01/05/09

Gian Paolo Ragnoli, ALLA RICERCA DI NOMANSLAND. UN RICORDO DI “MUSICHE” (1987/1997), UNA RIVISTA DI ALTRE MUSICHE

“Hello, hello, hello,
Is there anybody home?
I’ve only called to say I’m sorry
The drums are in the dawn
and all the voices gone
And it seems that there are no more songs” [1]

Quando Ochs scrisse questi versi sconsolati, alla fine del sogno degli anni sessanta, sembrava che non ci sarebbero state più canzoni, nel senso, ovviamente, di canzoni che importasse veramente cantare, che significassero qualcosa al di sopra (o al di sotto) del brusio ammiccante della musica di consumo.

Periodicamente torna questo stato d’animo, ma altrettanto periodicamente, anche nei periodi più bui, c’è sempre una No man’s land da scoprire, da attraversare, da decifrare, dove ancora, o di nuovo, esistono suoni e parole che hanno il desiderio di rinominare il mondo.

Gli anni ottanta sono stati una di queste stagioni. Sotto, molto al di sotto della tendenza dominante, neoliberismo, Reagan/Thatcher/Craxi, yuppies, “Milanodabere”, musica fatua riempita di tastiere elettroniche, gel, pantacollant e spalle imbottite, c’era un universo intero, un continente sconosciuto di nuove musiche che non compariva in nessuna cartografia ufficiale.Qualcuno doveva occuparsene.

Il progetto di “Musiche” nasce nella primavera dell’87 a Bologna, con la fondazione dell’associazione Mongezi Feza, intitolata al trombettista sudafricano morto esule in Inghilterra, che inizia subito a organizzare, a Bologna e altrove, concerti di gruppi e musiche di difficile collocazione, fuori dai generi codificati di rock, jazz, classica contemporanea.

L’idea della rivista nasce immediatamente dopo, dalla consapevolezza che c’era un continente sconosciuto a cui dare nome, una mappa da scrivere per segnalare a chi volesse avventurarvisi i pericoli, i porti, gli approdi.

C’era la sensazione che in quel momento si stesse verificando una congiunzione di avvenimenti irripetibili: un nuovo pubblico in formazione, meno rigidamente diviso in generi, più aperto al nuovo, poi il vecchio pubblico del progressive rock e/o del free jazz che in quella fase, per una serie di motivi (anagrafici, carenza di informazioni, fine della “comunità” degli anni settanta) stava abbandonando un interesse attivo per i fatti della musica.

C’erano, in Europa, alcuni piccoli festival, il più importante il Mimi, a Saint Remy de Provence, che tentavano di superare la codifica di genere, che tentavano di aprirsi a soluzioni nuove ed eterodosse, frequentarli ci faceva sentire sintonizzati su un’onda sotterranea che carsicamente ricompariva in superficie, riproponendo in forma aggiornata quei dibattiti su musica e pubblico, su quali forme espressive, quali modalità organizzative prefigurassero un diverso ordine sonoro e di conseguenza un diverso ordine sociale, discorsi troncati bruscamente dalla fine degli anni settanta, del “Movimento”. Insomma ci pareva che il momento fosse “adesso”: c’era la possibilità di gettare un ponte tra la vecchia generazione di ascoltatori, che si stava ritirando in casa a coltivare nostalgie e a collezionare vecchi vinili e il nuovo pubblico che vedevamo affollare i festival, a Saint Remy come a Zurigo, a Vandoeuvre-lès-Nancy come a Chantenay, curioso e a suo agio sia di fronte a impro jazzistiche che a suonatori di ghironda, a clarinettisti compunti o a rocker bizzarri.

Certo né noi né questo pubblico nascevamo dal nulla. Alle spalle c’erano parecchie cose: i movimenti politici degli anni settanta, il progressive rock, la “scuola di Canterbury”, Frank Zappa, il free jazz, la contemporanea meno accademica, il folk revival meno plastificato, riviste come Muzak e Gong in Italia e Impetus in Inghilterra, un libro importante come Musica e pubblico giovanile di Alessandro Carrera, il catalogo della Recommended, stipato di novità inaudite e riscoperte fulminanti, il diffondersi di parecchie piccole e determinate etichette indipendenti, l’idea che la musica fosse/potesse/dovesse essere implicitamente politica.

L’editoriale del primo numero, primavera ’88 metteva esplicitamente le carte in tavola:

“Esistono centinaia di musicisti che hanno scelto la strada dell’autogestione, della resistenza alla divisione totale tra lavoro e creatività imposta dal capitale moderno, senza atteggiamenti romantici o idealisti, ma con la concretezza, la pragmaticità, di chi sa di muoversi su un terreno minato, e la consapevolezza ‘godardiana’ di non voler fare musica politica, ma politicamente.

Di questi intende occuparsi la rivista che avete tra le mani. Senza presunzione, ma cosciente della responsabilità di essere l’unico strumento di documentazione, in Italia, su una rete di relazioni che va facendosi sempre più fitta e polimorfa”.

E più avanti:

“Il nostro terreno favorito di indagine sarà invece quella No man’s land dove le barriere tra i generi mostrano delle falle e le gerarchie si scompigliano, dove le sicurezze stilistiche vacillano paurosamente e le frontiere si fanno mobili e rischiose. Se per addentrarvisi dovremo sporcarci le mani, apprezzare valori spuri come precarietà e approssimazione, non vergognarci del ludico e della parodia, bagnarci di cosmopolitismo e soprattutto essere serenamente coscienti della memoria storica di cui queste musiche sono impregnate, ebbene, vorrà dire che avremo già scoperto molti indizi sul loro funzionamento”.

Da qui a quel “Nirvana for Mice” di cui cantavano gli Henry Cow la strada era già segnata, anche se sfortunatamente tutta in salita.

“Musiche” è nata dall’intuizione di tre persone, Alessandro Achilli, Paolo Chang e Riccardo Pioli, che si sono assunti tutti i ruoli, anche finanziari, necessari all’uscita del primo numero. Il numero dei collaboratori si è immediatamente allargato, a partire dal secondo numero, collegando sintonie politico-culturali e passioni musicali da Bologna a La Spezia, da Milano a Catania, da Roma a Rovereto, ma anche a Parigi, Ulm, Strasburgo.

Si trattava, teoricamente, di un trimestrale, ma se pensate che tra la primavera dell’88 e quella del ’97 sono usciti diciotto numeri vi renderete conto immediatamente di uno dei più grossi problemi che “Musiche” abbia dovuto affrontare, la periodicità aleatoria. Questo non era dovuto a influenze dadaiste o cageane, pur presenti tra redattori e collaboratori, ma al ben più terreno fatto che, essendo la rivista completamente autofinanziata, prima di poter far uscire un nuovo numero era necessario che il precedente fosse rientrato nei costi. Questo rendeva poi praticamente impossibile ottenere pubblicità “pagata”, non potendo garantire i tempi d’uscita, e anche perché le case discografiche “importanti” non apprezzavano il fatto che se un disco non ci piaceva lo si scrivesse chiaro e tondo, quand’anche l’etichetta avesse messo pubblicità sulla rivista. Insomma, non sapevamo stare al mondo, e come direbbe Abbie Hoffmann: “Certo eravamo giovani, eravamo arroganti, eravamo ridicoli, eravamo eccessivi, eravamo avventati. Ma avevamo ragione”.

Questo tratto caratteriale ci ha creato parecchi problemi, con amministrazioni “progressiste”, con organizzatori culturali di rassegne “prestigiose”, insomma con tutti quei numerosi esponenti della tendenza culturale sordista (da Alberto) sintetizzabile nell’eterno slogan “tengo famiglia”. Di fatto quelli con cui abbiamo avuto rapporti, o quelli di cui abbiamo ospitato la pubblicità sulla rivista, erano piccole realtà indipendenti, simili alla nostra, come gli amici di “And”, di “Auditorium”, di “A Rivista Anarchica” e altri desperados fuori e contro l’industria culturale, anche quella di “sinistra”, oppure circoli culturali come l’Arcimboldo di La Spezia, locali come il Ketty Dõ di Bologna, negozi di dischi come Tin Drum, poi Megatalogo, di Sarzana, con i quali collaborammo all’organizzazione di concerti e rassegne.

Se si guardano le copertine dei primi numeri di “Musiche” e si tiene d’occhio la data si capiscono al volo un paio di cose. I primi numeri, tra l’88 e l’89, hanno in copertina Fred Frith, John Zorn, Tenko, Heiner Goebbels e Bill Frisell, all’epoca assai poco conosciuti, con la parziale eccezione di Frith, noto al pubblico di estrazione progressive per la sua lunga militanza negli Henry Cow e poi negli Art Bears. Bene, dieci anni dopo, all’uscita del numero diciotto, che si sarebbe rivelato l’ultimo numero della rivista, Tenko continuava a essere una cantante giapponese poco conosciuta, se non in circoli ristretti, ma Goebbels era diventato uno dei più importanti compositori contemporanei, Zorn e Frisell la nuova faccia del jazz più moderno, multiforme, contaminato e sia Frith che Frisell suonavano con Zorn nei celebrati Naked City. Quello che voglio dire, sintetizzando brutalmente un discorso che altrimenti occuperebbe uno spazio eccessivo, è che tutta un’area di musicisti e di musiche che dieci anni prima era davvero underground, in termini di conoscenza, di popolarità, di possibilità di proporre la propria musica, dieci anni dopo, grazie al lavoro dei musicisti prima di tutto, ma anche di riviste come la nostra, di organizzatori coraggiosi, di qualche giornalista “mainstream” più curioso e avvertito, era uscita dal cono d’ombra e qualche anno dopo aver conquistato la prima pagina di Musiche (o di Revue et Corrigée, il confratello d’oltralpe) e aver spopolato al Mimi o a Vandoeuvre era arrivata a copertine più prestigiose, a sale da concerto più istituzionali e a un pubblico più numeroso. Nulla di inquietante in ciò, è la vecchia storia dei quattro ragazzi che dalle cantine di Liverpool partono alla conquista del mondo, del giovane camionista di Memphis, di È NATA UNA STELLA. La differenza stava nel fatto che questo processo avveniva al termine di un ciclo in cui le istanze più progressive di quel periodo erano state assimilate, e depotenziate, dall’incasellamento, prima inpensabile, nei ruoli del “grande jazzista” (Zorn e Frisell soprattutto), del “grande compositore contemporaneo” (Goebbels, ma non solo, pensate a Michael Nyman o a Gavin Bryars), e i festival prima innovativi cominciavano ad avere difficoltà a esistere e a resistere (il Mimi è stato costretto a continui cambi di sede, ricorrendo altrove la benevolenza di qualche nuovo assessore, da Saint Remy a Saint Martin de Crau, da Arles alle isole Frioul, di fronte a Marsiglia, ma a quel punto avevamo già smesso di andarci) e spesso tornavano a essere, per esempio il Taktlos a Zurigo, “semplici” festival jazz, per quanto di buon livello, o chiudevano per difficoltà economiche, come Chantenay.

C’è ancora un’altra questione: dietro/sotto/intorno a questi musicisti e a questi festival c’era un progetto politico-culturale, o se volete “un’ideologia”, quella di Rock in Opposition, un collettivo di musicisti e di operatori culturali di vari paesi, tutti indipendenti dal punto di vista organizzativo, creativo e produttivo, fondato alla fine degli anni settanta dagli Henry Cow con gli Stormy Six, i Samla Mammas Manna svedesi, gli Univers Zero belgi, gli Art Zoyd e gli Etron Fou Leloublan francesi, che cercava, nell’impeccabile sintesi di Umberto Fiori, di interagire, partendo dalla convinzione che il rock è definito più da un pubblico che da una musica, con quel vasto pubblico giovanile, proponendo una musica che mantenesse il potere di comunicazione del rock innestandovi robuste dosi di innovazione artistica e di opposizione culturale, inserendosi all’interno di quel processo “che in Europa va verso il progressivo superamento dei generi musicali (rock, jazz, canzone d’autore, folk) nella direzione di una musica viva che privilegia il momento del concerto, del contatto immediato con il pubblico, dell’improvvisazione e della libertà creativa” [2].

Non è andata così. Dieci anni dopo era chiaro che alcuni musicisti “ce l’avevano fatta”, altri erano ripiombati nell’underground più oscuro, molte etichette indipendenti avevano chiuso i battenti, i festival stentavano, chiudevano o si erano collocati sotto la rassicurante coperta di un genere. Della generosa utopia di Rock in Opposition restava poco o nulla. Anche “Musiche” ne prese atto, con in più il peso personale di dieci anni di lavoro non retribuito, di tempo strappato agli affetti, di spiacevoli incontri con squallidi figuri gestori della “cultura pubblica”, di incomprensioni anche da parte di chi credevamo avrebbe dovuto capire chi eravamo e cosa stavamo facendo.

Il discorso sulle cause di quello che è, o meglio di quello che non è accaduto, sarebbe lungo e ci porterebbe lontano. Possiamo qui dire che certo è mancato l’incontro tra “quelle” musiche” e “quel” pubblico, che forse un certo isolamento non ha pagato, che una contaminazione con la parte più avanzata della New Wave post punk avrebbe potuto permettere il contatto con un pubblico più vasto, che è mancato il ricambio generazionale rispetto alla prima generazione dei Frith e dei Cutler, o meglio che la seconda generazione non possedeva l’autorevolezza della precedente per assumersi un compito così pesante.

Quali che siano le cause, queste e certamente altre, che hanno a che fare anche con ciò che accade al di fuori dell’ambito musicale, nella primavera del ’97 mettevamo il volto di Dagmar Krause su una copertina viola che avrebbe segnato la fine di Musiche.

Son passati altri dodici anni, per certi aspetti sembra ieri, per altri una vita fa quando Riccardo Pioli e Paolo Chang mi suonarono al citofono alle tre del mattino e partimmo su una R4 rossa (no, non “quella”) diretti a Nancy, per arrivare in tempo e accreditarci al festival.
La comunità dei collaboratori e dei lettori però è ancora viva, molti tra loro continuano a scrivere, a suonare, fanno programmi in radio, due di loro, Beppe Colli (CloudsandClocks) e Sergio Amadori (Hibou, Anemone & Bear) hanno aperto due siti dove continuano a incrociare i fatti della musica, va da sé con modalità affatto diverse, c’è una specie di newsgroup dove ci si confronta, si dibatte, ci si incazza come belve parlando di musica e a volte citando il tale articolo di “Musiche” come fosse uscito ieri, c’è un gruppo di discussione su Facebook, gestito da Massimo Giuntoli, dove si discute di Canterbury o di gesto e significato nelle musiche innovative e a cui partecipano ragazzi che ai tempi di “Musiche” andavano all’asilo.

E allora forse non avevo tutti i torti quando ho scritto:

“Quali sono state le nostre passioni
E dove ci hanno condotto?
La gioia di avere, allora, vissuto
Per una grande idea e per l’umanità
Continua a determinare le nostre decisioni
Anche dopo molto tempo in cui
Gli anni, le sconfitte, i dubbi
Ci hanno reso chiaroveggenti, consapevoli
E senza speranza” [3].



NOTE

[1] Phil Ochs, NO MORE SONGS

[2] La citazione è tratta da A. Carrera, MUSICA E PUBBLICO GIOVANILE, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 219.

[3] G.P.R., ANDIAMO IN GIRO DI NOTTE.



P.S.
Un affettuoso ringraziamento ad Alessandro Achilli, Paolo Chang e Riccardo Pioli, per avermi condotto “In the Land of Grey and Pink”