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INDICE ALFABETICO / INDEX
Le voci elencate qui sotto senza il nome dell'autore sono state scritte da Roberto Bertoni. Foto di Marzia Poerio / Entries listed below without the name of the author were written by Roberto Bertoni. Pictures by Marzia Poerio.
- ANIMA DELL'ACQUA, Palazzo Reale (Milano). Storie di immagini, 17-12-08.
- BORGHETTI, Claudia, DAL BALCONE. Testi, 11-12-08.
- CHOPRA-GANT, Mike, CINEMA AND HISTORY. Storie di film, 25-12-08.
- CONA, Cristina, ALLA RICERCA DEL PASSATO PROSSIMO. Riflessione, 21-12-08.
- COUPE, Lawrence, MYTH. Note di lettura, 7-12-08.
- CURTI, Roberto, IL MIO NOME È NESSUNO. Note di lettura di Roberto NATALE, 7-12-08.
- MATTEI, Piera, DIRAC E LA NUVOLA. Testi, 3-12-08.
- MONTOBBIO, Santiago, L'ULTIMO INCHIOSTRO. Testi; con traduzioni e commento di Giuseppe BELLINI. 9-12-08.
- MUSICHE ARGENTINE E BRASILIANE: QUALCHE NOME DALLA RETE. Storie di musiche di Renato PERSÒLI, 13-12-08.
- RAGNOLI, Gian Paolo, JANIS, ME & BOBBY MCGEE. Testi, 3-12-08.
- RUBENFELD, Jed, THE INTERPRETATION OF MURDER. Note di lettura, 5-12-08.
- ULTIMATUM ALLA TERRA. Storie di film di Renato Persòli 19-12-08.
Rivista in rete di scritti sotto le 2.200 parole: recensioni, testi narrativi, poesie, saggi. Invia commenti e contributi a cartallineate@gmail.com. / This on-line journal includes texts below 2,200 words: reviews, narrative texts, poems and essays. Send comments and contributions to cartallineate@gmail.com.
A cura di / Ed. Roberto Bertoni.
Address (place of publication): Italian Dept, Trinity College, Dublin 2, Ireland. Tel. 087 719 8225.
ISSN 2009-7123
30/12/08
29/12/08
Roberto Curti, IL MIO NOME È NESSUNO
Nella grigia stagione che pesa (anche) sul cinema nostrano, con la solita eccezione encomiabile di pochi film, sta fiorendo un vasto repechage di quel (nostro) cinema troppo frettolosamente accantonato col timbro “di genere”.
Non so se si tratti d’un crepuscolo dell’estetica crociana o dell’influenza subita dal più moderno pragmatismo d’oltre oceano (e francese): ma è un fatto che quel cinema riaggalla in DVD, gadgets, seminari italiani e stranieri: cioè nuovo interesse. Ed era l’ora. Come l’uscita recente d’un libro culto, sulla vasta e meritoria attività di un regista come Tonino Valerii, dal complesso titolo IL MIO NOME È NESSUNO. LO SPAGHETTI WESTERN SECONDO TONINO VALERII, a cura di Roberto Curti (Roma, Un mondo a parte, 2008).
L’importanza dell’iniziativa di Curti, è già palese nell’incipit, nell’oculata prefazione di Carlo Lizzani: “Per un libro di cinema è una bella occasione avere al centro un personaggio così caleidoscopico, versatile e di alta professionalità come Tonino Valerii. Un regista che si è mosso con disinvoltura in Italia e all’estero, coinvolgendo attori di grande popolarità come Terence Hill, Bud Spencer, Franco Nero, mostri sacri del cinema italiano come Salvo Randone, figure mitiche del cinema classico come Henry Fonda, Toshiro Mifune, James Coburn, Fernando Rey…”
È dunque un iter quarantennale che Curti analizza partendo da Montorio al Vomàno, in provincia di Teramo, la terra natale di Valerii, sbarcando poi al Centro Sperimentale di Cinematografia, dove il maestro e mentore Alessandro Blasetti lo vaticina come sicuro regista.
Giudizio confermato più tardi da Sergio Leone, che lo vuole suo aiuto regista, ruolo che Tonino amplia in una collaborazione pertinente alla sua cultura e visione artistica. Tanto è vero che nel ’73 Leone si fa produttore di “Il mio nome è Nessuno” con la regia di Valerii, appunto, e l’interpretazione dei due mitici (per dirla con Lizzani) Henry Fonda e Terence Hill, più una pleiade d’altri noti attori, con la musica d’un’altra icona come Ennio Morricone.
E questo quando Tonino aveva nel carniere ben sette film e una valanga di sceneggiature, che qui lo spazio non mi permette di citare.
Però IL MIO NOME È NESSUNO è diventato un “caso” mediatico, non solo per il successo (ancora oggi la televisione lo ricicla di frequente), ma per aver creato, proprio per questo, una querelle fra i due amici Sergio e Tonino, che non è il caso di ricordare, ma da intuire.
Eppure, come ben nota Curti, tranne il film citato, lo stile di Valerii non è quello dell’epopea della Frontiera, il mito del progresso o la necessità di “stampare la leggenda”: al centro dell’attenzione c’è l’uomo, non l’icona leoniana dello “straniero senza nome”.
E infatti, dice lo stesso Curti, i personaggi del cinema valeriano sono soprattutto esseri tormentati, dubbiosi nelle loro scelte, segnati (aggiungo) dall’angoscia.
Personaggi, si direbbe, ispirati dalla tragedia greca o eventi storici di peculiari drammi esistenziali, ovviamente ambientati nella forma voluta dal racconto e dalle tendenze produttive, che spesso indirizzano le tendenze.
Del resto è nella stessa cultura letteraria di Valerii lo sguardo al classico (tematico e stile narrativo), a suggerire (giustamente) a Curti, l’accostamento tra certi film e la loro connotazione ispiratrice: fra questi “Il prezzo del potere” ( sullo sfondo dell’assassinio di J. F. Kennedy), “Una ragione per vivere ed una per morire” ispirato dai racconti della guerra civile di Ambrose Bierce, e soprattutto “I giorni dell’ira” per il quale Curti scomoda (giustamente) la suggestione freudiana del mito di Edipo, un film di grande risonanza (tanto che gli Americani avevano chiesto il permesso di utilizzare il tema per una loro produzione), che racconta di un giovane ingenuo (Giuliano Gemma) vissuto nell’indigenza solitaria, che, incontrando un vecchio pistolero artrosico (Lee Van Cleef), s’ aggrappa a lui, come fosse il padre che non ha mai conosciuto. Ma questo lo modella a sua immagine perché lo sostituisca nelle sue vendette: col risultato che il giovane, presa coscienza, lo uccide per acquistare la propria libertà. Come si vede, un tema classico.
Com’è classico lo stile di “ripresa” di Valerii, che sa “nascondere la macchina da ripresa” (come dice Curti) in favore d’uno sguardo acuto sulle urgenze esistenziali dell’uomo. Tema peculiare di un regista nato (come predetto da Alessandro Blasetti) per fare il regista. E da umanista. Che malgrado la sua schiva aparthaid è rimasto nel cinema non solo italiano.
[Roberto Natale]
Non so se si tratti d’un crepuscolo dell’estetica crociana o dell’influenza subita dal più moderno pragmatismo d’oltre oceano (e francese): ma è un fatto che quel cinema riaggalla in DVD, gadgets, seminari italiani e stranieri: cioè nuovo interesse. Ed era l’ora. Come l’uscita recente d’un libro culto, sulla vasta e meritoria attività di un regista come Tonino Valerii, dal complesso titolo IL MIO NOME È NESSUNO. LO SPAGHETTI WESTERN SECONDO TONINO VALERII, a cura di Roberto Curti (Roma, Un mondo a parte, 2008).
L’importanza dell’iniziativa di Curti, è già palese nell’incipit, nell’oculata prefazione di Carlo Lizzani: “Per un libro di cinema è una bella occasione avere al centro un personaggio così caleidoscopico, versatile e di alta professionalità come Tonino Valerii. Un regista che si è mosso con disinvoltura in Italia e all’estero, coinvolgendo attori di grande popolarità come Terence Hill, Bud Spencer, Franco Nero, mostri sacri del cinema italiano come Salvo Randone, figure mitiche del cinema classico come Henry Fonda, Toshiro Mifune, James Coburn, Fernando Rey…”
È dunque un iter quarantennale che Curti analizza partendo da Montorio al Vomàno, in provincia di Teramo, la terra natale di Valerii, sbarcando poi al Centro Sperimentale di Cinematografia, dove il maestro e mentore Alessandro Blasetti lo vaticina come sicuro regista.
Giudizio confermato più tardi da Sergio Leone, che lo vuole suo aiuto regista, ruolo che Tonino amplia in una collaborazione pertinente alla sua cultura e visione artistica. Tanto è vero che nel ’73 Leone si fa produttore di “Il mio nome è Nessuno” con la regia di Valerii, appunto, e l’interpretazione dei due mitici (per dirla con Lizzani) Henry Fonda e Terence Hill, più una pleiade d’altri noti attori, con la musica d’un’altra icona come Ennio Morricone.
E questo quando Tonino aveva nel carniere ben sette film e una valanga di sceneggiature, che qui lo spazio non mi permette di citare.
Però IL MIO NOME È NESSUNO è diventato un “caso” mediatico, non solo per il successo (ancora oggi la televisione lo ricicla di frequente), ma per aver creato, proprio per questo, una querelle fra i due amici Sergio e Tonino, che non è il caso di ricordare, ma da intuire.
Eppure, come ben nota Curti, tranne il film citato, lo stile di Valerii non è quello dell’epopea della Frontiera, il mito del progresso o la necessità di “stampare la leggenda”: al centro dell’attenzione c’è l’uomo, non l’icona leoniana dello “straniero senza nome”.
E infatti, dice lo stesso Curti, i personaggi del cinema valeriano sono soprattutto esseri tormentati, dubbiosi nelle loro scelte, segnati (aggiungo) dall’angoscia.
Personaggi, si direbbe, ispirati dalla tragedia greca o eventi storici di peculiari drammi esistenziali, ovviamente ambientati nella forma voluta dal racconto e dalle tendenze produttive, che spesso indirizzano le tendenze.
Del resto è nella stessa cultura letteraria di Valerii lo sguardo al classico (tematico e stile narrativo), a suggerire (giustamente) a Curti, l’accostamento tra certi film e la loro connotazione ispiratrice: fra questi “Il prezzo del potere” ( sullo sfondo dell’assassinio di J. F. Kennedy), “Una ragione per vivere ed una per morire” ispirato dai racconti della guerra civile di Ambrose Bierce, e soprattutto “I giorni dell’ira” per il quale Curti scomoda (giustamente) la suggestione freudiana del mito di Edipo, un film di grande risonanza (tanto che gli Americani avevano chiesto il permesso di utilizzare il tema per una loro produzione), che racconta di un giovane ingenuo (Giuliano Gemma) vissuto nell’indigenza solitaria, che, incontrando un vecchio pistolero artrosico (Lee Van Cleef), s’ aggrappa a lui, come fosse il padre che non ha mai conosciuto. Ma questo lo modella a sua immagine perché lo sostituisca nelle sue vendette: col risultato che il giovane, presa coscienza, lo uccide per acquistare la propria libertà. Come si vede, un tema classico.
Com’è classico lo stile di “ripresa” di Valerii, che sa “nascondere la macchina da ripresa” (come dice Curti) in favore d’uno sguardo acuto sulle urgenze esistenziali dell’uomo. Tema peculiare di un regista nato (come predetto da Alessandro Blasetti) per fare il regista. E da umanista. Che malgrado la sua schiva aparthaid è rimasto nel cinema non solo italiano.
[Roberto Natale]
27/12/08
APPUNTI SULLE STAGIONI E SUI CANTI D'ORIENTE E D'OCCIDENTE DI GIUSEPPE CONTE
[Musa. (Collezione privata)]
Il rapporto di Conte con D'Annunzio è segnalato dall'autore stesso. Ad un certo livello è una sovrapposizione della poesia intesa come azione, che Conte vive come "libertà asssoluta" [CO, 110] [1]. Su un piano linguistico ci sono riferimenti dannunziani nel lessico e nel ritmo. In Le stagioni, in nota a "Estate. Poseidone", il verso di Conte "estate non declinare" è riferito a verso di D'Annunzio "Estate, Estate mia, non declinare!" da Alcyone, "Madrigali d'estate" [S, 39]. Più in generale, come necessità sentita dall'autore di prendere le distanze da "quel D'Annunzio con tutte le sue ondosità musicali che serpeggia a volte nel mio lavoro" [CO, 124], a cui dichiara di preferire la linea poetica che unisce Pascoli e Pasolini; ed in effetti l'uso del simbolo sta tra Montale-Eliot per il correlativo oggettivo e Pascoli per il simbolismo; l'apporto di Pasolini è, si direbbe, la metrica fondata sull'endecasillabo, con variazioni tra decasillabo e novenario, che Conte designa come versi costruiti ciascuno come gruppi di unità di tre e quattro sillabe [CO, 125]. Tuttavia, di Pasolini emerge, collegato a Foscolo, il rapporto con la vita reale vissuto con passione: il "Capitano Foscolo" e le sue "innamorate, esuli, illuse bandiere" [CO, 110]. Più specificamente pasoliniana è la dialettica tra aspirazione all'ascesi e carnalità riassunta così, concisamente: "Ho servito i piaceri / e ho servito la Luce" [CO, 27]; "io sono sempre la carne e sempre l'anima" [CO, 88].
In Conte, gli influssi montaliani sono in alcuni casi nel linguaggio, anche se non con ampia frequenza, in ogni caso più nelle prime due raccolte che in seguito: vistoso ad esempio "botri", parola rara adoperata in La bufera e altro, che ricompare in "Le stagioni del fuoco", I [S, 108]; entro un contesto dinamico, che parrebbe, pur spostando l'immagine dal mare verso la terra, percorsa dai cavalli, interpretare il senso dell'anguilla di Montale come "anima", o in ogni caso dare vita come vita dà l'anguilla all'interiorità. Così in Conte, "Come cavalli rovani / in corsa sul confine / di lunghe sabbie e di botri / va l'anima, attraversa / il regno del fuoco" [S, 108]. Il mare, come in Montale, compare tuttavia anch'esso frequente in Conte, ma in un contesto personalizzato: "[...] sono un'onda della mareggiata" [CO, 101]; e quindi con una passionalità che in Montale è invece controllata e trattenuta.
Più in generale, rispetto all'apporto montaliano, ha ragione Italo Calvino a notare come, da un lato, dopo Montale, Conte, per lo meno in L'oceano e il ragazzo e Le stagioni, si pone in una linea definibile come ligure perchè anche per lui, come per Montale ed altri poeti liguri, il paesaggio è costante punto di riferimento e si trasforma in "ragionamento"; ma a differenza di Montale, Conte va in direzione opposta alla "scarnificazione, smorzamento, prosciugamento" [S, 20]. In verità, Conte utilizza un flusso non montaliano delle parole, una retorica dell'abbondanza verbale che, pur se trattenuta entro i limiti dell'italiano per lo più standard, non è esente dalla dichiarazione esplicita dei sentimenti di vita e di morte: "I poemi nascono così: la vita / è sorella della morte / come lo è il verbo del silenzio" [CO, 78], con una reminiscenza anche leopardiana, appunto da "Amore e morte" dei Canti.
Vita e morte sono collegati agli archetipi, come in questi versi: "Acqua della fine / Acqua del principio / l'anima ti attraversa / forse su nave o naufraga / tra venti immani, o forse / a nuoto, a nuoto / e lenta, come un loto, / una zattera" [S, 92]. Si affacciano frattanto simboli interiori e spirituali, si veda: "staremo allora nella luce, nella / verità / e ciascuno di noi conoscerà / il suo Dio" [S, 109].
La poesia, per Conte, ha una missione. In LE STAGIONI, la poesia è verità e la la verità è luce: "Dopo, passato anche il fuoco, ci sarà / soltanto la verità della luce" [S, 109]. In seguito, in Canti d'Oriente e d'Occidente, nei "Canti di Yusuf Abdel Nur" (XXXIX), la poesia assume una funzione di diretta salvazione in un universo storico che, in "Ai lari", va in catastrofe e in dissolvimento: "Dalla tua angoscia di strage e razzia / riposati ora, fratello, la poesia // ci ha salvato" [CO, 59].
La poesia salva da un mondo in cui "La fame dell'oro è contagiosa / e incurabile, ben più di un colera. / Hanno vinto ogni guerra frode e usura" [CO, 78]. La salvazione avviene tramite e l'utopia (il sogno): "[...] io vengo a te, a chiederti / la forza di combattere, di essere / fedele sino in fondo al sogno" [CO, 81]. Su un piano politico si tratta di un sogno democratico e indipendente; il poeta si definiscce "figlio dell'energia democratica" e precisa: "non appartengo a nessuna casta o dinastia, a niente mi inchino" [CO, 101]. Si tratta di una democrazia panica "dei poeti, delle onde, degli alberi, degli astri, dello spirito, dell'energia" di chi "non si sottomette" [CO, 110-11].
Su un piano esistenziale di ampia portata, collettivo, la poesia è il linguaggio che assomma in sé le varie contraddizioni della realtà. In "Oh Omero, Oh Whitman", abbiamo in questo contesto toni religiosi indù (Shiva distruttore-salvatore) mediati dalla contemperazione degli opposti junghiana: "e dire 'io sono il poeta, il distruttore, io sono il poeta, colui che salva'" [CO, 88].
La religiosità (del tipo peculiare di questa citazione) è piú oltre confermata: "[...] questo linguaggio, eredità di Dio e dei poeti, è ancora preghiera e danza" [CO, 92]. Lo scopo, anche della "carne" è pervenire al placarsi dei sensi e alla conoscenza di Dio: "La meta del desiderio è la fine del desiderio, la meta del piacere è la fine del piacere. / L'anima non ha altra meta che essere, la pienezza dell'essere - se l'essere è Dio - / e la Parola, la pienezza della Parola, - se è vero che abita all'inizio presso Dio ed è Dio - [CO, 105]. La poesia, come la natura ed il mondo reale tuttto, è percorso dal senso del sacro: "Sacra, sacra, sacra la Parola, la Terra, la mano che scrive e che carezza, la nuvola, la volta del cielo" [CO, 105]. Infine, dantescamente con l'assimilazione di "anima" a "farfalla", "sacra" è " la presenza dei vivi e delle loro anime-farfalle piene di desiderti / e la memoria dei morti e delle loro anime-farfalle in cui sono assenti i desideri" [CO, 106].
NOTA
Giuseppe Conte, LE STAGIONI (abbreviato in S), Milano, Rizzoli, 1988; CANTI D'ORIENTE E D'OCCIDENTE, Milano, Mondadori, 1997 (abbreviato in CO).
[Roberto Bertoni]
25/12/08
POERIO, Marzia, LOOKING FORWARD TO THE FUTURE
23/12/08
Mike Chopra-Gant, CINEMA AND HISTORY: THE TELLING OF STORIES
Londra e New York, Wallflower, 2008
Col proposito di esaminare alcune manifestazioni del contatto reciproco tra storia e cinema, sia nel senso di come i film di un determinato periodo esprimano concezioni diffuse e aspetti sociali contemporanei, sia di come il film del genere denominato storico esprimano e interpretino i fatti di cui parlano, la trattazione comprende varie riflessioni ed esempi.
Tra le domande che si pone l'autore, c'è quella di se "il fatto che i film rappresentano una strada più accessibile alle narrative relative al passato significhi che si debba garantire loro il medesimo status - in quanto forme valide di conoscenza del passato - di quello che si attribuisce alla storia scritta in modo accademico" (p. 7).
Logicamente il rigore dello studioso non è quanto normalmente si trova nelle pellicole cinematografiche sebbene anche nella storia pubblicata siano possibili distorsioni significative come quando viene rappresentata su celluloide.
La nostra opinione, non necessariamente coincidente con quella dell'autore, è che la ricostruzione per immagini filmiche oscilla tra la spettacolarizzazione (GLADIATOR), la distorsione attualizzante (MARIA ANTONIETTA), la lettura ideologizzata (SPARTACUS) e la ricostruzione accurata (GUERRA E PACE), sempre tenendo però anche conto della necessità del taglio degli eventi dovuto alla durata limitata dei film.
Concordiamo con Chopra-Gant ove sostiene che "il film storico va inteso come una modalità di scrittura della storia del passato", forse meno accademicamente attendibili della formulazione da parte degli esperti, ma tale da consentire un accesso al passato popolare e facile (p. 10).
[Renato Persòli]
Col proposito di esaminare alcune manifestazioni del contatto reciproco tra storia e cinema, sia nel senso di come i film di un determinato periodo esprimano concezioni diffuse e aspetti sociali contemporanei, sia di come il film del genere denominato storico esprimano e interpretino i fatti di cui parlano, la trattazione comprende varie riflessioni ed esempi.
Tra le domande che si pone l'autore, c'è quella di se "il fatto che i film rappresentano una strada più accessibile alle narrative relative al passato significhi che si debba garantire loro il medesimo status - in quanto forme valide di conoscenza del passato - di quello che si attribuisce alla storia scritta in modo accademico" (p. 7).
Logicamente il rigore dello studioso non è quanto normalmente si trova nelle pellicole cinematografiche sebbene anche nella storia pubblicata siano possibili distorsioni significative come quando viene rappresentata su celluloide.
La nostra opinione, non necessariamente coincidente con quella dell'autore, è che la ricostruzione per immagini filmiche oscilla tra la spettacolarizzazione (GLADIATOR), la distorsione attualizzante (MARIA ANTONIETTA), la lettura ideologizzata (SPARTACUS) e la ricostruzione accurata (GUERRA E PACE), sempre tenendo però anche conto della necessità del taglio degli eventi dovuto alla durata limitata dei film.
Concordiamo con Chopra-Gant ove sostiene che "il film storico va inteso come una modalità di scrittura della storia del passato", forse meno accademicamente attendibili della formulazione da parte degli esperti, ma tale da consentire un accesso al passato popolare e facile (p. 10).
[Renato Persòli]
21/12/08
Cristina Cona, ALLA RICERCA DEL PASSATO PROSSIMO
[Is the past crystal clear? Foto di Marzia Poerio]
In un articolo pubblicato alcuni anni fa sull'"OBSERVER" il critico letterario Terence Kilmartin osservava come sin dalla frase d'apertura ("Longtemps je me suis couché de bonne heure") la RECHERCHE DU TEMPS PERDU presenti al traduttore inglese un problema di difficile soluzione. Come rendere, infatti, quel passato prossimo in una lingua in cui di fatto non esiste un tempo corrispondente? La soluzione adottata dal primo traduttore di Proust, C.K. Scott Moncrieff ("For a long time I used to go to bed early"), pur linguisticamente corretta, non riesce certo a riprodurre in tutte le sue sfumature il rapporto proustiano fra presente e passato, né ad esprimere la musicalità e il potere evocativo di quella prima frase.
I problemi non finiscono certo qui: a complicare il lavoro di traduzione sono soprattutto le frasi lunghissime, il periodare denso e involuto in cui analogie, parentesi, digressioni si susseguono in una spirale di subordinate: una prosa per molti versi "poco francese", che è stata giudicata più vicina a quella dei grandi scrittori russi. Alcuni fra i titoli dei volumi hanno creato altre difficoltà: lo squisito A L'OMBRE DES JEUNES FILLES EN FLEURS, così traboccante di freschezza e di sensualità, è diventato in inglese WITHIN A BUDDING GROVE: meno suggestivo, certo, ma una traduzione letterale era considerata improponibile. Quanto al titolo dell'opera complessiva, Scott Moncrieff aveva optato per REMEMBRANCE OF THINGS PAST, soluzione formalmente elegante (l'espressione è tratta dal sonetto 30 di Shakespeare: "When to the sessions of sweet silent thought/I summon up remembrance of things past..."), ma di fatto gravemente infedele, perché quel "summon up remembrance" indica uno sforzo attivo, esatto opposto del concetto proustiano di "memoria involontaria" che costituisce il cardine e il senso stesso della Recherche.
Lo stesso Proust, del resto, commentò questa scelta esclamando costernato: "Cela détruit le titre" e, secondo il suo biografo George D. Painter, temendo che tutta la traduzione potesse rivelarsi infedele quanto il titolo, avrebbe addirittura pensato di bloccarne la pubblicazione in Gran Bretagna. "La mia opera mi sta molto a cuore", dichiarò al suo editore parigino, Gaston Gallimard, "e non ho nessuna intenzione di farmela rovinare dagli inglesi".
I timori di Proust sarebbero risultati in gran parte infondati: la traduzione di Scott Moncrieff, pur tutt'altro che perfetta, si rivelò più che accettabile e anzi fu molto ammirata nel mondo anglofono; con il passare degli anni, però, le lacune sono apparse sempre più evidenti. A sua parziale discolpa va ricordato che egli aveva lavorato "alla cieca", iniziando a tradurre il primo volume quando non era ancora uscito l'ultimo: l'originale era pertanto rappresentato da un'opera in fieri, soggetta fra l'altro a rimaneggiamenti continui (e non di rado molto sostanziosi) da parte del mai soddisfatto autore, senza contare che, alla morte di Proust nel 1922, gli ultimi tre volumi non erano ancora stati pubblicati, cosicché era toccato all'editore e ai suoi collaboratori elaborare un testo di senso compiuto estraendolo dal labirinto di brogliacci, correzioni, aggiunte e contraddizioni irrisolte che l'autore aveva lasciato loro in eredità. Altro gravissimo svantaggio per il traduttore, quello di non disporre dei capitoli conclusivi dell'opera, essenziali proprio in quanto servono ad illuminare retrospettivamente gli eventi passati.
Inoltre il caso della RECHERCHE è per molti versi emblematico delle difficoltà incontrate nel tradurre dal francese (e, più in generale, dalle lingue romanze) in inglese. Il francese dispone di una serie di accorgimenti sintattici e grammaticali (come l'onnipresenza delle distinzioni di genere anche per gli oggetti inanimati, l'esistenza del congiuntivo e di un ampio ventaglio di tempi passati), molto utili ad arricchire le frasi di sfumature e a chiarire il senso specialmente dei periodi lunghi e complessi, strumenti di cui l'inglese è invece privo. Anche a prescindere da questi condizionamenti, secondo T. Kilmartin (revisore della traduzione per le edizioni inglesi del 1981 e 1993), Scott Moncrieff si era reso colpevole di una serie di errori grossolani che vanno dalla traduzione letterale di espressioni idiomatiche delle quali esiste un valido equivalente in inglese, agli abbagli causati dai "falsi amici" ("pretended" per "prétendu", "laborious" per "laborieux"), ai veri e propri equivoci che stravolgono del tutto il senso di certe frasi; soprattutto, aveva gravato lo stile di preziosismi che non esistono affatto nell'originale (va qui osservato che, quantunque lo stile di Proust si distingua per la sua architettura complessa, il suo linguaggio è del tutto scevro di affettazioni e stravaganze: la difficoltà per il lettore straniero sta nel seguire il dipanarsi delle frasi, non certo nel lessico). Basta pensare alla traduzione del titolo LA FUGITIVE (o ALBERTINE DISPARUE), che divenne THE SWEET CHEAT'S GONE, soluzione di origine non ignobile (si tratta di una citazione del poeta inglese Walter De La Mare), ma che è stata a ragione definita "una delle trovate meno felici di Scott Moncrieff".
Proust conosceva pochissimo l'inglese, pur avendo tradotto in gioventù (con l'aiuto della madre, di amici poliglotti e della propria conoscenza dell'argomento) due libri del critico d'arte John Ruskin, da lui molto ammirato; la lettura delle favorevoli recensioni con le quali la stampa britannica salutò la Recherche servì comunque a rassicurarlo sulla qualità della traduzione. Quando scrisse a Scott Moncrieff per ringraziarlo non gli risparmiò tuttavia gli appunti critici, arrivando perfino a sostenere che SWANN'S WAY, il titolo inglese di DU CÔTÉ DE CHEZ SWANN, era sbagliato e che lo si sarebbe dovuto cambiare in "To Swann's Way"! Scott Moncrieff scelse di rispondergli in inglese, perché, osservò sarcasticamente, "my knowledge of French, as you have shown me in regard to my titles, is too imperfect (...)".
Le più recenti edizioni della RECHERCHE (1993 e quella del 2001 attualmente in preparazione) recano il titolo IN SEARCH OF LOST TIME, più letterale e meno "traditore" di quello che aveva così indignato Proust; anche in questo caso tuttavia si perde un elemento importante, rappresentato dal doppio significato di "perdu" ("lost" e "wasted"). Un'altra soluzione non certo ideale: del resto Proust, che una volta scrisse "la tâche et le devoir d'un grand écrivain sont ceux d'un traducteur", nel senso che l'artista ridice, in altra forma, le cose che ha vissuto, e a forza di rifacimenti lasciò incompiuta la trascrizione della sua esperienza, avrebbe probabilmente convenuto che è vana la ricerca della traduzione perfetta.
NOTA
Fonti: T. Kilmartin, IN SEARCH OF PAST PERFECT, "The Observer", 15-11-1992; idem, NOTE ON THE TRANSLATION, REMEMBRANCE OF THINGS PAST, Londra, Chatto & Windus, 1981; G. D. Painter, MARCEL PROUST: A BIOGRAPHY, Harmondsworth, Penguin, 1983; J.-Y. Tadié, MARCEL PROUST. BIOGRAPHIE, Parigi, Gallimard, 1996.
L’articolo, riprodotto col consenso dell’autrice, è apparso in precedenza sulla rivista ”Inter@lia”.
19/12/08
ULTIMATUM ALLA TERRA
[Blue planet? Foto di Marzia Poerio]
Nel racconto FAREWELL TO THE MASTER, pubblicarto nel 1940, Harry Bates aveva immaginato l'arrivo sulla Terra di un'astronave ad alta tecnologia, da cui uscivano Klaatu, un essere in tutto simile agli umani, e Gnut, un gigante forgiato con un metallo verdastro. Ucciso Klaatu per errore e timore da un essere umano, Gnut si immobilizza e viene costruito attorno a lui un museo. Il giornalista che narra la storia in prima persona scopre che di notte Gnut si alza e compie esperimenti; poco per volta si verrà a sapere che essi sono destinati a produrre copie di esseri umani e di uno scimpanzé; infine c'è un tentativo di replicare Klaatu materializzandolo dalla registrazione dei suoni. Ottenuta la copia con l'aiuto del narratore, l'astronave riparte per il proprio paese. Le ultime parole di Gnut, senz'altro ad effetto e giunte con notevole suspense, "Il padrone sono io", rivelano che era lui l'essere evoluto e non Klaatu, pur importante tanto da ridargli la vita, ma appartenente a una specie meno evoluta. Nei contenuti scientifici, il racconto prelude alla clonazione oltre che puntare sui viaggi interstellari; e presenta una prospettiva non antropomorfica. Sul piano immaginativo, combina una storia investigativa con il fantastico attuato all'interno del quotidiano. Ben scritto, trattiene l'attenzione con stile fluido e gradevole [1].
Un film di notevole qualità, THE DAY THE EARTH STOOD STILL (1951, nella traduzione italiana, ULTIMATUM ALLA TERRA), con la regia competente e intelligente di Robert Wise, modificava la storia (tramite la sceneggiatura di E.H. North) in una direzione più sociale e maggiormente vicina agli esseri umani. Nel film il protagonista è Klaatu; il gigante è un automa e cambia nome trasformandosi in Gort. Klaatu appartiene a una civiltà più avanzata di quella terrestre, porta un messaggio di pace per gli esseri umani, cercando di allertarli alla distruzione che proverrebbe dalla continuazione dei conflitti: l'unico modo di progredire è eliminare le guerre. Tra equivoci e costretto a una clandestinità forzata, Klaatu cerca di apprendere di più sugli umani, stringe amicizia con un bambino e con la madre di questi, viene quasi tradito per ambizioni economiche e di fama da un giornalista, alla fine riesce a comunicare il suo messaggio convocando gli scienziati maggiori del pianeta, siccome i politici non avevano potuto essere raccolti tutti insieme a causa delle frizioni internazionali. Il film aveva un impatto storicamente significativo dopo la seconda guerra mondiale, valutava positivamente l'ONU, si appellava agli intellettuali per uscire dalla pastoie della politica. Familiarizzava il fantastico rendendo Klaatu fisicamente simile ai terrestri e dandogli abitudini comuni. Infine, l'astronave, fatta a disco volante era più credibile di quelle dei film commerciali, si insisteva sulla sua qualità tecnologica più che sull'impatto spettacolare.
Anche l'ultima versione a noi è piaciuta, malgrado il modello del 1951 avesse raggiunto livelli stilistici superiori se interpretato nel contesto storico anziché visto con gli occhi tecnologici del presente. La regia della pellicola del 2008 è di Scott Derrickson; la sceneggiatura di D. Scarpa; con Kathy Bates, Jennifer Connelly, Jon Hamm, Keanu Reeves, J. Jaden Smith. Effettivamente ottimi gli interpreti principali (Connolly e Reeves, quest'ultimo nella parte di Klaatu), l'aggiornamento è dato dall'assegnare a una giovane donna il compito di convincere Klaatu a non distruggere la civiltà umana: infatti, venuto in questa versione per avvertire gli esseri umani della catastrofe imminente se non faranno qualcosa per modificarla, notata la violenza dei terrestri, non gli resterebbe che l'opzione di annichilire i terrestri se la protagonista non riuscisse a persuaderlo che di fronte alla catastrofe anche gli umani sono in grado di modificarsi per il meglio. Per noi, per i quali in ogni storia l'elemento principale è l'intreccio, è una tortura dover raccontare così nel vago quel che succede, dato che si tratta di film recentissimo... Lo svolgimento dei fatti è incalzante. Il messaggio si trasforma in appello ambientalista. Ci sono due riferimenti biblici: l'Arca di Noè e la Piaga delle locuste. Buon uso degli effetti speciali. Film fantastico e di impegno. What is wrong with it, really?
NOTE
[1] Leggibile in rete a H. Bates, FAREWELL TO THE MASTER.
[Renato Persòli]
17/12/08
ANIMA DELL'ACQUA, Palazzo Reale (Milano)
Se è vero, come scrive Jung, che "l'acqua è il simbolo più corrente dell'inconscio" [1], non sorprendono il fascino esercitato da questo elemento nei secoli, la vastità delle sue applicazioni letterarie e artistiche e il riferimento costante che ne viene fatto nel campo culturale e antropologico.
La mostra milanese, a cura di E. Fontanella e C.D. Fonseca, propone un percorso attraverso opere che vanno da manufatti preistorici a quadri di vari pittori tra i quali Brueghel, Caravaggio, Segantini, Tintoretto, articolando il percorso espositivo in cinque aree tematiche: SOSTANZA ANTICA, la sezione forse più interessante, in cui emergono le allegorie cosmologiche, il riferimento alla fertilità, i rapporti tra acqua di vita e tanatologie; BELLEZZA E GIOVINEZZA; IL VIAGGIO, che comprende anche il viaggio di Ulisse (con uno straordinario dipinto vittoriano del 1909 di Herbert Draper, ULYSSSES AND THE SIRENS); TRASFORMAZIONE e PURIFICAZIONE.
L'acqua rappresenta la fluidità, l'elemento mercuriale, la metamorfosi, la ricerca dell'ignoto, l'interrogazione dell'identità, lo specchio di sé, la ciclicità, l'inizio e la fine della vita.
Se da tale ampiezza di possibilità si sarebbe potuta trarre una mostra infinita, è da apprezzare la chiarezza con cui i limitati motivi scelti dai curatori si manifestano.
NOTE
[1] C.G. Jung, OPERE, IX.1, GLI ARCHETIPI E L'INCONSCIO COLLETTIVO (scritti compresi tra il 1934 e il 1955), ed. in lingua tedesca 1976, Milano, Bollati Boringhieri, 1980, p. 17.
[Roberto Bertoni]
La mostra milanese, a cura di E. Fontanella e C.D. Fonseca, propone un percorso attraverso opere che vanno da manufatti preistorici a quadri di vari pittori tra i quali Brueghel, Caravaggio, Segantini, Tintoretto, articolando il percorso espositivo in cinque aree tematiche: SOSTANZA ANTICA, la sezione forse più interessante, in cui emergono le allegorie cosmologiche, il riferimento alla fertilità, i rapporti tra acqua di vita e tanatologie; BELLEZZA E GIOVINEZZA; IL VIAGGIO, che comprende anche il viaggio di Ulisse (con uno straordinario dipinto vittoriano del 1909 di Herbert Draper, ULYSSSES AND THE SIRENS); TRASFORMAZIONE e PURIFICAZIONE.
L'acqua rappresenta la fluidità, l'elemento mercuriale, la metamorfosi, la ricerca dell'ignoto, l'interrogazione dell'identità, lo specchio di sé, la ciclicità, l'inizio e la fine della vita.
Se da tale ampiezza di possibilità si sarebbe potuta trarre una mostra infinita, è da apprezzare la chiarezza con cui i limitati motivi scelti dai curatori si manifestano.
NOTE
[1] C.G. Jung, OPERE, IX.1, GLI ARCHETIPI E L'INCONSCIO COLLETTIVO (scritti compresi tra il 1934 e il 1955), ed. in lingua tedesca 1976, Milano, Bollati Boringhieri, 1980, p. 17.
[Roberto Bertoni]
15/12/08
Gian Paolo Ragnoli, JANIS, ME & BOBBY MCGEE
[This is not a rock guitar. Foto di Marzia Poerio]
Era l’una e mezza di notte, eravamo a S.Francisco in un garage riadattato a studio di registrazione. Janis stava provando un pezzo nuovo ma non riusciva a trovare il feeling giusto, era un pezzo country, scritto da un amico, non aveva
nulla a che fare col suo blues e neppure col rock psichedelico (ma allora dicevamo acid-rock) che faceva coi Big Brother.
Avevo conosciuto Janis da poco ma ero amico di Bobby da un sacco di tempo e questo significava qualcosa per lei.
La prima sera ero ancora un po’ imbarazzato, seduto su un divano accanto ad un mito, lei mi prese amabilmente in giro citando i versi di Leonard Cohen che la riguardavano, come fossero rivolti a me, dicendomi “in genere preferisco i bei ragazzi, ma per te farò un’eccezione”.
Le risposi al volo “non c’è problema, non saremo belli ma abbiamo la musica dentro”. Una delle più belle canzoni che io abbia mai sentito, CHELSEA HOTEL N. 2, e quella sera la cantò Janis, solo per noi, accompagnandosi con la vecchia Martin di Bobby. L’avessi registrata probabilmente vivrei di rendita…
La rivoluzione era finita, e non avevamo vinto noi. La mia storia con She si era esaurita e avevo bisogno di cambiare aria per un po’. Bobby mi invitò a stare da loro, Janis stava iniziando a lavorare a un disco nuovo e Bobby fu così gentile da dirmi che avrei potuto essere utile.
In realtà il pezzo che scrissi per lei, ALL OF MY TOMORROWS, alla fine fu lasciato fuori dall’album, non si riusciva a mixarlo decentemente e così rimase a prender polvere in archivio per anni, finchè un giorno non lo ritirai fuori, diedi una sistemata al testo e lo registrai coi Syds.
Comunque ero lì, dietro al mixer con la cuffia in testa, a far finta di sapere quello che stavo facendo, che a pensarci bene è quello che so far meglio nella vita.
“La chitarra è bassa. Lo so che non sto suonando benissimo, ma mi piacerebbe comunque riuscire a sentirmi. Capisci quello che sto dicendo?”
“Ok Janis, proviamo così. Ti va?”
“No, adesso è troppo alta. Non riesco a suonar bene stanotte. Ma secondo te quando canto si sente l’accento texano?”
“Lo spero bene”.
“Beh, sai Ted, l’ho sempre avuto, ogni volta che mi riascolto è la prima cosa che sento”.
“Se sei pronta faccio partire il nastro… TAKE 5”.
“Dio mio, devo cominciare subito! Sono pronta, e tu?”
“Ti seguo, baby…”
In studio c’eravamo solo noi tre. Janis cantava e suonava la chitarra, Bobby era all’armonica e io registravo il tutto. Janis questa volta lasciò perdere la Gibson semiacustica con cui aveva finora provato il pezzo e tirò fuori la Martin di Bobby.
Ci mettemmo dieci minuti a sistemare il microfono ma furono spesi bene, la TAKE 5 era quella giusta. Janis cantò il pezzo con tutta l’anima ma senza esagerare, trattenendo un po’ l’emotività per farla risaltare ancora meglio, la Martin e l’armonica di Bobby in sottofondo accompagnavano con delicatezza il cantato, non c’era bisogno di nient’altro, era tutto lì, di fronte a noi.
Il sogno di un’altra vita, di un’altra America, quel sogno da cui ci avevano bruscamente svegliato i tin soldiers di Nixon riviveva, anche solo per tre minuti, in quella canzone.
Magari conta poco, ma cosa volete di più da una canzone?
A un certo punto mi accorsi che qualcosa di mio ci sarebbe stato comunque nell’album: verso la fine Janis infilò nel testo un verso preso dalla mia canzone e ci stava benissimo, sembrava fosse stato scritto esattamente per quello che voleva esprimere lei, mentre invece, come immaginerete, l’avevo scritto pensando alle barricate di Parigi e alla fine della storia con She, ma Janis con il talento dell’istinto l’aveva improvvisamente “sentito” lì. Ed
aveva ragione lei.
Qualche mese dopo Janis morì di overdose, Bobby se ne andò in Mexico e non lo vidi mai più, il disco uscì solo dopo la sua morte e schizzò come un missile fino al numero 1.
Io me ne tornai a Nomansland e cominciai a rimettere insieme i pezzi sparsi della mia vita. “But I’d trade all of my tomorrows for one single yesterday”…
13/12/08
MUSICHE ARGENTINE E BRASILIANE: QUALCHE NOME DALLA RETE
Come abbiamo detto varie volte, non siamo esperti di musica; i nostri gusti, inoltre, sembrano non troppo compatibili con quelli di diversi conoscenti e amici; nelle nostre "Storie di musiche" esprimiamo più un approccio soggettivo che una valutazione motivata su una cultura sonora approfondita che non abbiamo; negli ultimi anni ci siamo orientati verso sonorità indiane, centroasiatiche, latinoamericane.
Cosa ci piace di quello che abbiamo ascoltato? Soprattutto, forse, il rapporto tra tradizione e innovazione, entro una scorrevolezza dell'ascolto che si rivolga in modo amichevole al pubblico senza costringerlo a un'avanguardia troppo stridente per poterne fruire con tranquillità; e l'umore meditativo oltre che orientato su flussi tranquilli di emozioni.
Nell'ultimo fine settimana, per gusto di loisir, abbiamo navigato su "MySpace Musica" in cerca di musica brasiliana e argentina, con criteri di casualità relativa e di associazione (di sito in sito secondo i suggerimenti emersi spontaneamente dalle sezioni "Amici" di ogni sito), che contrastano con un discernere fortemente direzionato, ma proprio per la componente di labirinto consentono qualche incontro fortuito e fortunato.
Eccone quattro per paese, di questi abboccamenti non previsti: tutti ascolti di buona qualità e di musicalità raffinata.
Per il Brasile ci siamo alla fine concentrati su questi cantanti disposti di seguito in ordine alfabetico e con i rispettivi link: Luciana Alves, per l'abilità vocale, la gamma delle scale e il fondo jazz; Cristina Cascardo, compositrice oltre che esecutrice, di voce piena e melodiosa, con accompagnamenti latinoamericani, si segnala soprattutto la canzone MARÍA; Chico Pinheiro, chitarrista noto di ispirazione jazzistica e latina; Dana Tupinambá, che ponendosi nel mainstream della bossa, evoca atmosfere di continuità con le sue composizioni e con arrangiamenti eleganti di jazz suadente.
Per l'Argentina, tra i classici del tango, abbiamo scelto siti di virtuosi, che sembra quasi superfluo commentare, di abilità indiscussa e tra i maggiori: il chitarrista Roberto Grela; i bandoneisti Aníbal Troilo e Walter Rios. Tra il folk, invece, la voce modulata e lieve di Georgina Hassan, con gli arrangiamenti eleganti di motivi popolari.
Strano come due paesi confinanti siano in grado di proporre musiche tanto diverse; e tanto interessanti entrambe.
Notevole come la globalizzazione e Internet, nonostante loro aspetti negativi, consentano in positivo una comunicazione di autori e testi che resterebbero probabilmente confinati altrimenti nei rispettivi territori nazionali e tra gli esperti.
[Renato Persòli]
Cosa ci piace di quello che abbiamo ascoltato? Soprattutto, forse, il rapporto tra tradizione e innovazione, entro una scorrevolezza dell'ascolto che si rivolga in modo amichevole al pubblico senza costringerlo a un'avanguardia troppo stridente per poterne fruire con tranquillità; e l'umore meditativo oltre che orientato su flussi tranquilli di emozioni.
Nell'ultimo fine settimana, per gusto di loisir, abbiamo navigato su "MySpace Musica" in cerca di musica brasiliana e argentina, con criteri di casualità relativa e di associazione (di sito in sito secondo i suggerimenti emersi spontaneamente dalle sezioni "Amici" di ogni sito), che contrastano con un discernere fortemente direzionato, ma proprio per la componente di labirinto consentono qualche incontro fortuito e fortunato.
Eccone quattro per paese, di questi abboccamenti non previsti: tutti ascolti di buona qualità e di musicalità raffinata.
Per il Brasile ci siamo alla fine concentrati su questi cantanti disposti di seguito in ordine alfabetico e con i rispettivi link: Luciana Alves, per l'abilità vocale, la gamma delle scale e il fondo jazz; Cristina Cascardo, compositrice oltre che esecutrice, di voce piena e melodiosa, con accompagnamenti latinoamericani, si segnala soprattutto la canzone MARÍA; Chico Pinheiro, chitarrista noto di ispirazione jazzistica e latina; Dana Tupinambá, che ponendosi nel mainstream della bossa, evoca atmosfere di continuità con le sue composizioni e con arrangiamenti eleganti di jazz suadente.
Per l'Argentina, tra i classici del tango, abbiamo scelto siti di virtuosi, che sembra quasi superfluo commentare, di abilità indiscussa e tra i maggiori: il chitarrista Roberto Grela; i bandoneisti Aníbal Troilo e Walter Rios. Tra il folk, invece, la voce modulata e lieve di Georgina Hassan, con gli arrangiamenti eleganti di motivi popolari.
Strano come due paesi confinanti siano in grado di proporre musiche tanto diverse; e tanto interessanti entrambe.
Notevole come la globalizzazione e Internet, nonostante loro aspetti negativi, consentano in positivo una comunicazione di autori e testi che resterebbero probabilmente confinati altrimenti nei rispettivi territori nazionali e tra gli esperti.
[Renato Persòli]
11/12/08
Claudia Borghetti, DAL BALCONE
[Blurred vision of the next balcony. Foto di Marzia Poerio]
Mi sono innamorato di lei forse da subito. Quella sera era stanca e pensierosa ma sembrava avere grandi cose per la testa e tutta l’energia e la buona volontà che mancavano a me. Mi colpirono gli occhi piccoli e lontani, parlava parlava ma non potevo capirla. Ascoltavo il tono della sua voce invece, e m’immaginavo l’odore della sua casa, il tocco delle sue mani grandi e lo spazio che avrei occupato nella sua vita. Lei le decisioni le prende alla svelta, senza troppo pensare e di lì a pochi giorni mi trasferii da lei.
Passò tutto il giorno a pulire e spostare i mobili perché avessi i miei spazi. Pioveva, io aspettavo sul balcone che lei finisse e ascoltavo la sua musica in silenzio. Di tanto in tanto veniva a sedersi anche lei fuori e mi accarezzava e guardava oltre la balaustra, oltre la ferrovia, laggiù verso i colli e il cielo. Quel giorno strano è stato il più bello della mia vita.
Sono stato felice forse per un mese. A lei gli entusiasmi passano veloci e io non lo sapevo e se anche l’avessi saputo non avrei fatto un bel niente. Non posso rimproverarla in fondo, in fondo sono un gatto. Il caso, o forse una donna vecchia con la scopa in mano, mi ha spazzato via nella vita e sono un gatto. E lei invece gli dei l’hanno voluta donna e bella per potersela guardare da lassù.
Anch’io, come loro, la guardo e non la posso amare. Siamo troppo diversi noi due. Ho tentato tante volte di raggiungere un compromesso con lei e, per un certo periodo di tempo, anche lei, lo so, ha provato a vivere con me i miei silenzi come se fossero le stanze di una casa tutta nostra. Erano i giorni di un’estate passata sul letto a dormicchiare. Lei leggeva e si assopiva con gli occhiali e io, acciambellato ai suoi piedi, appoggiavo la testa sulle dita e le facevo il solletico. Mi piaceva il suo odore forte che sapeva di strada e gente e estate in città quando tutti sono al mare. La sera mangiavamo in cucina, soli, e la notte ce ne stavamo sul balcone a guardare le stelle o le lucciole e a fare le fusa alla luna. Sono arrivato in un giorno d’estate in treno nella mia gabbia blu e lei ha stravolto la sua vita per avermi con sé.
Faceva caldo e le tapparelle erano sempre giù per non fare entrare l’afa e perché i vicini non curiosassero dentro che ancora non c’erano le tende o erano a lavare, non me lo ricordo. Di notte m’infilavo di soppiatto sotto le sue lenzuola e lei sorrideva morbida nel sonno e mi lasciava fare anche se aveva caldo e io non aiutavo; i miei peli le si attaccavano addosso sulla pelle sudata. E io le facevo compagnia in quel letto sempre vuoto d’abbracci e lei ogni tanto me lo diceva anche “sei l’unico uomo della mia vita!” ma rideva triste e io mi sentivo gatto e basta.
Poi arrivò l’autunno. Lei chiudeva la porta del balcone e ricominciava il suo tran tran. Ancora caldo dell’estate bella passata insieme, all’inizio non ci feci caso. Ma lei usciva di casa la mattina presto e non tornava per pranzo, talvolta rientrava solo dopo cena. Una volta sparì per tre giorni e io aspettai carico d’angoscia che tornasse da me. La sognavo e tremavo al risveglio per paura che non tornasse più. Pensavo al colmo della disperazione che forse si era innamorata di qualcuno e me la immaginavo sorridente in posti che non avevo mai visti e che mi sembravano tanto più belli e luminosi della nostra stanza con balcone. Poi mi dicevo che l’importante era che tornasse, che se anche avesse portato un uomo con sé avrei sopportato, che pur di averla a casa mi sarei fatto piccolo piccolo quasi invisibile.
Quella volta tornò, mi disse bisbigliando all’orecchio che le ero mancato e io la perdonai. Non avrei mai voluto darle quella soddisfazione, ma mi partirono le fusa.
L’amavo con dedizione assoluta. Il tonfo secco del portone giù a livello della strada, i suoi passi pesanti per le scale e il giro di chiave erano la mia felicità. Il resto era passatempo. Con lei erano gioie violente e brevi che lasciavano uno strascico malinconico fino a sfinirmi. Desideravo la sua presenza in ogni istante, il tocco delle sue mani, il rumore dei suoi gesti per casa, anche gli insulti di quando la facevo arrabbiare. Ero drogato, malato, e non volevo ammetterlo a me stesso. La gelosia mi prendeva lo stomaco e piangevo di rabbia ossessionato da quel mondo che sentivo rumoroso e spaventoso fuori. Non capivo cosa di quel chiasso l’attraesse tanto, perché preferisse quel terribile intruglio di rumori alla dolce quiete delle nostre cose.
Io sono gatto e vado bene per le domeniche di pioggia quando c’è da vedere una videocassetta o nei momenti di malinconia che nessuno può consolare. Servo quando è il momento di riposarsi dopo tanta confusione. Sono il gatto più bello del mondo nei ritagli di tempo e per il resto un affetto costante, scontato e pure ingombrante quando c’è da prendere la valigia e andare lontano. Lei è donna e conosce l’inquietudine, il fuori e il dentro delle cose, legge i libri e fa i confronti. Ma si illude: la sua prigione è solo un po’ più grande della mia.
Ho pensato di farla soffrire, di riconquistarla o dimenticarla.
Un giorno sono caduto giù dal balcone, mi ero distratto a guardare uno stormo di rondini. Lei è accorsa in lacrime a soccorrermi giù in strada. Mi ha tenuto tutto il giorno sulle ginocchia e mi baciava e rideva e ripeteva che ero vivo, che non mi ero fatto niente, che ero la cosa più importante della sua vita. Io avevo appena preso una paura terribile ma ne era valsa la pena. E ridevo sotto i baffi della sua paura che sembrava dieci volte la mia.
Un altro giorno sono scappato. Era un periodo che andava e veniva e mi urtava correndo veloce da una stanza all’altra presa da non so bene cosa. E io come al solito, che stupido, la seguivo come un’ombra e le chiedevo solo un gesto d’amore, una parolina buona che desse pace alla mia fame! Uscì di casa e io con un balzo, per vendetta, scappai fuori prima che richiudesse la porta dietro di sé. Non mi ero mai chiesto se volevo uscire e cosa avrei mai potuto fare fuori. Se c’era lei con me, il fuori non c’era. Fuori per me era solo la sua assenza. Lei provò ad afferrarmi, mi divincolai e corsi da qualche parte sulla sinistra lasciandomi dietro la sua voce che urlava il mio nome. Il suo fuori è una vertigine di odori e suoni che esplodono a ogni passo e si accavallano e stordiscono. Mi infilai nel buco di una rete e, una volta dall’altra parte, mi arrampicai su un albero. La tenevo in pugno. Lei era lì sotto che implorava e piangeva e pronunciava il mio nome in un modo dolcissimo, struggente. Si era dimenticata il suo impegno per me, per me stava lì piccola piccola ai piedi di un albero e scuoteva la rete e protendeva le braccia.
Non l’abbracciai. In quel momento capii che mi amava, che non mentiva e non aveva mai mentito. Ma mi assalì un dolore nuovo e terribile. Avevo la certezza che mi amasse. Avrei dovuto esultare, stringermi a lei, affondare nel suo odore. Lei mi amava, sì, ma in un modo tutto sbagliato, capriccioso e volubile. L’amore come lo intendo io è stare insieme, accudirsi e sapere che l’altro c’è, solo per te, ogni volta che ne hai bisogno. L’amore è passare il tempo insieme, ridere e giocare e essere complici alla faccia del mondo.
Sono un gatto e non posso insegnarle l’amore dei gatti. Scesi dall’albero e lei mi prese in un abbraccio soffocante che non sentivo. Ero solo. Non potevo, io, un gatto, insegnarle come avrei voluto essere amato. Che diritto ne avevo? Lei è donna, mi dicevo. Mi piace così, ma così ho la certezza che non potrò mai averla, mi dicevo. E intanto lei era più premurosa che mai e si affaccendava per dimostrarmi tutto il suo sentimento e mi parlava e riscaldava il latte e mi guardava con occhi che ferivano da quanto erano sinceri. Essere gatti è una maledizione. L’amore è una maledizione, mi dicevo.
Da quel giorno smisi di contare i suoi passi, presi a dormire in cucina, quando lei era in casa passavo la maggior parte del tempo sul balcone. Miagolavo davanti alla porta chiusa, lei apriva e richiudeva per non far raffreddare la stanza. Quando volevo rientrare bastava che grattassi alla porta.
Prendevo le distanze da lei. Ne soffriva e mi chiamava la notte dal letto sperando che la raggiungessi. Un po’ ci godevo: “E no bellina, non sto più lì a leccarti i piedi” pensavo, ma subito dopo me ne vergognavo. Rimanevo fermo nel mio silenzio. Non avevo altra possibilità.
Dal balcone guardavo l’albero e la rete, le uniche cose che conoscevo del fuori e mi prendeva la nostalgia di quel giorno d’estate in cui lei guardava i colli e il cielo e io non capivo. Ognuno ha il suo fuori, per me è solo un albero vicino a una rete, per lei forse qualcosa che si nasconde dietro l’orizzonte. Chissà. Faceva freddo d’autunno sul balcone ma mi piaceva guardare le donne scuotere i tappeti e il bambino dei vicini giocare a palla. Mi piacevano soprattutto le rondini che si tenevano strette l’una all’altra per sfidare in una nuvola nera le nuvole in corsa.
Un giorno, mentre ero lì che guardavo in su, sentii un rumore assordante e qualcosa che faceva aria forte vicino a me. Mi spaventai e corsi verso la porta per cercare rifugio dentro. Era chiusa, come al solito. Allora miagolai di paura, chiusi gli occhi e mi rannicchiai a ridosso del muro. Quando li riaprii, una rondine si era posata sul filo per i panni e mi guardava. Era elegante e aveva lo sguardo intelligente e mi fissava curiosa. La porta si aprì, lei si spaventò e volò via.
Quella notte dormii con lei e fu strano perché, invece di vegliare sul suo sonno, mi addormentai quasi subito pensando a quella bella rondine lì fuori.
Il giorno seguente le rondini erano agitate, si stavano preparando alla grande partenza e forse litigavano per chi dovesse stare in testa. Io le guardavo e cercavo la mia rondine chiedendomi se l’avrei mai riconosciuta. Fu lei a venire a cercarmi e fu rilassante sentire di nuovo l’aria delle sue ali sul mio pelo. Non parlammo, nessuno dei due poteva, ma il suo occhio capiva tutto.
Venne ogni giorno da me, bastava che uscissi sul balcone per vederla staccarsi dallo stormo e volteggiare in una danza leggera che presto capii faceva solo per me. Piano piano divenne veramente la mia rondine e io mi stupivo che venisse sempre al balcone lei che poteva starsene fuori e raggiungere i colli e il cielo. Lei preferiva me. Forse il suo fuori ero io.
Quel settembre mite finì in un ottobre freddo per davvero e lo stormo si decise a partire. La vedevo inquieta, non allargava più le ali per farsi rimirare tutta bella da me e non intesseva più ricami buffi nel cielo per farmi ridere, mi guardava con l’occhio umido e io tremavo per la paura di perderla. Ma il suo dolore silenzioso mi rincuorava. Il suo era un amore che non si poteva urlare ma c’era sempre ed era tenace e calmo e fiducioso.
Una mattina mi svegliai che le rondini erano partite. Tutte, tranne lei, la mia rondine paziente che mi aspettava sul balcone.
09/12/08
Santiago Montobbio, L'ULTIMO INCHIOSTRO
[Inked fingers on black. Foto di Marzia Poerio]
Testi di Santiago Montobbio. Traduzioni di Giuseppe Bellini
1.
DESDE MI VENTANA OSCURA
La ciudad que nadie ve, y es la más grande,
es en la que trabajan y están condenados
a ser siempre iguales
todos mis nadies.
DALLA MIA FINESTRA OSCURA
La città che nessuno vede, ed è la più grande,
è quella in cui lavorano e sono condannati
a essere sempre uguali
tutti i miei nessuno.
2.
LA TINTA DE ESTE PAPEL ES LA TINTA ÚLTIMA
Porque vivir no basta al hombre, porque la cárcel
injusta de los días hace que se pudra
la pequeña carne de los sueños
o porque no me quedan calles ya que guarden
alguna risa dentro, o algún nombre,
sobre mi mesita de noche tengo preparado
el final cianuro silencioso. Pues sé que el dolor
cabe en un vaso, aunque no cuándo apurarlo;
será, quizá, la semana que viene, de aquí dos días,
o más pronto acaso. Ante cualquier balcón,
desde cualquier minuto. Cuando los ojos
no soporten más sus látigos y tarde sea
cuando adivinéis el modo en que la sombra
es lobo y me devora.
Pero aunque
no haya dicho adiós a nadie, aunque
para todo ahora sea tarde
sí hubiera querido que cuando leyerais esto
ninguno de vosotros fuera necio y pensara
que aún es un poema. Porque esto no es un poema,
esto ni siquiera es un testamento,
yo nada tengo y nada dejo y así
esto quizá no es más que una memoria o un anuncio
de aquello para lo que ya no hay viento.
L’INCHIOSTRO DI QUESTA LETTERA È L’ULTIMO INCHIOSTRO
Perché vivere non basta al’uomo, perché la prigione
ingiusta dei giorni fa sì che marcisca
la piccola carne dei sogni
o perché ormai non mi restano strade che conservino
dentro cualque risata, o qualche nome,
sul mio comodino ho pronto
il cianuro finale silencioso. Perché so che il dolore
sta in un bicchiere, ma non quando berlo;
sarà, forse, la prossima settimana, tra due giorni,
o più presto forse. Davanti a qualsiasi balcone,
in qualsiasi minuto. Quando gli occhi
non sopporteranno più le sue frustate e sarà tardi
quando indovinerete il modo in cui l’ombra
è un lupo che mi divora.
Ma benché
non abbia detto addio a nessuno, benché
per tutto ora sia tardi
se avessi voluto che quando leggerete questo
nessuno di voi fosse stolto e pensasse
che è ancora un poema. Perché questo non è un poema,
questo non è neppure un testamento,
io non ho nulla e nulla lascio e così
questo forse non è che una memoria o un annuncio
di quello per cui ormai non c’è più vento.
3.
EL ANARQUISTA DE LAS BENGALAS
Yo soy el anarquista de las bengalas,
el anarquista único, el que permanece y pasa:
he tenido nombres en los que dormían las frutas
de los corazones raros. A todas horas trabajo,
y en especial cuando la gente afirma
que no hago nada. Sé lavarme el alma
sobre papel y nada, colocar bombas de relojería
en las ciudades que siento en las espaldas,
buscarle y con olvido las cosquillas a un amor
que prefiguro con distancia y a través de todo eso
seguir estando en todas partes habiéndome
marchado.
Porque yo soy
el anarquista de las bengalas. Cada vez
que enciendo una tu corazón
y mi corazón se apagan.
L’ANARCHICO DEI BENGALA
Io sono l’anarchico dei bengala,
l’anarchico unico, quello che permane e passa:
ho avuto nomi nei quali dormiva la frutta
dei cuori strani. Ad ogni ora lavoro,
specie quando la gente afferma
che non faccio nulla. So lavarme l’anima
sopra la carta e null’altro, metto bombe ad orologeria
nelle città che sento alla schiena,
cercare e con oblio il solletico a un amore
che prefiguro con distanza e attraverso tutto questo
continuare a essere in ogni parte essendome
andato.
Perché io sono
l’anarchico dei bengala. Ogni volta
che ne accendo uno il tuo core
e il mio curoe si spengono.
Giuseppe Bellini, LA POESIA DI SANTIAGO MONTOBBIO [1]
Di Santiago Montobbio è lungo il tempo della mia frequentazione, intendo quale lettore della sua poesia. Un incontro fortuito, dovuto alla generosità dei suoi invii, e infine il recente e rilevante libro EL ANARQUISTA DE LAS BENGALAS (Barcelona, March Editor, 2005), che dà ulteriore sostanza a un periodo decisivo della sua creazione lirica. .
"Licenciado" in Diritto e in Filologia ispanica, professore di Teoria della letteratura e di critica letteraria all’UNED, Montobbio ha al suo attivo una serie di significativi libri poetici: da HOSPITAL DE INOCENTES (1989) a ÉTICA CONFIRMADA (1990) e TIERRAS (1996), cui si aggiunge EL ANARQUISTA DEL LAS BENGALAS (2005), che rappresenta, nella sostanza, una summa della sua filosofia.
Riandando le pagine che il poeta a suo tempo mi ha inviato, ritrovo cose interessanti: non solo valutazioni critiche positive, come quelle di Jean-Luc Breton, pubblicate su "Europe Plurilingue" (24, 2002), dove è sottolineata la nota metafisica della lirica montobbiana, ma una significativa conferenza tenuta dal poeta nel 1999, UN CAFÉ NUNCA ESTÀ LEJOS, che immette nella profondità del suo sentire, nelle sue fonti formative e nell’apprezzamento di poeti, spagnoli ed europei in genere, in una concezione della cultura come un unicum che annulla ogni distinzione fittizia di nazionalità.
E un’affermazione che appartiene a un altro grande poeta ispanico, Manuel Altolaguirre: “Aún no he llegado a ser un buen lector de mi poesía. Aún no he logrado sentir lo que espero haber dicho”. Espressioni alle quali il Montobbio, che le celebra, aggiunge di proprio: "Espero algún día tener el interés bastante por lo que de modo inevitable he escrito, y que tenga para conmigo igual decurso. También yo espero llegar a ser un buen lector de mi poesía, y sentir así entonces cosas en lo que he dicho".
Parole che danno dimensione consapevole alla problematicità del giudizio di un autore intorno alla propria opera, intesa del resto come pulsione insopprimibile, e aprono libera via all’interpretazione del lettore, e del critico. Il grande Miguel Ángel Asturias affermava sovente, con incomparabile modestia, che dalle pagine che si scrivevano sulle sue opere apprendeva sempre qualche cosa di nuovo, che al momento dell’atto creativo non aveva colto. Questo solo per sottolineare come la creazione artistica sempre rappresenti qualche cosa di misterioso, non dominabile razionalmente, anche per il suo autore e lo conduca a formulazioni che, partendo da un nucleo interiore, si manifestano in pluralità di significati le cui sfumature attinge il lettore.
Della propria poesia Santiago Montobbio ha dato saltuariamente anche qualche interpretazione critica, o meglio in qualche modo esplicativa, cosciente, tuttavia, di non chiarire esattamente le cose. Alludo al testo finale di ÉTICA CONFIRMADA, dove suggerisce che il titolo del suo libro iniziale HOSPITAL DE INCENTES potrebbe alludere al manicomio, mentre ÉTICA CONFIRMADA risale al QUIJOTE (I, IX), là dove si dice che Rocinante era “tan hético confirmado”, il che, secondo Martín de Riquer, riverito studioso cervantino, significherebbe colpito da “calentura mortal”.
Scrive Montobbio: "Al emblema yo le quito la h, para que la ética sea la ética, pero mantengo su enunciado, porque el que quede calificada como enfermedad mortal es algo que no deja de hacerme cierta gracia” (p. 75).
Il chiarimento-depistaggio è ora completo e al lettore non resta, fornito di questi dati, che orientarsi con le sue forze, la sua sensibilità, entro l’opera poetica. Un’opera che avvince per nitore linguistico nella formulazione di un messaggio profondo che accentua il disorientamento, o meglio, il disincanto di fronte a se stesso, al mondo e alla vita.
Disincanto che si manifesta fin da EX LIBRIS di HOSPITAL DE INOCENTES, con modalità scioccanti, relative alla creazione poetica: “No es bueno apretar el alma, por ver si sale tinta”. O nella denuncia dell’insicurezza dei giorni e in un’ansia cosciente di annullamento, come attesta il poema “La tinta de este papel es la tinta última”, centrato sul fallimento dei giorni:
"Porque vivir no basta al hombre,
porque la cárcel
injusta de los días hace que se pudra
la pequeña carne de los sueños".
Come prospettiva liberatoria sta “el final cianuro silenzioso”.
Il tempo, come il poeta denuncia in ESE TÀCITO RITO QUE ME HE IMPUESTO, impedisce la realizzazione di grandi cose attraverso una sottile “maraña de trampas y estrategias” e fa sì che non ci si renda conto “que la vida nos aplasta”. Il mondo è un insieme confuso, contorto, intricato, e solo la poesia rappresenta, in ÉTICA CONFIRMADA del libro omonimo, attraverso l’espressione del dolore, la salvezza: “el modo extraño en que alguien se salva”.
Questo è il clima fondamentale delle prime raccolte di Santiago Montobbio, dove anche l’amore è tema quasi in sordina ricorrente. Ma anche di fronte a questo sentimento vince, se non la problematica negativa dell’esistere, la routine, la “desidia” invadente. E’ significativa in tal senso la lirica ESTAMPA RELATIVA A MIS TARDES DE DOMINGO, compresa in ÉTICA CONFIRMADA, che conclude, di fronte alle scontate proteste d’amore della donna, con la sottolineatura di un disinteresse dell’uomo, preso, si direbbe, non solo da altri pensieri, ma dalla frustrazione dei giorni e improvvisamente richiamato alla coscienza della situazione di coppia:
"Luego ya me di cuenta de que estabas preocupada,
que hablabas quizá de amor o de nosotros
y desde luego también de que esta vez
me sgarraste in fraganti. Pero qué
quieres que te diga: las cosas
como salen bien es en su principio, y como
yo ya sé que tú me quieres muchísimo,
y que para colmo yo también te quiero,
entonces quizá sí que lo único
que debemos hacer es – ¿no te parece? -
tener muchísimo cuidado con el perro".
Labilità dell’amore, senso di saturazione per un sentimento passato al rango di dato scontato, privo ormai del calore del primo entusiasmo, ora depositato sul fondo del tedio della vita, dell’indifferenza degli affetti nello scontato percorso, per cui vale più l’animale che la donna.
Nella raccolta EL ANARQUISTA DEL LAS BENGALAS, fondamentalmente la filosofia, la problematica del poeta non muta, anzi si accentua. Il suo verso si arricchisce di risultati cospicui dal punto di vista espressivo, ora manifestandosi nell’essenzialità della notazione, ora incidendo in una sorta di linguaggio colloquiale, di controllato accento, e sempre trattando temi essenziali: l’uomo di fronte al mondo, alla vita, con la dichiarata certezza di una fatale e negativa conclusione, il proprio annullamento.
Ruolo rilevante ha in questo atteggiamento l’amore. Un sentimento si direbbe non tanto straziato quanto consunto dalla monotonia giornaliera. La nostalgia nerudiana per la donna passata ad altri amori, espressa nella CANCIÓN DESESPERADA, ha come per contrasto, nel poema di Montobbio FIN DE AMOR, l’affermazione di una reciproca indifferenza:
"[…]. Pero sí: a mí
se me acababa el mundo –tanto la quise, tanto
y mucho– y cuidé los prólogos y apreté su dolor
y recuerdo que me molestó que la escena
tomara los contornos de una postal
hecha de encargo. (Era una calle
estrecha, y para colmo
llovía un poco).
Tras el cristal del bar se veían pocos coches
mientras yo me odiaba sintiendo que el adiós
puede alguna vez ser la peor
de las humanas, sigilosas tormentas.
—Pero casi no lloré
porque se me corría el rimmel—,
al día siguiente
explicó a una amiga".
La vita è un continuo teatro e solo esiste in essa la solitudine e il nulla (ÚLTIMA CARTA); la menzogna è “el techo” del vivere (YA BASTA) e si afferma la coscienza che né l’amore, né la notte ci uccidono, ma che noi ci uccidiamo, “quizá poco a poco”, perché continue sono le sconfitte (PRINCIPIO FINAL DE LA NOVELA); esistere è un camminare tra la gente e non essere con nessuno (CON BASTANTE OCTUBRE), perché la terra è solitudine assoluta (SÓLO ELLA) e ogni storia è destinata all’oblio (TODA HISTORIA).
Neppure l’opera del poeta sembrerebbe avere, a prima vista, alcun valore (VERSOS A DURO), ma, invece, lo ha, se “el anarquista de las bengalas”, come si esprime il poeta nella poesia omonima, ogni volta che dà vita a un problema comunica angoscia a sé e al suo prossimo:
"Porque yo soy
el anarquista de las bengalas. Cada vez
que enciendo una tu corazón
y mi corazón se apagan".
NOTA
[1] Saggio inviato dal poeta e precedentemente pubblicato in "Notiziario", 18, Milano, I.S.E.M., 2005.
07/12/08
Laurence Coupe, MYTH
[At the origins of light. Foto di Marzia Poerio]
Laurence Coupe, MYTH. Londra e New York, Routledge, 1997
Per la definizione di mito c'è consonanza con Cupitt: il mito inteso come "racconto sacro di autore anonimo e di significato archetipico o universale, narrato entro una determinata comunità e spesso legato a un rituale", con storie di esseri straordinari come gli dei e i semidei, o di esseri umani o non umani; intermediazione tra il mondo extrastorico e quello storico; con funzioni di "spiegare, riconciliare, guidare l'azione o legittimare", col corollario che la mitopoiesi è "una funzione primaria e universale della mente umana in cerca di una visione più o meno unificata dell'ordine cosmico, dell'ordine sociale e del significato della vita individuale" (pp. 5-6).
Coupe punta in prevalenza su Frazer e Eliade per le origini delle mitografie moderne: il primo per il mito di fertilità posto all'origine delle mitologie successive; il secondo per il mito creazionista propulsivo di altri nuclei.
Nella modernità l'assenza del mito e la demitizzazione possono convertirsi anche in mito dell'essere senza mito ("myth of mythlessness", p. 13), contestata da alcuni mitografi moderni come Cupitt e Ricoeur.
Tra i testi letterari novecenteschi, si distingue l'analisi della WASTE LAND di Eliot intesa come fondante delle mitopoiesi dell’ultimo secolo relative alla fine del mito di fertilità; l'opposizione tra mito e storia; la creazione di un mito positivo di carattere estetico.
In campo marxista viene esaminata l'opera di Rickword (il fondatore di "Left Review", rivista degli anni Trenta) intesa come "riscrittura del mito in quanto lógos" (p. 68). Tanto il marxismo quanto il cristianesimo vengono ascritti ai miti di liberazione ("deliverance") (p. 70). Nella psicanalisi vengono passati in rassegna il mito edipico fondato da Freud e aspetti delle interpretazioni junghiane. In evidenza infine il pensiero di Levi Strauss.
[Roberto Bertoni]
05/12/08
Jed Rubenfeld, THE INTERPRETATION OF MURDER
Londra, Headline, 2006
Il romanzo intreccia tre fili narrativi.
Nella New York del 1909, Freud, Jung e Ferenczi e poco dopo lo stesso anno anche Jones, sono in visita per presentare in un ciclo di conferenze i risultati della psicanalisi accolti dallo statunitense Brill (nomi tutti di persone esistite). Su questo filo si dispongono ricostruzioni di episodi riscontrabili storicamente, tra i quali le prime difficoltà tra Freud (rappresentato in modo positivo e con ammirazione) e Jung (che in questa storia è dipinto con antipatia a tratti anche grottesca come una specie di cospiratore antifreudiano, psicotico e dedito ad avventure extraconiugali), spostate intenzionalmente dall'autore (come rivela una nota alla fine del volume), dal 1912, anno in cui avvenne la rottura scientifica tra i due, a tre anni prima. La parte documentaria è lungo questa linea di sviluppo alternata ad aspetti inventati. Da questo livello della narrazione muove l'intreccio giallo, tramite Stratham Younger, uno degli psicanalisti americani (di invenzione) che accolgono gli europei.
Nel tessuto noir, una ragazza di buona famiglia, Nora (che come rivela l'autore alla fine è personaggio originato dalla Dora ferudiana), ha perso l'uso della parola ed è vittima di un'amnesia che le impedisce di ricordare chi l'ha assalita. Younger riceve da Freud l'incarico di psicanalizzarla, impresa che non riesce troppo bene, a dire il vero, data l'attrazione e il coinvolgimento sentimentale del giovane analista. Si dipana però, quando la giovane riprende a parlare, una trama densa di avvenimenti in parte familiari, in parte pubblici. Amici di famiglia sono coinvolti nella manipolazione della psiche di Nora, lanciata in una vicenda di tradimento coniugale del padre con la moglie di un amico di famiglia potente e sadomasochista che a sua volta si interessa eroticamente di Nora, fino a che tenta di ucciderla, ottenuta la complicità della moglie Clara. Essendo un giallo, si lascia nell'incerto l'intreccio, che si addensa con suspense nel corso della narrazione. Se Younger costituisce uno dei versanti investigativi (quello intellettuale e basato sui procedimenti induttivi/deduttivi della psicanalisi), ad esso parallelo (con una combinazione ben adatta a un poliziesco) c'è l'indagine poliziesca dell'agente Littlemore, inizialmente mostrato come persona di intuizione e capacità professionali limitate, ma che si impone invece come la mente in grado di sbrogliare il mistero (incontrerà tra parentesi durante le indagini una giovane di origine italiana destinata a diventare sua moglie). C'è il coinvolgimento di un sindaco onesto; e accanto a esso un fondo di corruzione da parte di altri personaggi.
Il terzo filo è rappresentato da un "triunvirato" di psichiatri ostili a Freud che tra le quinte cercano di danneggiarne le conferenze servendosi tra l'altro di Jung (questo aspetto, ma non i rappresentanti del triumviato, è di immaginazione)
Nel ruolo di presenza sempre determinante, è la città di New York, vista nella sua modernità, spettacolarità, variazione di ambienti sociali (dall'alto borghese al sordido), storicità, con descrizioni di ambientazione adatta alla narrazione.
Si tratta di un romanzo in cui la storia presenta l'opportunità di enucleare la nevrosi nel contesto dell'ipocrisia sociale e della modernizzazione del costume. Il romanzo raggiunge a questo livello il proprio scopo.
Come nota l'autore anonimo della recensione su "BC Books", la prima e terza persona narrative usate da Rubenfeld non sono sempre coerenti l'una con l'altra, anche perché il narratore in prima persona è un personaggio cui l'autore si riferisce nella terza persona quando sia necessario delucidare eventi dei quali chi dice io non potrebbe essere a conoscenza. Si potrà supporre qui una necessità di personalizazione legata alla professione analitica di Younger (le memorie degli psicanalisti sono scritte con voce soggettiva); l'effetto è di ibridazione di modi narrativi di àmbito tardomoderno.
[Roberto Bertoni]
Il romanzo intreccia tre fili narrativi.
Nella New York del 1909, Freud, Jung e Ferenczi e poco dopo lo stesso anno anche Jones, sono in visita per presentare in un ciclo di conferenze i risultati della psicanalisi accolti dallo statunitense Brill (nomi tutti di persone esistite). Su questo filo si dispongono ricostruzioni di episodi riscontrabili storicamente, tra i quali le prime difficoltà tra Freud (rappresentato in modo positivo e con ammirazione) e Jung (che in questa storia è dipinto con antipatia a tratti anche grottesca come una specie di cospiratore antifreudiano, psicotico e dedito ad avventure extraconiugali), spostate intenzionalmente dall'autore (come rivela una nota alla fine del volume), dal 1912, anno in cui avvenne la rottura scientifica tra i due, a tre anni prima. La parte documentaria è lungo questa linea di sviluppo alternata ad aspetti inventati. Da questo livello della narrazione muove l'intreccio giallo, tramite Stratham Younger, uno degli psicanalisti americani (di invenzione) che accolgono gli europei.
Nel tessuto noir, una ragazza di buona famiglia, Nora (che come rivela l'autore alla fine è personaggio originato dalla Dora ferudiana), ha perso l'uso della parola ed è vittima di un'amnesia che le impedisce di ricordare chi l'ha assalita. Younger riceve da Freud l'incarico di psicanalizzarla, impresa che non riesce troppo bene, a dire il vero, data l'attrazione e il coinvolgimento sentimentale del giovane analista. Si dipana però, quando la giovane riprende a parlare, una trama densa di avvenimenti in parte familiari, in parte pubblici. Amici di famiglia sono coinvolti nella manipolazione della psiche di Nora, lanciata in una vicenda di tradimento coniugale del padre con la moglie di un amico di famiglia potente e sadomasochista che a sua volta si interessa eroticamente di Nora, fino a che tenta di ucciderla, ottenuta la complicità della moglie Clara. Essendo un giallo, si lascia nell'incerto l'intreccio, che si addensa con suspense nel corso della narrazione. Se Younger costituisce uno dei versanti investigativi (quello intellettuale e basato sui procedimenti induttivi/deduttivi della psicanalisi), ad esso parallelo (con una combinazione ben adatta a un poliziesco) c'è l'indagine poliziesca dell'agente Littlemore, inizialmente mostrato come persona di intuizione e capacità professionali limitate, ma che si impone invece come la mente in grado di sbrogliare il mistero (incontrerà tra parentesi durante le indagini una giovane di origine italiana destinata a diventare sua moglie). C'è il coinvolgimento di un sindaco onesto; e accanto a esso un fondo di corruzione da parte di altri personaggi.
Il terzo filo è rappresentato da un "triunvirato" di psichiatri ostili a Freud che tra le quinte cercano di danneggiarne le conferenze servendosi tra l'altro di Jung (questo aspetto, ma non i rappresentanti del triumviato, è di immaginazione)
Nel ruolo di presenza sempre determinante, è la città di New York, vista nella sua modernità, spettacolarità, variazione di ambienti sociali (dall'alto borghese al sordido), storicità, con descrizioni di ambientazione adatta alla narrazione.
Si tratta di un romanzo in cui la storia presenta l'opportunità di enucleare la nevrosi nel contesto dell'ipocrisia sociale e della modernizzazione del costume. Il romanzo raggiunge a questo livello il proprio scopo.
Come nota l'autore anonimo della recensione su "BC Books", la prima e terza persona narrative usate da Rubenfeld non sono sempre coerenti l'una con l'altra, anche perché il narratore in prima persona è un personaggio cui l'autore si riferisce nella terza persona quando sia necessario delucidare eventi dei quali chi dice io non potrebbe essere a conoscenza. Si potrà supporre qui una necessità di personalizazione legata alla professione analitica di Younger (le memorie degli psicanalisti sono scritte con voce soggettiva); l'effetto è di ibridazione di modi narrativi di àmbito tardomoderno.
[Roberto Bertoni]
03/12/08
Piera Mattei, DIRAC E LA NUVOLA
[Clouds disguised as frozen islands. Foto di Marzia Poerio]
Nota di Piera Mattei
Le poesiedi DIRAC E LA NUVOLA, parte di un libro in prossima uscita, sono tutte recenti e inedite. Sono state scritte tra luglio e settembre 2008, nella prima stesura in un soggiorno a Erice, antico borgo della Sicilia Occidentale, a picco sul golfo di Trapani.
Erice legava anticamente il suo nome a Venere Ericina, poi, dal Medioevo fino al Settecento, ospitò numerosi conventi, oggi trasformati in sedi per incontri internazionali sulla scienza. Occorre aggiungere, per la comprensione di alcune poesie, che Erice, dalla cui sommità nelle giornate limpide si scorgono le coste dell'Africa, gode di un microclima per cui fredde nuvole l'attraversano in corsa, in piena estate.
1. leggevo Keats
veloce è entrata
dalla finestra una nuvola
- le pagine del libro se ne intridono -
se voglio toccarla
fugge verso la cupola moresca
bellezza è verità, ripete il libro
l'ingiustizia intanto si lecca il pelo
e alla bandiera solleva un dito
sono questi i giorni
nei vicoli sassosi del borgo
amichevoli abbracci
e sguardi arrossati di jet lag
e ora questa nuvola
protagonista di una storia
cela i colori
si diffonde al giallo dei lampioni
soffoca infine il bianco
non fanno dunque più parola
le colombe bianche
gioca Afrodite con la schiuma
contro le sabbie bionde dell'Africa
2. Dirac o della bellezza
dove le passate beltà
in quali memorie
attivano le loro vite non eterne
e dove l'Ericina dai seni teneri e saldi?
la bellezza in questa sala
si slancia dall'equazione di Dirac
i segni a cui la mente guidò la mano
un disegno
essenziale nella raccolta penombra
Nota al testo 2
L'equazione di Dirac, nella sua grafia originale, è impressa sotto il palco dell'Aula Magna di San Domenico. Sul significato di tale "semplice"ed "elegante" equazione, in sintesi, da Wikipedia: […] Per cui, in un certo senso, si può affermare che Dirac predisse l'esistenza dell'antimateria e il fenomeno dell'annichilazione con la materia […]"
3. Forme d'aria
verso San Vito lo Capo
***
nubi scendono in forme
non leggibili
si sfrangiano come schiuma
si ritraggono
telo che copre la smaniosa
verità dei contorni
il verde piumeggiato degli alberi
attende tutti infine
una condanna per plagio
per non aver escogitato
altro modo che
stringersi nell'abbraccio
delle proprie braccia
tornando a terra
***
salsedine rossa
sopra i muri con vetri
di bottiglia conficcati
daltonico grigio del cuore!
il sole ha rifiutato lo sguardo
un colpo di tosse
ha mandato in frantumi
il silente paesaggio
l'immobilità respira
ancora più viva nell'assenza
di verde
ovvero trattiene il fiato
- potrebbe un soffio soltanto
sommergere il mare
c'è infatti divieto
di parlarne si resta
senza parole
il cuore
pompa il suo rosso liquido
dove nessuno ha poggiato l'orecchio
si sogna come d'un dono
un grado di sordità lieve
ad attutire esplosioni di suono
aggressioni non volontarie
non rivolte a te, non a te
a chi dunque dovrai interrogarti
e ravvolgere il corpo
- come non fosse tuo,
come fosse il tuo corpo,
piccolo, d'un'altra -
sotto il lenzuolo
***
quante frontali madonne
dalle punte delle dita disperdono
correnti di grazie
e Venere sorride ancora, la soppiantata
"siamo qui duecentotrenta anime"
queste campane per chi
suonano allora
a tutte le ore
e le nuvole basse
quali volti color rosa
ritagliano
privi di sfondo
***
bruciare l'incenso e vestire i coralli
via! non ce ne verrà danno
se l'anno ha girato la boa
ne nasceranno di bimbi
molti allevati di fronte
a immagini e santi
a un pade Pio
sempre uguale
nel bronzo sul lungomare
di Castellammare del Golfo
verità la mia
che soltanto propongo
non impongo e non so
sorrido a mitologie senza sospetto
d'essere in errore
e infine ritratto la proposta
d'una conversazione.
4. belle-di-notte
una colomba immacolata
di sé consapevole
e dello spazio
modulato del chiostro
solitaria gode
pilucca
i semi delle belle-di-notte
una gelosa essenza
che a lei si offre
perché candida
e solitaria si mostri
belle-di-notte (in quinari)
Non s'alza vento
sotto l'ombrello
di fiori cadono
bianchi colombi
dentro il mantello
di foglie d'edera
sporgono il capo
con grazia apatica
trovano e beccano
semi invisibili
5. iddu no have a nuddu
l'affetto meridiano si rivolge
- intatto per un attimo a lui solo -
al biondo meticcio che in sua difesa
abbaia non contro me
quindi a me sorride con piega amara
Nota al testo 5
La frase del titolo mi fu rivolta da una signora ericina per spiegarmi il comportamento di un cane vagabondo, pelo giallo, di media taglia
6. […] come un seme / che l'acqua […]
Ti stai muovendo
verso il deserto
là dove c'è sorpresa di refrigerio
con abbondanza d'uva
e di vini pregiati
lascia scorrere le parole alla lingua
dove il pensiero s'innesta
lì fermati
la pausa è il vuoto
il nuovo che dal vuoto appare
dona lenta vertigine
lo osservi sorgere come un seme
che l'acqua…
come un fiore che l'acqua…
che apre
i suoi colori al giorno
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