ricordano molto da vicino certe parodie o semiparodie letterarie del più grande fra gli esponenti di questo genere: Flann O'Brien. Interessante in questo senso è la reazione di Roger Blin, il regista teatrale che portò in scena la versione francese di Godot e che alcuni anni dopo, assistendo alla prima della commedia a Dublino, si dichiarò pieno di stupore e di ammirazione per gli attori, che avevano fatto del dialogo una serie di "blagues irlandaises". Del resto non ci si poteva aspettare altro da Beckett, autore che, sia pur non essendo nazionalista e pur sentendosi a disagio nell'atmosfera cattolica e conservatrice dello Stato irlandese di recente creazione, non nutriva dubbi sulle proprie origini. Secondo un aneddoto, essendogli stato una volta chiesto se era inglese avrebbe risposto: "au contraire". Se non è vero è ben trovato: l'autore di una battuta come questa non poteva non essere irlandese fine al midollo.



Fonti:

- L. Graver, Samuel Beckett: WAITING FOR GODOT, Cambridge University Press, 1989

- J. Fletcher, ÉCRIVAIN BILINGUE, in: CAHIER DE L'HERNE - SAMUEL BECKETT, Parigi, L'Herne, 1978

- S. Connor, "TRADUTTORE, TRADITORE": SAMUEL BECKETT'S TRANSLATION OF MERCIER ET CAMIER, http://english.fsu.edu/jobs/num1112/027_CONNOR.PDT


L’articolo, riprodotto col consenso dell’autrice, è apparso in precedenza sulla rivista ”Inter@lia”.

11/05/09

Marina Pizzi, "UNA BALDORIA DA CAMERA D'ARIA" E ALTRO


[Twin imagery (Rue Defacz, Brussels). Foto di Marzia Poerio]


TESTI 91-94 DA L'INCHINO DEL PREDONE (2008)


91.

una baldoria da camera d’aria
in uscita verso il senso, finalmente!
una sigla di chiara gemma
la scalea del grappolo d’inedia
di rivedere le rotaie nel bozzolo
del pianto. il male della grondaia
è di affossare il prato
zero in condotta il tuono e il lampo.
a poco a poco il comico di tutti
farà condominio il sale con la resina.
nessuno verrà a farci festa
nella catena di libri parentali
con le impiccagioni e le maggioranze paniche.


92.

nessuna gioia o corona di addendo
dentro la cloaca della nascita.
scindi da me il fulcro e l’avventura
entrambi tragici tradenti.
spazza la rotta dal panico d’ordigno
per una cravatta senza eleganza.
ciondola ciondola il cimelio del blasfemo
senza alcuna terra di conquista.
sta morendo il battesimo del bello
per un qualunque lutto di sisma.


93.

inferno di dogana dover dormire
nel lutto della luna più beffarda
fannullona l’inedia del battito del cuore.
calamita d’imperio il bacio sulla fanga
per una resistenza al limite del faro
quando guardare è l’elemosina del baro
il dio corrotto che non sa che farsene
del seno con il seme.
impero rotto l’aquila ferita
dal giogo del mosaico del despota.
quale scansione di canzone
riporrà la notte
per sempre dietro l'angolo?
quale amanuense potrà la vena enciclopedica?


94.

oasi del pane nero
l’incognita e la soffitta
dove sparisce il costo
dello stempiarsi in fretta.
in meno di un gerundio
sto nel coma d’aspra
consuetudine e pia
darsena. oso lo storto
senso del buio per amico
in pasto alle bravure
delle previsioni d’asta.


Testi precedenti dal medesimo poemetto di Marina Pizzi sono usciti su "Carte allineate" in data 27-3-2009 e 17-04-2009.

09/05/09

Najo Adzovic. IL POPOLO INVISIBILE ROM


[Approach to invisibility through perspective and fragments. Foto di Marzia Poerio]


Najo Adzovic. IL POPOLO INVISIBILE ROM. Roma, Palombi, 2005.


Racconta le proprie memorie in modo conciso e il più possibile oggettivato questo libro di Adzovic, Rom dell'ex Jugoslavia, costretto a fuggire per aver disobbedito, quando era sottotenente nell'esercito, durante la crisi successiva al crollo del comunismo, all'ordine di fucilare dei soldati colpevoli solo di essere musulmani. Riparato in Italia, è successivamente tornato indietro per portare anche la famiglia, infine costruendosi una baracca nel campo Casilino 900 di Roma, le cui condizioni miserrime, senza acqua potabile ed elettricità, con situazioni igieniche precarie, sono descritte con precisione, lamentando lo scarso intervento delle autorità, sperando che i più giovani, attraverso l'istruzione e l'apprendimento della lingua italiana, possano un giorno migliorare le condizioni di vita e instaurare rapporti fattivi di comunicazione con i gagé, cioè con chi non è rom, parola, quest’ultima, che, spiega Adzovic, significa "uomo libero".

Oltre al racconto personale, il volume contiene esposizioni della vita del popolo Rom: il ruolo di preservazione della stabilità sociale della donna, i riti nuziali e funebri, la storia di emigrazione nei secoli.

La letterarietà è riposta proprio nello stile fermo, senza aggettivazione ridondante, fattuale, a tratti documentario e attuato con voce narrativa in prima persona.

Il senso dell'altro e del diverso è sempre presente; ed è positivo leggere questo quadro informativo sui Rom dall'interno della loro cultura. È importante a causa dei pregiudizi che esistono su questo popolo costretto a vivere in condizioni di povertà non certo desiderate. In un passo del libro si legge:

"La libertà è sempre stata negata a tutto il popolo Rom, da tutti gli stati [...]. Sono sempre state erette delle barriere nei nostri confronti: a causa della nostra pelle scura, delle nostre usanze e delle nostre antiche tradizioni; perché eravamo dei chiromanti e dei chiaroveggenti e perché la nostra lingua non era compresa da nessuno. Tutto ciò non ha fatto che aumentare la diffidenza e la ‘negatività’ verso di noi, da parte di tutte le genti e di tutte le nazioni. [...] Ha sempre arrecato molto disturbo a qualcuno vedere che i Rom, anche loro, vivono come tutti quanti. O che, almeno, ci stanno provando. In tutti i modi, secondo le nostre possibilità. [...] Stiamo acquisendo una coscienza civile e una dignità sociale. Rappresentiamo una minaccia? Se tutti quanti diventassimo dei cittadini a pieno titolo, con i nostri diritti ed i nostri doveri, gli altri popoli si sentirebbero spiazzati e non saprebbero cosa fare" (pp. 47-49).


[Roberto Bertoni]

07/05/09

David Best, THE THEME OF PEASANT IDENTITY IN FRANCESCO GENITONI’S IL TEMPO FORSE

“Annihilation, death throes, diaspora, dissolution, emigration, exile, exodus, extinction, genocide, metamorphosis, suicide”… nouns used in describing the vicissitudes of the peasantry.


Two descriptions of “peasant identity” set the tone for this review. First, writing on nineteenth-century France, Karl Marx highlights peasants’ lack of ability for self-representation:

“The small-holding peasants form a vast mass […], much as potatoes in a sack form a sack of potatoes. In so far as millions of families live under economic conditions of existence that separate their mode of life […], they form a class. In so far as there is merely a local interconnection among these small-holding peasants, […], they do not form a class. They are consequently incapable of enforcing their class interest in their own name, […]. They cannot represent themselves.” (Marx, pp. 123-24)

Raj Patel, expert in food politics, enquiring into what lies behind the “war” for control of food resources, also questions peasants’ ability to assert their own identity:

“The story of food production to which most of us can admit, […], owes more to fairy tales and children’s television programming than anything else […]. Who, for example, is the central character in our story of food – the farmer? What is her life like? What can she afford to eat? If only we asked […]: the majority of the world’s farmers are suffering. Some are selling off their lands to become labourers on their family plots. Some migrate to the cities, or even overseas. A few, too many, resort to suicide.” (Patel, pp. 6-7)

Francesco Genitoni is a contemporary writer (born 1951, in Cola, in the Apennino reggiano) who came to my attention for the central theme – rural demographic change – in his short novel, IL TEMPO FORSE (2004). Genitoni has also authored an essay on the Resistance, Soldati per conto nostro (1989); various short stories for children; and his poetry and racconti appear in numerous anthologies and journals. His first novel was CARTE DELLA DELIZIA (2002), a tale about small-town bureaucracy. Currently, Genitoni is Assessore alla cultura in Sassuolo (Modena).

This review deals, in particular, with the depiction of an identity already difficult to pinpoint, where Genitoni’s writing would appear to gain its stimulus – applied to an Italian micro-situation – from the theme at the centre of the two opening citations. His work shows the tip of the iceberg of what writers have examined in relation to peasant history not only in Italy in past decades, but from Mexico to India to Korea in the present day. Silone’s “universal peasant” would still appear to be very much alive. The dynamics exposed in IL TEMPO FORSE are those that invariably impacted on rural populations in his district in the post-WWII period: mechanisation of agriculture, “urbanisation and civilisation” of the countryside, “l’esodo dalla campagna alla città”, demise of the mezzadria, impoverishment – in every sense – of agrarian communities. None of these are explicit but furnish tangible undercurrents in the novel.

Peasants have never possessed “identity”. Refer to any textbook of European history and one reads that the roles of feudal peasants were “undifferentiated”, as opposed, for example, to “specialised” work in early industrial contexts. This poses a problem for the attributing of unique identity and, perhaps for this reason, peasant expression has tended to belong to collective, oral, unrecorded cultures. It is therefore apt that Genitoni does not give his peasants a name: in the fashion that the peasant has always worn the mask applied by those who write about him/her (political society, intellectuals), so Genitoni’s peasants – in parody – wear masks, those of “Oncle” and “Grandmère”. How should “peasants” be identified? To use the term at all can be derogatory. Silone thought so, but also predicted that society would eventually come to honour that ill-defined mass (Silone, p. 6). Western Europe has, instead, history books reveal, born witness to the uprooting of the so-called peasants; many texts report the “death throes” of the peasantry: but what of it? The peasant is, anthropologically, the lowest common denominator: a human-animal living – by Carlo Levi’s descriptions – outside of Time, State, and History.

This would seem to be the case for Genitoni’s protagonists. IL TEMPO FORSE represents, in all of ninety-three pages, the deteriorating life and lifestyle of Grandmère, an aged peasant woman struggling to maintain her hillside smallholding, and Oncle, her psychotic middle-aged bachelor son, driven into a maelstrom of nature-inspired insanity by hardship, solitude, suppressed sexual urges. This erupts, in fact, in unexcused, silent aggression against the senility-bound Grandmère – violence echoed in the poorly farmed land. Grandmère is forced to make a decision: her move to the plain is thus fixed, to change sides as it were, to the town and the large, all mod cons suburban dwelling of her other son’s family. Oncle will remain alone, madness quietly festering.

Oncle is one of a long line of rural “matti” – a common trope for the “unconventional” peasant – which perhaps already reached their peak in Paolo Volponi’s second novel. But does Oncle have a choice when “conventional” no longer exists? Genitoni’s tale seems to arrive at the conclusions predicted by this other writer, in the absolute failure of schemes for rural development and cooperation launched by the subversive “thinker”, Anteo Crocioni, in LA MACCHINA MONDIALE. This figure of peasant origin was a character at odds with his identity: a peasant-non peasant, in that he “saw” and “acted” rather than indulge in the tradition of “peasant inertia”. Oncle, this most recent “matto”, tragically appears not to think at all, to see little beyond his bottle and cigarette butts in a downward spiral of self-annihilation. Indeed, he is as far removed from the restorative properties of REASON AND HISTORY, à la Levi, as any other twentieth-century literary peasant. There is little left of Italian rural society to keep Oncle or Grandmère standing and so if identity is defined by context, setting, social and cultural group, here the context has dissolved: they are bared fossils.

Stefano Jossa notes how the identity of the “other” Italy is linked to ‘la fatica e la sofferenza’. Carlo Levi’s work, according to Jossa, places “[il] mondo contadino in opposizione alla storia] (Jossa, p. 135). If there is, on one side, the State and, on the other, the extra-state world of peasants, then there are, as Jossa puts it, “due Italie […]: quella dei vincitori e quella dei vinti, […], l’Italia contadina, più volte violentata dalla storia” (Jossa, pp. 135-36). Pasolini contemplates non-identity in the peasant world: “l’Italia umile e vera dei contadini che lavorano”, that clashes with the “Italian State”: “che crede nella storia e nel progresso”. So the peasant has identità non-identità, a shadow of the identity created by “Italian culture”, and yet one fails to exist without the other (Jossa, pp. 137-38).

The issue of peasant identity in contemporary European literature might seem anachronistic, and yet Genitoni gives an insightful response to the above questions so that one might take this text as an exposition of what has remained washed up of peasant identity in the wake of phenomena discussed by the canonical Silones, Levis and Volponis. His tale of nameless characters, further mystified by the use of foreign soubriquets, is narrated by the nephew/grandson, Paolino. Oncle and Grandmère are largely defined by the arrangements of settings around them, how Paolino perceives the two in context: a simple, but dirty and degenerated rural abode (anything but bliss), detached from the polished suburban dwelling from which he comes to visit. Descriptions reveal much of the life that Grandmère has led, the residual toil. Our meetings with Oncle, on the other hand, come through violent acts perpetrated against Grandmère, resonant of the violence of peasant “genocide” that precedes his generation and leaves his own without landmarks. And while Grandmère’s identity may be perennially conditioned by work and hardship, Oncle’s is indivisible from the detritus he leaves about him: pools of spit, crushed dead flies, cigarette ash.

Grandmère repeatedly laments the deteriorating situation of this odd-couple, their impossible “convivenza”, while descriptions of them are sketched impressionistically, in quick succession. The beatings that characterise their relationship happen suddenly, out of nothing, and the reader, a witness, is left to contemplate, to fill in the omitted reasons. The curtains thus draw quickly on any sense of the bucolic: in Paolino’s modern Italy, this is not what peasant life is made up of. The tale cuts quickly to Grandmère’s removal to the plain, a somewhat tardy “fuga”, forty years or so after the exodus of her kind. Where Volponi told much of abandoned farmhouses and breathless fields discarded in the slipstream of peasant flight, Genitoni is his equal in depicting Grandmère’s descent, etching it into the literary history of the peasantry. Grandmère states: “Chiuso con la guerra, abbiamo ricominciato a lavorare. E basta. La terra era sempre poca, sempre meno, per tutti. Il figlio più vecchio ha dovuto andare via [sic], in pianura, per campare” (Genitoni, p. 25). It is to this son’s abode that Grandmère, squeezed out of her domain, is now headed. In the country, writers say, time passes unheeded; timelessness prevails. But Grandmère’s fate is decided in an instant, to become no longer peasant but ex-peasant, émigrée, exile, her two sons in conflict: one, Oncle, of the hills, still contadino, but the elder, Paolino’s father, of the plain, long since “cittadino”. Paolino is summoned to bring the car, to transport Grandmère and her wares down to the plain. And thus one more “peasant” lifestyle ends abruptly.

What strikes Grandmère within her new system of reference points? “Le tantissime case, le automobili, e i pavimenti lucidi” (Genitoni, p. 39). “Poi c’era la televisione”, adds the narrator: “non si sarebbe mai spogliata davanti alla televisione accesa” (Genitoni, pp. 40-42). Now, displaced and disorientated, Grandmère is a mere relic, in her own words sadly explaining to Paolino that she no longer recognises herself in these adoptive circumstances: “ho abitato sempre in casacce da contadini, ho dormito in stalle e fienili… e adesso non riesco ad alzarmi da letto perché è troppo morbido e ho paura di scivolare” (Genitoni, p. 58). On her deathbed, Grandmère turns against her elder son, calling for him to leave her be, shaking her stick and shouting that she would gladly have split his head. He believed in a gesture of charity but little did he appreciate the near-seismic magnitude of removing her from the country.

Oncle’s demise, too, is without grace. His coordinates have been removed: the hens fail to lay; he can no longer wash himself; around him all is filthy. Paolino’s reflection says much on the question of peasant exodus, “sapevamo tutti troppo della solitudine, per nominarla” (Genitoni, p. 74). Oncle stares into space, laughs inexplicably, and hurls violent insults in imagined dialogues. Perhaps his most significant act comes when he gives up trying to be a farmer; yields his identity by tearing down the most symbolic of all farming paraphernalia: the fence. The narrator spells out the poignancy of Oncle’s action: terrifying, prophetic, revolutionary. Oncle is well aware that there is nothing left for him, no relatives, no community, no more peasant society, and on his deathbed sees with lucidity what he has been these past forty years: “[un] pagliaccio pazzo [che] aveva divertito tutta la parocchia” (Genitoni, p. 91), playing along where the stage has long since been transported to other market squares.

To return to the social history of the peasantry, the major factors that bring change come from outside: market forces, political decisions, world trade agreements, corporations, urban consumers. As Patel comments: “written out of this story are the rural communities, who seem to be suffering silently” (Patel, p. 15), […]. “From the city, it is hard to see the violence in the countryside, both physical and economic” (Patel 18). This is ironic, given that most Western states have, at some recent point in their promotion of national identity, employed the notion that ‘the proud modern state, now more urban than rural is the offspring of the countryside’ (Patel, p. 23). One is brought back to the perennial country/city debate, which Patel reiterates:

“If ever we think of fields, our thoughts about the countryside are benign, passive and vapid. To become and remain an idyll, the rural is forgotten, sanitized and shorn of meaning to fit the view from the city. […]. The city, now home of the majority of the world’s people, writes the country.” (Patel, pp. 21-22)

But Genitoni does much to dismantle this misconception: his metaphors offer a startling view of the modern peasant context, reconsidering perceptions of what the countryside means, what a rural person’s identity and reference points entail, the mocking anachronism, its loss, its non-existence.


WORKS CITED:

- F. GENITONI, IL TEMPO FORSE, Reggio Emilia, Aliberti, 2004.
- S. JOSSA, L’ITALIA LETTERARIA, Bologna, Il Mulino, 2006.
- C. LEVI, CRISTO SI È FERMATO A EBOLI, Torino, Einaudi, 1990.
- K. MARX, THE EIGHTEENTH BRUMAIRE OF LOUIS BONAPARTE, New York, International Publishers, 1994.
- R. PATEL, STUFFED AND STARVED: MARKETS, POWER AND THE HIDDEN BATTLE FOR THE WORLD FOOD SYSTEM, London, Portobello, 2007.
- I. SILONE, FONTAMARA, Milano, Mondadori, 1988.
- P. VOLPONI, LA MACCHINA MONDIALE, Milano, Garzanti, 1965.

05/05/09

Reginald Gibbons, DUE POESIE


["Wind pushing the grass". Foto di Marzia Poerio]


Nota ai testi e traduzioni di Piera Mattei

Reginald Gibbons è autore di otto libri di poesia,il più recente è CREATURES OF A DAY (LSU Press 2008), finalista al National Book Award 2008. Ha inoltre pubblicato un romanzo SWEETBITTER (LSU 2003) e molte altre opere, tra cui un recente volume di traduzioni di Sofocle SELECTED POEMS: ODES AND FRAGMENTS (Princeton University Press 2008). È professore di English and Classics presso la Northwestern University a Evanston (Illinois) e a Chicago.

La poesia di Gibbons, nitida e scandita, è spesso questo toccare gli argomenti con la stessa circospezione con cui l'innamorato tocca, entrando in chiesa, la spalla dell'amata, "come vi fossero spine"; richiama così l'attenzione di lei solo per baciarla, tornando poi sui suoi passi (Worship). Violenza e normalità dell'esistere sono conpresenti altrove. In Her love c'è il riferimento a una ferita insanabile e che pure accetta, con riconoscenza, di essere lenita. La forza bruta, come minaccia che non si realizza, è protagonista in altre poesie (Adventure). La strada che segue la poesia tuttavia è, dovunque sia possibile, l'ascolto del suono che non può essere udito, la quiete, la meditazione che all'alba non fa richieste né s'interroga.


1.

QUIET

I was not disciplined enough
to rise at dawn, but when
I rose I left behind
rooms of furious thinking
so that I could watch,
atop this former mountain,
now a tumbled-down
small hill, the sun
reach into the lowest
least bush: it was
a last path that I climbed
to get to this ancient summit
hidden out in the grass-and-granite
open from the closed
customary places of thought.

So:
Wind pushing the grass
in flowing waves. Slow
brown wingbeats of a hawk.
And the lake below empties
itself of darkness like a mind
quieting.
There is no sound
of sound.
Only an echo
of what was not heard,
echo of that which
bells or chimes were long ago
invented to imitate.


QUIETE

Non ero abbastanza disciplinato
da levarmi all'alba, ma quando
lo feci mi lasciai alle spalle
spazi di incontrollate riflessioni
così di poter osservare, dall'alto di quella
che era stata una montagna
ed era una dirupata altura, il sole
distendersi dentro il più basso
e minuscolo cespuglio: era
un ultimo sentiero che salii
per raggiungere quell'antica sommità
appartata, nello spazio di erba–e–granito,
dai consueti chiusi luoghi di meditazione.

Allora:
Vento che spinge l'erba
in onde che si rincorrono. Lento
e scuro battere delle ali di un falco.
E il lago di sotto si svuota
d'oscurità come una mente
che s'acquieta.
Non c'è suono
di suono.
Solo un'eco
di quanto non fu udito,
eco di quanto, ad imitarlo,
campane e rintocchi di campane
in tempi lontani, sono stati inventati.


2.

HER LOVE

A man whose son has died has
to forgive the boys who
still live, when they come
up the street slowly in
a ragged group, talking, three
with mitts, one with the ball.
Should forgive, and does.
Because whatever first trust there was
in anything is gone now, anyway,


and what he could never think
of losing has been lost.
But the woman he loves
says we are not cups to be poured empty
and there's no measure in being mad.
So when she offers him what
she has, her love, he takes it
greedily, thankfully, glad.


L'AMORE DI LEI

Un uomo che ha perso il figlio
deve perdonare i ragazzi che
vivono ancora, quando risalgono
lentamente la strada in
gruppo spettinato, chiacchierando, tre
con guantoni da baseball, uno con la palla.
Dovrebbe perdonare, e perdona.
Perché qualsiasi speranza ci fosse all'inizio
di qualunque cosa, adesso è perduta, comunque,

e ciò che non poteva mai pensare
di perdere è perduto.
Ma la donna che ama
dice non siamo tazze da svuotare fino all'ultima goccia
e non c'è termine nella follia.
Così quando lei gli offre ciò
che ha, il suo amore, lui lo prende
avidamente, grato, contento.



QUIET and HER LOVE reprinted by permission of Louisiana State University Press from SPARROW: NEW AND SELECTED POEMS by Reginald Gibbons. Copyright © 1997 by Reginald Gibbons.

03/05/09

Santiago Montobbio, ARRAÉZ, BOCETO, TRACTATUS

1.

ARRAÉZ

Como tendría la soberbia fácil, jamás me la permito.

Pues capitán verdadero
desde pequeño fui, de otro modo más justo tenté yo
gobernar la vida, y es por ello
que no dejé a esa norma olvido.
Y para empezar
tan ingrata tarea por mí mismo
me disfracé harapiento y abjuré
de las medallas haciendo que el silencio
les dijera adiós levantándoles las cejas.

Fracasos por todo ello
me brindó el tiempo
y difícil de soportar resulta
su soledad injusta.
Pero tozudo
como en dañarme he sido
cada día pido perdón por crímenes
que merecen gran castigo.
Nadie sabe
quién los ha cometido.


ARRAÉZ

Avendo la superbia facile, non me la concedo mai.

Dato che capitano per davvero
fin da piccolo fui, in altro modo più giusto tentai io
di governare la vita, ed è per questo
che non lasciai a quella norma oblio.
E per cominciare
tale ingrato compito assegnatomi da solo
mi mascherai da straccione e abiurai
le medaglie facendo sì che il silenzio
le congedasse inarcando il ciglio.

Insuccessi per tutto questo
mi offrì il tempo
e difficile da sopportare risulta
la loro solitudine ingiusta.
Ma testardo
come a farmi male son stato
ogni giorno chiedo perdono per crimini
che meritano gran castigo.
Nessuno sa
chi li ha commessi


2.

BOCETO DEL ARTISTA ADOLESCENTE Y JUBILADO.

Como he tenido éxito, estoy completamente abatido.

Por primera vez nadie se queda de que me levante
a la hora de las comidas, en casa hasta se interesan por si escribo
y podrías dedicarte al teatro, la gente
que ha hecho dinero, uy, con lo de las giras:

bien se ve que mi familia
vive anclada en tiempos antiguos, pero
como he hecho
siempre con todo el mundo yo les digo
que sí a cualquier cosa, hago ver que les atiendo
muy en serio y a veces
hasta les sonrío.
Pero no pienso
escribir más tiros.


BOZZETTO DELL’ARTISTA ADOLESCENTE IN PENSIONE

Dato che ho avuto succeso, mi sento del tutto abbattuto.

Per la prima volta nessuno si lamenta che io mi alzi
alle ore dei pasti, a casa addirittura s’interessano se scrivo
e potresti dedicarti al teatro, sai quanta gente, uh,
ha fatto i soldi con le tournée:

è chiaro che la mia famiglia
vive ancorata in tempi passati, però
come ho sempre fatto con tutti io dico
sì a ogni cosa, faccio finta di ascoltarli
proprio sul serio e a volte
addirittura gli sorrido.
Ma non penso
di scrivere altro.


3.

TRACTATUS

Cuando resulta excesiva la carga de otoño
que puede soportar un día
trenzo el desesperado modo en que te quise y recuerdo cómo
después la vida hace que toda historia pertenezca
a la bondadosa región de las mentiras pero
también comprendo que aparte
de algunos gestos el verdadero amor está condenado
a no ser entendido y por eso
para amar de verdad hay que hacerlo
en el a pesar, en el incluso.


TRACTATUS

Quando risulta eccessivo il peso d’autunno
che può sopportare un giorno
intreccio il disperato modo in cui ti amai e ricordo come
poi la vita fa sì che ogni storia appartenga
alla bonaria regione delle menzogne ma
capisco anche che a parte
qualche gesto il vero amore è condannato
a non essere capito e per questo
per amare davvero bisogna farlo
nel nonostante, nell’addirittura.


(Traduzioni di Paolo Gravela)

01/05/09

Gian Paolo Ragnoli, ALLA RICERCA DI NOMANSLAND. UN RICORDO DI “MUSICHE” (1987/1997), UNA RIVISTA DI ALTRE MUSICHE

“Hello, hello, hello,
Is there anybody home?
I’ve only called to say I’m sorry
The drums are in the dawn
and all the voices gone
And it seems that there are no more songs” [1]

Quando Ochs scrisse questi versi sconsolati, alla fine del sogno degli anni sessanta, sembrava che non ci sarebbero state più canzoni, nel senso, ovviamente, di canzoni che importasse veramente cantare, che significassero qualcosa al di sopra (o al di sotto) del brusio ammiccante della musica di consumo.

Periodicamente torna questo stato d’animo, ma altrettanto periodicamente, anche nei periodi più bui, c’è sempre una No man’s land da scoprire, da attraversare, da decifrare, dove ancora, o di nuovo, esistono suoni e parole che hanno il desiderio di rinominare il mondo.

Gli anni ottanta sono stati una di queste stagioni. Sotto, molto al di sotto della tendenza dominante, neoliberismo, Reagan/Thatcher/Craxi, yuppies, “Milanodabere”, musica fatua riempita di tastiere elettroniche, gel, pantacollant e spalle imbottite, c’era un universo intero, un continente sconosciuto di nuove musiche che non compariva in nessuna cartografia ufficiale.Qualcuno doveva occuparsene.

Il progetto di “Musiche” nasce nella primavera dell’87 a Bologna, con la fondazione dell’associazione Mongezi Feza, intitolata al trombettista sudafricano morto esule in Inghilterra, che inizia subito a organizzare, a Bologna e altrove, concerti di gruppi e musiche di difficile collocazione, fuori dai generi codificati di rock, jazz, classica contemporanea.

L’idea della rivista nasce immediatamente dopo, dalla consapevolezza che c’era un continente sconosciuto a cui dare nome, una mappa da scrivere per segnalare a chi volesse avventurarvisi i pericoli, i porti, gli approdi.

C’era la sensazione che in quel momento si stesse verificando una congiunzione di avvenimenti irripetibili: un nuovo pubblico in formazione, meno rigidamente diviso in generi, più aperto al nuovo, poi il vecchio pubblico del progressive rock e/o del free jazz che in quella fase, per una serie di motivi (anagrafici, carenza di informazioni, fine della “comunità” degli anni settanta) stava abbandonando un interesse attivo per i fatti della musica.

C’erano, in Europa, alcuni piccoli festival, il più importante il Mimi, a Saint Remy de Provence, che tentavano di superare la codifica di genere, che tentavano di aprirsi a soluzioni nuove ed eterodosse, frequentarli ci faceva sentire sintonizzati su un’onda sotterranea che carsicamente ricompariva in superficie, riproponendo in forma aggiornata quei dibattiti su musica e pubblico, su quali forme espressive, quali modalità organizzative prefigurassero un diverso ordine sonoro e di conseguenza un diverso ordine sociale, discorsi troncati bruscamente dalla fine degli anni settanta, del “Movimento”. Insomma ci pareva che il momento fosse “adesso”: c’era la possibilità di gettare un ponte tra la vecchia generazione di ascoltatori, che si stava ritirando in casa a coltivare nostalgie e a collezionare vecchi vinili e il nuovo pubblico che vedevamo affollare i festival, a Saint Remy come a Zurigo, a Vandoeuvre-lès-Nancy come a Chantenay, curioso e a suo agio sia di fronte a impro jazzistiche che a suonatori di ghironda, a clarinettisti compunti o a rocker bizzarri.

Certo né noi né questo pubblico nascevamo dal nulla. Alle spalle c’erano parecchie cose: i movimenti politici degli anni settanta, il progressive rock, la “scuola di Canterbury”, Frank Zappa, il free jazz, la contemporanea meno accademica, il folk revival meno plastificato, riviste come Muzak e Gong in Italia e Impetus in Inghilterra, un libro importante come Musica e pubblico giovanile di Alessandro Carrera, il catalogo della Recommended, stipato di novità inaudite e riscoperte fulminanti, il diffondersi di parecchie piccole e determinate etichette indipendenti, l’idea che la musica fosse/potesse/dovesse essere implicitamente politica.

L’editoriale del primo numero, primavera ’88 metteva esplicitamente le carte in tavola:

“Esistono centinaia di musicisti che hanno scelto la strada dell’autogestione, della resistenza alla divisione totale tra lavoro e creatività imposta dal capitale moderno, senza atteggiamenti romantici o idealisti, ma con la concretezza, la pragmaticità, di chi sa di muoversi su un terreno minato, e la consapevolezza ‘godardiana’ di non voler fare musica politica, ma politicamente.

Di questi intende occuparsi la rivista che avete tra le mani. Senza presunzione, ma cosciente della responsabilità di essere l’unico strumento di documentazione, in Italia, su una rete di relazioni che va facendosi sempre più fitta e polimorfa”.

E più avanti:

“Il nostro terreno favorito di indagine sarà invece quella No man’s land dove le barriere tra i generi mostrano delle falle e le gerarchie si scompigliano, dove le sicurezze stilistiche vacillano paurosamente e le frontiere si fanno mobili e rischiose. Se per addentrarvisi dovremo sporcarci le mani, apprezzare valori spuri come precarietà e approssimazione, non vergognarci del ludico e della parodia, bagnarci di cosmopolitismo e soprattutto essere serenamente coscienti della memoria storica di cui queste musiche sono impregnate, ebbene, vorrà dire che avremo già scoperto molti indizi sul loro funzionamento”.

Da qui a quel “Nirvana for Mice” di cui cantavano gli Henry Cow la strada era già segnata, anche se sfortunatamente tutta in salita.

“Musiche” è nata dall’intuizione di tre persone, Alessandro Achilli, Paolo Chang e Riccardo Pioli, che si sono assunti tutti i ruoli, anche finanziari, necessari all’uscita del primo numero. Il numero dei collaboratori si è immediatamente allargato, a partire dal secondo numero, collegando sintonie politico-culturali e passioni musicali da Bologna a La Spezia, da Milano a Catania, da Roma a Rovereto, ma anche a Parigi, Ulm, Strasburgo.

Si trattava, teoricamente, di un trimestrale, ma se pensate che tra la primavera dell’88 e quella del ’97 sono usciti diciotto numeri vi renderete conto immediatamente di uno dei più grossi problemi che “Musiche” abbia dovuto affrontare, la periodicità aleatoria. Questo non era dovuto a influenze dadaiste o cageane, pur presenti tra redattori e collaboratori, ma al ben più terreno fatto che, essendo la rivista completamente autofinanziata, prima di poter far uscire un nuovo numero era necessario che il precedente fosse rientrato nei costi. Questo rendeva poi praticamente impossibile ottenere pubblicità “pagata”, non potendo garantire i tempi d’uscita, e anche perché le case discografiche “importanti” non apprezzavano il fatto che se un disco non ci piaceva lo si scrivesse chiaro e tondo, quand’anche l’etichetta avesse messo pubblicità sulla rivista. Insomma, non sapevamo stare al mondo, e come direbbe Abbie Hoffmann: “Certo eravamo giovani, eravamo arroganti, eravamo ridicoli, eravamo eccessivi, eravamo avventati. Ma avevamo ragione”.

Questo tratto caratteriale ci ha creato parecchi problemi, con amministrazioni “progressiste”, con organizzatori culturali di rassegne “prestigiose”, insomma con tutti quei numerosi esponenti della tendenza culturale sordista (da Alberto) sintetizzabile nell’eterno slogan “tengo famiglia”. Di fatto quelli con cui abbiamo avuto rapporti, o quelli di cui abbiamo ospitato la pubblicità sulla rivista, erano piccole realtà indipendenti, simili alla nostra, come gli amici di “And”, di “Auditorium”, di “A Rivista Anarchica” e altri desperados fuori e contro l’industria culturale, anche quella di “sinistra”, oppure circoli culturali come l’Arcimboldo di La Spezia, locali come il Ketty Dõ di Bologna, negozi di dischi come Tin Drum, poi Megatalogo, di Sarzana, con i quali collaborammo all’organizzazione di concerti e rassegne.

Se si guardano le copertine dei primi numeri di “Musiche” e si tiene d’occhio la data si capiscono al volo un paio di cose. I primi numeri, tra l’88 e l’89, hanno in copertina Fred Frith, John Zorn, Tenko, Heiner Goebbels e Bill Frisell, all’epoca assai poco conosciuti, con la parziale eccezione di Frith, noto al pubblico di estrazione progressive per la sua lunga militanza negli Henry Cow e poi negli Art Bears. Bene, dieci anni dopo, all’uscita del numero diciotto, che si sarebbe rivelato l’ultimo numero della rivista, Tenko continuava a essere una cantante giapponese poco conosciuta, se non in circoli ristretti, ma Goebbels era diventato uno dei più importanti compositori contemporanei, Zorn e Frisell la nuova faccia del jazz più moderno, multiforme, contaminato e sia Frith che Frisell suonavano con Zorn nei celebrati Naked City. Quello che voglio dire, sintetizzando brutalmente un discorso che altrimenti occuperebbe uno spazio eccessivo, è che tutta un’area di musicisti e di musiche che dieci anni prima era davvero underground, in termini di conoscenza, di popolarità, di possibilità di proporre la propria musica, dieci anni dopo, grazie al lavoro dei musicisti prima di tutto, ma anche di riviste come la nostra, di organizzatori coraggiosi, di qualche giornalista “mainstream” più curioso e avvertito, era uscita dal cono d’ombra e qualche anno dopo aver conquistato la prima pagina di Musiche (o di Revue et Corrigée, il confratello d’oltralpe) e aver spopolato al Mimi o a Vandoeuvre era arrivata a copertine più prestigiose, a sale da concerto più istituzionali e a un pubblico più numeroso. Nulla di inquietante in ciò, è la vecchia storia dei quattro ragazzi che dalle cantine di Liverpool partono alla conquista del mondo, del giovane camionista di Memphis, di È NATA UNA STELLA. La differenza stava nel fatto che questo processo avveniva al termine di un ciclo in cui le istanze più progressive di quel periodo erano state assimilate, e depotenziate, dall’incasellamento, prima inpensabile, nei ruoli del “grande jazzista” (Zorn e Frisell soprattutto), del “grande compositore contemporaneo” (Goebbels, ma non solo, pensate a Michael Nyman o a Gavin Bryars), e i festival prima innovativi cominciavano ad avere difficoltà a esistere e a resistere (il Mimi è stato costretto a continui cambi di sede, ricorrendo altrove la benevolenza di qualche nuovo assessore, da Saint Remy a Saint Martin de Crau, da Arles alle isole Frioul, di fronte a Marsiglia, ma a quel punto avevamo già smesso di andarci) e spesso tornavano a essere, per esempio il Taktlos a Zurigo, “semplici” festival jazz, per quanto di buon livello, o chiudevano per difficoltà economiche, come Chantenay.

C’è ancora un’altra questione: dietro/sotto/intorno a questi musicisti e a questi festival c’era un progetto politico-culturale, o se volete “un’ideologia”, quella di Rock in Opposition, un collettivo di musicisti e di operatori culturali di vari paesi, tutti indipendenti dal punto di vista organizzativo, creativo e produttivo, fondato alla fine degli anni settanta dagli Henry Cow con gli Stormy Six, i Samla Mammas Manna svedesi, gli Univers Zero belgi, gli Art Zoyd e gli Etron Fou Leloublan francesi, che cercava, nell’impeccabile sintesi di Umberto Fiori, di interagire, partendo dalla convinzione che il rock è definito più da un pubblico che da una musica, con quel vasto pubblico giovanile, proponendo una musica che mantenesse il potere di comunicazione del rock innestandovi robuste dosi di innovazione artistica e di opposizione culturale, inserendosi all’interno di quel processo “che in Europa va verso il progressivo superamento dei generi musicali (rock, jazz, canzone d’autore, folk) nella direzione di una musica viva che privilegia il momento del concerto, del contatto immediato con il pubblico, dell’improvvisazione e della libertà creativa” [2].

Non è andata così. Dieci anni dopo era chiaro che alcuni musicisti “ce l’avevano fatta”, altri erano ripiombati nell’underground più oscuro, molte etichette indipendenti avevano chiuso i battenti, i festival stentavano, chiudevano o si erano collocati sotto la rassicurante coperta di un genere. Della generosa utopia di Rock in Opposition restava poco o nulla. Anche “Musiche” ne prese atto, con in più il peso personale di dieci anni di lavoro non retribuito, di tempo strappato agli affetti, di spiacevoli incontri con squallidi figuri gestori della “cultura pubblica”, di incomprensioni anche da parte di chi credevamo avrebbe dovuto capire chi eravamo e cosa stavamo facendo.

Il discorso sulle cause di quello che è, o meglio di quello che non è accaduto, sarebbe lungo e ci porterebbe lontano. Possiamo qui dire che certo è mancato l’incontro tra “quelle” musiche” e “quel” pubblico, che forse un certo isolamento non ha pagato, che una contaminazione con la parte più avanzata della New Wave post punk avrebbe potuto permettere il contatto con un pubblico più vasto, che è mancato il ricambio generazionale rispetto alla prima generazione dei Frith e dei Cutler, o meglio che la seconda generazione non possedeva l’autorevolezza della precedente per assumersi un compito così pesante.

Quali che siano le cause, queste e certamente altre, che hanno a che fare anche con ciò che accade al di fuori dell’ambito musicale, nella primavera del ’97 mettevamo il volto di Dagmar Krause su una copertina viola che avrebbe segnato la fine di Musiche.

Son passati altri dodici anni, per certi aspetti sembra ieri, per altri una vita fa quando Riccardo Pioli e Paolo Chang mi suonarono al citofono alle tre del mattino e partimmo su una R4 rossa (no, non “quella”) diretti a Nancy, per arrivare in tempo e accreditarci al festival.
La comunità dei collaboratori e dei lettori però è ancora viva, molti tra loro continuano a scrivere, a suonare, fanno programmi in radio, due di loro, Beppe Colli (CloudsandClocks) e Sergio Amadori (Hibou, Anemone & Bear) hanno aperto due siti dove continuano a incrociare i fatti della musica, va da sé con modalità affatto diverse, c’è una specie di newsgroup dove ci si confronta, si dibatte, ci si incazza come belve parlando di musica e a volte citando il tale articolo di “Musiche” come fosse uscito ieri, c’è un gruppo di discussione su Facebook, gestito da Massimo Giuntoli, dove si discute di Canterbury o di gesto e significato nelle musiche innovative e a cui partecipano ragazzi che ai tempi di “Musiche” andavano all’asilo.

E allora forse non avevo tutti i torti quando ho scritto:

“Quali sono state le nostre passioni
E dove ci hanno condotto?
La gioia di avere, allora, vissuto
Per una grande idea e per l’umanità
Continua a determinare le nostre decisioni
Anche dopo molto tempo in cui
Gli anni, le sconfitte, i dubbi
Ci hanno reso chiaroveggenti, consapevoli
E senza speranza” [3].



NOTE

[1] Phil Ochs, NO MORE SONGS

[2] La citazione è tratta da A. Carrera, MUSICA E PUBBLICO GIOVANILE, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 219.

[3] G.P.R., ANDIAMO IN GIRO DI NOTTE.



P.S.
Un affettuoso ringraziamento ad Alessandro Achilli, Paolo Chang e Riccardo Pioli, per avermi condotto “In the Land of Grey and Pink”