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INDICE ALFABETICO / INDEX
Le voci elencate qui sotto senza il nome dell'autore sono state scritte da Roberto Bertoni. Foto di Marzia Poerio / Entries listed below without the name of the author were written by Roberto Bertoni. Pictures by Marzia Poerio.
- ACCERBONI, Laura, TRE POESIE. Testi, 7-6-2011.
- CHEN, Jin, 战国 (Zhan Guo) - THE WARRYING STATES. Storie di film di Renato Persòli, 13-6-2011.
- COSEY, LE BOUDDHA D'AZUR. Storie di immaginidi Renato Persòli, 13-6-2011.
- GINSBORG, Paul, SALVIAMO L'ITALIA. Note di lettura, 25-6-2011.
- LELORD, François e ANDRÉ, Cristophe, COMMENT GÉRER LES PERSONNALITÉS DIFFICILES. Notee di lettura di Aurelio Devanagari, 27-6-2011.
- MONTOBBIO, Santiago, ABSURDOS PRINCIPIOS VERDADEROS. Testi con commento, 21-6-2011.
- OBADIA, Lionel, IL BUDDHISMO IN OCCIDENTE. Note di lettura di Aurelio Devanagari, 5-6-2011.
- PIZZI, Marina, VIGILIA DI SORPASSO, 2009-2010 [61-70]. Testo, 3-6-2011.
- RAIMONDI, Daniela, PENELOPE. Testo con traduzione di Anamarìa CROWE SERRANO, 17-6-2011.
- REA, Ermanno, NAPOLI FERROVIA. Note di lettura, 5-6-2011.
- RELIGION AND SOCIETY IN CONTEMPORARY KOREA, a cura di Richard K. Payne e Karen M. Andrews. Note di lettura di Aurelio DEVANAGARI, 5-6-2011.
- TONELLI, Angelo, IL FIUME GENEROSO. Testo, 11-6-2011.
- YI, Mun-yol, 우리들의 일그러진 영웅 (NOTRE HÉRO DÉFIGURÉ). Note di lettura, 9-6-2011.
Rivista in rete di scritti sotto le 2.200 parole: recensioni, testi narrativi, poesie, saggi. Invia commenti e contributi a cartallineate@gmail.com. / This on-line journal includes texts below 2,200 words: reviews, narrative texts, poems and essays. Send comments and contributions to cartallineate@gmail.com.
A cura di / Ed. Roberto Bertoni.
Address (place of publication): Italian Dept, Trinity College, Dublin 2, Ireland. Tel. 087 719 8225.
ISSN 2009-7123
29/06/11
27/06/11
François Lelord e Cristophe André, COMMENT GÉRER LES PERSONNALITÉS DIFFICILES
[The cantankerous and the box angel. (From the walls of Brussels). Foto di Marzia Poerio]
Parigi, Odile Jacob, 2000
Psichiatri e psicoterapeuti, gli autori di questo volume non hanno scritto tanto un manuale di self help come parrebbe suggerire il titolo, quanto piuttosto un libro divulgativo, ma di buona qualità, sui tratti caratteristici e gli atteggiamenti comportamentali delle personalità ispide.
Le tipologie cui viene dedicato più spazio sono quelle ansiose, paranoiche, istrioniche, ossessive, narcisistiche, schizoidi, di tipo A (persone iperattive e competitive), dipendenti, passivo-aggressive, schive.
Di ogni tipologia vengono fornite la mentalità, esempi, indicazioni sul modo migliore di rapportarsi di volta in volta con questa o quella personalità.
Dalla lettura risulta alla fine un campionario dei modi di essere della tarda modernità occidentale: sembra di riconoscere nella personalità istrionica certi leader politici, in quella narcisista certe figure dello spettacolo, ma più in generale il collega, la conoscente, noi stessi forse.
Mi ha colpito questo libro, che non è a sfondo religioso, nondimeno sono io a recensirlo su “Carte allineate”, perché è un repertorio di umanità; e si propone non di etichettare banalmente come nella psicologia comportamentale, bensì di conoscere le modalità dell’essere come nella psicologia cognitiva; infine lo scopo è compassionevole, ovvero quello di imparare a trattare in modo corretto con chi sembrerebbe difficile, così da trarne e offrirne beneficio favorendo la convivenza col prossimo. Il volume si chiude con riflessioni sulle opportunità del cambiamento.
[Aurelio Devanagari]
25/06/11
Paul Ginsborg, SALVIAMO L'ITALIA
Torino, Einaudi, 2010
Il primo capitolo si intitola con una domanda retorica: “Vale la pena salvare l’Italia?” Un paese che presenta, da un lato, nonostante il calo recente, livelli di politicizzazione tra i più alti in Europa, ma ha “uno scarso senso della nazione” e delle istituzioni (p. 16); è tuttora caratterizzato, soprattutto dopo i fallimenti del 1992-93, come li definisce Ginsborg, da alti livelli di corruzione ed è “uno dei più diseguali tra i paesi capitalisti avanzati” (p. 19).
In positivo, e come aspetti da incrementare, Ginsborg vede la “tradizione di autogoverno urbano”, la “vocazione europea”, la “ricerca dell’eguaglianza” e la “mitezza come virtù sociale” (p. 46): quattro fattori che appartengono alla storia italiana e sono stati non poco dissipati negli ultimi decenni, pertanto dovrebbero rinascere e rifondarsi per portare l’Italia verso un progetto di modernità autentica.
I limiti più evidenti del paese sono invece: una “Chiesa troppo forte in uno stato troppo debole” (p. 86); l’“ubiquità del clientelismo” (p. 95); la “ricorrenza delle dittature” (p. 102) (paragrafo in cui, come già in un suo libro precedente, Ginsborg stila paralleli tra i metodi di ricerca del consenso mussoliniani e berlusconiani); la “povertà delle sinistre” (p. 108), ovvero la difficoltà a dare una risposta efficace alle problematiche di cui sopra.
La proposta pratica di Ginsborg è quella di un’attivazione dei ceti medi urbani, dato che costituiscono il 60% della popolazione, nei loro strati socialmente utili in modo da assumere un sempre più consapevole ruolo di trasformazione.
[Roberto Bertoni]
Il primo capitolo si intitola con una domanda retorica: “Vale la pena salvare l’Italia?” Un paese che presenta, da un lato, nonostante il calo recente, livelli di politicizzazione tra i più alti in Europa, ma ha “uno scarso senso della nazione” e delle istituzioni (p. 16); è tuttora caratterizzato, soprattutto dopo i fallimenti del 1992-93, come li definisce Ginsborg, da alti livelli di corruzione ed è “uno dei più diseguali tra i paesi capitalisti avanzati” (p. 19).
In positivo, e come aspetti da incrementare, Ginsborg vede la “tradizione di autogoverno urbano”, la “vocazione europea”, la “ricerca dell’eguaglianza” e la “mitezza come virtù sociale” (p. 46): quattro fattori che appartengono alla storia italiana e sono stati non poco dissipati negli ultimi decenni, pertanto dovrebbero rinascere e rifondarsi per portare l’Italia verso un progetto di modernità autentica.
I limiti più evidenti del paese sono invece: una “Chiesa troppo forte in uno stato troppo debole” (p. 86); l’“ubiquità del clientelismo” (p. 95); la “ricorrenza delle dittature” (p. 102) (paragrafo in cui, come già in un suo libro precedente, Ginsborg stila paralleli tra i metodi di ricerca del consenso mussoliniani e berlusconiani); la “povertà delle sinistre” (p. 108), ovvero la difficoltà a dare una risposta efficace alle problematiche di cui sopra.
La proposta pratica di Ginsborg è quella di un’attivazione dei ceti medi urbani, dato che costituiscono il 60% della popolazione, nei loro strati socialmente utili in modo da assumere un sempre più consapevole ruolo di trasformazione.
[Roberto Bertoni]
23/06/11
Cosey, LE BOUDDHA D'AZUR
Marcinelle, Dupuis, 2011
Questo romanzo a fumetti disegnato con chiarezza e realismo senza cadere nel grossolano attraversa due generazioni tra il Tibet prima e dopo l'occupazione cinese; articolando una leggenda (quella del Buddha Azzurro e della Lhal, o fanciulla consacrata); delineando una storia d'amore e una scelta mondana rispetto a quella della vita religiosa, ma senza rinunciare ai principi del Buddhismo; infine evidenziando l'uso politico della religione da parte delle autorità.
L'elemento avventuroso non manca, anche se non invade le pagine, anzi è il collante dell'intreccio, in sintonia col genere fumetto cui il testo logicamente appartiene.
Si tratta di un'altra manifestazione di orientalismo in positivo, cioè con ammirazione per la cultura rappresentata, qui quella appunto tibetana in contatto tanto con quella occidentale (uno dei protagonisti è inglese), quanto con quella cinese (giudicata, in funzione al suo rapproto col territorio di occupazione, in negativo per l'invasione, ma non senza possibilità di rapporti umani che superino gli schemi ideologici e instuarino comunicazione, come nel caso della ragazzina cinese che si sostituisce alla Lhal e le consente la fuga).
Si legge con facilità, ma non è banale.
I colori delle vignette sono nitidi e i tratti gradevoli.
[Renato Persòli]
Questo romanzo a fumetti disegnato con chiarezza e realismo senza cadere nel grossolano attraversa due generazioni tra il Tibet prima e dopo l'occupazione cinese; articolando una leggenda (quella del Buddha Azzurro e della Lhal, o fanciulla consacrata); delineando una storia d'amore e una scelta mondana rispetto a quella della vita religiosa, ma senza rinunciare ai principi del Buddhismo; infine evidenziando l'uso politico della religione da parte delle autorità.
L'elemento avventuroso non manca, anche se non invade le pagine, anzi è il collante dell'intreccio, in sintonia col genere fumetto cui il testo logicamente appartiene.
Si tratta di un'altra manifestazione di orientalismo in positivo, cioè con ammirazione per la cultura rappresentata, qui quella appunto tibetana in contatto tanto con quella occidentale (uno dei protagonisti è inglese), quanto con quella cinese (giudicata, in funzione al suo rapproto col territorio di occupazione, in negativo per l'invasione, ma non senza possibilità di rapporti umani che superino gli schemi ideologici e instuarino comunicazione, come nel caso della ragazzina cinese che si sostituisce alla Lhal e le consente la fuga).
Si legge con facilità, ma non è banale.
I colori delle vignette sono nitidi e i tratti gradevoli.
[Renato Persòli]
21/06/11
Santiago Montobbio, ABSURDOS PRINCIPIOS VERDADEROS
[Looking at the past from shining metal into stone (Paris, 2011). Foto di Marzia Poerio]
Santiago Montobbio, ABSURDOS PRINCIPIOS VERDADEROS. El Vendrell, March Editor, 2011
Questa raccolta di Montobbio contiene testi datati fin dal 1987 e si distingue per la coerenza con cui il percorso poetico è stato perseguito negli anni senza venir meno alla caratteristica, già da allora presente, di connubio tra elementi biografici dati indirettamente (e tanto più validi per la reticenza a rappresentare non la fattualità, bensì la situazione, universalizzandola) e simbolizzazione di aspetti esistenziali e archetipici tramite il ricorso agli elementi naturali.
L’acqua, la pietra, il fuoco, la terra e i riferimenti alla luce si dispongono, come li osserverebbe Bachelard, su un fondo semantico che ha un’autonomia allegorica mentre intanto acquisisce una forma e la trasmette ai testi, che spesso parlano, metaletterariamente e in aggiunta a quanto fin qui notato, della figura e degli scopi del poeta e del fare poesia.
Il difficilmente dicibile, per non cadere in páthos e verbosità, viene reso con fermezza, o ironia, o malinconia, ma non con cedimenti al grido romantico, così in particolare per quanto riguarda Amore e Morte.
La memoria sa di essersi attivata, ma i mai e le perdite, in breve un nulla costruttivo, un non oblio corredato da silenzio sul concreto del passato, prevalgono.
Le emozioni, al contempo, vengono espresse e comunicate proprio per mezzo di questi meccanismi composti e austeri, senza peraltro chiudersi nel gelo, scorrendo anzi nella melicità dei testi.
Qui di seguito tre componimenti brevi dalla raccolta.
[RB]
1.
EN EL SUEÑO PÀJARO, DE LA REALIDAD MENDIGO
mis ojos no han de anunciar la tierra
ni tener forma de espada
que haga del olvido olivo.
A mis ojos no les queda por perder ni una batalla
y un lento fuego solo puedo hacer de ellos
ahogadas cajas de música para ver
si tontamente cantan
que en clave de insomnio
te regalo un miedo.
2.
El poeta más que mentir anuncia
y a la vez retarda. Por disfraces
de papel la llegada
de la sangre atrasa
pero los disfraces son
semilla de mortaja: no
se conjuga
el adiós en el futuro. Y acaso un día
no fue así el azul o el beso, si alguien más
que un derruido fantasma en la memoria muerde.
Si alguien más, o si un sol crujiente
adentro un niño, así no fue, no pudo.
Pero no recuerdo, y es
el nunca mi terreno.
3.
PARADISE
No es que en mis cantos no haya
ningún paraíso, todo lo que pasa es que dicen
que se ha perdido.
19/06/11
RELIGION AND SOCIETY IN CONTEMPORARY KOREA, a cura di Richard K. Payne e Karen M. Andrews
[Shamanic totems (Seoul 2010). Foto di Marzia Poerio]
RELIGION AND SOCIETY IN CONTEMPORARY KOREA, a cura di Richard K. Payne e Karen M. Andrews, Berkeley, Institute of East Asian Studies, University of California, 1997
Tra i molti e tutti interessanti capitoli di questo volume, che fa il punto sulla situazione di pluralismo religioso della Corea, soprattutto sulle religioni cristiana, buddhista e confuciana che, come osserva Yoon Yee-heum nel suo contributo, THE CONTEMPORARY RELIGIOUS SITUATION IN KOREA, sono diffuse tutte e tre e nessuna pare prevalere (p. 1), se ne scelgono qui tre, per brevità necessaria di questo post e per curiosità più personale che per motivazioni di altro tipo: Choi Chungmò, HEGEMONY AND SHAMANISM: THE STATE, THE ELITE, AND SHAMANS IN CONTEMPORARY KOREA; John Duncan, CONFUCIAN SOCIAL VALUES IN CONTEMPORARY SOUTH KOREA; e Shim Jae-ryong, BUDDHIST RESPONSES TO THE MODERN TRANSFORMATION OF SOCIETY IN KOREA.
L’analisi dello sciamanesimo di Choi si prospetta particolarmente stimolante per un lettore italiano, dato l’utilizzo di categorie gramsciane. Riscontrando l’esistenza di pratiche sciamaniche come componente religiosa perdurante nella modernità, ma esistente in Corea fin dalla preistoria, viene evidenziato l’uso ideologico dello sciamanesimo da parte delle giunte militari del periodo della dittatura successiva al 1961, intese a dominare tramite il consenso, gramscianamente.
Un aspetto dell’egemonia, fondato su quello che Geerz indica come importante sentimento di simbolizzazione dell’elemento primordiale nelle società in corso di modernizzazione, è stato in Corea proprio lo sciamanesimo, inteso come un aspetto delle proprietà culturali, o immateriali, della nazione, sancite da una legge del 1962 e usate come una maniera di rivolgersi alle classi popolari, soprattutto a quelle rurali ed ottenerne il sostegno rivitalizzandone le tradizioni.
Nondimeno, nei confronti dello sciamanesimo gli atteggiamenti dello stato durante la dittatura variarono e furono caratterizzati anche da contraddizioni, in quanto venivano soppresse le pratiche superstiziose mentre si incoraggiavano le ascendenze culturali:
“Under these circumstances, shamans in Korea faced two opposing forces: the government's promotion of shamanic rituals as Important Intangible Cultural Properties and, simultaneously, the suppression of shamanic healing practices. While some shamans were honored as Human Cultural Treasures and became superstar shaman artists, the lesser-known neighborhood shamans were frequently harassed by the police” (pp. 26-27).
Si ha così, secondo Choi, la trasformazione della tradizione sciamanica, con distruzione del suo significato originario e la sua ristrutturazione mercificata e modernizzata.
A partire dagli anni Ottanta, invece, dello sciamanesimo si riappropriarono i gruppi progressisti e utopisti. Un esempio di questa neo-tradizione è il “madang-guk”, una forma di teatro di protesta che congiunge i rituali sciamanici col teatro popolare. La figura dello sciamano viene a rappresentare un tramite tra il popolo e l’aspirazione al cambiamento:
“Revolutionaries employ shamanism as a cultural frame for their reform movement. The shaman's lowly social status is compared with that of oppressed people. The shaman, however, has overcome the physical and spiritual trauma caused by spirit possession and social segregation. Through this very suffering, a shaman has developed sympathy and insights into the lives of oppressed people. Furthermore, a shaman brings the problems of individuals to the attention of community members. During rituals, shamans mediate and eliminate the distance between humans and gods and between individuals and their alienated neighbors. In the revolutionary mind, the shaman is at once a symbol of oppressed people and a savior” (p. 34).
Quanto al capitolo di Duncan, si misura col confucianesimo, uno dei sistemi ideologici che più hanno influito sulla Corea contemporanea e che viene costantemente citato per spiegare, non solo in Corea, ma anche in altri paesi orientali, soprattutto in Cina, alcuni aspetti dello sviluppo. Duncan nota l’interesse confuciano per l’istruzione, il trasferimento di tale valore dall’aristocrazia coreana preindustriale sulle classi medie sudcoreane dello sviluppo, con applicazione all’apprendimento di nuove tecnologie occidentali, ma non solo. Al contempo parevano sopravvivere, ancora negli anni Novanta, i valori confuciani dei rapporti familiari e della dedizione filiale, come pure la lealtà e la dedizione al lavoro.
Si assisteva al contempo a una trasformazione del confucianesimo in modo tale che potesse adattarsi alla modernizzazione:
“The personal virtues of sincerity (sŏngŭi), humility (kyŏmson), frugality (kŏmso), and self-restraint (chaje) are still upheld by some individuals, but these values are better suited to the rural scholar than to the urban businessman, and they, too, seem to be increasingly ignored as South Korean society heads down the path of commercialization and conspicuous consumption. These trends seem to suggest that as a general rule Confucian values have survived where they have been compatible with the needs of modernization and have declined where they are not” (p. 50).
Non potevano più sussistere determinati valori in una società in cui si sono modificati aspetti intrinseci di portata ideologicamente ampia come l’emancipazione femminile ed estrinseci quali il codice di vestiario. Nondimeno, l’autore di questo capitolo nota la sopravvivenza dell’etica sociale e familiare confuciana negli anni Novanta e la ascrive vuoi allo scarto culturale, per cui certi elementi si evolvono tramite sradicamento e altri tramite adattamento, vuoi al rapporto tra stato e confucianesimo, al fatto cioè che l’ottica confuciana, soprattutto il senso della gerarchia, venne utilizzata come strumento politico non troppo difforme dalla “long tradition of official inculcation of Confucian values for political purposes” della Corea anche premoderna (p. 53).
Infine il capitolo di Shim sul budddhismo nella modernità dimostra come anche in Corea questa religione si sia rivelata flessibile, capace di adattamenti, manifestandosi come categoria di valori pratiche appartenenti a una mentalità riemergente sotto forma di altruismo e di Buddhismo della liberazione (minjung pulgyo), diffusa anche, sull’onda dell’influsso del Cristianesimo e del liberalismo politico, tra i ceti intellettuali:
“Educated intellectuals and radical activists see that society is undergoing large-scale industrialization. They are trying to revive the Buddhist consciousness, which aims to eradicate human suffering. Partly motivated by competition with Christianity, which follows Latin American liberation theology, and partly energized by the traditional Mahāyāna bodhisattva spirit of helping and saving all beings, there has arisen among the educated class a renewed interest in Buddhist philosophy and Sŏn meditation” (pp. 82-83).
Secondo Yoon, al momento in cui questo volume fu scritto, negli anni Novanta, “Confucianism remains the most pervasive of the traditions, but we can hardly say that it represents contemporary Korean culture. The nation is at the moment caught in a chaos of conflicting values. This chaos has occurred in the process of Western culture, including Christianity, being transplanted into Korea. The situation is made more intense by the decline of the Confucian worldview” (p. 14).
[Aurelio Devanagari]
17/06/11
Daniela Raimondi, PENELOPE
["There’s gold pouring in the street". Foto di Marzia Poerio]
PENELOPE
"ma la vecchia salì al piano alto, gridando di gioia,
per dire a Penelope che il suo sposo era in casa; …
Le stette sopra la testa e le diceva parola:
'Sveglia, Penelope, creatura cara, vieni a vedere
con gli occhi tuoi quello che invochi ogni giorno.
È venuto Odisseo, è in palazzo, finalmente tornato.'"
[ODISSEA, Libro ventitreesimo]
Che non chieda di me.
La mia vita non cambia se sento la sua voce.
Le parole non servono quando si è visto il mare.
Le parole d’amore appartengono ai poeti,
ai pazzi, o agli dei.
Non mi cercate
anche se il cane riconosce il passo di un re lungo il sentiero,
anche se tace il canto a lutto degli uccelli.
Per vent’anni ho atteso la sua voce.
Sola
china su un grumo di ricordo.
Stringevo pietre fra le mani,
il sangue mi brillava in viso come una ferita.
Per troppe notti ho cercato la sua ombra.
Mi accarezzavo sognando il movimento dei suoi fianchi,
i lombi che marcavano il cammino del piacere.
E ogni notte pensavo alla sua gloria contro le mie miserie,
alle sue cosce avvinghiate ad una dea di là dell’acqua.
Le capre morirono da tempo sopra i monti.
Gemevano ogni notte, sole
le mammelle fatte sassi, il latte inutile.
Ah il tempo, il tempo!
Le mie ossa piegate,
l’onore che mi legava i polsi.
Ah i fianchi tristi,
la mia bocca di calce!
Meglio crederlo morto adesso.
Meglio cullare l’odio fra le braccia
come fosse un figlio.
Che non chieda di me.
Non ho più nome, io non ho memoria.
Conservo l’armatura, lo scudo, la corona.
E i vasi d’olio, i lini per l’alcova.
Ma è tardi adesso.
La vite è secca,
negli occhi ho pozze di terra.
Sprangate quelle porte.
Tornate quando è l’ora della cena,
quando il falco vola alto sopra la montagna.
Lasciate che mi chiami.
Ho chiuso il corpo
gli occhi
tutte le finestre.
Fuori l’oro cola nelle strade.
Qui è la notte.
PENELOPE
'but the old nurse went up to an upstairs room, shouting for joy,
to inform Penelope that her husband was back in the house…
She stood beside her lady’s head and spoke to her:
"Wake up, Penelope, my dear child, so you can see
with your own eyes what you’ve been wishing for every day.
Odysseus is back, he’s in the house, finally home"'
[ODYSSEY, Book twenty three]
He needn’t ask a thing of me.
My life won’t change just because I hear his voice.
Words won’t do when you’ve seen the sea.
Love words belong to poets,
to mad men, or the gods.
Don’t come looking for me
even if the dog recognizes a king’s footstep along the path,
even if the birds stop their dirge.
Twenty years I waited for his voice.
Alone
slumped over clotted memory.
I clung to stones,
the blood glistening on my face like a wound.
Too many nights I searched for his shadow.
I’d touch myself dreaming of the movement of his hips,
loins that mapped the path to pleasure.
And every night I thought of his glory and my despair,
of his thighs wrapped round a goddess beyond the waves.
The goats on the mountains are long dead.
They whined every night, alone
their udders turned to stone, their milk gone to waste.
Ah, time, time!
My bones breaking,
honour binding my wrists.
Ah, my sad hips,
my calcified mouth!
I’d rather think him dead now.
Cradling hatred in my arms
as if it were a child.
Let him ask nothing of me.
I no longer have a name, I have no memory.
I’ve kept the armour, the shield, the crown.
And the jars of oil, the linen for the alcove.
But it’s too late now.
The vine has withered,
my eyes have become clay pits.
Bolt those doors.
Come back at supper time,
when the falcon flies high over the mountain.
Let him call me.
I’ve shut my body
my eyes
all the windows.
Outside there’s gold pouring in the streets.
In here it’s the dead of night.
[Traduzione di Anamarìa Crowe Serrano]
NOTA
La poesia è tratta da INANNA, Faenza, Mobydick, 2006.
15/06/11
Lionel Obadia, IL BUDDHISMO IN OCCIDENTE
[ Museum of Buddhist Art (Seoul 2010). Foto di Marzia Poerio]
Lionel Obadia, IL BUDDHISMO IN OCCIDENTE. Bologna, Il Mulino, 2009
Dialogando con un’ampia bibliografia, che comprende tra gli altri gli studi francesi di Droit, Faure, Lenoir e Vernette, questo libro di Obadia fa il punto sulla ramificazione occidentale del Buddhismo.
Uno degli aspetti della diffusione in Occidente è l’aspetto di orientalismo (p. 10).
La storia del Buddhismo in Occidente è, almeno in parte, “la storia della costruzione di una sua rappresentazione in un particolare immaginario”, che si può distinguere in tre modalità: “quella esoterico-leggendaria, quella razionalistico-letteraria e quella coloniale-utopistica” (p. 42).
Dall’Ottocento agli inizi del Novecento, “uno dei tratti più costanti delle interpretazioni del Buddhismo consiste nel non riconoscergli lo statuto di religione. Questo argomento, uno dei temi classici dell’orientalismo erudito ottocentesco, si ripresenta con forza alla fine del Novecento per giustificare il successo del Buddhismo nelle società occidentali moderne” (p. 45).
Dagli anni Novanta in poi, la “buddhofilia” occidentale (p. 18) è dovuta a vari fattori, tra cui “l’attualità del messaggio buddhista che ‘parla’ a una società postindustriale e moderna” (p. 19), coincidendo in parte con l’antimaterialismo e il rigetto del consumismo di determinati gruppi sociali e individui (p. 67), e in oarte rispondendo al “diritto alla felicità” espresso dalle ideologie occidentali e in funzione delle quali il Buddhismo si presenterebbe come un risposta che combina l’adeguamento simultaneo al “benessere materiale” e allo “spirito” (p. 93). Se ciò provocò una coincidenza parziale col movimento New Age negli anni Ottanta, si è assistito in seguito a una presa di distanza da parte dei buddhisti (p. 68). Permane comunque una doppia caratteristica: da un lato quello della tradizione, dall’altro quello di nuovo culto tra le religioni intervenute nell’Occidente negli ultimi decenni (p. 79).
Elemento importante degli ultimi decenti è stato il “processo di traduzione”, sia in termini di trasposizione culturale che di resa in lingue occidentali dei testi (p. 41).
Obadia cita il modello di “trapianto” di Martin Baumann e quello di Jan Nattier basato trasporto per migrazione di buddhisti asiatici, importazione da parte di occidentali ed esportazione ovvero opera di diffusione cosciente.
Tra le scuole più presenti, si trovano il theravada (iorca un terzo degli adepti in Francia), il buddhismo Zen e quello tibetano.
La tendenza attuale parrebbe quella verso un “Buddhismo moderno” e “universale”, che dialoga con le altre religioni occidentali (soprattutto il Cristianesimo), ha aspetti di impegno (ecologico, per esempio); e, come sostiene Harvey Cox, rappresenta un “nuovo umanesimo” (p. 113).
[Aurelio Devanagari]
13/06/11
Chen Jin, 战国 (Zhan Guo) - THE WARRYING STATES
[Detail of palace (Brussels, 2011). Foto di Marzia Poerio]
Cina, 2011. Con Honglei Sun, Kiichi Nakai, Kim Hee-Seon, Francis Ng, Tian Jing
Il titolo si riferisce al periodo di guerre tra stati rivali anteriore all'unificazione della Cina sotto la dinastia Qin nel 221 a.C.
Vari elementi rispecchiano la vicenda storica, o per lo meno alcune delle sue ricostruzioni. Tra questi abbiamo l'esistenza del protagonista Sun Bin e del suo rivale e condiscepolo Pang Juan, nonché le dinamiche della lotta intestina tra gli stati di Qi e Wei.
Al contempo, questo film spettacolare, ed epico in parte, in parte melodrammatico, si ammanta di leggenda, con concessioni tanto al clamore delle battaglie, quanto alla delicatezza dei sentimenti familiari e amorosi.
La vicenda. Sun Bin viene attratto dallo stato di Qi in quello di Wei da Pang Juan che, ordita una congiura nei suoi confronti, la fa accusare di tradimento e torturare, senza con ciò riuscire a persuaderlo a trascrivere l'ARTE DELLA GUERRA, tramandatagli dal maestro di entrambi, Gui Guzi. Tian Xi, principessa di Qi, innamoratasi di Sun Bin, a sua volta coinvolto emotivamente con lei, riesce a liberarlo. Sun Bin sarà lo stratega della spedizione che distruggerà le forze di Wei guidate da Pang Juan. Per amore, reso invalido dalle torture subite, si getterà da una rupe, disperando di poter mai convolare a nozze con l'amata, ma morendo tra le sue braccia prima che costei sia in grado di annunciargli che il re di Qi concede loro di sposarsi. La sorella di Pang Juan si uccide dandosi alle fiamme per aver fallito nell'opera di dissuasione dall'impresa bellica contro lo stato di Qi.
Lacrime, lavorio dell'intelligenza, paesaggi grandiosi e scene di battaglia, dinamismo di tutti gli attori protagonisti e soprattutto di Tian Jing (nella parte di Tian Xi), esordiente dalla tv nel cinema proprio con questa pellicola.
[Renato Persòli]
11/06/11
Angelo Tonelli, IL FIUME GENEROSO
[Rather the night than dawn on that river. Foto di Marzia Poerio]
Il fiume è generoso, il dio del fiume, che distilla
una quiete da aurora primordiale
quando il sole trionfa, nell’estate
serena delle ali dispiegate
in piena libertà tra acqua e cielo,
azzurri, conciliati in perfezione
di anima e di spirito, musica
vivente di minuscole e maiuscole
creature delle altezze e degli abissi.
Il fiume è generoso, il dio del fiume,
con il poeta che soggiorna ore e giorni
a contemplarne il flusso senza fine
che trabocca, all’orizzonte, in altre acque.
Guizzano uccelli blu cobalto in controsole.
Già si placano
le grida dei gabbiani, si avvicina
dalle gole dei monti la notturna
madre dei viventi, golfo sacro
per il palpito lontano delle stelle.
09/06/11
Yi Mun-yol, 우리들의 일그러진 영웅 (Uridurui ilkurojin yongung), NOTRE HÉRO DÉFIGURÉ
[Perplexed figure (Brussels Oriental Museum, 2011) . Foto di Marzia Poerio]
1987. Traduzione di Ch'oe Yun e Patrick Majavascript: Saint-Amand-Montrond (Cher), Babel, 1993
Questo romanzo breve di Yi Munyol (nato nel 1948) ha lasciato traccia tra la narrativa sud-coreana contemporanea e ne è stato anche tratto un film per la regia di Park Jong-won (1992).
La storia, nel testo di Yi Munyol, narrata in prima persona, è quella di Han Pyong-t'ae, un ragazzo della classe medio alta seulita, il cui padre, funzionario statale, è stato inviato per motivi politici in provincia. Il protagonista, lasciata così la scuola d'élite che frequentava nella capitale, si ritrova in un istituto regolato da principi meno avanzati, basati ancora su una gerarchia in cui il capoclasse, Sokdae, tramite una serie di alleanze e intimidazioni tra i compagni di classe e con la protezione, pur inconsapevole, basata cioè sull'incapacità di vedere le ingiustizie, dell'insegnante, sottopone il narratore come tutta la scolaresca ad angherie e prepotenze, ottenendo in più il migliore profitto in funzione di un sistema diciamo così clientelare, in base al quale si fa di volta in volta passare i compiti dai ragazzi migliori in ogni materia. La situazione, dapprima ostacolata dal narratore, si evolve con una sua iniziale sconfitta, dato che, per il fatto di trovarsi in minoranza tra gli studenti e per l'impossibilità di far credere alle autorità scolastiche le prepotenze di Sokdae, si adatta anch'egli alla gerarchia esistente, se non altro per quieto vivere. Soltanto in seguito, con la sostituzione dell'insegnante e l'arrivo di un docente più giovane e dai metodi più democratici, l'ingiustizia viene identificata, infine punita, mentre gli alievi ritrovano unità tra di loro e vincono il timore. La storia si conclude anni dopo, quando Pyong-t'ae, già laureato e sposato, incontra casualmente su un treno Sokdae e lo vede arrestare per un reato.
Abbiamo riassunto in questo modo anche per mostrare come questo romanzo breve sia un'allegoria del potere, metta in rilievo la costruzione di una barriera di prepotenza basata sull'intimidazione e l'adulazione ("la forza e il consenso", come scriveva Gramsci a proposito delle dittature); e come solo la fiducia nei valori della democrazia, dell'avanzamento per merito soltanto e della giustizia possano scuotere l'assolutismo e ricreare alleanze e solidarietà tra i cittadini.
Oltre al sostrato allegorico, costruito senza didattismo, perciò tanto più efficace, si ha qui naturalmente un romanzo di formazione, ben reso attraverso gli occhi di ragazzo del protagonista, non tuttavia infantilizzato, la cui voce non adultificata non ha niente di banale, è anzi una lezione di vita appresa fin da un'età in cui le illusioni, anziché persistere, si disgregano anzitempo.
[Roberto Bertoni]
07/06/11
Laura Accerboni, TRE POESIE
1.
No,
neanche questa notte
ci salveremo:
di noi
si domanderanno
incerti,
i cieli futuri,
quale colpa
e quale inganno
hanno reso
questi sogni
né cosa viva
né cosa morta?
2.
Non mi vedi più
eppure mai sono stato.
Sono solo creazione
della tua mano
non parte della tua nascita.
Ho giocato con la costola
del primo uomo.
Avvicina l’occhio
alla stanza:
dove sono gli angeli
che ti ho donato?
3.
Vi dico
che i fossi sono
ormai addormentati
sotto ciò che tranquillizza l’uomo
nelle sue vesti di ritorno.
Ora non è più l’andare
nuovamente e ancora
nell’eterno,
che non è più il restare
dei ritrovati.
Annegare nella terra
non è
che un voltarsi degli occhi
che si riprendono
al loro margine
naturalmente.
No,
neanche questa notte
ci salveremo:
di noi
si domanderanno
incerti,
i cieli futuri,
quale colpa
e quale inganno
hanno reso
questi sogni
né cosa viva
né cosa morta?
2.
Non mi vedi più
eppure mai sono stato.
Sono solo creazione
della tua mano
non parte della tua nascita.
Ho giocato con la costola
del primo uomo.
Avvicina l’occhio
alla stanza:
dove sono gli angeli
che ti ho donato?
3.
Vi dico
che i fossi sono
ormai addormentati
sotto ciò che tranquillizza l’uomo
nelle sue vesti di ritorno.
Ora non è più l’andare
nuovamente e ancora
nell’eterno,
che non è più il restare
dei ritrovati.
Annegare nella terra
non è
che un voltarsi degli occhi
che si riprendono
al loro margine
naturalmente.
05/06/11
Ermanno Rea, NAPOLI FERROVIA
[Railway tracks (not in Naples, though). Foto di Marzia Poerio]
Ermanno Rea, NAPOLI FERROVIA. Milano, Rizzoli, 2007
Il procedimento narrativo è in parte simile a quello della DISMISSIONE, con un narratore in prima persona e un interlocutore, il quale ultimo, questa volta, si presenta nel corso del libro come reale, un frequentore delle zone adiacenti alla stazione di Napoli, soprannominato Caracas, ma la sua esistenza viene messa in dubbio, negata cioè e poi affermata, lasciando così spazio alla confusione sullo statuto del personaggio: "Caracas non è mai esistito; forse mi sono inventato ogni evento di sana pianta" e "Chi mi conosce sa che non mi sono inventato nulla. Figurarsi un personaggio come Caracas!" (p. 357).
Vero o meno che sia Caracas, o il suo modello reale, è vero che rappresenta un prototipo di antitesi del narratore in prima persona, i cui dati biografici riflettono in parte quelli dell'autore. In questo gioco di prospettive già è insito un metalinguaggio letterario.
Nondimeno l'argomento del libro è Napoli, sul piano saggistico e memoriale che coesiste con quello narrativo e dialogico.
Una città ricordata soprattutto negli anni Quaranta e Cinquanta e comparata a quella odierna e ai suoi elementi di degrado. Un apagina su una macchina fotografica regalata al narratore in prima persona dal padre sembra indicare non solo una passione per la fotografia, ma lo scopo e la forma di qeusto libro: "il mio senso soprattutto visivo, fenomelogico del mondo. E cominciai a fotografare la città, modella perfettamente disinibita del dolore e della gioia, sempre piena di scorci ineffabili, di volti intensamente espressivi, di situazioni paradossali [...]. Ogni fotografia costituiva un passo avanti nel processo di conoscenza di me stesso attraverso la città. O forse la città svestita, penetrata, scandagliata dai miei occhi insaziabili" (p. 245).
La soggettività narrante evoca momenti dellla propria adesione al comunismo e di quella del padre, mentre l'interlocutore e antitesi si dichiara nazista e si rivela contraddittorio combinando l'ideologia di destra con la conversione all'Islam e la comprensione della povertà, protagonista inoltre di una pietosa storia d'amore con una ragazza eroinomane.
Come se Rea tentasse di dialogare con l'opposto più che di esorcizzarlo evitandolo, frattanto tentando di comprendere la modernità tarda e caotica.
[Roberto Bertoni]
03/06/11
Marina Pizzi, VIGILIA DI SORPASSO, 2009-2010 [61-70]
61.
era talmente in darsena finire
che quando avvenne l’epopea del sangue
nessuno accorse a liberare l’angelo
bene d’occaso da molto tempo dentro
dentro il lutto che ci rimembra vivi.
nuca di soqquadro rigore e vuoto
stare dalle parti delle aureole festive
senato chiuso in un balbettio di sfingi.
i fiori sull’orchestra sono infiniti
abiti di quiete e dietro l’angolo
la cometa con cortesia si spezza
dato che ormai nessuno la rispetta.
62.
l’autore è un gioco di persone tenui
uno sberleffo col cielo è dire poco
dacché la nenia è una risacca obliqua
sbattuta in viso allo schiavo desto.
dacché l’arbitrio della luce è il buio
con te non voglio rovistare il salice
né la penombra che abbocca alla crisalide.
è un gesto di sconfitta sapere il lido
dove la darsena è materna o altro
dato che l’abaco conta già tutto.
in gelo all’incidente della nascita
torno domani per un decente incontro
con la scissa origine del fato.
tu giammai dammi l’etichetta
per il forno crematorio di tutta la cenere.
in mano alla perizia della rotta
voglio l’inguine ingenuo della nuca
la voglia della fine di volere.
63.
la scatola bisbetica del cosmo
le voci del sale
quando all’interno bivaccano le storie
il globo del soccorso
ebbi un pane candido di stelle
il talento del giogo
quando piango con le ginestre in tasca
la mimosa gemellare.
mi metterò la cintola del guadagno
per vincere l’adagio del sorpasso
la nenia curva di piangere al segreto.
in mano alla rendita del salto
vo ladrone di selle da cortile.
64.
attorno alla risacca so il tuo nome
atto del verbo che non mi dà amore
ma colonnati invisibili di spreco.
non ho nessuno che paghi per me la retta
o lo scompiglio delle lacrime
addosso al crimine dell’ammiraglio
mozzo per delinquenza d’asma
o chissà che cosa da capire ancora
sotto la morsa della penna vuota.
65.
puoi stare con le nubi ai polsi
nessuno ti chiederà il barometro
o l’armistizio della chimera che non trovi.
l’alunno civilissimo del conto
non sa il rantolo e l’agonia costanti
verso la cosa che ci trasmette vivi.
la gerla di capir i rantolanti giochi
non basta la bravura di un ladruncolo
né il cipresso che non si piega mai.
in tutto encomio io vorrò dismettere
questa salutare erba ortolana
che bara sulla morte per un attimo.
la cenerentola che rapida si scempia
vola una nenia che non sarà più niente
nemmeno l’anfiteatro di una frottola.
66.
parla di pietra prima di delinquere
cerca la lapide prima di insozzare
le prominenti giare delle rondini.
le tirannie del ragno giocano la frottola
di fingere ricamato il mondo
quando è blasfemo il viottolo del caso
al caos. qui nella penombra s’indìca
trovatello il quadernuccio stufo delle
aste. l’agonia del fosso stipa i randagi
questo giocoforza senza la bretella
d’indice. sarai chiamato inverno senza
la polenta amata. le resine del sale
ammiccano le rondini delle fanciullaggini.
così non basta ripar le aiuole
sotto l’intruglio della foce.
67.
non crollo né realtà di vanto
stare qui sotto nella zona tolta
all’alamaro o al fato di soldati.
le resine bellissime del muro
sono qua sotto indici da nababbo
o boria per chi sa quale la cometa.
così s’ingegna la resina d’eclisse
filastrocca nana per il boia
dove ecumene è fatto di risalita.
l’anemone volgare della rotta
è qui che viene enciclopedia di mole
faro già spento per la musa accanto.
68.
offro l’anagramma per saper chi sono
sotto la truppa del tetto blasfemo
moria di me che non sono niente.
la trappola mortale del cipresso
chiami la nuca per tornar bambino
nonostante la resina del bello.
la giara che tramonta sotto la fiaccola
chiami di me un’era di montagna
una maestosa chioma di randagio.
àncora muta l’elasticità del pianto
stare in cornucopia senza la gioia
o almeno il nudo della regìa accanto.
così già muore la mia dottrina
questa trivella che non trova vanto
né dentro o fuori la velleità del muro.
69.
piango la malia che mi rese darsena
penombra di me senza l’appello
per una bravura almeno. sono al museo
del cristallo piatto. nulla da guardare
se non regìe di gole per il singhiozzo
maestre. qui nel male che ospita chiunque
si stipa la pandemia dell’effusione pece
quel raggiro che pendulo ritorna sempre
per lo sguardo occiduo del duale stare.
c’è da studiare il rimorso dell’albeggio
questo cipresso lungo più oltre il sale
che merita l’abisso. e invece i bei colori
delle bare fraintendono l’amore. il dono
muore sotto la lunatica scarpa dell’azzopparsi.
le liste delle croci hanno il silenzio
infisso. non dirmi a lungo quale sarà l’occaso
della marea bambina o il naufragio
in giro per la città che non diventa unica.
70.
la rovina del pane smesso
l’occiduo stantio quanto un amore
restato in stato di stazione
dove morente la resina del ventre
di noi ricorda la tremebonda assise
la vereconda stanza delle fiaccole
lasciate in dono di pari passo al sale.
[Le strofe precedenti di VIGILIA DI SORPASSO sono uscite su "Carte allineate" in data 27-11-2010, 17-12-2010, 19-1-2011, 21-3-2011, 7-4-2011, 21-5-2011]
era talmente in darsena finire
che quando avvenne l’epopea del sangue
nessuno accorse a liberare l’angelo
bene d’occaso da molto tempo dentro
dentro il lutto che ci rimembra vivi.
nuca di soqquadro rigore e vuoto
stare dalle parti delle aureole festive
senato chiuso in un balbettio di sfingi.
i fiori sull’orchestra sono infiniti
abiti di quiete e dietro l’angolo
la cometa con cortesia si spezza
dato che ormai nessuno la rispetta.
62.
l’autore è un gioco di persone tenui
uno sberleffo col cielo è dire poco
dacché la nenia è una risacca obliqua
sbattuta in viso allo schiavo desto.
dacché l’arbitrio della luce è il buio
con te non voglio rovistare il salice
né la penombra che abbocca alla crisalide.
è un gesto di sconfitta sapere il lido
dove la darsena è materna o altro
dato che l’abaco conta già tutto.
in gelo all’incidente della nascita
torno domani per un decente incontro
con la scissa origine del fato.
tu giammai dammi l’etichetta
per il forno crematorio di tutta la cenere.
in mano alla perizia della rotta
voglio l’inguine ingenuo della nuca
la voglia della fine di volere.
63.
la scatola bisbetica del cosmo
le voci del sale
quando all’interno bivaccano le storie
il globo del soccorso
ebbi un pane candido di stelle
il talento del giogo
quando piango con le ginestre in tasca
la mimosa gemellare.
mi metterò la cintola del guadagno
per vincere l’adagio del sorpasso
la nenia curva di piangere al segreto.
in mano alla rendita del salto
vo ladrone di selle da cortile.
64.
attorno alla risacca so il tuo nome
atto del verbo che non mi dà amore
ma colonnati invisibili di spreco.
non ho nessuno che paghi per me la retta
o lo scompiglio delle lacrime
addosso al crimine dell’ammiraglio
mozzo per delinquenza d’asma
o chissà che cosa da capire ancora
sotto la morsa della penna vuota.
65.
puoi stare con le nubi ai polsi
nessuno ti chiederà il barometro
o l’armistizio della chimera che non trovi.
l’alunno civilissimo del conto
non sa il rantolo e l’agonia costanti
verso la cosa che ci trasmette vivi.
la gerla di capir i rantolanti giochi
non basta la bravura di un ladruncolo
né il cipresso che non si piega mai.
in tutto encomio io vorrò dismettere
questa salutare erba ortolana
che bara sulla morte per un attimo.
la cenerentola che rapida si scempia
vola una nenia che non sarà più niente
nemmeno l’anfiteatro di una frottola.
66.
parla di pietra prima di delinquere
cerca la lapide prima di insozzare
le prominenti giare delle rondini.
le tirannie del ragno giocano la frottola
di fingere ricamato il mondo
quando è blasfemo il viottolo del caso
al caos. qui nella penombra s’indìca
trovatello il quadernuccio stufo delle
aste. l’agonia del fosso stipa i randagi
questo giocoforza senza la bretella
d’indice. sarai chiamato inverno senza
la polenta amata. le resine del sale
ammiccano le rondini delle fanciullaggini.
così non basta ripar le aiuole
sotto l’intruglio della foce.
67.
non crollo né realtà di vanto
stare qui sotto nella zona tolta
all’alamaro o al fato di soldati.
le resine bellissime del muro
sono qua sotto indici da nababbo
o boria per chi sa quale la cometa.
così s’ingegna la resina d’eclisse
filastrocca nana per il boia
dove ecumene è fatto di risalita.
l’anemone volgare della rotta
è qui che viene enciclopedia di mole
faro già spento per la musa accanto.
68.
offro l’anagramma per saper chi sono
sotto la truppa del tetto blasfemo
moria di me che non sono niente.
la trappola mortale del cipresso
chiami la nuca per tornar bambino
nonostante la resina del bello.
la giara che tramonta sotto la fiaccola
chiami di me un’era di montagna
una maestosa chioma di randagio.
àncora muta l’elasticità del pianto
stare in cornucopia senza la gioia
o almeno il nudo della regìa accanto.
così già muore la mia dottrina
questa trivella che non trova vanto
né dentro o fuori la velleità del muro.
69.
piango la malia che mi rese darsena
penombra di me senza l’appello
per una bravura almeno. sono al museo
del cristallo piatto. nulla da guardare
se non regìe di gole per il singhiozzo
maestre. qui nel male che ospita chiunque
si stipa la pandemia dell’effusione pece
quel raggiro che pendulo ritorna sempre
per lo sguardo occiduo del duale stare.
c’è da studiare il rimorso dell’albeggio
questo cipresso lungo più oltre il sale
che merita l’abisso. e invece i bei colori
delle bare fraintendono l’amore. il dono
muore sotto la lunatica scarpa dell’azzopparsi.
le liste delle croci hanno il silenzio
infisso. non dirmi a lungo quale sarà l’occaso
della marea bambina o il naufragio
in giro per la città che non diventa unica.
70.
la rovina del pane smesso
l’occiduo stantio quanto un amore
restato in stato di stazione
dove morente la resina del ventre
di noi ricorda la tremebonda assise
la vereconda stanza delle fiaccole
lasciate in dono di pari passo al sale.
[Le strofe precedenti di VIGILIA DI SORPASSO sono uscite su "Carte allineate" in data 27-11-2010, 17-12-2010, 19-1-2011, 21-3-2011, 7-4-2011, 21-5-2011]
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