Parigi, La Découverte, 2007. Trad. italiana di G. Gasparri, STORYTELLING. LA FABBRICA DELLE STORIE, Roma Fazi, 2008
“Innumerevoli sono i racconti del mondo” (Roland Barthes, INTRODUZIONE ALL’ANALISI STRUTTURALE DEI RACCONTI, 1969)
Si potrebbe riassumere con l’esergo barthesiano l’ultimo lavoro di Christian Salmon sull’arte di raccontare storie [1]. STORYTELLING. LA FABBRICA DELLE STORIE studia estesamente, nell’arco di sette capitoli, la presenza della narrazione all’interno di quattro contesti socio-culturali: l’azienda, la politica, la guerra e la propaganda. Inizialmente Salmon incentra la sua trattazione sul mondo del marketing e della gestione d’azienda e passa poi a considerare le storie raccontate dai politici, dagli esperti di propaganda e dagli operatori della comunicazione sugli scenari di guerra, assecondando l’affermazione di Francesca Polletta, secondo cui “lo storytelling si sviluppa in settori inattesi” [2]. Nel primo capitolo (DAI LOGHI ALLA STORY) è analizzata l’evoluzione del marketing in quanto arte della promozione di un prodotto. Salmon mette in luce come, negli ultimi due decenni, alla vendita del bene di consumo propriamente inteso si sia sostituita quella del marchio e come alla obsoleta campagna promozionale si sia sovrapposta, progressivamente e sino a sostituirla, una vera e propria serie di sequenze narrative atte a ‘raccontare’ e, quindi, a proporre e a commercializzare i brands. In questo senso, all’interno di un’azienda, il buon dirigente è anzitutto colui che sa essere un “buon raccontatore” (p. 59) ed è, inoltre, la prima manifestazione tangibile di quella “alleanza tra letteratura e management” (p. 65) che investe molti campi, tra cui quello dell’impresa e, più in generale, dell’economia.
In questa direzione procede il capitolo secondo (L’INVENZIONE DELLO STORYTELLING MANAGEMENT), che evidenzia la funzione essenzialmente comunicativa della figura del manager, il cui ruolo precipuo diviene quello di mobilitare le emozioni del pubblico (tanto quello dei lavoratori d’azienda, quanto quello dei fruitori del prodotto), attraverso una poetica dei racconti condivisi: tali narrazioni sono ideate per essere ugualmente recepite da chi le produce e da chi le fruisce. In questo modo chi racconta una storia mira a creare una nuova dimensione, anche e soprattutto sociale. Salmon la chiama “dream society” (p. 33), un rinnovato contesto comunicativo a cui tende il marketing del Duemila. Il nuovo ordine, stando all’autore del libro, si sarebbe instaurato a partire da un tessuto sociale nel quale dominava l’incomunicabilità, soprattutto all’interno delle aziende. A tal proposito Salmon prende ad esempio la situazione delle fabbriche inglesi del secondo Novecento, nelle quali vigeva un ordine basato proprio sul silenzio. Per meglio descrivere questo fenomeno l’autore cita Michel Foucault, il quale affermava: “Il silenzio […] si spande come una colata lavica in tutte le società della disciplina” (p. 43).
Superata la “fase del silenzio” il racconto ha preso il sopravvento e il ricorso a forme di forzatura della realtà, di cui lo storytelling è una delle massime espressioni, ha prodotto, nel mondo del lavoro, effetti stravolgenti impensabili sino a pochi decenni prima. Si è notata in particolare una marcata “fictionizzazione dei rapporti di lavoro” (p.67), osservata da vicino nel terzo capitolo (LA NUOVA “FANTAECONOMIA”). Tra queste modificazioni del reale Salmon dà conto di vere e proprie distorsioni, operate attraverso lo storytelling, che arrivano sino alla simulazione di mondi fittizi sul luogo di lavoro (è paradigmatico, in questo senso, il caso dei call-centers americani in India, nei quali gli impiegati vivono quasi una vita parallela, americanizzata, creata ad hoc dalle aziende). In questo capitolo i rapporti e le implicazioni tra storytelling e letteratura sono esplicitati, in particolare allorché Salmon cita Italo Calvino e suggerisce i titoli delle sue LEZIONI AMERICANE come “buon riassunto del buon management” (p. 79). In questo modo Salmon cerca di legittimare l’idea secondo cui il moderno storytelling (caratterizzato appunto da leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità e coerenza) rappresenta il miglior veicolo dell’ideologia del cambiamento. La questione viene tuttavia lasciata in sospeso e non più ripresa, laddove avrebbe probabilmente meritato un’investigazione più profonda.
Il mutamento che, soprattutto grazie allo storytelling, investe le aziende nell’era capitalistica viene invece studiato in dettaglio nel capitolo seguente, il quarto (LE AZIENDE MUTANTI DELLA NUOVA ERA DEL CAPITALISMO). Salmon riporta qui il caso del trasloco di un dipartimento dello stabilimento francese della Renault, avvenuto nel 2001. I dirigenti della casa automobilistica ne chiesero un resoconto agli impiegati e agli operai coinvolti, onde ricavarne preziose informazioni circa le dinamiche entro cui si muoveva la modificazione degli assetti societari. Le interviste così realizzate hanno prodotto un grande racconto polifonico che ha coinvolto partecipanti al trasloco e osservatori. Prendendo in prestito il termine dall’etnografia, Salmon chiama questa tipologia di racconto fondata sulla dialettica “jointly told tale”, una storia “a due voci” (p. 82). Il prodotto finito, il racconto, dopo un’opportuna peer-review da parte dei dirigenti, è stato proposto al pubblico: dapprima a quello interno composto dagli altri dipendenti, poi a quello esterno all’azienda, per dimostrare a una audience più ampia una buona immagine di innovazione manageriale della compagnia. Questo esempio di storytelling management mette in luce come in tempi recenti ogni luogo di lavoro sia divenuto ciò che Salmon chiama “storytelling organisation” (p. 87): non si tratta solamente di raccontare storie ai dipendenti, di nascondere la verità con un velo di invenzioni ingannevoli ma, soprattutto, far condividere una serie di credenze che suscitino adesione. Ciò mira - secondo Salmon - alla creazione di una sorta di “mito collettivo vincolante” (p. 87) che conduce lo storytelling a divenire, da un lato, forma di vigilanza all’interno delle aziende e, dall’altro, esemplifica al meglio la loro “pedagogia del cambiamento” (p. 88).
Non sorprende, dunque, che a queste osservazioni seguano tre capitoli che riguardano da vicino politica, guerra e propaganda.
Il quinto capitolo (POLITICA MESSA IN STORIA) analizza la campagna elettorale condotta da G. W. Bush in occasione delle elezioni presidenziali del 2004 e del ruolo in esse giocato dai cosiddetti spin-doctors, funzionari incaricati di volgere la storia (le storie) a vantaggio del candidato presidente. Nati durante lo scandalo Watergate come story-spinners (coloro che creano, attraverso il racconto, una contro-realtà) e poi ampiamente impiegati durante la presidenza Reagan, questi professionisti dello storytelling rappresentano perfettamente quella che Salmon chiama, sintetizzando il pensiero di Roland Barthes, “narrarchia” (p. 102) [3]. Il sistema di potere basato sullo storytelling si adopera in particolar modo per distogliere l’attenzione da qualcosa e convogliarla su altre tematiche. Per questo gli spin-doctors hanno messo a punto la cosiddetta “strategia di Shahrazad” (p. 117), il cui funzionamento è riassumibile con le parole del potentissimo Karl Rove (Deputy Chief of Staff del Presidente Bush Jr. dal 2004 al 2007): “Quando la politica vi condanna a morte, cominciate a raccontare storie così favolose, così accattivanti, così ammalianti che il re dimenticherà la vostra condanna a morte” (p. 119) [4].
Nel successivo capitolo, il sesto, Salmon si concentra sullo “storytelling di guerra” e ne analizza l’impiego all’interno dei processi di diffusione dell’informazione e addirittura di addestramento delle truppe, grazie allo sviluppo del digital storytelling e a nuove forme di realtà virtuale fondate sulla interattività. L’aspetto interessante di questa applicazione della fiction allo scenario di guerra, e dunque a un drammatico spaccato di vita reale, risulta essere il raggiungimento di una sincronizzazione perfetta tra il tempo della narrazione e quello della sua percezione, tra il tempo della fiction e quello della realtà, che sopprime la distanza temporale e simbolica propria di ogni rappresentazione.
Nell’ultimo capitolo (L’IMPERO DELLA PROPAGANDA) sono infine analizzati i meccanismi di diffusione di notizie, con particolare attenzione alla manipolazione delle news da parte della emittente Fox (“Le notizie sono quello che noi vi diciamo che sono”, David Boylan, Fox Tampa Bay, citato a p. 153), secondo cui la realtà viene distorta sino al punto di crearne una nuova. Pare questo, insieme alle conclusioni, il capitolo meno convincente e un poco indebolito dalla mancata chiusura di molte delle argomentazioni aperte nel corso del libro.
In ogni caso lo studio di Salmon dimostra in maniera chiara ed efficace come negli ultimi anni sia nato un “nuovo ordine narrativo” (“NON”) che lui stesso descrive come “formattazione dei desideri e propagazione di emozioni per mezzo della loro messa in narrazione, indicizzazione, archiviazione, diffusione, standardizzazione e strumentalizzazione attraverso tutte le modalità di controllo” (p.169). Sebbene si concentri sulla diffusione dello storytelling in ambiti estranei alla letteratura il saggio di Salmon mostra una fitta rete di rimandi alle teorie narratologiche (Todorov) e semiotiche (Barthes).
Un aspetto molto importante presente in questa trattazione riguarda pure - e avrebbe meritato forse maggiore spazio e attenzione - l’analisi del racconto inteso come insieme di elementi retorici e stilistici. Salmon accenna infatti molto rapidamente alla potenza delle parole e delle immagini utilizzate per raccontare storie e propone l’ossimoro come figura retorica prediletta degli storytellers. La scelta, da parte di chi racconta una storia, della figura di pensiero che accosta due termini in forte antitesi (e incompatibili semanticamente) tra di loro per “raggiungere fasce di consumatori spesso trascurati […] che cercano di conciliare desideri contraddittori” (p. 32), sembra essere una felice intuizione da parte di Salmon. L’ossimoro, infatti, è un espediente stilistico attraverso il quale si produce un’espressione di armonica mescolanza tra gli opposti, ma anche una destabilizzazione dei “riflessi di incredulità o di scetticismo” e contribuisce a creare “un effetto sorpresa in grado di intrigare, sedurre, accattivare” (p. 32). Per concludere, con le sue implicazioni linguistiche, semiologiche e narratologiche, STORYTELLING. LA FABBRICA DELLE STORIE può essere considerato come qualcosa di più di un testo sulle tecniche della comunicazione di massa. Uno stile agile e divulgativo (non inficiato da una traduzione italiana rivedibile) e una serie di preziosi spunti di riflessione, tanto arguti quanto, talvolta, poco sviluppati su un argomento assai complesso quale l’arte del racconto, rendono infatti questo volume un’irrinunciabile aggiunta allo scaffale dello studioso di narratologia.
NOTE
[1] Dopo il successo del quale “Le Monde” ha affidato allo scrittore francese, fondatore, nel 1993, del Parlamento Internazionale degli Scrittori (International Parliament of Writers), una rubrica nella quale discute giornalmente dei fenomeni comunicativi descritti nel suo libro. Di questo gruppo di intellettuali fanno parte, tra gli altri, Salman Rushdie, Jacques Derrida e gli italiani Antonio Tabucchi, Claudio Magris e Vincenzo Consolo. Il cenacolo pubblica annualmente una rivista, “autodafé”, che si occupa del rapporto tra intellettuali contemporanei e società.
[2] F. Polletta, IT WAS LIKE A FEVER. STORYTELLING IN PROTEST AND POLITICS, Chicago, CUP, 2006, p. 1.
[3] Secondo Barthes (MYTHOLOGIES, Parigi, Seuil, 1957), i racconti sono infatti “categorie della conoscenza che ci permettono di capire e ordinare il mondo”.
[4] I. Chernus, ON KARL ROVE’S BEDTIME STORIES FOR AMERICANS, “TomDispatch”, 6-7-2009, www.tomdispatch.com/post/99707.
[Matteo Brera]